L’imbarazzo di Conte che rallenta l’iter del decreto sicurezza di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 20 maggio 2019 Il decreto sicurezza bis può attendere. Matteo Salvini ha fretta di impugnare un’altra arma legislativa contro “scafisti, camorristi, spacciatori e teppisti da stadio”, ma l’energica moral suasion del Quirinale e la forte preoccupazione dell’Onu frenano l’iter del provvedimento. “Non vedo l’ora che diventi realtà”, spronava domenica Salvini, mentre il premier Giuseppe Conte cercava una soluzione al rebus del Consiglio dei ministri. A sera la riunione attesa da dodici giorni e prevista per oggi non era stata ancora convocata, tanto che in tv Salvini forzava la mano: “A me risulta di sì”. Il premier, che si è arrovellato per giorni per sminare il vertice, è stato fino all’ultimo tentato di rinviare tutto. Finché alle dieci di sera ha dato il via libera alla convocazione più sofferta del suo mandato. In vista della bufera post-voto, che potrebbe travolgerlo, Conte punta a muoversi in sintonia con il Colle e avrebbe volentieri tolto di mezzo il decreto-bandiera della Lega, senza nemmeno appoggiare i faldoni sul tavolo. Ma Salvini non gradisce altri “rallentamenti da campagna elettorale”, ha fretta di “andare a lavorare” al Viminale e ha spronato pubblicamente Conte ribadendo che “il decreto è pronto”. Un assaggio della sua ira, se il Cdm fosse stato rinviato. E così l’avvocato pugliese si è rassegnato a presiedere un Consiglio che a Palazzo Chigi chiamano “light”, o “vuoto”. La riunione avrà all’ordine del giorno le nomine e un disegno di legge sui magistrati onorari: un testo che sa di mancia elettorale perché, dopo svariate proroghe, mantiene in servizio i giudici di pace fino a 68 anni. Quanto ai due decreti che spaccano il governo, sicurezza e Famiglia, Conte ha deciso di portarli in Cdm per un “esame preliminare”. Un passaggio formale che consenta a Salvini e Di Maio gli ultimi spot elettorali, mentre il voto sui provvedimenti slitterà a dopo il 26 maggio. La seduta potrebbe avvenire in due tempi. Nel primo pomeriggio, se il braccio di ferro sulle nomine e sul riordino del Mef si placa, la ratifica di Biagio Mazzotta alla Ragioneria generale dello Stato e di Giuseppe Zafarana al vertice delle Fiamme Gialle, sempre che il generale piacentino riuscirà a spuntarla su Edoardo Valente. Alle 20, poi, l’esame lampo dei decreti. Luigi Di Maio, nella tempesta istituzionale sulla nave Sea Watch, ha fatto a pezzi il testo con cui Salvini vuole punire chi porta in Italia migranti irregolari. Finché le diplomazie incrociate dei due partiti hanno trovato una mezza intesa e il capo politico del M5S ha fatto sapere che “non ci piace, ma non ci opporremo”. In cambio il ministro del Lavoro ottiene che la Lega non ostacoli gli aiuti alla Famiglia, anche se il Quirinale non vuole un altro decreto di cui non vede l’urgenza. Conte intanto ha annullato la missione in Ucraina e oggi sarà nella più vicina Umbria, in visita a sorpresa nelle zone terremotate. Il premier prova a tenersi al riparo dalla rissa perpetua tra i due leader, non vuole farsi tirare nella mischia e aspetta il responso delle urne, fiducioso che il 27 maggio il governo sarà ancora in piedi. Se la Lega vincerà senza trionfare e il M5S resterà sopra al 20%, è il ragionamento condiviso con i collaboratori, la nave dell’esecutivo riprenderà il viaggio. “Con un risultato equilibrato Salvini non potrà battere cassa - è l’avviso dei pentastellati che frequentano Palazzo Chigi - In Parlamento abbiamo la maggioranza e chiedere un rimpasto sarebbe una forzatura”. La campagna del M5S per stoppare le ambizioni del “Capitano” è pronta: “Davvero la Lega farebbe cadere il governo per le poltrone?”. Se per restare in piedi ci fosse in gioco un sottosegretario o poco più, i 5 Stelle non si metterebbero di traverso. Ma guai se a Salvini, forte del consenso di elezioni europee e non politiche, venisse la tentazione di ribaltare il tavolo. “Si assumerebbe la responsabilità di far cadere il governo”, va ripetendo Conte. Per i 5 Stelle il ministro dell’Interno “infiamma lo scontro, attacca la magistratura, scatena fischi contro il Papa, provoca Conte...”. Ma ultimamente, raccontano, “qualche frizione” si avverte anche tra Di Maio e il premier. Perché il dl Sicurezza-bis non può essere approvato di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2019 Dalle multe a chi soccorre in mare alle pene severe per i cortei vietati: le obiezioni dei giuristi di ministeri e Colle. Il problema del decreto Sicurezza bis redatto dagli uffici di Matteo Salvini è che non è correggibile, non può essere riscritto in modo da risultare conforme alla Costituzione: quel che il vicepremier leghista pretende di imporre per legge semplicemente non si può fare. Non è solo il convincimento del Fatto alla lettura della bozza entrata nel pre-consiglio dei ministri alla fine della settimana scorsa, ma pure l’opinione che s’è andata formando tra i giuristi del governo (da Palazzo Chigi ai ministeri) e - per ora informalmente - del Colle. Il testo, molto snello (12 articoli), è una sorta di compendio delle ossessioni di Salvini: reprimere l’immigrazione irregolare e il conflitto sociale. Obiettivi, se non condivisibili, politicamente legittimi, che però non possono essere perseguiti in modo da confliggere con Carta e leggi vigenti, cioè a danno dei diritti di cittadini italiani ed esseri umani in genere. In attesa di sapere se il dl andrà in Consiglio dei ministri oggi, quello che segue è un breve riassunto delle proposte di Salvini e della loro debolezza tecnica, che a sua volta sottende la loro inaccettabilità etica e politica. La bozza del decreto parte con la creazione di un nuovo illecito amministrativo: una multa da 3.500 a 5.500 euro per ogni migrante irregolare salvato in acque internazionali e portato in Italia se non si è esplicitamente autorizzati. Un modo per colpire le navi delle Ong che avrà come primo effetto, fosse approvato, di far sì che pescherecci e mercantili lascino affogare i naufraghi per non avere guai. Qui ci sono vari problemi: il testo è generico (“migranti” in senso tecnico-giuridico non vuol dire nulla) e non è chiaro nemmeno se la previsione riguardi solo le navi italiane o anche le altre e, in questo caso, come si possa far multe a barche straniere per fatti commessi fuori dall’Italia. In generale, peraltro, se l’operazione è di “soccorso”(il termine usato nel decreto) integra lo “stato di necessità”, il che (per legge) esclude la sanzione. Senza contare che il testo confligge in maniera irragionevole col Testo unico sull’immigrazione che già punisce “il trasporto di stranieri in posizione irregolare”. I profili di incostituzionalità sono plurimi: il più evidente è che la multa è elevata per non aver obbedito all’ordine di un’autorità amministrativa, anche se quello confligge con fonti sovraordinate com’è, ad esempio, la Convenzione Onu sul diritto del mare (che prevede l’obbligo di salvare chiunque sia in difficoltà e di sbarcarlo in un porto sicuro). Un’altra previsione del decreto è che il ministero dell’Interno (cioè Salvini) abbia potestà anche sulle acque territoriali e i porti quando il passaggio di una nave sia considerato pregiudizievole per la sicurezza dello Stato. Il punto è sottrarre potere alle Infrastrutture (Toninelli) e “chiudere i porti” definitivamente: come dimostra il caso della nave Diciotti, però, anche chiudere - o far finta di chiudere - un porto non può avvenire ignorando le leggi e il diritto internazionale. L’invasione di campo del leader leghista coinvolge anche