Cultura in carcere, più sicurezza fuori di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 maggio 2019 “La riduzione dei reati non arriva chiudendo un cancello ma aprendo allo studio”. Rapporto Bocconi-Icrios sulle attività rieducative nelle carceri milanesi. Tre milioni di euro pubblici e privati nel 2017 per Opera, Bollate e San Vittore. E tre quarti delle iniziative sono portate avanti da oltre seicento volontari. Bizzarri tempi questi nei quali, come antidoto allo sbrigativo e incompetente vociare di ultrà del “buttare le chiavi” e del “lasciare marcire in galera”, una parola di competenza arriva proprio da chi, nell’immaginario collettivo, quelle chiavi gira e rigira tutti i giorni: “Garantire la sicurezza di un carcere” significa sicuramente impedire evasioni, intercettare traffici di droga o ostacolare l’ingresso di oggetti non consentiti, però - spiega Manuela Federico, comandante della polizia penitenziaria di San Vittore - la “vera sicurezza, quella sociale, quella reale e duratura, non ha nulla a che vedere con l’apertura e la chiusura di un cancello: è qualcosa di molto più complesso e difficile, e consiste nel contrastare la recidiva”. Cioè nell’adoperarsi per abbassare la percentuale (oggi intorno al 70 per cento) di coloro che, una volta espiata la pena, tornano a delinquere nella società. E per abbassare questa recidiva si è ormai constatato quanto, durante l’espiazione della pena in carcere, sia fondamentale “garantire una contaminazione tra dentro e fuori dal carcere”: il che - spiega Filippo Giordano, professore di economia aziendale alla Lumsa di Roma e di imprenditorialità sociale alla Bocconi di Milano - “significa costruire un sistema di relazioni che riempie di senso la quotidianità della persona privata della libertà, la promuove come possibile risorsa per la comunità, riduce la stigmatizzazione sociale e crea le condizioni per il reinserimento” quando la persona (che tale non cessa di essere solo perché rinchiusa dietro le sbarre) tornerà libera. Se i negazionisti di questa verità (alla stregua degli antiscientifici negazionisti dei vaccini) possono intossicare il dibattito pubblico è anche per “quella carenza di monitoraggi” e per quella “mancanza di indicatori comuni e condivisi” rilevate nel 2013 dalla Corte dei Conti in tema di “rieducazione” (o meglio “educazione”, come suggerisce il presidente di Cassa delle Ammende, l’ex pm Gherardo Colombo). Tuttavia già per esempio nel 2014 la ricerca degli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese (in tandem con Il Sole 24 Ore) documentò che un anno in meno in un carcere solo “chiuso”, e invece un anno in più in un carcere diverso (sul modello di Bollate) come dovrebbero essere tutti i 189 istituti italiani per rispetto della dignità della persona e per uso produttivo del tempo, riduce la recidiva di 9 punti percentuali, con significativo impatto anche economico. E adesso a colmare l’assenza (almeno per gli istituti di pena milanesi di San Vittore, Opera e Bollate) arriva “Creare valore con la cultura in carcere”, rapporto dei professori Giordano, Francesco Perrini e Della Langer per Icrios-Bocconi in collaborazione con il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria ancora guidato da Luigi Pagano - da pochi giorni in pensione - insieme con la Fondazione Invernizzi e con il contributo di Fondazione Cariplo. Difficile agire bene se non prima si conosce meglio, e lo studio - costruito sull’elaborazione di un complesso questionario proposto ai referenti delle attività trattamentali - fa finalmente conoscere “chi promuove e gestisce cosa, le risorse impiegate, i detenuti destinatari delle attività, i risultati in termini di impatto sui detenuti e sugli stakeholder coinvolti”. I più evidenti sono “l’incremento di conoscenze e di abilità personali, l’aumento della consapevolezza di sé, la riduzione della solitudine, la maggiore distensione nel rapporto con gli agenti, il miglioramento dei rapporti con i familiari e della relazione tra carcere e territorio, in alcuni casi l’occasione di retribuzione e avviamento a lavoro”. Spicca che il 78,3 per cento delle iniziative nasca su proposta delle organizzazioni esterne e la maggior parte delle 180 attività censite sia portata avanti da persone esterne all’amministrazione penitenziaria. I soldi impiegati (3 milioni 109mila euro nel 2017) arrivano per tre quarti dal finanziamento pubblico (totale sui corsi scolastici), ma poi per la realizzazione degli interventi è decisivo il contributo di 619 volontari, coinvolti in circa il 74 per cento delle attività in modo esclusivo per un monte ore dichiarato di circa 36.078, mentre il resto è gestito da 238 persone retribuite dalle organizzazioni per 69.234 ore. Indicatori che “valorizzano il fondamentale contributo di volontari, organizzazioni non-profit, istituzioni pubbliche e imprese”, sebbene queste ultime siano protagoniste solo di un caso su quattro di attività di tipo lavorativo, mostrando “una scarsa interazione e il mancato sfruttamento delle potenzialità del tessuto milanese”, nel quale “marginali” appaiono anche Università e Fondazioni. Il 54,4 per cento delle 180 iniziative catalogate sono culturali, educativo-culturali ed espressivo-culturali, il 12 per cento sono formative, di cui metà sono orientamento al lavoro. Solo il 5,5 per cento sono le sportive e ricreative (3,5 per cento), mentre il 5,5 per cento delle scolastiche cataloga solo quelle condotte da strutture formative accreditate. Ed è magari poco noto che 3.650 studenti siano entrati in carcere tramite 50 attività, e ancor più che 56 detenuti abbiano raggiunto 2.163 studenti in 94 eventi nelle scuole. Certo la ricerca ha la forza e il limite di fondarsi su dati e dichiarazioni provenienti dai referenti delle attività trattamentali, per lo più esterni. Ma “il fine ultimo è proprio quello di stimolare, nelle istituzioni pubbliche e nella società, una riflessione informata e consapevole circa la missione del sistema penitenziario e la sua funzione sociale attribuita dalla Costituzione Italiana”. Il recupero vero? È uso del tempo e dignità della persona di Giacinto Siciliano* Corriere della Sera, 21 maggio 2019 Il tempo è la materia principale di cui sono fatte le nostre vite. Per tutti, ma per chi sta in carcere di più: il tempo, quando non puoi scegliere lo spazio, è l’unico materiale che hai. Così se la costruzione della nostra vita si decide su come usiamo questa materia strana, fatta di anni e minuti, pare ancora più assurdo il pensiero di quanto spesso il tempo di chi è detenuto si consumi in pura attesa. È l’uso del tempo a fare di una persona ciò che è. Ma solo quando ci sentiamo davvero “persona” - e trattati come tale - ci importa di come usarlo, il tempo. È questo che ci cambia, che ci fa crescere o no. Ecco la prima riflessione che mi viene in mente alla luce del rapporto Bocconi-Icrios sulle attività trattamentali portate avanti negli istituti milanesi di Opera, Bollate e San Vittore. Ma i dati di quel rapporto dicono anche altro. In primo luogo una cosa importante su Milano: ed è la riaffermazione della forza espressa da questo territorio che ha negli anni elaborato un modello integrato e quasi unico di intervento. Le tante attività - culturali, di formazione, di educazione, di reinserimento: e non sono ancora abbastanza - promosse nei tre istituti del circuito penitenziario milanese sono possibili qui, in una misura non così facilmente replicabile ovunque, grazie allo spirito che anima questa città. Mi riferisco al funzionamento della “macchina” pubblica nel suo insieme - compresa quindi quella penitenziaria - ma anche all’impegno dei cittadini. Cioè dei volontari: in numero e con competenze tali da costituire specie a San Vittore, per lunga tradizione, forza vera. E aggiungo necessaria, a prescindere dalla professionalità insostituibile del personale dell’amministrazione penitenziaria, della polizia, degli educatori. Perché la presenza dei volontari in un carcere ha (anche) la grande funzione di contribuire a far “abbassare le barriere” rispetto ad attività che diversamente verrebbero forse percepite come calate dall’alto, da una “istituzione” che molti detenuti sono stati abituati per tutta la vita a considerare “nemica” a cui chiudere la porta. Di qui i due passi successivi, complementari. Da una parte la ovvia necessità di un volontariato sempre più “professionale”. Proprio perché indispensabile il volontariato non può più essere - in questo come in tutti gli ambiti - solo una forma di “assistenza”: l’asticella va continuamente alzata. Perché solo fatica e allenamento sono premessa dei risultati migliori. Dall’altra parte la sfida riguarda noi: lo Stato. Non credo siano la “chiusura” o la “apertura” di un carcere, in sé, a fare la differenza. Conta il modo, come ho detto, di usare il tempo. Ma perché tu, Stato, sia credibile quando proponi a un detenuto un “uso diverso” del suo tempo rispetto a quanto aveva fatto prima lo devi davvero considerare una persona. Sei tu, Stato, a dover credere per primo che quello è un Uomo e non solo l’autore di un reato. E fargli scoprire che può essere stimato per cose diverse. È questo che produce autostima e fiducia. E sono autostima e fiducia, non il muro di un carcere, che alla fine producono sicurezza: a fermare un rapinatore non è la paura di tornare in galera - i dati sulla recidiva lo provano - ma la scoperta di poter fare, nella vita, qualcosa di più bello che una rapina. Ah, poi c’è il resto. E cioè il fatto che chi esce di prigione possa trovare fuori un lavoro, una casa, affetti. Insomma tutta la parte sociale. Senno, per quanto bene abbia usato il suo tempo dentro, senza un lavoro fuori tornerà a fare una rapina. E quindi di nuovo dentro. *Direttore della Casa circondariale di San Vittore “Marcirai in galera”: l’Italia senza forza e senza pietà che getta via la chiave di Simona Olleni agi.it, 21 maggio 2019 Nel fenomeno che vede un continuo aumento dei detenuti in Italia, pur a fronte di una diminuzione dei reati e degli ingressi in carcere, può essere letta la tentazione, emersa negli ultimi anni, di un ritorno ad un primitivo significato di pena racchiusa nello slogan “devono marcire in galera”. Lo sottolinea, nel suo rapporto sullo stato del sistema penitenziario italiano, l’associazione Antigone. “In Europa - si legge nel rapporto - i reati diminuiscono e assieme diminuiscono i detenuti”, mentre in Italia “negli ultimi dieci anni, mentre diminuiscono drasticamente gli omicidi, da circa 600 a circa 350, aumentano significativamente gli ergastolani, dai 1.408 nel 2008 ai 1.748 di oggi” e vi è “una tendenza dei giudici a elevare le pene comminate”. La crescita del numero dei detenuti, si spiega nel rapporto, “è dovuta in particolare ad una diminuzione delle scarcerazioni, che corrisponde ad un aumento delle pene scontate dai detenuti condannati in via definitiva, nonostante non si abbia un parallelo aumento della gravità dei reati commessi”. Risultato: severità e ancora severità, ottenuta “tagliando alla radice ogni illusione riformatrice o progressista, quella scolpita nell’articolo 27 della Costituzione Italiana”. Il fenomeno del sovraffollamento delle carceri è poi aggravato da un’altra circostanza: l’aumento dei detenuti in attesa di giudizio definitivo. Erano, al 3 dicembre scorso, 19.565 (ben il 32,8% del totale). Un dato che sale al 38% se si guarda ai soli detenuti stranieri, mentre scende al 30,2% per quelli italiani. Uccidersi in cella - Non deve stupire, allora, che aumentino i suicidi. Secondo Antigone “stando al dato raccolto da Ristretti Orizzonti sono stati 67 (il ministero ne conteggia sei in meno), un tasso di 11,4 suicidi ogni 10 mila detenuti”. Sono invece 31 i morti (per cause naturali o per suicidio) in carcere dall’inizio del 2019. Nel 2008 i suicidi erano stati circa venti di meno, con un numero totale di detenuti più o meno paragonabile all’attuale. Ben quattro suicidi ci sono stati a Taranto negli ultimi dodici mesi e quattro morti, di cui tre suicidi e uno assassinato, nel carcere di Viterbo da gennaio 2018. Gli atti di autolesionismo nel 2018 sono stati 10.368, quasi mille in più dell’anno precedente e circa 3.500 in più del 2015, quando erano stati 6.986; i tentati suicidi sono stati 1.197 lo scorso anno, 1.132 due anni fa, 955 nel 2015. Le condizioni igieniche nelle celle sono spesso preoccupanti. Nel 7,1% degli istituti penitenziari ci sono celle in cui il riscaldamento non è funzionante e nel 35,3% non è assicurata l’acqua calda, come, ad esempio, nel carcere di Poggioreale. Nel 54,1% dei casi ci sono celle prive di doccia, nel 20% degli istituti visitati non ci sono spazi per le lavorazioni, nel 27,1% non esiste un’area verde per effettuare i colloqui. Da ex aree militari a nuove carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 maggio 2019 Protocollo d’intesa tra il Ministro della Giustizia Bonafede e la collega Trenta. L’obiettivo è quello di trovare aree militari inutilizzate dove possano essere realizzati nuovi istituti penitenziari. Firmato il protocollo d’intensa tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e la ministra della Difesa Elisabetta Trenta per individuare aree militari inutilizzate dove possano essere realizzati nuovi istituti penitenziari. Il documento ha l’obiettivo di migliorare la nota situazione di sovraffollamento delle carceri italiane e consentire l’attuazione del piano di riequilibrio territoriale del sistema penitenziario nazionale. Ricordiamo che il piano della riconversione è legittimato dall’articolo 7 del decreto semplificazioni, poi convertito in legge. Tale articolo dispone che, ferme restando le competenze del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in termini di infrastrutture carcerarie, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria concorra attivamente alle attività relative alla ristrutturazione e/o alla costruzione di nuovi istituti nei prossimi due anni (termine 31 dicembre 2020). E tra i compiti assegnati al Dap dall’art. 7 (comma 1) c’è anche la “individuazione di immobili, nella disponibilità dello Stato o di enti pubblici territoriali e non territoriali, dismessi e idonei alla riconversione, alla permuta, alla costituzione di diritti reali sugli immobili in favore di terzi al fine della loro valorizzazione per la realizzazione di strutture carcerarie”. Ora, con il protocollo d’intesa firmato ieri, interverrà anche il ministero della Difesa, individuando, appunto, le caserme dismesse. Quindi, per ora, pare che sia accantonata la costruzione di nuove carceri, ma ritorna in pista la riconversione dei vecchi edifici. È attuabile in tempi brevi e le risorse finanziare basteranno? Ma soprattutto le vecchie caserme risponderanno alle logiche del carcere moderno che deve avere strutture architettoniche adeguate al nuovo concetto della pena? Le opere militari inutilizzate sono sparse in tutto il territorio italiano e per lo più abbandonati al degrado: vecchie caserme, polveriere, poligoni, postazioni dei battaglioni d’arresto, alloggi per i militari, che da anni aspettano una riconversione per diventare musei, addirittura parchi fotovoltaici, oppure frantoi. Ma anche, appunto, carceri. L’esempio attuale è San Vito al Tagliamento, nel Friuli, dove al posto della caserma nascerà il nuovo carcere, atteso da anni. Ricordiamo che la caserma è stata individuata nel 2013. Infatti l’iter è stato lunghissimo, con non pochi intoppi, tanto da ricorrere alla Corte dei Conti che poi dette il via. Ma