il ministero della Giustizia: una norma prevede che Salvini nomini un commissario straordinario che assuma 800 persone per un anno per smaltire “l’arretrato relativo ai procedimenti di esecuzione delle sentenze definitive”. Il commissario di Salvini, per capirci, interverrà sull’organizzazione della giustizia: una bestemmia. La norma è pomposamente definita “spazza-clan”. In materia di ordine pubblico Salvini compie il miracolo di modificare in senso più restrittivo la legge Reale e persino il codice Rocco. Nel tentativo di reprimere il dissenso di piazza e il conflitto sociale (tentativo già iniziato da Marco Minniti e proseguito col decreto sicurezza del 2018), il testo trasforma una serie di comportamenti finora puniti come contravvenzione in delitti: nel testo salviniano volano fino a 12 mesi di galera pure per i promotori di cortei in cui qualcuno compia i reati di devastazione e danneggiamento o per chi partecipa a un corteo non autorizzato. Di più: si arriva al paradosso che diventa “delitto” usare caschi o altri mezzi per non farsi riconoscere, ma solo durante una manifestazione: se succede altrove resta contravvenzione. Un altro articolo esclude a priori - Dio solo sa perché - il fatto che i reati di violenza, minaccia o oltraggio a pubblico ufficiale possano essere “non punibili per la lieve entità del fatto”: come dicono i tecnici, viola “il principio di eguaglianza-ragionevolezza” e, soprattutto, si rischiano 36 mesi per aver detto “sciocchino” a un poliziotto. Il paradosso finale riguarda due “nuovi” reati: non solo il lancio di “cose, razzi, bengala (...)”e tutto quel che si può lanciare costerà fino a 3 anni di carcere, ma persino chi “utilizza scudi o altri oggetti protezione passiva” per fermare o ostacolare un pubblico ufficiale. In sostanza, non sarà più possibile fare un sit-in o bloccare uno sgombero tentando di proteggersi dalle manganellate: sempre che qualcuno riesca a spiegare in tribunale il “principio di offensività” di un tentativo di difesa. Decreto sicurezza-bis. Antigone scrive a Conte Ristretti Orizzonti, 20 maggio 2019 “Preoccupati per l’ulteriore compressione dei diritti. Il Premier lo blocchi”. “Il sistema giuridico e i diritti, per loro intrinseca natura, non possono essere continuamente intaccati sulla base di presunte ed indimostrate emergenze criminali e sociali”. È quanto si legge nella lettera che l’associazione Antigone ha indirizzato al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, per richiamare l’attenzione sull’ulteriore compressione dei diritti e delle garanzie che il decreto sicurezza-bis, che domani sarà discusso in Consiglio dei Ministri, potrebbe produrre nell’ordinamento italiano. Diversi sono i motivi di preoccupazione che Antigone ha riscontrato nel testo del decreto. Innanzitutto riguardo al ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza. “Più volte - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - abbiamo sentito il ministro degli Interni vantarsi pubblicamente della riduzione del numero di flussi di migranti o del calo degli indici di delittuosità. Questo fa cadere la straordinarietà ed urgenza che giustifichi l’adozione di un decreto-legge che va ad intervenire su quei terreni”. Ad essere evidenziato inoltre è come il decreto difetti di omogeneità, un criterio che la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario per affermare la legittimità della decretazione di urgenza. Nel decreto in esame si giustappongono norme contrarie al senso di umanità in materia di immigrazione, norme in materia penale che criminalizzano il dissenso, norme che cambiano l’organizzazione interna allo Stato, norme che sottraggono competenze ai ministeri della Giustizia e dei Trasporti per affidarle pretestuosamente e pericolosamente al ministero dell’Interno, norme che riguardano le prossime Universiadi. Disomogeneità che mettono a rischio la costituzionalità del decreto, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali, ed in particolare della sentenza n.32 del 2014. “La norma che modifica il Testo Unico sull’immigrazione introducendo l’illecito amministrativo del trasporto irregolare di migranti in acque internazionali, introducendo una multa elevata per ogni vita salvata, evoca momenti bui della storia novecentesca - scrive il Presidente di Antigone nella lettera indirizzata al Premier. L’attribuzione di competenze al ministero dell’Interno, anziché al Ministero delle Infrastrutture e trasporti, del potere di limitare o vietare il transito o la sosta di imbarcazioni determina una degenerazione di tutto ciò che accade nello spazio marittimo in questione di ordine pubblico. La criminalizzazione della solidarietà, che fino a oggi ha visto naufragare qualsiasi inchiesta penale, non avrà adesso bisogno di indagini ma sarà agibile senza alcun controllo giurisdizionale”. “Le norme in materia di manifestazioni pubbliche - si legge ancora nella lettera - che prevedono aumenti di pena o nuove circostanze aggravanti, andando addirittura a irrigidire il testo unico di Polizia del 1931 di epoca fascista, costituiscono una forma di criminalizzazione del dissenso che non è giustificabile con la necessità di garantire manifestazioni pacifiche. Prevedere che l’organizzatore di una riunione, seppur non autorizzata, risponda di danneggiamenti o saccheggi operati da altri, contraddice il principio costituzionale della responsabilità penale personale”. A preoccupare molto Antigone è infine l’istituzione di un Commissario governativo che si sostituisca alla magistratura nel potere di decidere l’ordine da attribuire alla esecuzione di sentenze penali. “Questa disposizione - si sottolinea ancora nella lettera - significa minare alla radice quella separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. È pericolosissimo prevedere che possa essere l’autorità governativa a poter operare una selezione nei reati da perseguire effettivamente”. “In una recente pubblicazione in onore di Guido Alpa, il Premier Conte ha scritto come il criterio ultimo e determinante di ogni ricerca giuridica, e dunque della stessa produzione normativa, non può non essere ‘la centralità della persona’. Un rispetto dell’altro che il decreto in questione mette fortemente in discussione e che per questo ci auguriamo il Presidente del Consiglio bloccherà” conclude Patrizio Gonnella. Prescrizione, la vera ipoteca sui giallo-verdi di Carlo Nordio Il Mattino, 20 maggio 2019 Georges Clemenceau, nella sua geniale brutalità, diceva che non si raccontano mai tante frottole come dopo la caccia e prima delle elezioni. Ora noi non sappiamo se le contumelie e le accuse che quotidianamente si scambiano i due alleati di governo rappresentino finta commedia per raccattare voti o reale conflitto destinato a sfociare in una crisi. Sappiamo però che mentre vi sono argomenti sui quali le parti possono arrivare a una transazione (aliquid datum aliquid retentum, direbbero i civilisti), su altre non è possibile trovare compromessi e tantomeno pasticciare. O si fa una cosa, o si fa il suo opposto: tertium non datur. E ora che abbiamo chiuso con il latinorum contrattuale vediamo il problema: che si chiama, tanto per cambiare, giustizia. Che i due contraenti abbiano idee diverse è ormai noto. Tuttavia, benché la Lega abbia lontane origini forcaiole - molti ricorderanno il cappio esibito in Parlamento durante tangentopoli - si deve ammettere che si è evoluta in senso liberale. Mantiene ancora, è vero, una sorta di feticistica tendenza alla creazione di nuovi reati, all’inasprimento delle pene e all’enfatizzazione della galera. Nondimeno l’evoluzione di Salvini verso un processo più garantista si è manifestata in alcune sue pronunce recenti. Queste ultime riguardano la riaffermazione di presunzione di innocenza, la revisione delle intercettazioni, la separazione delle carriere, e più in generale la riforma del processo penale. E questo è il punto più importante: perché a questa riforma è vincolata l’entrata in vigore della legge sulla prescrizione, approvata agli inizi dell’anno. Questa legge, apparentemente orientata ad evitare l’impunità dei delinquenti, è in realtà un mostro giuridico che colpirà soprattutto le vittime dei reati. Essa consiste, come è noto, nella sospensione della prescrizione dopo la sentenza, anche assolutoria, di primo grado. Con la conseguenza che i processi dureranno di più, perché i giudici se la prenderanno, per così dire, più comoda, o comunque non saranno pressati come adesso dalla minaccia di una sanzione disciplinare che può scattare - sia pure in modo platonico - ogni volta che pronunciano l’estinzione del reato per decorso del tempo. Così i danneggiati, il cui risarcimento è legato alla sentenza definitiva, attenderanno le calende greche. Proprio per evitare questa sciagura il ministro della Giustizia Bonafede, e con lui il governo, hanno differito l’entrata in vigore di questa legge al gennaio 2020, promettendo che sarà vincolata alla contemporanea riforma del processo penale che, abbreviando i giudizi, eviterà le funeste conseguenze qui prospettate. Sennonché, dopo quasi sei mesi dal solenne proclama, di questa riforma non si sa nulla, per la semplice ragione che non è nemmeno iniziata. E questo era ovvio e prevedibile se si pensa che l’attuale codice di procedura penale, che porta la firma di Giuliano Vassalli, grande giurista ed eroe della Resistenza, era il frutto di anni di duro e qualificato lavoro. Tralasciando il fatto che, nonostante tali premesse, questo codice è stato sfregiato e snaturato dal legislatore e dalla Corte Costituzionale ( mentre il codice penale, vecchio di novant’anni e firmato da Mussolini è ancora lì quasi intonso) l’idea che entro la fine dell’anno si possa rimetterlo a nuovo è - come tutti capiscono - una vana aspirazione metafisica. Quindi delle due l’una: o il governo farà slittare la prescrizione, rivelando un’incapacità riformatrice aggravata dai velleitari proclami palingenetici, oppure manterrà la legge senza attendere il nuovo codice, smentendo così sé stesso e le sue promesse. Cosa che peraltro il ministro Salvini ha pubblicamente e altrettanto solennemente escluso, aggiungendo che la Giustizia sarà il prossimo banco di prova della coalizione. Se questo banco sia destinato a consolidarsi o a saltare proprio su questa questione, che da oltre vent’anni condiziona la nostra politica, è cosa che vedremo subito dopo le elezioni, sperando che Salvini smentisca il disincantato scetticismo di Clemenceau. Se il Ministero dell’Interno si sostituisce a quello della Giustizia di Andrea Palladino La Stampa, 20 maggio 2019 Invasione di campo a Catania. L’Albania chiede l’arresto di un giovane, ma la domanda arriva dal Viminale invece che dal dicastero di Bonafede. Il giudice annulla. Nelle scorse settimane la disinvoltura del ministero dell’Interno ha creato attriti con altri dicasteri come Trasporti e Difesa. Ma ora, pare che anche con la Giustizia, l’invasione di campo del ministero di Matteo Salvini stia provocando qualche problema. Tra gli avvocati penalisti più attenti c’è una certezza: mai vista una cosa del genere. Siamo a Catania, dove i processi che riguardano stranieri e migranti sono all’ordine del giorno. Davanti alla corte di Appello si discute di un caso che - in altre circostanze - potrebbe essere definito di routine. Un giovane albanese, sposato con una donna italiana, compare davanti ai giudici per la discussione di una richiesta di arresto ai fini di estradizione. Il giovane era stato arrestato per altri motivi in Italia e, a un controllo sui terminali, è apparsa la notizia di una condanna in Albania per ricettazione. Avviene spesso, raccontano i legali. A volte pene ridicole, tipo due mesi per “invasione di un’area agricola” in Romania. La procedura prevista dall’ordinamento italiano in questi casi è chiara: lo Stato di origine dello straniero presenta un’istanza, allega la sentenza e fa richiesta di arresto al ministero della Giustizia italiano. A Catania, però, i magistrati della Corte di appello si sono trovati davanti a un fascicolo decisamente anomalo. Non hanno potuto far altro che annullare tutto e ordinare la scarcerazione, con la solita formula “se non detenuto per altro”. L’anomalia riguardava una netta invasione di campo da parte del Viminale. La richiesta di arresto ai fini dell’estradizione era infatti arrivata non dal ministro della Giustizia, come prevedono le norme, ma dalla Direzione centrale della polizia criminale del ministero dell’interno. La comunicazione al carcere di Catania, dove era detenuto il giovane albanese, firmata dal direttore del servizio, riferiva della pena a 10 mesi di reclusione comminata in Albania, per aver “acquistato un televisore Samsung rubato in precedenza in un negozio”. Ricettazione, dunque. Nella stessa lettera si chiedeva alla direzione del carcere - dove il cittadino albanese era già detenuto per altro - di “valutare se procedere al suo arresto”. L’eventuale documentazione sarebbe arrivata dall’Albania solo dopo l’esecuzione. Il 17 maggio la Corte d’Appello di Catania - informata dal carcere - apre l’udienza per valutare l’atto e la procedura seguita: “Ritenuto che preliminarmente in atti è presente solo la richiesta del ministero dell’Interno”, è la premessa che si legge nell’ordinanza che ha poi disposto l’annullamento dell’ordine di arresto. Nei casi di estradizione, infatti, serve “la richiesta motivata del ministero della Giustizia (e non la richiesta motivata del ministero dell’Interno)”, annotano i giudici. Ma c’è di più: non vi era il “pericolo di fuga, trattandosi di imputato detenuto” (scritto in maiuscolo nell’ordinanza, ndr). E ancora: nel fascicolo non vi era la richiesta di estradizione, per le vie formali, dell’Albania, anche questo un atto necessario per avviare la procedura. Il giudice non ha dunque potuto fare altro che liberare. Niente colloqui in videoconferenza per i detenuti del 41bis di Benedetta Cacace studiolegalebusetto.it, 20 maggio 2019 Corte di Cassazione, prima sezione penale, sentenza n. 16557 del 2019. La legge non prevede, né per i detenuti in regime ordinario, né per i detenuti sottoposti al regime di cui all’articolo 41bis ord. pen., videoconferenze o video colloqui e nemmeno permette di costruire “colloqui visivi sui generis”, in quanto la legge delinea con precisione il concetto di “colloquio”, così come quello di “corrispondenza telefonica”. Il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato il reclamo proposto dal Ministero della Giustizia avverso quella del Magistrato di sorveglianza che, in accoglimento dell’istanza presentata da un detenuto in regime di cui all’art. 41bis ord. pen., aveva ordinato alla Direzione della Casa Circondariale di consentirgli colloqui visivi periodici con il fratello, anch’esso detenuto, con il sistema della videoconferenza. Secondo il Ministero il sistema di videoconferenza era stato introdotto a fini processuali ed era un errore autorizzarlo per altri scopi, perché così facendo si introduceva una nuova fonte di spesa in violazione dell’art. 81 della Costituzione. Gli Ermellini, intervenuti sulla questione hanno chiarito che il comma 2 quater dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che