la caserma, ovviamente, non risponde ai canoni moderni del carcere, per questo viene abbattuta e quindi si rifarà da zero il nuovo carcere. È stata recuperata solamente la palazzina già sede del Comando del Battaglione Piccinini e ospiterà la parte amministrativa della nuova struttura. I lavori sono iniziati ufficialmente nel maggio del 2018, però il bando è stato presentato alla Gazzetta Ufficiale Europea nel 2013. Il costo è di circa 25 milioni di euro già stanziati dai precedenti ministeri. I costi, appunto, sono quelli che sono stati presi in considerazione anche dal rapporto di Antigone e già riportato da Il Dubbio. I soldi stanziati per questo tipo di attività di edilizia carceraria sono meno di 30 milioni in due anni. Basteranno visto i costi che riguardano anche le riconversioni che, di fatto, sono ricostruzioni? Ecco perché diversi giuristi, associazioni come Antigone o movimenti politici come il Partito Radicale, puntano all’implementazione delle pene alternative. Lo sport entra nelle carceri. Basket e calcio in 13 istituti di Antonio Ruzzo Il Giornale, 21 maggio 2019 Rapporto Uisp: “Case di pena sovraffollate e tensioni” In Lombardia i progetti per una detenzione migliore. Un’opportunità importante per il benessere psicofisico dei detenuti, momento per scaricare le tensioni e per favorire l’aggregazione anche perché molto spesso le attività sportive coinvolgono anche le guardie penitenziarie. Ma non è semplice farlo e non sempre è facile coinvolgere i detenuti. Così la situazione non è delle migliori. Solo il 28.1% dei detenuti italiani pratica sport all’interno delle diverse case circondariali, nonostante il molto tempo libero a loro disposizione. Una percentuale bassa determinata anche da problemi strutturali visto che il 25% degli istituti di pena della penisola non ha campi sportivi al proprio interno, il 20% non ha palestre e il 33% non fornisce la possibilità di praticare alcun tipo di attività sportiva. Questi sono alcuni dei dati emersi durante il convegno del progetto dell’Unione Europea Pac Prisoners’ Active Citizenship - tenutosi nei giorni scorsi a Palazzo Lombardia che ha visto rappresentanti di Belgio, Italia, Croazia, Olanda e Regno Unito confrontarsi sulle differenti realtà. A rappresentare l’Italia è la Uisp Unione Italiana Sport Per tutti, responsabile dell’area sportiva dell’intero progetto - che gode del supporto dell’Erasmus+Ka2 dell’ Ue: “I numeri dicono che in Italia ci sono 190 carceri con una capacità di 50.589 unità, i detenuti risultano essere però 58.163, con un eccesso di 7.574 pari al 15% di eccedenza, risultano essere quindi 157 gli istituti di pena sovraffollati spiega Antonio Iannetta, dirigente Uisp lo stato di tensione emotiva dei detenuti è un problema serio di cui occuparsi in modo strutturato. Lo sport è un ottimo strumento per impattare positivamente nel vissuto quotidiano e aiutare i detenuti nel loro percorso di recupero sociale e Uisp da quasi 30 anni lavora in tal senso sul territorio”. Il progetto seguito nelle carceri lombarde è “Porte Aperte” avviato in tredici istituti di pena a Bergamo, Brescia, Cremona, Lariano, Lodi, Milano, Monza, Mantova, Pavia, e Varese. Le attività svolte vedono la presenza costante di istruttori, volontari, educatori sportivi, animatori, allenatori e tecnici sportivi; organizzazione di partite amichevoli di pallavolo, calcio, basket, tra detenuti e squadre esterne; tornei e campionati interni al carcere; corsi di formazione per arbitri, giudici sportivi, tecnici e allenatori; corsi di ginnastica; lezioni di tennis; attività circensi; giochi da tavola. Inoltre è organizzata annualmente una manifestazione podistica a livello internazionale: “Vivicittà”, con la partecipazione di atleti provenienti anche dall’esterno. “Un progetto che sicuramente ha portato un valore aggiunto a tutto il sistema carcerario Lombardo - ha spiegato Martina Cambiaghi, assessore di Regione Lombardia - Aver partecipato al bando europeo Erasmus+ è stato per la Uisp un’occasione d’oro che ha permesso un interscambio costruttivo tra enti continentali diversi. Questo progetto è un tassello che si aggiunge alla già rodata collaborazione con l’Assessorato allo Sport e Giovani di Regione Lombardia”. “Abbandonare la ‘ndrangheta si può: io ci sono riuscito a 18 anni” di Carlo Macrì corriere.it, 21 maggio 2019 Parla Giosuè D’Agostino, che oggi ha 48 anni e vive in Piemonte. A 17 anni era nel carcere di Reggio Calabria: “Lì ho capito il vero senso della vita e sono riuscito ad allontanarmi dalla mia famiglia”. “Abbandonare la propria famiglia di ‘ndrangheta per tirarsi fuori dalle logiche criminali, si può. Io ci sono riuscito a 18 anni, dopo un percorso educativo intrapreso in carcere”. Parla della sua scelta con orgoglio Giosuè D’Agostino, 48 anni, nato e cresciuto a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. Giosuè all’età di 17 anni aveva già annusato l’odore di muffa delle fredde celle del carcere minorile di Reggio Calabria. Vi rimase rinchiuso per dieci mesi con l’accusa di tentato omicidio e rapina. “Io con quei reati non c’entravo niente, mi sono ritrovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, dice. La detenzione, però, l’ha salvato. “Il carcere mi ha aiutato a comprendere il senso della vita e la voglia di allontanarmi dalla mia famiglia”, spiega Giosuè. Ancora minorenne era stato “iniziato” al crimine e partecipava alle riunioni della cosca dove si prendevano decisioni anche sugli omicidi da portare a termine. “Avrei dovuto vendicare mio padre e commettere altri omicidi, perché se fai parte di una famiglia di ‘ndrangheta in guerra con altre cosche, non puoi stare in disparte, ogni appartenente al clan ha, come obiettivo, quello di sterminare il nemico”, spiega. In carcere il giovane Giosuè incontra don Italo Calabrò, il sacerdote che 50 anni fa fondò l’associazione Agape, impegnata ad aiutare i ragazzi a rischio coinvolgimento nella criminalità organizzata. Il percorso rieducativo del giovane rampollo dei D’Agostino iniziò proprio da quell’incontro cui fecero seguito tanti altri sino a quando Giosuè non fu pronto per affrontare la scelta. “Le parole di don Italo hanno svincolato la mia mente dalle tendenze criminali cui mi ero, per forza di cose, attaccato”. Uscito dal carcere Giosuè si trasferì per un breve periodo a Torino, da uno zio. Al suo rientro a Reggio Calabria la madre lo accolse con questa frase: “O stai cu previti, o stai cu nui” (o stai con i preti o con la tua famiglia). Giosuè non ebbe nessun dubbio: lasciò la famiglia e si trasferì ad Alba. Trovò un lavoro e una compagna che gli ha dato due figli che oggi hanno 13 e 15 anni. Non interruppe, però, i rapporti con i congiunti. La sua opera di mediazione per allontanare e convincere madre, sorella e cognato a cambiare vita e seguirlo nelle Langhe, continuò incessantemente. Anni dopo riuscì nel miracolo. Oggi Giosuè D’Agostino è un affermato imprenditore nel settore agricolo. La sua azienda produce nocciole che vende a una multinazionale del settore dolciario. Giosuè ha raccontato la sua storia nella tappa di Lamezia Terme del viaggio in Italia di “Buone Notizie - L’impresa del bene”. La Calabria continua a restare nel suo cuore. Spesso ritorna e incontra studenti e figli di ‘ndranghetisti per raccontare la sua esperienza. Lo fa a fianco del presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria Roberto Di Bella che, da 10 anni, tutela i ragazzi che crescono in contesti mafiosi offrendo loro un percorso alternativo, nell’ambito del progetto “Liberi tutti”. Lo scontro sul decreto sicurezza. Conte: criticità segnalate dal Colle di Monica Guerzoni e Alessandro Trocino Corriere della Sera, 21 maggio 2019 Il vicepremier Salvini chiede chiarimenti. Il duello nella notte, poi la mediazione: rinvio anche delle misure per la famiglia. “Sto qui tutta la notte, se serve...”. È quasi mezzanotte quando Salvini sfida Conte e Di Maio e scandisce il suo ultimatum. “Non faccio marcia indietro, sono pronto ad arrivare al voto in Consiglio dei ministri”, è l’azzardo del vicepremier leghista, stufo di sentirsi accerchiato e sotto attacco. Durante la pausa di una anomala riunione in tre atti, il “Capitano” del Carroccio si chiude con Conte e Di Maio e prova a stanare i 5 Stelle, in maggioranza al tavolo dell’esecutivo. Quel che Salvini chiede loro, in sostanza, è il coraggio di bocciare il suo decreto sicurezza bis, a costo di far cadere il governo. Sa di prova di forza, ma finisce con un rinvio “in settimana”. Salvini ha accolto i suggerimenti del Quirinale per “migliorare” il provvedimento e si dice certo che sarà approvato. Alle 00.35 il Consiglio dei ministri a tappe forzate si scioglie. Si è litigato e non si è deciso quasi nulla, se non le nomine di Mazzotta al vertice della Ragioneria dello Stato, Zafarana alla Guardia di Finanza e Tridico all’Inps. Ma il cuore dello scontro è sui decreti, sicurezza bis per la Lega e famiglia per il M5S, già spediti per conoscenza al Colle. Pressato dai due vice, Conte si è visto costretto a metterli sul tavolo. Sperava di cavarsela con un esame indolore, ma Salvini ha alzato la voce. Davanti ai ministri di un governo fuori rotta Conte ammonisce Salvini: “Anche dal Quirinale sono state segnalate criticità sul decreto sicurezza”. Il ministro dell’Interno sbotta: “Fammi capire, quali sarebbero le criticità?”. Ma poi alza gli occhi al Colle, ammorbidisce i toni e concede “piena disponibilità a concordare modifiche”. Un segnale di fumo che Di Maio non si fa sfuggire, pago del fatto che i rilievi del capo dello Stato siano ormai pubblici. I 5 Stelle evitano la conta e si dicono “pronti a lavorare serenamente con la Lega per risolvere le criticità”. In cambio, Di Maio vuole il via libera al decreto famiglia: “Questo miliardo non si tocca”. Era iniziata in un clima da resa dei conti. Veleni, sospetti, polemiche. Giorgetti diserta il Cdm (primo atto), inseguito dalle voci sarcastiche dei 5 Stelle: “Prima ci attacca e dice che il governo è in surplace, poi non va in Consiglio dei ministri”. Strascichi del brutto risveglio di Conte, che ha letto incredulo Giorgetti su La Stampa. L’uomo che dovrebbe essere il suo braccio destro denuncia che “il governo è fermo da 20 giorni” e fa a pezzi l’immagine super partes del premier: “Non è una persona di garanzia”. E mentre il capo del governo rende pubblica la sua ira, Giorgetti avvisa i naviganti: “O si lavora seriamente, oppure tutti a casa”. Di Maio rimprovera alla Lega di aver “perso la testa” perché a corto di argomenti: “Disco rotto, parlano solo di migranti. Non si fischia Papa Francesco in una piazza”. Salvini si arrabbia. “Io nel pallone?”. Ma poi conferma la fiducia a Conte e scherza: “Posso chiedere l’aiuto di Maria o qualcuno si offende?”. C’è poco da ridere, tutti si chiedono cosa accadrà il 27 maggio. Rimpasto o crisi? “Si va avanti, il tema è il come”, è il dilemma di Di Maio. Su Twitter, Manlio Di Stefano (M5S) insinua che sui migranti Salvini stia facendo “il paraculo”. Alle 16 Conte è in Umbria, Salvini non c’è, Giorgetti nemmeno e tocca a Di Maio presiedere il primo round del Consiglio, con l’autonomia all’ordine del giorno. Pausa, scontro a distanza e, alle otto, ecco Salvini: “Il tempo di cambiarmi camicia e giacca e si va a battagliare in Cdm”. La fuffa del decreto sicurezza bis di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 maggio 2019 La politica dei rimpatri si gioca sulle alleanze, non su spiccioli propagandistici. Che cosa dovrebbe fare davvero per governare l’immigrazione il ministro dell’Interno di una grande nazione? La questione è difficile per tutti: chiedere ad Angela Merkel, che sulla gestione degli immigrati ha sacrificato parte del consenso politico. O al Regno Unito invischiato nella Brexit. O ai paesi scandinavi che da anni vedono sistematicamente cadere governi. O anche, cronaca di queste ore, all’Austria, il cui ministro dell’interno Herbert Kickl dopo abbondanti show anti immigrati ha seguito la sorte ingloriosa del suo capo Heinz-Christian Strache. Insomma: la propaganda è la peggior consigliera, anche per paesi con meno problemi dell’Italia. L’esperienza dovrebbe insegnare, ma non a Salvini. Il quale alla vigilia delle europee in mezzo a sondaggi decrescenti (vedremo), all’insoddisfazione del mondo produttivo (certa), al malumore della Lega governista del nord (certissimo), ai fulmini della chiesa e della magistratura, e nel caos dell’ennesima giornata di insulti con gli alleati grillini e ora con il premier Conte, ieri ha ritenuto di uscirne offrendo all’opinione pubblica il mitico “decreto sicurezza bis”. Il provvedimento ha, o aveva, per punti di forza due misure: un finanziamento di due milioni per le politiche di rimpatrio e, quale ulteriore ritorsione verso le ong, la confisca di navi “se portano un numero di immigrati superiori a 100”. Insomma, salvataggi con check-in e overbooking di chi sale dai barconi. Ma svettano soprattutto i due milioni destinati “ad un fondo di premialità per le politiche di rimpatrio per finanziare interventi di cooperazione mediante sostegno al bilancio generale o settoriale ovvero intese bilaterali con finalità premiali per la particolare collaborazione nel settore della riammissione di soggetti irregolari provenienti da stati non appartenenti all’Unione europea”. Tema: come rimpatriare i clandestini attraverso intese bilaterali con i paesi di origine. Salvini lo risolve con 2 milioni per tutti (e senza avere costruito le giuste alleanze diplomatiche per migliorare la politica dei rimpatri). La Merkel non ci era riuscita con quattro miliardi alla Turchia. Anche delle chiacchiere e distintivo pare che il “capitano” stia raschiando il fondo. Decreto sicurezza, via i poteri al pm che indagò Salvini per la nave Diciotti di Francesco Grignetti La Stampa, 21 maggio 2019 Le competenze sui migranti vanno alle procure di Catania e Palermo. Esclusa quella di Agrigento, guidata del procuratore Patronaggio. Quel magistrato di Agrigento, Salvini lo vive ormai come un nemico personale. La battutaccia dell’altro giorno contro il procuratore Luigi Patronaggio è stata rivelatrice. Quando infatti Matteo Salvini sbotta a raffica, può significare soltanto che c’è un gran nervosismo. “Se c’è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, chiunque agevoli sbarchi immigrati irregolari dovrà vedersela con la legge”, tuonava al mattino, lasciando balenare addirittura una denuncia contro il pubblico ministero. E poi: “Non sono simpatico a questo signore”. È stato Patronaggio che l’ha indagato per sequestro di persona. È ancora Patronaggio che domenica ha sequestrato la nave umanitaria Sea Watch 3, iscritto il suo comandante al registro degli indagati, e contestualmente ha disposto lo sbarco di tutti i 47 migranti. Ecco, forse Salvini non riuscirà a liberarsi del tutto di Patronaggio (“Si candidi!”), ma intanto cerca di sfilargli le competenze sull’immigrazione clandestina. È quanto è scritto all’articolo 3 del decreto Sicurezza bis: in puro gergo giuridichese, in una selva di articoli e commi, c’è un clamoroso accentramento di competenze in capo a poche procure, quelle distrettuali. Nel caso siciliano, che è la frontiera avanzata lungo le rotte che arrivano dall’Africa, e che inevitabilmente si trova a trattare navi umanitarie e soccorso in mare, le uniche procure che sarebbero incaricate di trattare i reati del favoreggiamento all’immigrazione clandestina resterebbero Palermo e Catania, una competente per la Sicilia occidentale e l’altra per la Sicilia orientale. Per dare un nome ai procuratori interessati, Franco Lo Voi è il procuratore capo di Palermo (ora in corsa per divenire procuratore capo a Roma) e Carmelo Zuccaro a Catania sarebbero i soli a gestire la materia. La solidarietà di Spataro - La novità segue la legislazione antimafia: da tempo i reati di criminalità organizzata sono accentrati nelle procure distrettuali. Così è anche per le associazioni criminali finalizzate all’immigrazione clandestina. Salta agli occhi, però, che con questo decreto voluto fortissimanente da Salvini, tutti gli altri magistrati titolari di procure ordinarie sarebbero tagliati fuori anche dalle pratiche ordinarie, quelle senza aggravante. L’effetto pratico sarebbe che il magistrato divenuto suo malgrado l’antagonista preferito di Salvini, ossia Patronaggio, non toccherebbe più palla. Proprio quel Patronaggio che ieri ha ricevuto un commovente elogio pubblico da parte di Armando Spataro: “Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento”. E che ha raccolto la difesa appassionata dei magistrati progressisti: “Chiediamo - dice Cristina Ornano, il segretario della corrente Area - che la politica rispetti le prerogative della magistratura e non effettui indebite invasioni di campo”. Le multe contro le Ong - Naturalmente dentro il decreto Sicurezza bis ci sono anche molte altre cose: le multe per le navi delle Ong che non rispettano l’autorità dei libici e non si sottomettano alle loro indicazioni (da 10 a 50 mila euro, con la possibile confisca della nave se il comportamento è reiterato e arrivano in Italia più di 100 naufraghi), gli aumenti di pena per chi commette resistenza contro le forze di polizia o vandalizza le strade durante le manifestazioni, il Daspo per i tifosi violenti da applicare anche all’estero, il contrasto al bagarinaggio. Sintesi del ministro, un attimo prima di entrare nel consiglio dei ministri: “Combattere camorristi, spacciatori e scafisti, un fondo per difendere gli anziani truffati, pene più severe per chi abbandona o maltratta animali, telecamere in asili e case di riposo”. Gli sbarchi scuotono l’Anm. Spataro: si vada in piazza. Grasso: seguiamo la legge di Errico Novi Il Dubbio, 21 maggio 2019 L’ex procuratore di Torino: “pronto ad andare tra la gente”. Il “Sindacato”: la giurisdizione controlla l’azione dei pm”. “I magistrati agiscono in forza di una legittimazione tecnica, non secondo investitura elettorale”. A ricordarlo deve intervenire l’Anm, con una nota del presidente Pasquale Grasso. Sembra un’ovvietà. Non lo è affatto, a una settimana dalle Europee e nel pieno di un caso politico-giudiziario che fa tremare il governo. Certo il sequestro della nave “Sea Watch 3”, e il conseguente sbarco a Lampedusa dei 47 migranti che vi erano stati presi a bordo, decisi dalla Procura di Agrigento, scontano l’attrito irriducibile fra due mondi: quello dell’attività giudiziaria, nello specifico del procuratore Luigi Patronaggio, che segue appunto i binari della legge; e quello della polemica pre- elettorale, le cui traiettorie sono assai più imprevedibili. Così imprevedibili che nel giro di poche ore il principale protagonista dell’ennesimo scontro fra toghe e politica, Matteo Salvini, passa dalla minaccia di denunciare Patronaggio quasi all’elogio del pm: “La magistratura è indipendente, non erano tenuti a chiamarmi” e “se impone la sua legge ne prendiamo atto”. Poi, a proposito dell’indagine per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina già notificata dai pm al comandante della nave, Salvini aggiunge: “Questo dimostra che quello che dico non è sbagliato: se c’è una Procura che lo conferma, il mio lunedì è un bel lunedì”. Fino a poche ore prima il ministro dell’Interno parlava da leader stretto nella tenaglia fra l’alleato-nemico del Movimento 5 Stelle e appunto l’intervento delle toghe, velato ai suoi occhi da un’odiosa patina di collaborazionismo. Finché il quadro si fa più chiaro: nella serata di domenica la magistratura non solo ha sequestrato la Sea Watch, ha ordinato lo sbarco e l’approdo nel porto di Licata (avvenuto alle 13 di ieri), ma ha anche aperto le indagini per individuare “eventuali trafficanti di esseri umani coinvolti”. Che poi i “trafficanti” ci siano, andrà dimostrato. Ma il ritmo convulso della campagna elettorale obbliga di fatto Salvini ad adattarsi. E a cogliere l’aspetto positivo di un’ipotesi di reato almeno temporaneamente condivisa dallo stesso pm- nemico che l’aveva indagato per la Diciotti. Intreccio meno indecifrabile di quanto si creda. Se non fosse che anche nella magistratura, com’è noto, le visioni sono eterogenee. Non sulla legittimità dell’azione di Patronaggio quanto sul suo significato. C’è una lettura più “ufficiale”, quella dell’Anm citata all’inizio. Nel suo comunicato, il presidente Grasso risponde alla battuta pronunciata la sera prima da Salvini su Patronaggio (“se vuole dettare la linea sugli sbarchi deve candidarsi”) e ricorda che “tutte le determinazioni dell’autorità giudiziaria sono motivate e soggette a controllo nel sistema giurisdizionale, dunque in un ambito che assicura il rispetto delle leggi e dei diritti di tutti”. Significa che non c’è bisogno di governare per sequestrare una nave e ordinare lo sbarco degli occupanti, e che anzi può farlo solo un magistrato, ma anche che se per assurdo l’azione della Procura di Agrigento non fosse blindata nell’assoluto rispetto della legge, Patronaggio ne sconterebbe le conseguenze sotto diversi profili. Sia con l’eventuale sconfessione da parte del Tribunale o di giurisdizioni superiori, sia nell’ipotesi più estrema, in termini disciplinari, da parte del Csm. E perché il presidente dell’Associazione magistrati deve precisare questioni di immediata evidenza costituzionale? Anche perché le diverse reazioni togate all’intervento dei pm agrigentini hanno sfumature dalle tonalità molto, ma molto differenti. Il tono più acceso è quello a cui ricorre una delle figure più carismatiche dell’associazionismo giudiziario, Armando Spataro: da poco congedatosi dalla magistratura, l’ex procuratore di Torino è tra i fondatori di Movimento per la Giustizia, alleato di Md nel raggruppamento progressista di Area: ebbene, nelle mailing list dei giudici Spataro sente il “dovere” di comunicare che “leggendo la decisione della procura di Agrigento mi sono emozionato in maniera forte: il procuratore ed i suoi magistrati, fedeli alla legge, indagano ma tutelano le persone. Dovrebbe essere la normalità ma non sempre è così”. Poi aggiunge: “Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento”. Fino a un appello conclusivo da polemista appassionato: “Stringiamoci attorno a loro, se necessario scendiamo in piazza in loro onore, parliamo e informiamo”. Quello “scendiamo in piazza” non passa inosservato”. È da mesi che Spataro ribadisce con forza la sua posizione sul quadro giuridico che vieterebbe di tenere i porti chiusi. Su un fronte lontano dal suo, Magistratura indipendente, a cui appartiene anche Grasso, si è invece spesso raccomandata affinché le correnti e l’Anm restassero fuori dalle polemiche “politiche”. In realtà, oltre a Spataro, anche il suo raggruppamento, Area, e la stessa Md diffondono comunicati in cui mettono in guardia dalle “invasioni di campo” di Salvini nei confronti dei pm. Eugenio Albamonte, predecessore di Grasso e a sua volta esponente di spicco di Area, parla di potenziale “significato intimidatorio” contenuto nell’iniziale reazione di Salvini. Il quale però fa scattare il time out nell’eterna disputa fra politica e pm, con quel “la magistratura è indipendente, non erano tenuti a chiamarmi”. Nel segreto auspicio che gli elettori vedano in Patronaggio un suo alleato anziché un censore. Amianto, colpo di spugna in Cassazione. “Tutti prescritti i dirigenti delle aziende” di Marco Grasso Il Secolo XIX, 21 maggio 2019 La procura pronta a chiudere le inchieste sui manager accusati della contaminazione degli ambienti di lavoro e delle morti. Una sentenza della Corte di Cassazione potrebbe cancellare con un tratto di penna lo sforzo con cui la Procura di Genova ha riaperto, a distanza di anni, i procedimenti giudiziari su oltre 250 morti d’amianto. Secondo la Suprema Corte, chiamata a decidere sulle vittime di mesotelioma avvenute presso gli stabilimenti di Pirelli di Torino, “il reo” (in questo caso ex manager imputati per la contaminazione e la morte di ex dipendenti esposti all’amianto) ha diritto a essere giudicato con la legge più favorevole (principio garantito dalla Costituzione). E, dunque, anche a beneficiare della prescrizione più favorevole. Nel caso delle morti causate dal contagio da fibra tossica - avvenuto presumibilmente in gran parte fra gli anni Settanta, Ottanta e inizio Novanta - le norme approvate nel tempo hanno raddoppiato la prescrizione dei reati, portandola per queste morti colpose da sette anni e mezzo a quindici. L’applicazione della versione più garantista - necessaria secondo i giudici perché non è possibile “individuare il momento esatto in cui si è consumato il delitto” - avrebbe come effetto l’archiviazione di (quasi) tutte le indagini in corso. Fascicoli in cui sono indagate decine di persone, tutte o quasi in pensione: ex consoli della Compagnia Unica del porto; una decina di ex dirigenti dell’Ilva-Italsider, diversi ex manager di Ansaldo, e sei ex amministratori della raffineria Sanac; mentre altri procedimenti riguardano realtà coinvolte marginalmente in questo tipo di morti, tra cui figura anche l’ospedale pediatrico Gaslini. Genova, occorre ricordarlo, è un caso molto peculiare nel panorama italiano: a fronte di un’altissima incidenza di morti da asbestosi, gli unici processi celebrati hanno riguardato lavoratori, accusati di aver ottenuto i riconoscimenti pensionistici legati all’esposizione alla fibra senza averne diritto. Una maxi-inchiesta finita con l’assoluzione o il proscioglimento di 1.500 lavoratori, e degli ex vertici di Inail, tra cui l’ex dirigente Pietro Pastorino. Per provare a invertire la rotta, nel 2011 la Cgil presentò in Procura un esposto sulle vittime in alcuni posti di lavoro tra più colpiti: Ansaldo, Ilva, Fincantieri e porto. Sulla base di questi numeri drammatici, l’ex procuratore Michele Di Lecce radunò decine di procedimenti, e fece riaprire l’altra indagine, sostanzialmente dimenticata, su chi aveva provocato quei morti. In vari fascicoli, oggi in mano ai pm Stefano Puppo, Sabrina Monteverde e Daniela Pischetola, sono stati iscritti oltre una ventina di ex manager genovesi, accusati di della morte di lavoratori in anni in cui erano ormai noti gli effetti devastanti dell’amianto. A rendere già difficile la prosecuzione delle inchieste genovesi era la combinazione di più fattori, in particolare, il ritardo maturato negli anni in cui sotto processo erano finiti i lavoratori, e più in generale la difficoltà a circoscrivere penalmente il momento della contaminazione. La sentenza della Cassazione potrebbe dare un colpo definitivo a questi fascicoli. Quello dei giudici della Suprema Corte è un ragionamento deduttivo: nei casi in cui una legge si modifichi in senso migliorativo per un indagato, egli ha diritto a essere giudicato con la norma a lui favorevole (un principio riconosciuto dalla Costituzione). La stessa garanzia, ragionano i magistrati, deve allora essere concessa se accade il contrario, come in questo caso: all’epoca della contaminazione la prescrizione era più favorevole ai rappresentanti delle industrie; e anche se le morti sono avvenute negli ultimi anni, la contaminazione dipende dai decenni precedenti. Non solo. Il tempo passato è così lungo da far perdere il senso stesso della punizione penale: “Se si riconosce che il processo penale possa incardinarsi senza il vincolo e il pungolo della prescrizione da un lato si esclude la immediata e preventiva tutela sostanziale del principio costituzionale, dall’altra si consente l’inizio dell’azione penale per notizie di reato talmente risalenti o remote da privare di qualsiasi interesse la prosecuzione del crimine in una prospettiva di prevenzione generale e speciale”. Alcol e droga, per rifare la patente occorre attendere la sentenza di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 13508/2019. I tre anni che devono passare prima di candidarsi a ottenere una nuova patente non partono dalla data in cui quella vecchia è stata ritirata, ma dal passaggio in giudicato della sentenza che dispone la sua revoca. Ieri la Cassazione si è pronunciata per la prima volta (sentenza 13508/2019 della Seconda sezione civile) su questo aspetto delle sanzioni per chi commette gravi infrazioni legate ad alcol o droga alla guida. E lo ha fatto nel modo più sfavorevole all’imputato. Si trattava di interpretare che cosa intenda il comma 3-ter dell’articolo 219 del Codice della strada, che dal 2010 evita che chi subisce la revoca della patente come sanzione per gravi infrazioni possa subito avviare le pratiche per rifare gli esami e ottenerne un’altra. Nei casi di alcol con rilevanza penale o droga, la norma dispone che debbano passare almeno tre anni “dalla data di accertamento del reato”. Ma il reato s’intende accertato già alla data in cui è stata commessa l’infrazione (e quindi è stato eseguito il test) o al momento in cui diventa definitiva la condanna? Nel primo caso, il periodo di sospensione cautelare della patente disposta dalla Prefettura subito dopo l’infrazione conta ai fini del calcolo dei tre anni. Nel secondo caso, che corrisponde alle interpretazioni del ministero delle Infrastrutture, non conta e il calcolo parte da quando il processo finisce e viene notificata la revoca della patente. Secondo la Cassazione, la revoca è cosa diversa dalla sospensione cautelare e non può essere considerata esistente prima della sentenza. È quindi “un atto ad efficacia istantanea adottabile dall’autorità amministrativa” solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. E il comma 3-ter non si riferisce alla revoca pronunciata dal giudice penale, per cui quando parla di accertamento non intende “disciplinare la decorrenza dei suoi effetti”. Finora sulla questione si erano pronunciati vari giudici amministrativi e ordinari, con esiti discordanti. L’interpretazione più favorevole all’imputato era stata data già nel 2010 dall’ufficio del Massimario della stessa Cassazione ed era stata seguita da vari Tar (tra cui quello del Veneto, sentenza 393/2016) e Tribunali (tra cui di recente quello di Bologna, ordinanza 11901/2018). Ma ora la Cassazione dà più peso all’orientamento contrario. Napoli: domiciliari negati, 72enne invalido e cieco muore piantonato in ospedale Il Mattino, 21 maggio 2019 Se ne è andato in silenzio, in un letto d’ospedale, piantonato dagli uomini della Polizia Penitenziaria. Giorgio Mancinelli è morto senza riuscire a far più ritorno a casa, nonostante le istanze presentate dal suo difensore al Tribunale di Sorveglianza. Il suo cuore ha cessato di battere nel reparto di Rianimazione dell’Ospedale del Mare: anche i sanitari, dal primo maggio, nutrivano ormai pochissime speranze di salvare l’anziano condannato in via definitiva a cinque anni di reclusione per bancarotta. Inutili tutte le richieste e gli appelli della moglie e dei parenti per ottenere un provvedimento di clemenza che ne autorizzasse il trasporto a casa, agli arresti domiciliari, considerata la drammaticità delle condizioni di salute ormai gravissime. E adesso i familiari insorgono, preannunciando una serie di ricorsi. Bolzano: il consigliere provinciale Repetto (Pd) “nuovo carcere, fate presto” salto.bz, 21 maggio 2019 Il nuovo carcere, la cui fine dei lavori erano previsti nel giugno del 2016, è ancora ben lontano dalla sua realizzazione. Invece la giunta provinciale deve considerare il progetto una priorità. “Struttura fatiscente e sovraffollata, il nuovo penitenziario è una priorità”. Repetto riaccende i riflettori sul progetto affidato a Condotte: “Si acceleri”. La costruzione del nuovo penitenziario di Bolzano deve essere considerata una priorità, visto il degrado della struttura attuale e il sovraffollamento interno, definiti non più tollerabili, che rendono difficili sia le condizioni di vita dei detenuti che quelle di lavoro degli agenti di custodia. Sandro Repetto, consigliere provinciale del Pd, torna ad accendere i riflettori sulla vicenda della casa circondariale del capoluogo, i cui ritardi sono legati alla situazione economica e giuridica dell’azienda titolare dell’appalto, Condotte spa. La Casa circondariale di Bolzano da anni ormai è una struttura al limite della fatiscenza, inadeguata e non idonea a garantire la dignità né a chi vi lavora, né a chi vi è detenuto; è stata definita una vergogna da Arno Kompatscher. In attesa di capire dalla Provincia lo stato attuale del progetto - per il quale si attende il contratto definitivo e l’avvio del cantiere - l’esponente dei democratici sollecita Palazzo Widmann ad attivarsi a favore di “un percorso amministrativo-giuridico” che possa dare inizio quanto prima ai lavori di realizzazione, comunque già “previsti per il 2019”. Nell’interrogazione rivolta alla giunta, per la materia di cui è competente l’assessore Massimo Bessone, Repetto riprende il tema della situazione carceraria sulla quale è attivo in regione anche Fabio Valcanover, avvocato ed esponente dei radicali. “La casa circondariale di Bolzano - ribadisce il consigliere - da anni ormai è una struttura al limite della fatiscenza, inadeguata e non idonea a garantire la dignità né a chi vi lavora, né a chi vi è detenuto; è stata definita una vergogna per la nostra comunità dal Presidente della Provincia Arno Kompatscher, a seguito di una visita all’interno”. Vengono poi ripresi i dati forniti dal ministero della giustizia, aggiornati al 29 gennaio 2019, che secondo Repetto “ne sottolineano e il sovraffollamento (87 posti disponibili, 107 detenuti presenti) nonché la carenza di personale”. Mentre per la Polizia penitenziaria gli agenti previsti sono 76, quelli effettivi sono 59, per i funzionari educatori i numeri passano rispettivamente da 2 a 1, per gli amministrativi addirittura da 27 a 9, un terzo. Il consigliere cita inoltre “gli avvocati dell’osservatorio carceri che hanno definito non tollerabile la condizione generale della struttura”. “Purtroppo - conclude - la nuova casa circondariale di Bolzano, la cui fine dei lavori erano previsti nel giugno del 2016, è ancora ben lontana dalla sua realizzazione”. Per tutte queste ragioni occorre dunque, a suo avviso, attivarsi per dare subito via al cantiere. Macomer (Nu): l’ex carcere diventa Centro di permanenza per il rimpatrio di Riccardo Bottazzo lasciatecientrare.it, 21 maggio 2019 La Casa circondariale era stata chiusa perché inadatta ad ospitare i detenuti di massima sicurezza. La struttura, finiti i lavori di sistemazione, dovrebbe ospitare un centinaio di “ospiti”, ma forse dovremmo scrivere “detenuti”. Secondo le direttive del ministero dell’Interno, già quest’anno dovrebbe entrare in funzione per una cinquantina di migranti. “I bandi di gestione sono già stati emessi - spiega Francesca Mazzuzi, referente per la campagna lasciateCIEntrare dell’isola. Nelle intenzioni del ministro Matteo Salvini, come di chi l’ha preceduto e degli amministratori regionali e locali, questo dovrebbe fungere da deterrente per chi sbarca in Sardegna lungo la rotta algerina ma sappiamo bene che non ci sono deterrenti che reggono per chi non ha alternative a quella di scappare da fame e guerre e per chi, come gli algerini, desidera fortemente un futuro migliore. Proprio come è stato per i Cie, questa struttura non servirà a nulla se non a raccattare facili consensi in campagna elettorale ed a calpestare i diritti di chi ha già sofferto troppo”. Contro il Cpr di Macomer si sono levate molte voci tra le quali quella dell’ex cappellano della casa circondariale, don Mario Cadeddu, che ha sottolineato come la struttura sia stata chiusa proprio perché non rispondeva ai parametri minimi di legge previsti per la detenzione. “Un suo impiego come centro di rimpatrio mi sembra assurdo - ha dichiarato don Mario alla Nuova Sardegna. La struttura non va bene per questo tipo di utilizzo e non è neppure adattabile. Le celle sono state considerate troppo strette anche per questo che doveva diventare un carcere di massima sicurezza. Pure gli spazi esterni sono ristretti. Non riesco a immaginare come vivrebbero queste persone che, oltre a tutto, scappano dai loro Paesi per disperazione. Diventerebbe una specie di lager”. Il parere negativo arrivato anche dalla Regione e dai Comuni interessati riguardo le condizioni peggiorative di detenzione previste dal nuovo decreto sicurezza non ha comunque fermato il ministro che ha ribadito la sua intenzione di farne un Cpr a qualunque costo. “Prima i sardi”, per l’appunto! “Il bando per l’affidamento è in corso - continua Francesca - sette ditte hanno concorso. Tre sono locali e quattro vengono dal continente. Tra queste c’è quella dal curriculum non esattamente promettente che ha gestito il Cara di Mineo, ed è anche quella che ha più probabilità di vincere la gara. Staremo a vedere. Nel frattempo come Campagna LasciateCIEntrare prepariamo la mobilitazione”. Cpr a parte, gli effetti del decreto “sicurezza” devono ancora sbarcare in Sardegna. A dispetto di chi urla di “invasione”, le presenze di rifugiati nell’isola è molto bassa ed in diminuzione. I dati del Viminale parlano di 2 mila 101 richiedenti asilo al 13 maggio di quest’anno. Poco più della metà delle presenze dell’anno precedente: 4 mila 155. “La nostra Regione non offre grandi attrattive occupazionali, a anche il settore agricolo non ha prospettive, così anche i migranti che presentano ricorso preferiscono andarsene prima di attendere la sentenza - continua Francesca -. Inoltre, l’isola è stata coinvolta in ritardo nella distribuzione dei flussi e nuovi arrivi praticamente non ce ne sono”. La contrazione del numero di Cas - 106 a fine 2018 contro 17 Sprar - è dovuta quindi più alla diminuzione delle presenze che al decreto Salvini, al quale sono comunque ascrivibili casi, difficilmente quantificabili, di revoca dell’accoglienza per i titolari della “vecchia” protezione umanitaria. “Gli effetti del decreto li sentiremo tra non molto, quando entrano in funzione i nuovi gestori. Attualmente sono in corso le procedure di affido per le provincie di Sassari e di Cagliari che sono quelle con la più alta percentuale di presenze. I tagli sono stati drammatici e dubitiamo che, con i nuovi capitolati di appalto, si riesca a garantire quei servizi come i corsi di lingua, la preparazione al colloquio con la commissione, gli accompagnamenti e l’assistenza sanitaria che già per le passate gestioni erano un punto dolente”. Altro punto dolente, la questione anagrafica. Nonostante le recenti sentenze dei tribunali, nessun Comune sardo ha concesso l’iscrizione ai richiedenti asilo. “Gli ufficiali dell’Anagrafe non vogliono esporsi e le amministrazioni fanno orecchie da mercante. Teniamo presente che in molti Comuni siamo prossimi alle elezioni - conclude Francesca -. A Cagliari inoltre, dopo il passaggio del sindaco Massimo Zedda al Consiglio Regionale, il Comune è stato commissariato e qualsiasi presa di posizione in merito è praticamente impossibile. L’unica strada sarà quella dei ricorsi al giudice”. Milano: cartoline (in carcere) dai bambini di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 21 maggio 2019 Le idee di un parroco per creare legami con il quartiere. La Casa circondariale San Vittore infatti è in centro città. Costruita anche una “cella” nel cortile della chiesa. Il carcere di San Vittore, a Milano, è in piena città. Una circonvallazione corre proprio sotto le sue mura di cinta, intorno ci sono condomini, scuole, negozi, un teatro, i giardinetti dove giocano i più piccoli. I detenuti sono i vicini di casa di un intero quartiere, ma solo sulla carta: sono una presenza muta, non c’è contatto. E sempre stato così, una prossimità vissuta nell’indifferenza. Fino a due anni fa. Quando dal territorio è emerso il desiderio di un legame. “In una società davvero inclusiva non si esclude nessuno: quel tassello, il collegamento fra la comunità e il carcere, mancava. Ci siamo interrogati sul significato e su come riuscire a creare relazioni, dando vita a un piccolo gruppo di lavoro”, spiega don Serafino Marazzini, parroco di San Francesco d’Assisi al Fopponino, la chiesa da cui è partita l’iniziativa. Legame, quando si parla di una casa di reclusione, non significa necessariamente contatto fisico. “Abbiamo pensato che la prima cosa da fare fosse, molto semplicemente, raccontare cosa è il carcere. La gente non lo sa, c’è un immaginario collettivo falsato, terreno fertile per i pregiudizi, i sospetti, le paure”, spiega Davidia Zucchelli, coordinatrice del Gruppo Carcere. Fra le prime mosse pubbliche c’è stato l’allestimento, lo scorso anno, di una cella carceraria dentro il cortile della chiesa. Una cella non diversa da quelle di San Vittore. I partecipanti potevano scegliere se limitarsi a guardarla da fuori o se vivere, in prima persona, l’esperienza dell’ingresso in prigione. Il percorso, messo a punto da Caritas Ambrosiana, non fa sconti: dopo aver lasciato gli effetti personali si entra nella cella, e la porta viene chiusa. “Stupore, angoscia, solitudine, claustrofobia: i messaggi lasciati dai visitatori ci hanno fatto capire l’importanza di questo passaggio”, dice una volontaria, Giovanna Bacchini. Il gruppo ha poi studiato un fitto calendario di incontri per avvicinare il più possibile il mondo carcerario al grande pubblico. Hanno partecipato, fra gli altri, Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore; Gloria Manzelli, dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria e i volontari delle associazioni carcerarie “Il Girasole” e “Sesta Opera”. “Molte persone del gruppo hanno deciso di fare un percorso di formazione e ora entrano con regolarità a San Vittore come volontari. Altre seguono la raccolta di indumenti nuovi e usati per i detenuti e si occupano di fundraising”, racconta don Marazzini. Che aggiunge: “il nostro obiettivo non è però avere tutti in prima linea. L’intento è stimolare, far nascere una nuova consapevolezza nel quartiere. Dietro al gruppo c’è un’intera comunità che stiamo cercando di coinvolgere”. Piccoli passi in direzioni diverse. Per Pasqua, sessanta bambini impegnati nel catechismo (fascia di età: 10-12 anni), sono stati invitati a scrivere (a casa) un biglietto di auguri a un detenuto. In questi giorni, infine, è partita la ricerca di giovani per un progetto di scuola di italiano nel periodo estivo. “I corsi seguono il calendario scolastico, così da metà giugno ai primi di settembre rimane un vuoto da colmare”, rivela Zucchelli. “Il fundraising coprirà le spese vive di questa scuola estiva e servirà per dotare di nuovi arredi le sale dei parlatori del carcere”. Pescara: detenuti minorenni addetto alla digitalizzazione dei documenti del tribunale di Luca Speranza ilpescara.it, 21 maggio 2019 Tribunale, la digitalizzazione dei documenti affidata ai detenuti minorenni. Il Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise ha sottoscritto a Pescara una convenzione con un’associazione che si occupa di detenuti, per affidare loro questo importante compito. Digitalizzare tutta la documentazione del Tribunale di Pescara attraverso un percorso di reinserimento e recupero. Protagonisti del progetto i detenuti minorenni abruzzesi che, grazie alla convenzione firmata dal Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise con l’Associazione di volontariato “Voci di Dentro”, il Tribunale, l’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna, l’Ufficio di Sorveglianza e la Casa Circondariale della città abruzzese potranno essere avviati a questo importante compito. Oltre ai minori, anche altri giovani detenuti potranno partecipare all’iniziativa che prevede l’attività non retribuita da svolgere nel Tribunale di Pescara, dove a seguito di un’attività formativa potranno dematerializzare e archiviare in formato digitale atti e documenti che saranno archiviati nel sistema informatico del Tribunale, come ad esempio documenti post dibattimento penale, procedure d’appello e sentenze passate in giudicato. Milano: Teatro della Moda, premiate le creazioni dei detenuti Il Giornale, 21 maggio 2019 Alle ore 10.30, presso la sede de “Il Teatro della Moda” (via Rancati 24), si terrà la consegna del ricavato delle vendite all’Associazione “L’altra metà del Cielo” che ha supportato i detenuti nel lavoro di confezione, e offrirà due borse di studio ai detenuti del carcere di Bollate che si sono distinti. L’ultima iniziativa è arrivata dal “Settimo reparto”. Armati di ago, filo, forbice e macchina per cucire, una trentina di loro si sono impegnati a confezionare diverse linee di prodotti artigianali: magliette, accessori, lenzuola e cuscini, tovaglie, grembiuli, presine, porta oggetti e molto altro ancora. A insegnare ai detenuti le tecniche di taglio e cucito, oltre alla cura e all’attenzione per ogni singolo dettaglio sartoriale, sono stati alcuni docenti de “Il Teatro della Moda”, una scuola-laboratorio che riprende in chiave moderna i metodi e le lavorazioni che hanno reso l’Italia capitale della Moda internazionale. Borse di studio per i detenuti - Ago e filo per rieducare i detenuti e permettere il loro rientro nel mondo del lavoro. Il carcere di Bollate è diventato ormai da tempo una “struttura modello” che punta al reinserimento dei detenuti per restituire alla società persone libere e responsabili. L’obiettivo è produrre più sicurezza. A formare i detenuti, insegnando le tecniche di taglio e cucito, sono stati i docenti del “Teatro della Moda”, una scuola-laboratorio pratica e non solo teorica, che propone corsi professionali personalizzati secondo le esigenze e gli obiettivi di ogni allievo. Tutti i capi realizzati in carcere sono stati venduti lo scorso 14 aprile nel “Mercatino di Primavera” organizzato dentro le mura di Bollate per raccogliere fondi a favore dell’Associazione “L’Altra Metà del Cielo”. Oggi, invece, presso il “Teatro della Moda” alla presenza delle autorità, alle 10,30 saranno premiati i detenuti che hanno mostrato maggiore dedizione per l’iniziativa, con l’erogazione di due borse di studio. Torino: un documentario per vivere la realtà virtuale del carcere torinoggi.it, 21 maggio 2019 Il film “VR Free” del regista Milad Tangshir rivela, attraverso un visore, gli interni della casa circondariale Lorusso e Cutugno. Visibile dal 21 al 24 maggio all’Emergency Infopoint. Quanto sono palpabili i reali limiti imposti alla “libertà” così come noi la concepiamo? E quanto conta la dimensione di uno spazio fisico, quando il confine tra il dentro e il fori demarca una condizione esistenziale? Sono alcune delle questioni cui sembra rispondere VR Free, documentario del regista iraniano Milad Tangshir, girato con riprese a 360 gradi