regolamenta la materia dei colloqui per i detenuti sottoposti a tale regime, prevede che i colloqui siano svolti “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”. Inoltre la norma prevede che “solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato con provvedimento motivato del direttore dell’istituto e solo dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque a registrazione”. L’articolo 39, comma 10, del regolamento prevede espressamente il caso di corrispondenza telefonica con un congiunto o un convivente anch’esso detenuto, disponendo che è possibile se entrambi gli interlocutori sono stati autorizzati. In sostanza di tratta di un ambito ampiamente regolamentato dalla legge che non prevede, né per i detenuti in regime ordinario, né per i detenuti sottoposti al regime di cui all’articolo 41bis ord. pen., videoconferenze o video colloqui e nemmeno permette di costruire “colloqui visivi sui generis”, in quanto la legge delinea con precisione il concetto di “colloquio”, così come quello di “corrispondenza telefonica”. La Corte di Cassazione ha chiarito che non intende negare l’interesse per l’evoluzione tecnologica al fine di rendere più agevole la corrispondenza telefonica tra i detenuti, tuttavia è compito del legislatore fornire le indicazioni vincolanti che sono dettate per i vari ambiti della vita penitenziaria. Pertanto dovrà essere una norma a disciplinare la materia, stabilendo in che modo i colloqui telefonici permessi dalle norme sopra richiamate possano essere estesi a quelli videotelefonici. Le regole tecniche antiriciclaggio puntano sul fai da te degli Ordini di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2019 Maggiore coinvolgimento degli Ordini professionali nella messa a punto della normativa antiriciclaggio, anche perché sono poi le rappresentanze istituzionali dei professionisti da dover mettere a punto le regole tecniche per valutare il rischio di circolazione del denaro sporco. Lo hanno già fatto i dottori commercialisti e i notai attraverso i propri Consigli nazionali, mentre per gli avvocati si stanno muovendo gli Ordini territoriali. Il tema si è riproposto nei giorni scorsi dopo la presentazione del documento del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili (Cndcec) e del Consiglio nazionale forense (Cnf) sullo schema di decreto legislativo di modifica del Dlgs 231/2007, come modificato dal Dlgs 90/2017 (si veda anche Il Sole 24 Ore del 16 maggio). Le due categorie hanno auspicato, per il futuro, un più fattivo coinvolgimento degli organismi di autoregolamentazione. Il ruolo dei professionisti - In effetti, il decreto 90, di recepimento della direttiva 2015/849 (cosiddetta IV direttiva), ha attribuito agli organismi di autoregolamentazione, ma anche alle loro articolazioni territoriali e ai Consigli di disciplina, inediti poteri regolamentari e sanzionatori esercitabili nei confronti degli iscritti. In particolare, gli Ordini professionali sono responsabili dell’elaborazione e aggiornamento delle cosiddette regole tecniche in materia di procedure e metodologie di analisi e valutazione del rischio di riciclaggio e finanziamento del terrorismo cui i professionisti sono esposti nell’esercizio della propria attività. Si tratta di un ruolo cruciale, perché diretto a chiarire agli iscritti la portata effettiva del precetto sancito in astratto dalla normativa primaria. Il che appare di fondamentale importanza sia in considerazione della particolare portata afflittiva delle sanzioni previste per le ipotesi di inosservanza degli obblighi antiriciclaggio sia al fine di evitare che il ruolo proattivo e di garanzia attribuito al professionista possa tradursi in un onere difficilmente sostenibile dallo stesso. Le regole tecniche - Per espressa previsione di legge, le regole tecniche sono adottate previo parere del comitato di sicurezza finanziaria (Csf) del ministero dell’Economia, a ulteriore garanzia della loro validità. A oggi, il Csf ha dato il via libera alle regole dei commercialisti e del Consiglio nazionale del notariato, mentre stranamente aspettano ancora di essere approvate quelle del Cnf. Questo vuoto regolamentare per gli avvocati sta inducendo gli Ordini più rappresentativi - per esempio, quello di Roma - a valutare la possibilità di dotarsi di regole tecniche territoriali. Nel contempo, l’intervento nella procedura di adozione delle regole tecniche, da parte del Csf, concorrere a definire il valore giuridico delle regole stesse come fonti normative secondarie e a giustificarne la sanzionabilità sul piano disciplinare. A tale riguardo, la riforma della legge antiriciclaggio attuata in sede di recepimento della IV direttiva ha attribuito agli organismi di autoregolamentazione veri e propri poteri sanzionatori a fronte di violazioni gravi, ripetute o sistematiche ovvero plurime degli obblighi posti dalla legge medesima e delle relative disposizioni tecniche di attuazione. Non va poi dimenticato che gli Ordini possono ricevere le segnalazioni di operazioni sospette da parte dei propri iscritti, che in vista del successivo inoltro alla Uif e sono tenuti a informare prontamente quest’ultima di situazioni ritenute correlate a fattispecie di riciclaggio di cui vengono a conoscenza nell’esercizio della propria attività. Infine, gli Ordini professionali dispongono di poteri, sia pure limitati, di controllo nei confronti dei propri iscritti, poteri che non sono esclusivi ma concorrono con quelli del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza. Ne emerge la chiara volontà del legislatore di assegnare agli Ordini, ma anche alle loro articolazioni territoriali e ai consigli di disciplina un ruolo di primo piano nella fase di attuazione della normativa antiriciclaggio che certamente ne avrebbe giustificato un più diretto coinvolgimento nella fase di redazione del nuovo schema di decreto legislativo attuativo della quinta direttiva antiriciclaggio. Infine, gli Ordini territoriali dispongono di poteri di controllo deontologico-disciplinare in materia antiriciclaggio nei confronti dei propri iscritti, poteri concorrenti alle autorità amministrative e che possono arrivare anche alla sospensione e alla radiazione. Ne emerge la chiara volontà del legislatore di assegnare agli Ordini, ma anche alle loro articolazioni territoriali e ai consigli di disciplina, un ruolo di primo piano nella fase di attuazione della normativa antiriciclaggio, che certamente ne giustifica un più diretto coinvolgimento nella fase di redazione del nuovo schema di decreto legislativo attuativo della quinta direttiva antiriciclaggio. Bando che prevede dichiarazione reati: sentenze e decreti penali non sono equiparati di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2019 Tar Lazio - Sezione II ter - Sentenza 20 marzo 2019 n. 3715. Le clausole dei bandi di concorso per il pubblico impiego devono essere chiare e intellegibili. Di esse ne va applicato il tenore letterale e non interpretativo. Particolare riguardo va riservato alle clausole implicanti esclusioni dovute alla mancata dichiarazione di reati. Con la sentenza n. 3715/2019, la sezione seconda ter del Tar Lazio si addentra in una istruttiva disamina sulla estinzione dei reati: automatica ovvero a seguito di pronuncia del giudice dell’esecuzione? La parabola della motivazione si sposta tra vari rami dell’ordinamento, dal diritto penale a quello amministrativo e su vari settori, indulto, codice dei contratti, legislazione sui concorsi pubblici, il bando stesso come lex specialis. Significativa è la lettura delle clausole di esclusione del bando coinvolto, laddove