all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, con lo scopo di fari vivere allo spettatore un’esperienza immersiva della realtà del carcere. Dal 21 al 24 maggio sarà possibile sperimentare in prima persona questo viaggio dentro il centro detentivo presso l’Emergency Infopoint di corso Valdocco 3, dalle 17 alle 19. Attraverso un visore indossato sul viso, ci si calerà per qualche minuto negli ambienti delle Vallette. Come spiega il regista, lo scopo sociale del progetto consiste nello stimolare “una consapevolezza maggiore delle condizioni di vita e della realtà della detenzione, così vicina a noi eppure così poco conosciuta”. Girato lo scorso autunno con la collaborazione di Stefano Sburlati, VR Free è uno dei primi quattro contenuti presto fruibili nella nuova app Rai Cinema Channel VR Experience, presentata lo scorso 15 maggio al Festival di Cannes. Il documentario ha beneficiato del bando Under35 Digital Video Contest promosso da Film Commission Torino Piemonte e ha visto un prezioso lavoro sull’audio condotto da Vito Martinelli. Anche i detenuti sono stati coinvolti nel processo creativo, sperimentando, sempre grazie ai visori, la sensazione virtuale di trovarsi nel mondo “libero”. “Abbiamo mostrato loro - racconta Valentina Noya, produttrice del film con l’Associazione Museo Nazionale del Cinema - riprese realizzate in situazioni quotidiane, banali per noi, ma precluse ai detenuti, come una domenica pomeriggio al parco del Valentino o una partita di calcio allo stadio. È stata una sorta di liberazione virtuale, un antidoto alla deprivazione affettiva”. Le serate di visione proposte da Emergency si inseriscono nel calendario di LiberAzioni - Festival delle arti dentro e fuori, un insieme di iniziative volte a creare un dialogo tra l’interno e l’esterno dei muri carcerari. La durata media dell’esperienza visiva è di quindici minuti. Partecipazione gratuita con prenotazione obbligatoria alla mail: liberazioni.torino@gmail.com. Milano: parte da San Vittore il ciclo di lezioni concerto “Discovering Bach” agensir.it, 21 maggio 2019 Al via giovedì 23 maggio, alle ore 16, presso il carcere circondariale milanese di San Vittore il ciclo di lezioni concerto “Discovering Bach”, format di cinque appuntamenti ideato per portare e raccontare la bellezza delle musiche composte da Joahn Sebastian Bach (1685-1850) ai detenuti ospiti di cinque strutture di reclusione italiane. Un progetto nato dall’incontro di Arnoldo Mosca Mondadori con Maria Cefalà, studiosa e interprete specializzata nel repertorio del grande artista tedesco e organizzato e promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti onlus (casaspiritoarti@gmail.com). Cefalà, a partire dal primo appuntamento, sarà ogni volta protagonista al pianoforte di uno spettacolo da 50 minuti circa dove eseguirà dal vivo alcuni brani di Bach spiegando di ciascuno il senso rispetto alla storia e agli aspetti fondanti la poetica di uno dei più grandi geni musicali di ogni tempo. Le performance verranno precedute da brevi introduzioni sul tema della “bellezza” di cinque personalità del mondo della cultura, tra cui il giornalista scientifico Luigi Bignami, la dantista e scrittrice Maria Soresina, il cappellano del carcere di Padova e scrittore don Marco Pozza, il linguista e scrittore Agostino Roncallo. A San Vittore sarà Arnoldo Mosca Mondadori a introdurre la scaletta riflettendo sulla vocazione alla spiritualità e quel senso del divino che emana l’arte di Bach, per il quale, secondo Leonard Bernstein, “la musica era religione, comporla il suo credo, suonarla una funzione religiosa”. Obiettivo del progetto è proporre il bello e la cultura come innesco di un percorso di riflessione che incoraggi le platee dei detenuti a scoprire insieme a Bach qualcosa di sé e ad esprimere liberamente la propria emotività. Le aspettative dei detenuti prima delle lezioni-concerto, le loro impressioni a caldo, i loro volti, le loro idee, le loro storie diventeranno così un libro di pensieri e documentario. Ogni tappa di “Discovering Bach” verrà infatti registrata in alta definizione e filmata in 4K dando la così la possibilità al mondo della reclusione di farsi testimonianza fuori, esempio per il mondo al di là delle sbarre di come la bellezza non giudichi l’umanità ma semplicemente le appartenga. Dopo Milano, “Discovering Bach” entrerà nelle case circondariali di Pavia, Brescia, Napoli e Vigevano. Ferrara: dal carcere agli spazi aperti, due generazioni di Teatro Nucleo all’opera cronacacomune.it, 21 maggio 2019 Giovedì 23 maggio nella Casa circondariale e venerdì 24 maggio in piazza a Pontelagoscuro saranno presentate due nuove produzioni. Uno spettacolo di teatro-carcere il 23 maggio e uno per gli spazi aperti il 24 maggio: due interventi che riassumono il lavoro che Teatro Nucleo da 40 anni realizza, rendendo Ferrara protagonista della ricerca teatrale internazionale dedicata ai non-spettatori, alle persone che si incontrano per strada, a chi - attraverso il teatro - può costruire nuove possibilità. In questo filone di azioni si pone il lavoro in carcere di cui Teatro Nucleo - fondatore del Coordinamento Teatro-Carcere della Regione Emilia Romagna - è capofila a livello nazionale. Album di Famiglia, la nuova produzione con e per i detenuti-attori di Ferrara, con la drammaturgia di Horacio Czertok e di Marco Luciano, sarà presentata in forma di studio giovedì 23 maggio nel Teatro della Casa Circondariale G. Satta. La presentazione sarà dedicata agli studenti della Cattedra di esecuzione penale della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara e agli studenti delle classi quinte del Liceo L. Ariosto, che forniranno un feedback strutturato sull’esperienza vissuta in un successivo incontro, il 27 maggio. Album di Famiglia sviluppa il tema biennale „Padri e figli”, comune a tutti i progetti del Coordinamento Teatro-Carcere dell’Emilia Romagna. Il processo laboratoriale alla base del lavoro, iniziato ad ottobre 2018 con il coinvolgimento di sedici detenuti, esplora la figura di Amleto nelle varie riscritture del ‘900, da Heiner Muller a Laforgue. Attraverso uno scambio di suggestioni e spunti letterari forniti dai registi ai detenuti, e da questi rielaborati in scritture biografiche, si realizza uno studio quasi antropologico del rapporto padre/figlio legato ai temi della colpa, del lutto, dell’eredità e del conflitto generazionale in una costruzione scenica fortemente corale e dinamica, che utilizza danze e musiche tradizionali dei Paesi di provenienza dei detenuti: dalla Russia al Marocco, dall’Italia all’Albania, dalla Romania alla Spagna, da Cuba alla Tunisia alla Moldavia. Una messa in scena che non segue un senso filologico né una narrazione tradizionale, ma che è in grado fi far emergere gli archetipi del conflitto tra padri e figli attraverso immagini, simboli e topoi della tragedia. Dallo spazio chiuso delle carceri agli spazi aperti: venerdì 24 maggio alle ore 17.30 nella Piazza di Pontelagoscuro, andrà in scena l’anteprima di Domino, ultimo progetto di teatro per gli spazi aperti di Teatro Nucleo, con la regia di Natasha Czertok, prima della partenza per un lungo tour internazionale. Dall’1 al 10 giugno Domino sarà, infatti, in Bulgaria a Plovdiv, Capitale Europea della Cultura 2019, come parte attiva ed elemento fondante di Odyssée Karavana, progetto teatrale internazionale di tredici Compagnie che stanno attraversando l’Europa per sottolineare la necessità del dialogo e del superamento dei confini, materiali e immateriali. Gli oltre duecento tra artisti e tecnici di Odyssée Karavana, progetto promosso dal Citi - Centre International pour les Théâtres Itinérants convergeranno in quattro punti chiave: Plovdiv in Bulgaria, Ferrara in Italia, Salonicco in Grecia e Bruxelles in Belgio. Qui la carovana terminerà il viaggio, con una conferenza internazionale ad agosto 2019 all’interno del Théâtres Nomades Festival dopo aver incontrato oltre 20.000 spettatori in un tour composto di 25 spettacoli e performances, tra i quali Domino di Teatro Nucleo, unica Compagnia italiana partecipante al progetto. Odyssée Karavana raccoglie l’eredità storica di Caravan MIR, lo straordinario tour trans-europeo che esattamente trent’anni fa coinvolse oltre duecento artisti in un Festival di teatro itinerante, da Mosca a Parigi, percorrendo da est a ovest quell’Europa divisa dal Muro di Berlino, che sei mesi dopo la fine del tour sarebbe stato abbattuto. La Bulgaria è solo la prima tappa del tour europeo di Domino, che nel corso dell’estate sarà in scena anche in Germania (Sommerwerft Theatre Festival, Francoforte) e Danimarca (Waves Festival, Vordingborg). Con Domino, diretto da Natasha Czertok, Teatro Nucleo - forte di quarant’anni di storia per le strade, le piazze e i teatri - riparte con un tour internazionale sostenuto da Mibac, Regione Emilia Romagna e Istituto Italiano di Cultura di Sofia: “Oggi, a trent’anni dalla caduta del Muro, vogliamo accendere i riflettori sui nuovi confini sociali e sulla concreta, lenta e graduale perdita della libertà di pensiero” racconta la regista “Domino è uno spettacolo classico, nel significato antico: un rituale di incontro e di scontro con questioni che troppo spesso la nostra società si rifiuta di affrontare”. Il governo non si sintonizza, Radio Radicale verso lo stop di Luigi Merano Libero, 21 maggio 2019 Oggi scade la convenzione, la storica emittente vicinissima alla chiusura. Giachetti (Pd) in sciopero della fame e della sete finisce all’ospedale. “Domani (oggi, ndr) scade la convenzione, ma andremo avanti finché avremo ossigeno nella speranza di una proroga. L’ad ha già fatto sapere che senza rinnovo verranno pagati gli stipendi di maggio e non quelli di giugno. Il problema è che non ci saranno neanche le risorse per sostenere i costi di produzione, a partire dall’accensione degli impianti”. A parlare è il direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio, preoccupato per la sopravvivenza della storica radio. L’attuale governo ha annunciato da tempo di non voler rinnovare la convenzione. Se non ci sarà una proroga, la chiusura potrebbe essere inevitabile. Sono così ore febbrili per i lavoratori della radio che attendono una risposta dalla politica per capire quale sarà il proprio destino. Il Movimento 5 Stelle, che ha voluto più di tutti la fine della convenzione, alterna timidi segnali di apertura a conferme di uno stop, mentre continuano iniziative e scioperi della fame, come quello di Roberto Giachetti, esponente del Pd con una storia nel Partito Radicale, ricoverato ieri a Roma con segni di disidratazione e ipotensione dopo 83 ore di digiuno. Le speranze sono riposte in primo luogo negli emendamenti al disegno di legge “Crescita”, tra cui uno della Lega a prima firma di Massimiliano Capitanio che punta a una proroga di sei mesi e che ha trovato qualche apertura dal Movimento 5 Stelle. “Noi ci rifacciamo alle parole di Di Maio che ha parlato della necessità di trovare una soluzione e alle aperture di Primo Di Nicola”, ha spiegato ancora Falconio. Lo stesso direttore della radio rende poi omaggio alle molte iniziative a sostegno per la radio: “Siamo forti delle iniziative di digiuno di Giachetti, di Roberto Deriu al secondo giorno di digiuno, del sostegno di molti altri deputati del Pd, dell’iniziativa non violenta di Giuseppe Moles di Forza Italia, che digiuna dopo aver preso la staffetta da Maurizio Bolognetti, in sciopero della fame per 78 giorni”, ha spiegato Falconio. Il direttore ha poi ricordato che, “ci sono appelli di costituzionalisti, penalisti, storici, internazionalisti. Anche il mondo accademico si stringe attorno a noi”. La speranza è tutta legata alla sorte di alcuni emendamenti: “Speriamo che si tenga conto dei criteri di necessità ed urgenza, anche alla luce delle indicazioni dell’Agcom”, ha concluso. Entrando nel dettaglio tecnico dell’emendamento leghista, bisogna ricordare che l’importo è inferiore a quello della precedente convenzione (3,5 milioni per sei mesi contro i 10 milioni per un anno del passato) e ciò potrebbe convincere i grillini a dare il via libera. “Se c’è la volontà politica una soluzione si trova”, assicura il leghista Capitanio. “Mi sembra di aver capito che ci sia l’idea di una proroga per poter aprire una gara, spero che vada in porto”, aggiunge invece la leader di +Europa, Emma Bisognerà però attendere il vaglio di ammissibilità della presidenza della Camera. Secondo le indiscrezioni, potrebbe essere considerato inammissibile, ma la Lega appare pronta a fare ricorso. Si voterà, comunque, la settimana prossima, a campagna elettorale finita. Porti aperti alle armi, chiusi agli umani di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 21 maggio 2019 Nella visione del governo la guerra è da tempo diventata “umanitaria” e l’accoglienza umanitaria è tout-court “criminale”. Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio. Se volete avere una rappresentazione tangibile e concreta della natura del governo in carica, quello del “contratto” tra sovranismo razzista della Lega e populismo giustizialista del M5S, guardate il Belpaese da nord a sud, nei suoi due porti di Genova e di Lampedusa. Da una parte, nella capitale ligure, è attraccata la nave saudita Bahri Yanbu, tradizionalmente carica di armamenti; dall’altra nell’estrema isola siciliana rimaneva fino a 48 ore fa confinata al largo la Sea Watch, la nave di soccorso umanitario ai profughi. Porti aperti, per decisione del governo italiano, ai carichi di armi per un paese in guerra come l’Arabia saudita e per il conflitto sanguinoso in Yemen; porti chiusi, sempre per decisione del governo italiano e in particolare del ministro dell’odio Matteo Salvini, invece per i carichi di esseri umani disperati. Ma per entrambi, ecco la novità, di fronte ai silenzi, alle ambiguità, alla tracotanza del governo che ora si rimpalla le responsabilità, in crisi con se stesso e con la coscienza della società civile italiana, sul fronte dei porti è scesa in campo la protesta. Di chi a Genova, attivisti e sindacalisti, non vuole più contribuire ad insanguinare il mondo con i traffici di armi e blocca una nave la Bahri Yanbu di fatto militare - appartiene infatti alla società saudita che gestisce il monopolio della logistica militare di Riyadh. A Lampedusa è scesa in strada una lenzuolata di civiltà che vuole accogliere invece che respingere chi fugge disperato dalle troppe nostre guerre e dalla miseria prodotta dal nostro modello di rapina delle risorse energetiche, in Africa e non solo. È una sintonia di avvenimenti con la quale irrompe nell’Italietta ripiegata su se stessa, la questione internazionale. Perché entrambe le vicende sono casi internazionali e chiamano in causa subito l’Europa, significativamente alla vigilia del voto per le europee. Infatti la nave saudita, che porta armi e/o strumentazioni comunque destinate alle forze armate della monarchia saudita infatti, è partita dagli Stati uniti, passata per il Canada prima di arrivare in Europa, ha come destinazione Gedda e, dopo avere caricato munizioni di produzione belga nel porto di Anversa, ha visitato e cercato di approdare nel Regno unito, in Francia e in Spagna. Sempre accolta dalla protesta dei pacifisti, degli attivisti dei diritti umani e dei portuali locali. E l’Italia non è un attracco qualsiasi: qui su licenza tedesca sono prodotte bombe dalla Rwm Italia (con sede a Ghedi, Brescia, e nello stabilimento a Domusnovas, in Sardegna) che vengono utilizzate contro la popolazione civile yemenita. È un