sono menzionate le sole sentenze penali e non anche i decreti penali. In proposito secondo il Tar, se è vero che in linea generale esiste una equiparazione tra sentenze e decreti di condanna, ciò non toglie che i provvedimenti mantengano caratteri differenziali. Primo fra tutti, la minore gravità dei reati che possano essere sanzionati con decreto rispetto a sentenza. Le circostanze della vicenda - Superate le prove concorsuali un candidato riceveva dall’amministrazione reclutante una comunicazione attraverso posta elettronica certificata nella quale si specificava che dai controlli effettuati presso il casellario giudiziale, risultava a suo carico un decreto circa alcuni reati prescritti dal Codice della Navigazione. L’amministrazione escludeva dunque il ricorrente dalla procedura concorsuale, ritenendo falsa la sua dichiarazione circa l’assenza di condanne penali in carico, integrandosi una causa di esclusione dal concorso. Dal che il candidato depositava ricorso al tribunale amministrativo regionale per il Lazio. Reati estinti anche senza pronuncia del giudice dell’esecuzione? - Secondo il ricorrente non sarebbe venuto in essere il citato obbligo di dichiarazione in quanto il reato all’epoca della dichiarazione risultava estinto ope legis al momento in cui erano maturate per legge i presupposti condizionanti l’effetto. A ben guardare in merito alla necessità di una declaratoria o meno di estinzione del reato si è registrato un vivace contrasto giurisprudenziale che vede la tesi prevalente della necessità di una pronuncia espressa in merito alla intervenuta estinzione, contraddetta da una tesi minoritaria ma recente, che invece reputa sufficiente per poter ottenere il maturato effetto estintivo del reato, la constatazione della circostanza del mero decorso del tempo successivo alla sentenza di condanna. Ciò nondimeno la giurisprudenza penale non può spiegare alcun altro effetto per le finalità extra-penali di collegamento con altri rami dell’ordinamento laddove assumono una maggiore preminenza le esigenze di pubblica certezza. In altre parole, l’amministrazione quando agisce come commissione di concorso o come stazione appaltante, deve poter fare affidamento sulle risultanze del casellario giudiziale e non può essere gravata dall’onere di verifica della intervenuta estinzione del reato. La distinta valenza dichiarativa tra sentenze penali e decreti penali - Al di là della estinzione o meno del reato ascritto al concorrente, il Tar ha ritenuto assorbente una evidenza su tutte: nessuna norma del bando espressamente chiedeva la dichiarazione di eventuali decreti penali di condanna. Né un tale obbligo poteva ritenersi sussistente in via interpretativa. La dichiarazione riguardava espressamente il non aver riportato condanne penali o sentenze di patteggiamento e il non avere procedimenti penali in corso. Segnatamente nel caso di specie insistono due dimostrazioni che depongono nel senso della non sussistenza dell’obbligo di dichiarazione dei decreti di condanna, uno relativo alla lettera del bando e l’altro concernente la ratio delle cause di esclusione. Significativamente non si menziona il decreto penale nell’obbligo di dichiarazione, mentre si citano le sentenze di patteggiamento: se il bando avesse voluto ricomprendere onnicomprensivamente tutti i provvedimenti assimilabili a una sentenza di condanna non avrebbe avuto motivo di menzionare le sentenze di patteggiamento. Va evidenziato a ulteriore riprova che invece il codice dei contratti espressamente ricomprende tra le clausole di esclusione, condanne definitive o decreti penali di condanna divenuti irrevocabili, mentre il bando in questione prevedeva la facoltà di escludere con atto motivato i candidati che avessero riportato (unicamente) sentenze penali di condanna ancorché non passate in giudicato. Tali evidenze sono viepiù rilevanti anche ai fini della valutazione dell’elemento interpretativo teleologico: la inferiore gravità dei reati sanzionati con decreto rispetto a quelli sanzionati con sentenza. La desumibilità del dolo omicidiario in assenza di esplicite ammissioni dell’imputato Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2019 Reati contro la persona - Tentato omicidio - Prova del dolo - Assenza di specifiche ammissioni dell’imputato - Natura indiretta del dolo - Accertamento dell’animus necandi. Nel reato di omicidio tentato, la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell’imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni e, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei a esprimere il fine perseguito dall’agente. Ne consegue che, per l’accertamento della sussistenza “dell’animus necandi”, rileva in modo determinante l’idoneità dell’azione, che va apprezzata in concreto, con una prognosi formulata “ex post”, con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento del compimento degli atti, in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 9 maggio 2019 n. 19816. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio - In genere - Tentativo - Assenza di ammissioni dell’imputato - Dolo - Desumibilità - Valutazione. La volontà omicida, nei casi in cui manchino esplicite ammissioni da parte dell’imputato, va indirettamente ricavata mediante un procedimento inferenziale, analogo a quello indiziario, partendo da elementi esterni e di accertata verificazione, ossia da elementi della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità semantica, grazie a massime di esperienza, rivelino il fine perseguito dall’agente. Tale valutazione, esito di un’indagine di fatto, non censurabile nel giudizio di legittimità se congruamente motivata, si risolve nella prognosi formulata “ex post” con riferimento alla situazione che si presentava all’imputato al momento dell’azione, in base alle condizioni umanamente prevedibili nel caso specifico. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 9 maggio 2019 n. 19816. Reati contro la persona - Omicidio - Tentato - Dolo omicidiario - Accertamento. Al fine dell’accertamento della sussistenza della volontà omicida e della conseguente configurabilità del tentato omicidio in luogo del delitto di lesioni aggravate, occorre valutare la differente potenzialità dell’azione lesiva e ricavare il requisito dell’”animus necandi” da elementi quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato per commetterlo, le parti del corpo della vittima colpite, la reiterazione dei colpi, e tutti quegli altri dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sistematico in tal senso. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 21 febbraio 2019 n. 7992. Reati contro la persona - Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Omicidio - In genere - Tentativo - Dolo - Prova - Desumibilità - Elementi sintomatici. La sussistenza del dolo nel delitto di tentato omicidio può desumersi, in mancanza di attendibile confessione, dalle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali, a titolo esemplificativo, il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 1° agosto 2011 n. 30466. Sassari: 76enne condannato all’ergastolo muore in carcere agrigentonotizie.it, 20 maggio 2019 Simone Capizzi, 76 anni, riberese, si è spento per cause naturali alcuni giorni fa giorni fa nel carcere di Sassari, dove stava scontando l’ergastolo. I funerali dell’uomo sono stati vietati e le sue spoglie sono state sepolte nel cimitero di Ribera alla presenza unicamente dei familiari. Secondo le rivelazioni di alcuni pentiti Capizzi, insieme a Fragapane, fu uno dei mandanti dell’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli per il quale pagarono alcuni sicari. Sempre i collaboratori di giustizia, precisa il quotidiano palermitano, raccontano che Capizzi festeggiò insieme ad altri con vino e pasticcini la notizia delle stragi che uccisero i giudici Falcone e Borsellino. Ariano Irpino (Av): Radicali in visita al carcere, lavoro e sanità emergenze per i detenuti di Fabrizio Ferrante linkabile.it, 20 maggio 2019 Sabato 18 maggio, una delegazione dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo ha visitato la casa circondariale di Ariano Irpino. A guidare la pattuglia radicale è stato come sempre l’Avvocato Raffaele Minieri e il gruppo è stato accolto dalla direttrice, in carica da fine febbraio, Maria Rosaria Casaburo. Con lei anche la responsabile dell’area sanitaria, Ernestina Volpicelli, l’educatrice Rita Nitti e il vice comandante della Polizia Penitenziaria, Angelo Giardino. I numeri del carcere di Ariano Irpino raccontano di una struttura che si può definire una “finta” casa circondariale, per via dell’alto numero di detenuti in via definitiva, molti dei quali provenienti dal carcere di Poggioreale. Ad Ariano vi sono infatti intere sezioni dedicate ai reclusi (quindi non più in attesa di giudizio) i quali in gran parte provengono dal carcere napoletano e che spesso vengono spostati ad Ariano per motivi disciplinari. Inoltre va tenuto conto della capienza aumentata nel 2014, quando fu eretto un nuovo padiglione laddove sorgeva il campo sportivo. Se dall’inizio degli anni 80 al 2014 la capienza era di 180 detenuti, oggi questa è di 275 sebbene ad Ariano siano presenti al momento 339 ristretti. Di questi, 160 sono in carcere per reati connessi alla droga (artt.73 e 74) mentre 121 scontano una condanna per rapina (art.628) e una decina sono i “riottosi” ex art.32. I detenuti stranieri sono 48. In tutto il carcere di Ariano (che sarebbe una Casa circondariale) vi sono appena 47 non definitivi (i definitivi sono 259) 32 ricorrenti, 14 appellanti, quattro in attesa di giudizio, 29 in posizione mista con anche una condanna definitiva e un detenuto in posizione mista senza pena definitiva. Gli agenti penitenziari presenti sono 153 laddove ne sarebbero previsti 165 dalla pianta organica. Questa tuttavia è rimasta invariata negli anni pur essendo sensibilmente aumentati i detenuti presenti ad Ariano. Al momento pur essendo arrivati dei nuovi ispettori, si ravvisa la carenza di altre figure come quella di assistente capo. Presenti ad Ariano anche alcuni ergastolani e vi è un’intera sezione dedicata ai collaboratori di giustizia. Sul piano strutturale, il carcere di Ariano conta due padiglioni, uno risalente ai primi anni 80 quando fu eretto il penitenziario, l’altro costruito nel 2014. Vi sono in totale dodici sezioni. Le criticità riscontrate dai Radicali nel corso della visita, riguardano in particolare la mancanza pressoché totale di educatori come ha confermato anche la stessa direttrice. Gli educatori, infatti, al momento sono soltanto due. Inoltre, molti detenuti hanno lamentato l’impossibilità ad essere curati nel carcere di Ariano Irpino e di non ricevere i farmaci adeguati. Anche la direttrice, sul fronte sanitario, ha lamentato l’assenza degli specialisti all’interno dell’istituto e su tale punto si è già rivolta anche alla Procura della Repubblica. Tuttavia, almeno una volta alla settimana o ogni 15 giorni, nel carcere operano un dermatologo, un otorino, un odontoiatra, un urologo e un cardiologo. La direttrice Casaburo ha enfatizzato quella che è la carenza principale a livello di specialisti, ovvero quella dello psichiatra soprattutto alla luce della presenza di molti detenuti “border line”. I detenuti hanno inoltre evidenziato la totale assenza di opportunità lavorative o anche di semplici corsi all’interno del carcere. Passare le giornate, pur se in regime di celle aperte (pressoché tutto il giorno con piccole pause a celle chiuse) risulta spesso difficile perché oltre a una piccola stanza per la socialità non esiste nulla. Un detenuto ha definito “cupa e chiusa” la giornata tipo nel carcere di Ariano. Gli unici lavori (svolti anche dai detenuti in articolo 21, che dunque potrebbero lavorare fuori) disponibili sono le mansioni interne alla struttura che però impiegano non più di 70 persone. Le lamentele dei detenuti hanno “risparmiato” sia il rapporto con gli agenti che la stessa struttura che appare in buone condizioni. Le celle sono da tre, quattro o talvolta cinque detenuti e tutte hanno bagno e doccia in camera. Funzionano bene anche i riscaldamenti e perfino il pavimento delle sezioni è riscaldato. Se il lavoro è assente, la scuola offre i primi due cicli e il liceo artistico con in più un laboratorio di ceramica, mentre non esistono corsi di formazione o di avviamento al lavoro. Anche la magistratura di sorveglianza, definita “abbastanza aperta” dalla direttrice, dimostra tuttavia le sue criticità per ragioni prevalentemente organizzative. Resta il fatto che il carcere di Ariano è particolarmente difficile, basti pensare alla rivolta avvenuta a giugno di un anno fa. O ai numerosi sequestri di cellulari e droga nei reparti e agli atti di violenza fra detenuti. Possibili novità in vista per i colloqui coi parenti che potrebbero avvenire col meccanismo della prenotazione al fine di evitare attese e code estenuanti, mentre anche ad Ariano si registra l’annoso problema del sopravvitto e dei prezzi raddoppiati rispetto a quelli praticati all’esterno. I beni venduti sono tuttavia pochi, in ragione del fatto che il deposito ha bisogno di ristrutturazione. Sono presenti le cappelle per i detenuti di fede cristiana mentre un detenuto musulmano ha spiegato che a lui (e agli altri) per pregare è sufficiente voltarsi verso la Mecca. La visita dei Radicali ad Ariano, svela un carcere con gravi problemi ma, allo stesso tempo, guidato da una direttrice non solo conscia delle difficoltà ma anche risoluta nel porvi rimedio. Quello di Ariano è il classico carcere chiuso rispetto al quale la comunità circostante (istituzioni comprese) ha deciso di girarsi dall’altra parte, in una provincia come Avellino che solo a pochi chilometri di distanza ospita un gioiello come Sant’Angelo dei Lombardi che occupa la gran parte dei propri detenuti anche e soprattutto grazie a numerosi e fecondi input provenienti dall’esterno. Pisa: il Garante comunale dei detenuti audito in commissione sociale Il Tirreno, 20 maggio 2019 Primo incontro tra l’avvocato Alberto Marchesi, nominato lo scorso 11 aprile dal sindaco Michele Conti garante per i diritti delle persone private della libertà personale, ed i membri della commissione politiche sociali del Comune di Pisa. Dopo una breve presentazione del consigliere Marcello Lazzeri, presidente della commissione, l’avvocato Marchesi, ricordato che la Casa circondariale Don Bosco è una delle poche che possiede un centro clinico, ha sottolineato alcune criticità come, ad esempio, le tante difficoltà per i detenuti tossicodipendenti e le strutture inadeguate, in particolare, della sezione femminile. Alla riunione erano presenti anche i consiglieri Gabriele Amore (M5S), Brunella Barbuti (Lega), Laura Barsotti (Lega), Giuliano Pizzanelli (Pd), Veronica Poli (Lega), Maria Antonietta Scognamiglio (Pd) e la rappresentante per “Diritti in Comune”, Serena Fondelli. Catanzaro: maestri cestai, dietro le sbarre l’arte di lavorare gli intrecci di Giovanna Maria Fagnani corriere.it, 20 maggio 2019 “La prima volta che sono entrata in carcere avevo molto timore. Ti colpisce il contatto con l’ambiente: arrivi e chiudono una porta, vai avanti e ne chiudono altre: ci si sente in trappola. Poi ho conosciuto detenuti di un’educazione straordinaria e con le mani d’oro. Quando lavorano cercano la perfezione, si mettono continuamente in discussione”. Doveva proporre ai carcerati un corso d’arte della durata di un mese e mezzo. Invece sono già sette anni che, due volte a settimana e per undici mesi l’anno, Antonella Mannarino, maestra d’arte, insieme con Caterina Mirarchi, insegnante, varca la porta del carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro. Costruito nel 1993, in via Tre Fontane, è il più grande della regione. Ospita 700 detenuti nei suoi tre padiglioni, fra cui quello di alta sicurezza dove si trova il laboratorio dell’associazione “Amici con il cuore” che la maestra ha fondato nel 2012 con un gruppetto di amiche. Non pensavano al carcere: “Macché, volevamo fare qualcosa per aiutare l’ambiente, sensibilizzare sui temi del riciclo. E abbiamo pensato di recuperare un’arte antica calabrese, quella dei cestai che lavoravano con la iuta, il salice, le canne, secondo la tecnica detta “ad uno o a due tessitori”. Ho studiato queste trame e abbiamo cominciato a preparare oggetti di carta intrecciata: cesti, borse, cappelli, lampadari”. Oggetti così belli da attirare l’attenzione di una educatrice del carcere, Letizia De Luca, che propone all’associazione di tenere un laboratorio nel penitenziario. Da quando ci sono loro, i muri dei corridoi dell’”Alta sicurezza” sono tappezzati con le fotografie dei luoghi più belli della Calabria (castelli sul mare, monti e scogliere), sistemate nelle cornici intrecciate realizzate dai detenuti che lavorano in gruppi da quindici-venti e riutilizzano la carta dei giornali e altri materiali che provengono dal carcere. Come le vecchie confezioni del caffè. L’associazione ha esteso il progetto ai ragazzi dell’Istituto Penale per Minori “Paternostro” e della Comunità Ministeriale. La soddisfazione più grande è sapere che grazie a quei cestini qualche detenuto, riacquistata la libertà, ha scoperto di avere un mestiere fra le mani. È il caso di Nicola (nome di fantasia), 57 anni, che prima di uscire le aveva detto: “Non voglio più tornare qui dentro: diventerò un uomo buono”. Promessa che rinnova ogni giorno quando sistema in strada la sua bancarella di cesti da vendere ai turisti. “Insegnare in carcere mi ha fatto capire che un uomo in un attimo può sbagliare, ma dentro di lui - conclude Mannarino - c’è sempre una parte buona, che viene fuori se alimentata. E l’arte può aiutare”. Da nove anni il carcere di Catanzaro è diretto da Angela Paravati: “Le volontarie di “Amici con il cuore” sono tutte donne e hanno una sensibilità particolare per trattare con i detenuti. La donna, in fondo, è l’educatrice della famiglia e i carcerati ritrovano in loro questa figura”, spiega. Il laboratorio del riciclo, come gli altri attivati nel penitenziario, “non è un passatempo ma un lavoro di pazienza e concentrazione. C’è un bel clima e il rientro in sezione è più sereno”. I lavori che poi sono messi in vendita dall’associazione “servono a contrastare il pregiudizio in una società che non è pronta ad accogliere chi ha alle spalle un periodo di detenzione. E questo - aggiunge - può essere una spinta per tornare a delinquere”. Senza contare la piaga sociale dei tossicodipendenti, che si macchiano di reati per procurarsi la droga, o dei malati psichiatrici. “Il carcere deve essere prima di tutto un’occasione di comprensione di ciò che hanno compiuto. Per questo facciamo frequentare corsi di mediazione, in cui i detenuti incontrano le associazioni dei famigliari delle vittime”. Uno dei successi? “Un ex detenuto ed ex tossicodipendente che ora si dà da fare per abbellire la sua città con murales e mosaici”. Viterbo: da 20 anni al carcere duro, prossimo alla laurea in Giurisprudenza di Stefania De Cristofaro brindisireport.it, 20 maggio 2019 Antonio Vitale, 51 anni, alias il “Marocchino”, ha chiesto la tesi a conclusione degli studi: è ristretto nel penitenziario di Viterbo. Definitive le condanne per associazione mafiosa: “Tra i fondatori della Scu”.Venne arrestato la prima volta a 19 anni con l’accusa di aver preso parte a una rapina. Detenuto al 41 bis dal 1999, diventerà a tutti gli effetti dottore in Giurisprudenza tra qualche mese, dopo aver discusso la tesi, probabilmente in diritto penale. Lo studente è Antonio Vitale, 51 anni, mesagnese, nome che a dispetto del tempo passato sembra ancora viaggiare di pari passo con l’alias il “Marocchino”. È in carcere da 31 anni, con condanne definitive associazione mafiosa, la Sacra Corona Unita. Vitale, riconosciuto - con sentenza - come uno dei fondatori del cosiddetto clan dei mesagnesi, nelle scorse settimane ha chiesto la tesi, dopo aver concluso il percorso di studi previsto per la facoltà di Giurisprudenza. Ha studiato in cella, è ristretto nel carcere di Viterbo che di stanze detentive ne conta 432, divise in tre padiglioni, fermo restando le restrizioni alla libertà personale imposte dal regime del carcere duro, coincidente con la sua vita dal 1999. Ininterrottamente. In qualità di detenuto al 41 bis, si è diplomato e successivamente ha scelti di proseguire gli studi, scegliendo la facoltà che ha ritenuta più vicina a lui dopo aver trascorso giorni, mesi e anni a leggere ordinanze di custodia cautelare ottenute dalla Direzione distrettuale antimafia, motivazioni di sentenze che lo hanno riguardato in prima persona così come ricorsi e istanze, fra il Tribunale di Sorveglianza, la Corte di Cassazione e i decreti che ministri alla Giustizia. Dal 99 ad oggi, alla scadenza di ogni biennio, i ministri che si sono avvicendati, hanno sempre firmato il decreto per la conferma del 41 bis. Alla base, ci sono sempre state valutazioni sullo status di pericolosità sociale di Vitale: concreta e attuale è stata ritenuta la capacità di mantenere contatti con l’esterno del carcere, con alcuni degli affiliati alla Sacra Corona Unita, associazione mafiosa che resiste nonostante la doppia ghigliottina. Da un lato le continue inchieste della Dda di Lecce, dall’altro emorragia di segreti conseguenza dei pentimenti. L’ultimo dichiarante in ordine di tempo, è Antonio Campana, fratello di Sandro, già ammesso al regime della collaborazione, e di Francesco, considerato il capo della presunta frangia riconducibile a Buccarella. Nella storia della Scu contemporanea, è come se ci fosse stato un effetto domino dopo che Ercole Penna, nel 2010, decise di passare dalla parte dello Stato. Ha certamente cambiato pelle il sodalizio, ma può dirsi sconfitto, come è emerso nell’ultima relazione sull’attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia che il ministro della Giustizia ha letto in Parlamento. Vitale, al pari di ogni altro detenuto in regime di carcerazione dura, vive in condizione di isolamento massimo: è ristretto in una cella singola, senza accesso a spazi comuni come la palestra, con un’ora d’aria al giorno. Limitati sono anche i colloqui con i familiari, incontri durante i quali non c’è possibilità di contatto fisico essendoci l’obbligo di un vetro a dividere il detenuto e i parenti. Viene riconosciuta una telefonata al mese con i congiunti autorizzati. E c’è controllo della corrispondenza, sia quella spedita che quella ricevuta. Venne arrestato la prima volta quando aveva appena 19 anni con l’accusa di rapina. Il suo alias, il “Marocchino”, negli ambienti della Sacra Corona Unita, pare sia legato alla descrizione fisica di uno dei banditi, fatta da un rapinatore. Foto di Antonio Vitale recenti non ce ne sono. L’ultima risale a poco prima che finì