traffico di morte con il concorso dell’intera Europa: secondo i rapporti della stessa Ue sulle esportazioni di armi, gli Stati membri dell’Ue hanno emesso nel solo 2016 almeno 607 licenze per oltre 15,8 miliardi di euro in Arabia saudita. Ieri il porto di Genova è stato bloccato dalla manifestazione degli attivisti e dei camalli, ma il governo ha aggirato la protesta e fatto attraccare la nave lo stesso. Anche a Lampedusa alla fine, la nave Sea Watch confinata al largo per giorni è stata fatta approdare e sono stati fatti scendere i migranti. E con l’accoglienza popolare, quasi festosa allo sbarco dei 47 profughi, è andata in onda l’alternativa del “modello Mimmo Lucano”, l’ex sindaco di Riace ora al bando ed esiliato perché ha dimostrato che l’integrazione è possibile, è concreta ed è fattore produttivo, di nuovo lavoro e di nuova civiltà. Subito si è scatenata la reazione rabbiosa del ministro dell’Inferno, sponsor di quel “Decreto sicurezza bis” che le Nazioni unite accusano apertamente di “violare di diritti umani”. Così la nave umanitaria è stata sequestrata e il comandante è stato denunciato per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Ecco che le due anime del “contratto di governo” si ritrovano unite negli intenti finali, anche elettorali. Non dimentichiamo però che la loro forza, sempre più fragile, deriva dai disastri provocati dai governi precedenti italiani ed europei, di centrodestra e di centrosinistra, sia per l’accoglienza dei migranti che per le guerre infinite in corso. È così. Questo governo gestisce nient’altro che una vergognosa eredità, quella delle decine di muri eretti alle frontiere di ogni paese europeo e, nel Mediterraneo, della esternalizzazione dei confini alle presunte autorità della Libia. Che, nonostante sia travolta da mesi da una guerra intestina e per procura, continua ad essere chiamata in causa ogni giorno dal ministro degli interni Salvini perché, con la sua milizia che si chiama “guardia costiera libica”, tenga ben aperti ai migranti le carceri e i campi di concentramento. Mentre nella grammatica corrente, la guerra è da tempo diventata “umanitaria” e l’accoglienza umanitaria adesso è tout-court “criminale”. Quando dovrebbe essere evidente che chi apre i porti ai mercanti di armi e li chiude al soccorso umanitario e all’accoglienza, distrugge la civiltà, cancella il futuro e prepara il campo aperto dell’odio. Tutta la Liguria chiusa alla guerra di Massimo Franchi Il Manifesto, 21 maggio 2019 A Genova la vittoria dei camalli: il generatore per lo Yemen non sale sul cargo saudita. Cgil: sciopero in tutti i porti per evitare carichi. Indiscrezioni sull’aggiramento del blocco a La Spezia: all’arsenale potevano essere caricati anche 8 cannoni. La Bahri Yanbu accolto all’alba con razzi e lacrimogeni. Poi la prefettura dà ragione ai lavoratori: il materiale “border line” viene trasferito fuori dal porto. Hanno vinto i camalli, ha vinto la “guerra alla guerra”. Lo sciopero e il presidio indetti a Genova contro la Bahri Yanbu è riuscito: la nave cargo saudita arrivata ieri mattina non verrà caricata con i generatori elettrici che sarebbero serviti per la guerra in Yemen. E il blocco da oggi si estende a tutti i porti liguri per evitare che il carico avvenga nel porto militare di La Spezia, lontano dai riflettori accesi meritoriamente da lavoratori e Cgil nel capoluogo. Sotto una forte pioggia alle 4 e 30 la nave è stata accolta dagli striscioni e dai fumogeni del Collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) che hanno anche tentato di salire sul cargo. Poi i lavoratori della Compagnia unica dei camalli hanno impedito le operazioni di carico nell’area di attracco della nave partendo con un presidio al varco portuale Etiopia, in lungomare Canepa. Lo sciopero deciso domenica dalla Filt Cgil era mirato: riguardava tutti gli operatori di mare e di terra che avrebbero dovuto lavorare sulla Bahri Yanbu, il cargo della compagnia marittima dell’Arabia Saudita che trasporta materiale bellico diretto a Gedda e da lì al conflitto civile in Yemen. La mobilitazione partita già la scorsa settimana sotto la scia del boicottaggio avvenuto al porto francese di Le Havre aveva visto saldare le posizioni dei camalli con quelle delle ong laiche come Arci, Amnesty, Libera, Opal per il disarmo e cattoliche Acli, Salesiani del Don Bosco, comunità di San Benedetto. Tutti uniti dallo striscione: “Porti chiusi alla guerra, porti aperti ai migranti”. Sotto accusa c’erano i generatori della Defence Tecnel di Roma, materiale militare che invece l’agente a Genova della Bahri sosteneva essere “civile”. La scoperta dei generatori “border line” aveva portato anche la Cgil - dopo il collettivo autonomo dei lavoratori portuali (Calp) - alla mobilitazione totale anche sotto la spinta della affollata assemblea pubblica di venerdì. Il suggello alla vittoria dei lavoratori è arrivata dalla riunione tenuta in prefettura con i rappresentanti sindacali, i vertici dell’Autorità portuale e i dirigenti del Gmt, il terminal. Niente carico e generatori spostati in un’area protetta del Centro smistamento merci (Csm). Quando verso mezzogiorno la polizia ha scortato gli operatori che spostavano i grossi generatori il blocco è stato tolto fra la felicità di tutti. “Avevamo proposto noi di portare fuori la merce contestata e ci hanno ascoltato”, commenta Luigi Cianci della Cooperativa unica dei camalli e delegato Filt Cgil. “A parte il comportamento vergognoso di Cisl e Uil, questa volta c’era tanta voglia nei lavoratori di fare qualcosa, di cominciare ad agire, di scrollarsi di dosso l’apatia”, spiega Richi del Calp. Nel primo pomeriggio però iniziava a farsi concreta la possibilità che il generatore potesse essere spostato al porto di Spezia dove secondo indiscrezioni potrebbero arrivare nelle prossime ore, via treno, anche gli 8 cannoni Caesar che sono stati all’origine del blocco al porto di Le Havre. Per evitare che il problema di Genova si ripresenti perfino peggiorato a La Spezia la Filt Cgil assieme alla Cgil Liguria hanno indetto uno sciopero preventivo per tutti i porti della regione. “Abbiamo deciso di dichiarare lo sciopero dei lavoratori addetti a tutti i servizi e alle operazioni portuali, di mare e di terra, che riguardano gli scali liguri dove avvenga l’eventuale attracco della nave Bahri Yanbu - spiega Laura Andrei, segretaria regionale della Filt Cgil - perché non si proceda con l’imbarco di materiale bellico impiegato in operazioni definite dalle Nazioni Unite “crimini di guerra”. Anche all’arsenale di Spezia riusciremmo a bloccare il carico”. Filt e Cgil Liguria “auspicano che anche l’Italia, come gli altri stati europei, decida finalmente di dare un segnale forte contro la più grave catastrofe umanitaria del mondo”. A conferma del livello di intatta civiltà di buona parte di Genova arriva il commento del presidente di Federlogistica ed ex presidente dell’autorità portuale Luigi Merlo: “Credo che la decisione dei camalli e della comunità dei lavoratori portuali vada rispettata perché fa parte della loro storia e identità. È vero che c’è il libero scambio delle merci - ha completato Merlo - ma c’è anche la scelta individuale, importante, etica e morale, che credo debba essere rispettata e faccia pienamente parte della storia del porto di Genova”. Migranti, nessuna invasione. Ecco i dati che smontano la valanga delle fake news di Corrado Giustiniani Il Dubbio, 21 maggio 2019 Una “fake news” al giorno toglie il medico di torno. Matteo Salvini non fa tempo a ripetere che i porti sono chiusi e che nessuno sbarcherà, ed ecco che la Procura di Agrigento fa scendere a Lampedusa i 47 naufraghi della Sea Watch, mentre il Viminale informa che quest’anno, alla data di lunedì 20 maggio, erano sbarcati 1265 immigrati (quelli ufficiali, identificati con tanto di impronte digitali). Ospite ieri mattina degli studi di La7, il ministro dell’Interno ha comunicato che la politica del governo è una mano santa contro gli annegamenti, tanto che nel 2019 i morti in mare sono stati soltanto due. Ma ecco che viene smentito dai dati dell’Agenzia Onu per i rifugiati, che parlano di 402, finora, tra morti e dispersi nel Mediterraneo, mentre lo soccorre una precisazione del suo ministero: due sono solo i cadaveri che sono stati recuperati. E poi gli immigrati irregolari, che a un mese dalle elezioni europee sono scesi magicamente a quota 90 mila dai 500 mila di cui si parlava nel contratto di governo. Ancora: un Paese raccontato per tanti mesi come insicuro, che ridiventa miracolosamente sicuro con il calo dei reati comunicato a pochi giorni dal voto. Per non parlare di una quinta bufala, dispensata ripetutamente dal nostro vicepremier: il rischio di islamizzazione dell’italica penisola. Smascheriamola subito: tra gli immigrati, i fedeli di Allah sono poco più di 2 milioni, ovvero il 3,5 per cento della nostra popolazione, e soltanto attorno al 2050, secondo una stima del Centro di ricerche Idos, supererebbero da noi quota 6 per cento e il 10 per cento in Europa. I 5,3 milioni di immigrati regolari del nostro Paese sono in larga prevalenza cristiani. Ma quanti sono allora gli stranieri irregolari? Calcolarli è un esercizio assai complicato, di cui s’è fatta carico la Fondazione milanese Ismu. All’inizio del 2018 ne stimava 533 mila: sono questi i dati di cui si faceva forte il governo gialloverde. Il professor Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università Bicocca, già colonna dell’Ismu e da tre mesi presidente dell’Istat, ha aggiornato la stima a gennaio del 2019: adesso sarebbero 600 mila gli immigrati ai quali si affibbia spesso il marchio di “clandestini”. Ma questo stock deriva in misura del tutto minoritaria dagli sbarchi. La verità è che da sei anni non viene approvato un decreto flussi che abbia al centro il lavoro dipendente. Il decreto del 2019 prevede appena 30.850 ingressi di cittadini non comunitari, in prevalenza per lavori stagionali, poi per conversione di permessi precedenti, o per lavoro autonomo, per permessi di studio e altro ancora. Insomma, in Italia non si può entrare legalmente per trovare un lavoro fisso. È lo stesso sistema dei “decreti flussi”, su cui si basa l’attuale legge sull’immigrazione, la Bossi- Fini del 2002, che crea percorsi irregolari e contorti. Prevede, infatti, che si debba entrare nel nostro Paese con il contratto di lavoro già in tasca, come se una famiglia in cerca di una badante, un ristorante che ha bisogno di un cameriere o un’ impresa che non trovi sul mercato italiano un operaio specializzato, fossero disposti ad assumere questi lavoratori a scatola chiusa, sulla base di una foto e di un curriculum e senza averli mai visti all’opera. Le cose non vanno in questo modo. Decreto flussi o no, il sistema largamente prevalente praticato in Italia per trovare un impiego è il seguente: entri con un visto turistico di tre mesi e cerchi lavoro, quando i tre mesi sono passati, diventi inevitabilmente “overstayer”, ma intanto ti sei fatto notare e magari una famiglia o un’impresa promette di assumerti. A quel punto, se c’è un decreto flussi, te ne vai furtivamente nel tuo Paese d’origine, per tornare poi in Italia con tutti i documenti in regola per essere assunto, timbrati dal nostro consolato. Se il decreto flussi non c’è, resti lo stesso qui, ma da irregolare. È per questo che periodicamente abbiamo bisogno di sanatorie che svuotino il bacino di lavoro illegale che inevitabilmente si forma. Ben quattro ve ne sono state ancor prima della Bossi- Fini. Quella varata dal secondo governo Craxi nel 1996, con 105 mila regolarizzati, poi la legge Martelli del 1990, con 217 mila, il decreto Dini del 1995, con 246 mila, la regolarizzazione della Turco-Napolitano, che ha interessato 217 mila migranti, e nel 2002 forse la più grande sanatoria della storia d’Europa, quella della Bossi-Fini, che ha messo in regola 650 mila stranieri. Dovremmo forse considerare una sanatoria anche il decreto flussi del 2007, con 444mila lavoratori, in prevalenza rumeni e bulgari, divenuti allora cittadini comunitari. La settima regolarizzazione è del 2009, riservata però soltanto a colf e badanti, 300 mila delle quali uscite alla luce del sole. L’ultima, quella del 2012, con il governo Monti, che però ha fallito nei suoi obiettivi, intercettando appena 90 mila lavoratori. Ma poneva condizioni troppo onerose, in piena crisi economica: 1000 euro “una tantum” a carico del datore di lavoro che intendesse regolarizzare e sei mesi di contributi arretrati da versare. Sono passati sette anni e inevitabilmente il bacino si è riempito: bisogna avere il coraggio di proporre la nona regolarizzazione della nostra storia, con benefici per l’Inps, per i lavoratori e per le imprese, alcune delle quali sono quasi costrette a utilizzare irregolari. I 500 o 600 mila stimati, quindi, in parte non sono mai stati regolari, in parte hanno perso il titolo, perché è scaduto e per non avere più un lavoro. “Ma certamente, di questo numero complessivo, i migranti provenienti dagli sbarchi rappresentano una quota minoritaria” conferma Livia Ortensi, demografa, responsabile del settore Statistica della Fondazione Ismu. Invece Salvini (e non solo lui), quando parlava prima dei 500 mila clandestini, si riferiva all’invasione via mare, e non anche agli immigrati che sono da molti anni con noi e che andrebbero fatti emergere. Ma ecco la dichiarazione resa il 23 aprile dal vicepremier e ministro dell’Interno: “Il numero massimo stimabile di irregolari presenti in Italia dal 2015 è di 90 mila persone e non di 500- 600mila come sostenuto finora”. Sostenuto anche da lui, ovviamente. Ha poi spiegato che dal 2015 sono sbarcati 478mila migranti: 268mila hanno lasciato l’Italia, e sono presenze certificate in Paesi Ue, e altri 119 mila sono rimasti in strutture d’accoglienza in Italia. Sottraendo dunque a 475mila queste due ultime cifre, si ottengono 90 mila migranti, quelli di cui non c’è traccia. Numero assai meno inquietante, da mettere in pasto all’opinione pubblica prima del voto, come atto di buon governo. Nel commentare i dati che gli esperti del ministero dell’Interno hanno consegnato a Salvini, l’Ismu fa presente, come detto, che la Fondazione considera l’intera popolazione immigrata, al primo gennaio 2018, mentre invece il ministro si riferisce solo agli sbarchi, e per giunta in un periodo lungo quattro anni e quattro mesi: è dunque il suo un dato di flusso e non di stock. I due numeri “non sono dunque confrontabili, anche se - sostiene l’Ismu - compatibili”. La seconda notizia fasulla è quella, come abbiamo visto, dei “porti chiusi”. Vero che gli sbarchi si sono notevolmente ridotti negli ultimi due anni. Dal 1 gennaio del 2018 al 17 maggio dell’anno scorso, il calo è stato del 97 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017, e questo per effetto dei provvedimenti del ministro Pd Marco Minniti, che ha fornito motovedette alla Libia e imposto un codice di condotta alle Ong, con l’obbligo di non ostacolare le imbarcazioni libiche quando riportano all’inferno dei campi recintati i migranti fuggiti da quelle coste. Nello stesso periodo di quest’anno un altro calo vistoso, dell’88 per cento rispetto al 2018, tanto che a tutto il 20 di maggio, secondo fonti ufficiali del Viminale, erano solo 1.265 i migranti sbarcati. Ma non è vero che i porti siano stati chiusi, ritornello che invece ama ripetere il ministro dell’Interno. Nessun provvedimento del genere è stato mai adottato, come ha dimostrato l’Asgi, l’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione. Né poteva essere preso da Salvini. Semmai è il ministro dei Trasporti che potrebbe assumere una decisione del genere - lo ricorda il servizio Fact cheking dell’Agi - in base all’articolo 83 del Codice della Navigazione, in alcuni casi molto limitati: ma Toninelli non ha mai deciso niente di tutto questo. C’è però la Convenzione Onu di Montego Bay sul diritto del mare, che all’articolo 25 concede a un governo la possibilità di negare l’autorizzazione allo sbarco quando il passaggio di una nave “non è inoffensivo”. Cioè, come si spiega all’articolo 19, quando “arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Ma per ora “porti chiusi” continua ad essere uno slogan caro al ministro e non il risultato di una decisione concreta. Lo stanno a dimostrare gli stessi sbarchi appena citati. Sulla sicurezza, come sugli immigrati irregolari, il vicepresidente del Consiglio ha improvvisamente cambiato linea, osservando che i delitti adesso sono calati: meno 12 per cento gli omicidi, nel primo trimestre del 2019 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, meno 20,9 per cento le rapine, meno 18,8 per cento i furti in abitazione, temendo i quali, peraltro, è stata appena approvata la legge sulla legittima difesa. Peccato che è da più cinque anni che i reati siano in calo. Nel 2013 ci fu il picco di 2 milioni e 900 mila denunce, record negativo del decennio, mentre a fine 2017 eravamo già scesi a 2 milioni e 360 mila. E allora, come mai si continua a soffiare sulle paure degli italiani? L’Osservatorio europeo sulla sicurezza ha appena fatto sapere che, mentre nel 2012 il 50 per cento dei nostri connazionali lamentava una “insicurezza legata alla criminalità”, questa era scesa al 46 per cento nel 2014, al 41 per cento nel 2016 ed è calata addirittura al 38 a gennaio di quest’anno, dato che ben pochi mezzi d’informazione hanno messo in risalto. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Direttori, graduati e redattori che animano i mezzi d’informazione, dovrebbero meditare su queste parole dell’illustre magistrato. Soprattutto i direttori, perché sono loro a dare la linea. Personalmente, non ho mai letto, visto o sentito un’apertura di giornale, di telegiornale o di giornale radio, o un articolo di fondo o quant’altro, che dicesse. “Calano i delitti: l’Italia è un Paese sicuro”. Non prendiamocela quindi sempre con i social, con le fake news e con Salvini. Migranti. Sea Watch, il giorno dell’interrogatorio del comandante di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 maggio 2019 I pm: “Il nostro lavoro è prendere i cattivi, neri o bianchi che siano”. I magistrati della Procura di Agrigento si lasciano scivolare addosso le accuse del ministro Salvini: “Abbiamo agito in stretto coordinamento con la polizia giudiziaria. Erano tutti informati, tutti - dice il procuratore aggiunto Salvatore Vella, titolare dell’inchiesta - Quello che sorprende è la reazione del ministro. Il nostro lavoro è prendere i cattivi, bianchi o neri che siano. Se, oltre ai trafficanti africani e libici, ne individueremo di europei abbiamo tutte le capacità, la forza e il coraggio di andare avanti. Ma questo clima di tensione, disancorato dalla conoscenza dei fatti, non aiuta”. Le indagini sul caso SeaWatch ripartono questa mattina al Palazzo di giustizia di Agrigento. Il comandante della nave Arturo Centore spiegherà come e dove ha salvato i 65 migranti presi a bordo e la rotta seguita fino all’Italia al procuratore aggiunto Salvatore Vella che ha iscritto il suo nome sul registro degli indagati per favoreggiamento all’immigrazione clandestina, il titolo di reato classico di ogni sbarco, ma non per la violazione della direttiva Salvini, cioè l’articolo del codice della navigazione che impone l’obbedienza ad un ordine impartito da una nave militare, in questo caso la motovedetta della Guardia di finanza che al suo arrivo al limite delle acque territoriali italiane notificò al comandante della Sea Watch la diffida ad entrare. L’interrogatorio di Arturo Centore avverrà alla presenza dei suoi avvocati Alessandro Gamberini e Leonardo Marini. Le indagini dei pm di Agrigento mirano, come sempre, anche all’individuazione di eventuali scafisti tra i 65 migranti a bordo. Accertamenti in particolare su due telefoni cellulari trovati ad uno degli immigrati. Uno sembra un satellitare e potrebbe essere quello fornito dai trafficanti per comunicare la posizione. Di solito questi telefoni vengono buttati via durante la traversata. Dal suo esame e dagli interrogatori degli altri migranti, tutti ospitati nell’hot spot di Lampedusa, potrebbero venire spunti interessanti. La nave resta nel porto di Licata sotto sequestro probatorio e non preventivo, dunque a disposizione della Procura per la ricerca e la valutazione della documentazione di bordo, compresi le registrazioni delle conversazioni con le sale operative della Guardia costiera. Migranti. Il caso Sea Watch i magistrati e il senso di scendere in piazza di Armando Spataro La Repubblica, 21 maggio 2019 Il procuratore di Agrigento non ha bisogno di essere difeso, conosce la solidarietà che il Paese consapevole gli riconosce. La decisione della procura di Agrigento di far sbarcare a Lampedusa i migranti rimasti a bordo della Sea Watch ha suscitato, da un lato, la prevedibile reazione del “Ministro di tutto” e, dall’altro, sentimenti di gratitudine verso la magistratura da parte di chi crede nel dovuto rispetto dei diritti fondamentali e nella separazione dei poteri in democrazia. L’incompatibilità tra queste opposte posizioni, però, è tale che occorre parlare e spiegare perché un ministro, qualora ipotizzi un reato nelle attività di soccorso in mare, non può, indipendentemente dal fondamento della sua opinione, disporre o richiedere il sequestro di una nave e impedire lo sbarco di migranti. Il sequestro in un processo penale, con quanto ne consegue, è atto giudiziario, compete solo ai pubblici ministeri e alla polizia giudiziaria che è da loro funzionalmente diretta. Ma secondo il ministro dell’Interno, anche in presenza del sequestro, i migranti non dovevano sbarcare. Al di là dei principi vigenti in materia, forse egli pensa che i migranti dovessero essere custoditi in un ufficio corpi di reato, anziché scendere a terra? Il procuratore di Agrigento, come ha reso noto, sta indagando sul reato di immigrazione clandestina e ne valuterà la sussistenza, ma tale doverosa attività non attenua in alcun modo, neppure nel caso di accertata responsabilità del comandante o dell’equipaggio della nave, il suo obbligo (non solo “suo” a dire il vero!) di tutelare i diritti delle persone e i loro beni fondamentali, fra i quali in primis la salute, l’integrità fisica e la dignità. Né attenua il suo dovere di interrompere ogni attività che possa apparire illegale, come già ritenuto dal Tribunale dei Ministri di Catania nel caso Diciotti. L’esecutivo, a sua volta, non può, in ragione di proprie opposte convinzioni e aspettative (rispetto alle quali la magistratura deve essere totalmente indifferente), intaccare il principio della separazione dei poteri costituzionalmente tutelato, addirittura ipotizzando condotte illegali della procura agrigentina (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). È facile in questa situazione individuare chi ha esorbitato dalle proprie competenze istituzionali, ma - in tempi di difficile partita di civiltà - bisogna “scendere in piazza”: un invito che non ha rapporto né con le bandiere di parte e con gli slogan a effetto né con la divisa di Zorro, ma solo con l’immagine luminosa della democrazia. Il procuratore di Agrigento non ha certo bisogno di essere difeso, né di essere applaudito nelle piazze. Egli ben conosce i sentimenti di solidarietà e rispetto che la parte consapevole del Paese gli dedica: non si è mai soli, infatti, quando si cammina in avanti, pensando e agendo con lucidità per il rispetto della legge e la difesa della dignità collettiva. Ma i “cittadini consapevoli” - come a me piace definirli - devono “scendere in piazza”, dovunque sia possibile, anche nelle scuole, nelle case e nei luoghi di lavoro, dando luogo a una contro-narrazione pacata e chiara che, opponendosi alle logiche elettorali, serva a far comprendere a tutti, da un lato, che è giusto invocare l’intervento dell’Europa per rendere effettivi e operanti gli accordi sovranazionali esistenti in tema di accoglienza dei migranti e così vincere le inadempienze di altri governi e, dall’altro, che questo obiettivo non si può raggiungere né violando gli obblighi che in materia gravano anche sull’Italia, né con atteggiamenti polemici nei confronti dell’Europa. Serve guadagnare autorità e credibilità, dimostrando la propria irrinunciabile fedeltà agli obblighi internazionali e ancor prima ai principi affermati nella Costituzione italiana. Migranti. Caso Sea Watch, chi salva il nostro onore di Luigi Manconi La Repubblica, 21 maggio 2019 Il soccorso in mare costituisce il fondamento stesso del sistema universale dei diritti umani. La portavoce italiana di Sea Watch è Giorgia Linardi (quella ragazza bionda che appare talvolta in televisione). Non ancora ventinovenne, è nata a Como e ha lavorato presso l’Alto commissariato per i rifugiati e per Medici senza frontiere. Uno dei comandanti delle imbarcazioni di Open Arms è un giovane uomo, Riccardo Gatti di Calolziocorte (Lecco), in passato operatore in una comunità per minori. Colti, conoscono le lingue e sono curiosi del mondo e degli esseri umani: dalla provincia italiana ai mari tra Europa e Africa il passo può essere brevissimo. Nati negli anni in cui i muri dell’Europa venivano abbattuti, faticano ad accettare - come milioni di loro coetanei - che le frontiere risultino aperte alle merci e ai capitali e non a chi fugge da guerre e miserie, da conflitti tribali e persecuzioni etniche, religiose, politiche e sessuali. In genere, non c’è in loro alcun tratto eroicistico né una postura profetica e predicatoria. Ritengono, piuttosto, che salvare vite umane sia un obbligo razionale che in questo momento assolvono e che non li rende migliori degli altri. Appartengono alla generazione dei “giovani contemporanei”, secondo la definizione evocata dalla madre di Giulio Regeni. Tra loro, la gran parte di quanti agiscono come volontari, operatori e attivisti dei diritti umani non esprime iattanza e tantomeno velleità superomistiche. E questo li rende schivi e riottosi, a eccezione di qualche leader particolarmente narcisista, così prossimi a noi, sostituibili e alla portata di chi volesse svolgere quel lavoro per un periodo determinato della propria vita. Qualcosa già hanno ottenuto (come, peraltro, l’Ong italiana Mediterranea). Si è dimostrato inequivocabilmente che i porti italiani - è fin troppo ovvio - sono aperti. Chi continua a negarlo, come il ministro dell’Interno, lo fa per convincere se stesso e i propri cari. Insomma, anche il tonitruante Capitano rivela una sindrome da insicurezza. E sono aperti, quei porti, innanzitutto per una ragione: non esiste un solo atto formale del Consiglio dei ministri, un decreto o un provvedimento scritto che abbia disposto quella chiusura. E se pure esistesse tale misura, sarebbe destinata a decadere, perché in conflitto oltre che con l’articolo 10 della nostra Costituzione, con tutti, ma proprio tutti, gli obblighi internazionali fissati dalla Convenzione di Ginevra per i Rifugiati e da quella sulla Salvaguardia della vita umana, da quella sul Diritto del mare e dalla Sar. E, ancora, si è dimostrato che, per ricorrere a un’immagine abusata, “esiste un giudice a Berlino”, come (prima di Bertolt Brecht) ha raccontato Enrico Broglio in un’opera del 1880. Qui non siamo in Germania, ma ad Agrigento e il magistrato che compie il suo dovere è un pubblico ministero. Certo, tra la Prussia di Federico il Grande e l’Italia attuale corrono due secoli e mezzo e la distanza sotto tutti i profili è vertiginosa, eppure una qualche affinità c’è: l’iniziativa del procuratore Patronaggio appare rara e fin solitaria. Almeno rispetto all’orientamento della grande maggioranza della classe politica, di una parte significativa dell’opinione pubblica e di molti magistrati. Per questo va apprezzata: perché risulta, a un tempo, rispettosissima delle norme e autonoma nei confronti della mentalità dominante. Ed è forse giusto che sia così. Tuttavia, va ribadito, il soccorso in mare costituisce il fondamento stesso del sistema universale dei diritti umani. Ovvero la base su cui si fonda il principio di reciprocità che, a sua volta, sostanzia il legame sociale e dà vita al consorzio umano. Per questa ragione insidiare il diritto-dovere di soccorso rappresenta un attentato alla civiltà giuridica. Eppure (ecco ancora quella sensazione di solitudine) sembra che quel valore essenziale così alto e al contempo così tragicamente concreto - una questione di vita o di morte - interessi solo esigue minoranze. Ne consegue che, a farsi carico di quella responsabilità tanto onerosa, sembrano rimasti solo il mestiere del soccorso (“la legge del mare”) e quanti lo praticano, guardia costiera e navi mercantili e militari comprese. Sono solo questi, ed è disperante, a salvare l’onore di un’Europa torpida e codarda. L’erba legale si potrà vendere? Lo decideranno i giudici, non la politica di Nadia Ferrigo La Stampa, 21 maggio 2019 Il 30 maggio le Sezioni Unite della Cassazione decideranno se la cannabis light si potrà comprare oppure no. E potrebbe anche aprirsi la strada a un nuovo monopolio di Stato. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini sbotta e minaccia. Ma a decidere sul destino della canapa legale non sarà la politica: sarà una sentenza della Corte di Cassazione. La data è il 30 maggio. I fiori “light” - cioè con una bassa percentuale di Thc - si possono vendere anche per essere fumati oppure no? A norma di legge, la risposta è “nì”. Così, in attesa della decisione delle Sezioni Unite, anche il questore di Macerata Antonio Pignataro - che da tempo ha dichiarato guerra agli smart shop - ha congelato i sequestri disposti nei mesi scorsi dei negozi e dei prodotti a base di cannabis light. Ma come siamo arrivati a questo punto? E su cosa deve decidere la Corte? Il dilemma non riguarda solo il destino degli oltre 10mila smart shop in Italia. Quello della canapa - povera di Thc, ma ricca di Cbd - e dei suoi derivati è un mercato in piena espansione, con un volume d’affari di circa 150 milioni di euro e 10mila nuovi posti di lavoro, tra negozianti, agricoltori e marchi nati per la commercializzazione. L’Italia negli anni Cinquanta era uno dei più grandi produttori al mondo. In nemmeno tre anni sono stati rimessi a coltivazione più di 3mila ettari. Decuplicati. Riusciremo mai a riconquistare se non il primato, almeno un ruolo di primo piano nella produzione e nel commercio dell’oro verde? Bisogna decidere se vale anche per i commercianti la “soglia di tolleranza” - Esempio semplice. Ricordate quando in Svizzera l’erba era venduta come deodorante per gli armadi? La situazione italiana è più o meno la stessa, ma più complicata. Andiamo con ordine. La canapa industriale, che proviene da varietà certificate iscritte nei registri comunitari e con valori di Thc che possono arrivare fino allo 0,6, non è una sostanza stupefacente, ma una pianta industriale e un prodotto agricolo. E infatti si coltiva da sempre, come spiegano bene i soci di AssoCanapa, una delle prime e più note realtà associative del settore nata a Carmagnola, provincia di Torino, più di vent’anni fa. Secondo la legge - dal 2016 è stata legalizzata la vendita dei prodotti ricavati della canapa con un Thc inferiore allo 0,2 - le infiorescenze di canapa agricola possono essere vendute. Non è semplice coltivare una canapa che sia sempre e rigorosamente sotto lo 0,2, e per gli agricoltori - su cui la guardia di finanza fa dei controlli a campione con cadenza regolare - c’è una soglia di tolleranza che oscilla fino allo 0,6. Questa tolleranza si può applicare anche ai commercianti oppure a chi vende va applicata la disciplina del testo unico sulle sostanze stupefacenti? È un film già visto, spiegato bene da una circolare del ministero dell’Interno dello scorso settembre: se la canapa non rispetta il limite dello 0,2 per cento di Thc oppure non rientra nelle 64 varietà definite “industriali” dal catalogo europeo, va trattata come una sostanza stupefacente. Le conseguenze sono denuncia a piede libero per il titolare del negozio, sequestro dei prodotti e segnalazione dei consumatori al prefetto. A oggi diverse Sezioni della Cassazione hanno dato diversi orientamenti, ed ecco perché la Corte si pronuncerà a Sezioni Unite. Non c’è una destinazione d’uso valida, e questo è un altro problema - Ma dove sta scritto che possano essere anche fumate? Da nessuna parte, e questo è parte del problema. La destinazione d’uso - e qui siamo nel campo del diritto amministrativo - va indicata su ogni prodotto. Sulle etichette si parla di “uso tecnico” e “non atto alla combustione”. Spesso se ne danno definizioni fantasiose come “finalità di ricerca e sviluppo”. E i tanti “È una piantina ornamentale” e “Io la vendo, ma il cliente potrebbe non fumarla” sono “scuse” che non reggono. Soprattutto se le infiorescenze si trovano - come sempre più spesso capita - in un negozio strapieno di grinder, cartine e dentro a bustine con immagini di cannoni fumanti. Il problema poi si ripropone anche per altri derivati della cannabis, come gli alimenti o i cosmetici. Diversi esponenti del settore da tempo propongono di inserire la definizione “uso umano”. Se n’è parlato per la prima volta in una circolare del ministero dell’Interno destinata a questori, forze dell’ordine e prefetti, ed è legittimo chiedersi se non verrà usata dalla Corte il prossimo 30 maggio. Il Governo gialloverde non potrebbe essere più diviso - Il governo gialloverde è spaccato a metà. Lo scorso 22 giugno il ministro della Salute Giulia Grillo commentò su La Stampa il parere - negativo - del Consiglio superiore di Sanità sulla cannabis light, rassicurando i commercianti: “Non ci sarà la chiusura dei canapa shop, casomai una loro regolamentazione”. Ma il ministro dell’Interno e leader della Lega Matteo Salvini ha detto che “chiuderà i negozi uno a uno” ed è “pronto a far cadere il governo se non sarà così”. Dichiarazioni a parte, la politica che fa? Detto semplice, se ne lava le mani e aspetta la decisione dei giudici. Lo scorso 5 febbraio sono iniziate le audizioni davanti alle commissioni riunite Agricoltura e Affari Sociali della Camera sulla questione cannabis light. L’obiettivo è - o sarebbe meglio dire, era - approvare una raccomandazione al Governo per specificare e definire il fenomeno legato alle infiorescenze di canapa agricola. Ma si sono tenute solo due sedute - il 5 e il 26 febbraio, con i rappresentati di AssoCanapa, FederCanapa, Canapa Sativa Italia, Crea, Stabilimento farmaceutico di FI, Cia, Istituto Mario Negri e un comandante dei carabinieri dei Nas - ma poi tutto si è fermato. Si deciderà per il monopolio di Stato come per la cannabis terapeutica? - Sulla canapa non c’è, o meglio non c’è del tutto, il monopolio di Stato. Se si parla infatti non di cannabis light, ma di cannabis terapeutica, cioè con alti quantitativi di Thc e da usare con una prescrizione medica, l’unico autorizzato a produrla è proprio lo Stato. E questo è un problema, perché a più di dieci anni dalla legge che consente alle farmacie di vendere cannabis a uso terapeutico, migliaia di pazienti sono costretti nella migliore delle ipotesi a infiniti e costosi pellegrinaggi per trovare i farmaci, nella peggiore a interrompere le terapie. La Fm2, coltivata dall’esercito a Firenze, non basta per tutti i pazienti. Lo scorso anno il ministero della Difesa ha pubblicato un bando per acquistarne all’estero 100 chili, per una spesa di circa 600 mila euro. Di più, la legislazione è molto diversa da Regione a Regione: alcune rimborsano le terapie altre invece no. Una delle possibilità, un pochino più complicata da mettere in atto ma abbastanza coerente con il sistema ora in uso, sarebbe quella di estendere il monopolio anche alla light. Che potrebbe garantire un’entrata in più alle casse - per definizione malmesse - dello Stato. Le mogli (e i bimbi) del Daesh. L’Olanda cerca una soluzione di Maria Cristina Giongo Avvenire, 21 maggio 2019 I Paesi Bassi hanno deciso di aiutare le donne olandesi radicalizzate che si trovano attualmente nei campi di detenzione nelle zone liberate dallo Stato islamico, al nord della Siria, a rientrare in patria. Hanno deciso di aiutare loro e, soprattutto, i loro bambini. Il rischio è che queste donne finiscano in Iraq, dove potrebbero essere condannate alla pena di morte - vigente in quel Paese - come è accaduto, in passato, per parecchie di loro, straniere, rinchiuse nel carcere femminile di Baghdad dopo un processo lampo con l’accusa di aver sostenuto il terrorismo. Secondo i dati del Servizi di sicurezza olandesi (Aivd) si tratta di 35 donne e 85 bambini. Tre quarti di questi bimbi sono nati in zone di guerra, quindi la maggior parte ha meno di 4 anni. Negli ultimi mesi nei campi sono stati ammassati migliaia di donne e bambini provenienti da varie zone d’Europa oltre che dall’Iraq e dall’Asia. Le loro condizioni sono drammatiche: tutti i giorni si verificano liti violente e continuamente subiscono aggressioni da parte di fanatici che credono ancora nell’ideologia jihadista. Nel mirino ci sono soprattutto le donne che vogliono tornare a casa. E i più colpiti sono proprio i loro bambini, come hanno denunciato le organizzazioni umanitarie. Bambini che hanno già sofferto tanto durante la guerra, che sono stati usati come schiavi dal Daesh, che sono stati indottrinati, abbandonati, traumatizzati. i curdi, che controllano la zona, non riescono a gestire il caos che si è creato. Vogliono solo liberarsi di questa gente. Il più in fretta possibile. Per questo le organizzazioni americane e le agenzie Onu hanno lanciato un appello ai Paesi Europei affinché “si riprendano i loro jihadisti”. Kosovo, Russia e Indonesia l’hanno già fatto (in parte). Il governo olandese sta cercando soluzioni, “fermo restando il principio che queste donne hanno scelto volontariamente di lasciare il Paese per combattere con l’Isis”. L’idea è che queste donne con i loro bimbi raggiungano in qualche modo il consolato olandese in Turchia o nella città di Erbil, in Iraq, chiedendo protezione. Dopo di che saranno poste sotto la tutela del corpo di polizia militare (che si chiama “marechaussee”) e accompagnate nei Paesi Bassi. Il Ministro della Giustizia Ferdinand Grapperhaus ha spiegato di comprendere le reazioni di alcuni cittadini preoccupati per il fatto che vengano di nuovo introdotti nel loro Paese donne che hanno un recente passato di terrorismo, o quantomeno di contiguità con il terrorismo, e ragazzini cresciuti sotto l’egida del terrorismo, “ma non si può certo ignorare la loro esistenza - ha detto - e permettere che questi bambini patiscano nuove sofferenze”. La maggior parte dei genitori e parenti di queste donne appoggiano in pieno la decisione del governo. Come ha sottolineato un padre in un’intervista al quotidiano AD, raccontando che sono passati cinque anni da quando sua figlia decise di partire per la Siria per lottare a fianco del Daesh, portandosi appresso i bambini. Questo genitore ha spiegato di capire perfettamente che la figlia dovrà subire un processo, e scontare una lunga pena in carcere, ma almeno, ha detto, lui potrà starle vicino, potrà occuparsi dei nipoti. E seguirli in un percorso di riabilitazione. Lontano dall’orrore di cui sono stati vittima così tante volte. La grana dei “prigionieri politici” irrompe nel nuovo parlamento spagnolo di Luca Tancredi Barone Corriere della Sera, 21 maggio 2019 Oggi la prima seduta. I presidenti di camera e senato dovranno esprimersi sui cinque indipendentisti in carcere. La decisione peserà sui futuri accordi del governo Sánchez. Si riunisce oggi per la prima volta il parlamento uscito dalle elezioni del mese scorso. Ma non è una formalità come tante altre. La nuova stagione politica si apre con delle grandi novità e molte incognite. La prima grande novità è che la nuova presidenza delle due camere dovrà affrontare un enorme scoglio politico e giuridico. Ci sono ben 4 deputati eletti e un senatore che sono in carcere preventivo: i cinque sono tutti indipendentisti (di Esquerra Republicana e di Junts per Catalunya, il partito di Puigdemont) e sono attualmente sotto processo accusati di reati molto gravi come la ribellione. Un processo che continua ormai da molte settimane e che non finirà prima dell’autunno, e che genera molta tensione soprattutto in Catalogna. Il giudice Marchena ha concesso ai politici di accreditarsi (ieri) e di partecipare alla prima seduta del parlamento, oggi, consentendo loro di votare il presidente e gli altri 8 membri della presidenza. Ma ha esplicitamente delegato alla nuova presidenza delle due camere la decisione sul loro futuro. Vale la pena ricordare che tutti e cinque vennero sospesi dalle loro funzioni come deputati del parlamento catalano (di cui erano membri a pieno diritto) dal giudice per le indagini preliminari in virtù di una controversa legge pensata per i reati di terrorismo. Ma alla Camera e al Senato il procedimento è diverso, e va chiesta un’autorizzazione a procedere prima di sospenderli (come prevede il Regolamento nel caso di carcere). Il tribunale supremo ritiene che l’autorizzazione non è necessaria perché l’incarceramento era già in corso, ma sarà su questo punto che ci sarà battaglia, e la decisione dei presidenti delle nuove Camere sarà certamente letta in chiave elettorale (per domenica) ma soprattutto in funzione dei futuri accordi (l’astensione degli indipendentisti sarebbe sufficiente a Sánchez per superare l’investitura). I nuovi presidenti saranno entrambi del partito socialista catalano: la deputata Meritxell Batet (attuale ministra) e il senatore filosofo indipendente Manuel Cruz, entrambi federalisti convinti. Entrambi, da deputati, furono tra i pochi (con lo stesso Sánchez) a rompere la disciplina di voto imposta dal partito e votarono no all’investitura di Rajoy invece di astenersi; Batet, in più, anni fa aveva sfidato il proprio partito anche per votare a favore del diritto di autodeterminazione, posizione oggi scomparsa dal programma dei socialisti catalani. L’ultimo presidente catalano del senato (molto diverso da quello di oggi) fu eletto nel 1872, poco prima dell’istaurazione della prima repubblica spagnola (dopo l’abdicazione di Amedeo di Savoia). Un catalano federalista alla presidenza della camera territoriale, come dovrebbe essere il senato spagnolo, sembra proprio un segnale promettente. Ma il problema (ecco la seconda anomalia) è che Cruz è solo la seconda scelta di Sánchez: Miquel Iceta, segretario dei socialisti catalani, doveva essere eletto senatore dal parlamento catalano (oltre ai 204 senatori eletti direttamente, ogni comunità ne elegge un numero in proporzione alla popolazione). La prassi è che riflettano la proporzione che ciascun partito ha ottenuto in quella regione, e ciascun partito sceglie autonomamente i propri. Per la prima volta però gli indipendentisti catalani giovedì scorso hanno fatto saltare il tavolo e hanno bloccato la nomina di Iceta, un nome odiato in egual modo sia dagli indipendentisti, sia da Pp e Ciudadanos, impedendogli di essere eletto presidente. Uno sgambetto inaspettato, spia di relazioni ancora molto tese fra indipendentisti e socialisti. Per ora l’unico segnale chiaro è quello dell’elezione della presidenza del Congresso, che avrà maggioranza di sinistra (nel precedente Congresso la maggioranza Pp-Ciudadanos aveva bloccato tutte le iniziative legislative di socialisti e Podemos). Ai socialisti toccano 3 posti (con la presidenza), 2 a Podemos (una sarà la vicepresidente, Gloria Elizo, e uno andrà a Gerardo Pisarello, vice di Colau: anche questo un segnale), e due ciascuno a Pp e Ciudadanos. Il voto sarà segreto, ma a meno di patti sotto banco nelle file della destra, a Vox non dovrebbe toccare nessun posto. Al senato, dove i socialisti hanno maggioranza assoluta, è più semplice essere generosi: i socialisti cedono due dei cinque posti a cui avevano diritto, uno al Pp e uno ai nazionalisti baschi del Pnv “per evitare situazioni di blocco come nella scorsa legislatura” a maggioranza popolare. Per cui ci saranno 3 posti per i socialisti (inclusa la presidenza), tre per il Pp e uno per il Pnv. Rivolta Isis nel carcere, bagno di sangue in Tajikistan di Yurii Colombo Il Manifesto, 21 maggio 2019 Sono 29 tra i prigionieri e 3 tra le guardie le vittime della rivolta avvenuta in Tajikistan nel carcere di Vahdat, a 10 km dalla capitale Dushambé. Secondo quanto riportato dalla Tass la strage sarebbe stata la conseguenza del tentativo “di evasione di alcuni militanti dell’Isis che con rudimentali coltelli avrebbero rapito alcuni secondini”. Non si tratta del primo caso di questo genere: lo scorso novembre una rivolta nel carcere di Chudjande si concluse con l’uccisione di 13 guerriglieri mentre a ottobre una sommossa guidata sempre da ex-Isis si era conclusa con la morte di 25 detenuti. Negli anni 90 il paese centroasiatico era stato teatro di una sanguinosa guerra civile tra le forze del Partito della rinascita islamica e quelle del governo guidato dal Partito democratico di Rahmon che aveva provocato decine di migliaia di morti e oltre un milione di profughi tra la popolazione civile. Il fondamentalismo islamico è comunque restato attivo nel paese anche negli anni recenti e ha fornito molti foreign fighers allo Stato islamico in Iraq, Afghanistan e Siria. Recentemente la situazione si è complicata perché molti tajiki ex-Isis sbandati hanno raggiunto le fila del “Battaglione internazionale Sheikh Mansur”, un gruppo armato volontario del fondamentalismo islamico che partecipa al conflitto armato nel Donbass a fianco delle forze di sicurezza ucraine. Per questo motivo parte dei detenuti tajiki proverrebbero dall’Europa e sarebbero stati estradati recentemente dalla Bielorussia e dalla Russia dove stavano cercando di organizzare cellule terroristiche pronte ad attivarsi nelle grandi città russe. Rahmon, in precedenza dirigente comunista, guida uno dei paesi più poveri del mondo (164° nel rating mondiale per Pil procapite) con il pugno di ferro sin dalla sua indipendenza dall’Urss nel 1991, mentre mantiene ottime relazioni con la Federazione Russa di Putin dove vive e lavora il 12% della sua popolazione totale, oltre un milione di migranti. Il Tajikistan è sotto costante osservazione da parte delle organizzazioni per i diritti umani. Secondo Amnesty International gli avvocati dei prigionieri politici sono costantemente perseguitati, le ultime elezioni non hanno garantito i minimi standard di libertà di voto e le libertà sindacali oltre che i diritti umani sono inesistenti.