al 41 bis, all’indomani della prima condanna per essere stato al vertice del sodalizio di stampo mafioso. Ruolo che gli è stato contestato e riconosciuto, con sentenza irrevocabile, sino al finire degli anni Novanta. San Gimignano (Si): pranzo “oltre le sbarre” con i detenuti-chef sienafree.it, 20 maggio 2019 Chef per un giorno pronti ad accogliere gli ospiti con un pranzo “oltre le sbarre”. Mercoledì 22 maggio la Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, ospita la terza edizione di “Insieme con gusto”, iniziativa che vede protagonisti i detenuti del circuito di Alta Sicurezza che studiano nella sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale “Bettino Ricasoli” di Siena. I detenuti - corsisti delle classi III, IV e V C - prepareranno antipasti, primi e secondi piatti e dessert per circa 80 persone presenti su invito. L’iniziativa “Insieme con gusto” è stata avviata nel 2017 e ripetuta con crescente interesse e partecipazione sia da parte degli ospiti che dei detenuti studenti, pronti a cimentarsi ai fornelli e a mettere in campo la creatività in cucina che anima anche il loro blog “Scriviamo… con gusto”, scriviamocongusto.wordpress.com, dove vengono raccolte ricette e riflessioni degli stessi studenti delle cinque classi dei regimi di Media e Alta Sicurezza. Grazie al blog e ad altri progetti didattici, gli studenti riescono a valorizzare le loro potenzialità e capacità con laboratori dedicati alla cucina e occasioni di confronto con il mondo esterno. Venezia: il carcere come un set fotografico, i sorrisi delle detenute in un libro di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 20 maggio 2019 Giorgio Bombieri ha immortalato le recluse e le volontarie che si sono prestate a fare da modelle Trucco, acconciature e vestiario curati dalle recluse che hanno seguito un corso per estetiste. Per due giorni ad aprile il carcere femminile della Giudecca ha ospitato un set fotografico professionale. Una quarantina di detenute coinvolte, ognuna con una propria storia, ma tutte le novanta ospiti hanno voluto vedere e dare una mano, incuriosite - e non potrebbe essere stato altrimenti - da questa novità. Una stanza trasformata in set tra luci e flash, con il fotografo professionista Giorgio Bombieri che per una volta si è dedicato alla fotografia glamour. Con lui anche una ex top model, Bali Lawal, che dopo aver solcato le passerelle di grandi stilisti come Armani, si è inventata una nuova vita come operatrice culturale ed è arrivata con un borsone pieno di vestiti, che ha poi lasciato in carcere, e trucchi professionali per le pelli nere. Con loro le volontarie dell’associazione Rio Terà dei Pensieri che compie quest’anno 25 anni di attività. Le volontarie si sono mescolate alle detenute che si sono prestate a fare da modelle mentre altre compagne di cella le truccavano, pettinavano, vestivano, dopo aver partecipato per mesi ad un corso professionale per diventare estetiste. Da questi due giorni intensi di scatti fotografici, costretti dentro le mura di un carcere, nasce “Al Femminile”, libro di ritratti e pensieri che viene messo in vendita ora dalla cooperativa veneziana nel suo punto vendita di Fondamenta dei Frari, il “Process collettivo”, e online. Un libro che è un atto di libertà, come solo un gioco può fare, per liberare la bellezza anche dentro un luogo di restrizione per antonomasia come è il carcere. Il ricavato della vendita del libro va a finanziare un nuovo progetto di Rio Terà dei Pensieri. Ovvero un nuovo centro d’ascolto per detenuti, uomini e donne, che, una volta scontata la pena, tornano alla vita normale e hanno bisogno di sostegno e aiuto per reinserirsi, specialmente per trovare un lavoro. Tornare alla vita di tutti i giorni non è facile, è un percorso che necessita di sostegno. E questo il centro d’ascolto intende fare. Scorrendo le pagine del libro “Al Femminile”, non si riescono a distinguere del tutto le donne che sono in carcere dalle donne libere, le volontarie. “Era uno degli obiettivi del progetto, mischiare le carte e puntare sul concetto di bellezza femminile”, spiega Liri Longo, presidente della cooperativa. “Volevamo tanto fare un lavoro sulla bellezza. Tutto è nato da un corso per detenute per diventare estetiste, realizzato con il sostegno del Soroptimist e l’aiuto del Centro di Formazione Professionale San Luigi di San Donà. Ha collaborato anche la stylist Claudia Bombieri”, racconta la presidente della cooperativa, “Bellezza significa prendersi cura di se stessi e non è facile farlo in un luogo di detenzione. Prendersi cura del proprio corpo significa testimoniare uno stato di benessere”. Nel libro ecco anche i contributi di Gabriella Straffi, ex direttrice, ora presidente del Soroptimist. Il mondo del carcere è cambiato, spiega. “Da parecchi anni il carcere è mutato; con l’apporto di cooperative e volontariato si è aperto all’esterno, soprattutto con la creazione di opportunità di lavoro significative. Un aiuto a riconquistare un senso di quotidianità. Non solo e non tanto una “alternativa alla cella”. Liri Longo aggiunge: “Se in questo libro non si riconoscono le detenute dalle volontarie è anche perché vogliamo far capire che una donna in carcere non è una specie a parte. Si tratta di persone, con la loro personale bellezza, al di là del proprio stato detentivo”. Il fotografo Giorgio Bombieri non nasconde la bellezza di quei due giorni di scatti. “Vent’anni fa avevo realizzato un progetto fotografico in carcere e sono tornato ritrovando la direttrice Antonella Reale. Il set è durato due giornate, intense, belle, piene di eccitazione. Tra trucchi e vestiti in carcere non si parlava d’altro. La sensazione era che non fossimo dentro; la felicità delle partecipanti era tale che eravamo tutti fuori”. A confermarlo è anche la testimonianza di Vania Carlot della cooperativa Rio Terà dei Pensieri: “Una esplosione di gioia e bellezza ha travolto molte donne, recluse o di passaggio, in un gioco fatto di trucchi e abiti inusuali; volti trasformati, abbelliti, pronti ad incontrare se stessi e l’altro”. Joe Perrino: Per Grazia Non Ricevuta di Salvatore Uccheddu unicaradio.it, 20 maggio 2019 Il documentario con Joe Perrino e Giovanna Maria Boscani è un riflettore sulla situazione carceraria. Un viaggio surreale, sorprendente e a tratti malinconico attraverso le carceri sarde: Giovanna Maria Boscani, artista sassarese, e Joe Perrino, musicista cagliaritano, a bordo di una vecchia Ape Piaggio, hanno raggiunto tutte le case circondariali dell’Isola. L’obiettivo? Incontrare i detenuti e farsi affidare storie, ambizioni e sogni sotto forma di ex-voto. Il documentario ora cerca fondi per la distribuzione tramite una campagna di crowdfounding. Da Uta a Nuchis, da Bancali a Badu e Carros passando per Massama, Isili, Alghero e Is Arenas, l’Ape è diventata la casa per disegni, scritti, oggetti realizzati dai carcerati. Questo è il racconto di Per Grazia Non Ricevuta, film documentario attualmente in montaggio, per la regia di Davide Melis e prodotto dalla società cagliaritana Karel. Il film è alla ricerca di sostenitori che supportino la produzione e distribuzione: dal 1 aprile è partita la campagna di crowdfounding insieme a Banca Etica che ha selezionato Per Grazia Non Ricevuta sul bando “Impatto +”, creato per progetti culturali. L’obiettivo di Karel è raggiungere 15 mila euro: si potranno inviare donazioni diverse. Chi farà una donazione al film riceverà un premio come la locandina del documentario autografata dai protagonisti. Come ricompensa è possibile ricevera anche il dvd nel formato semplice o nel cofanetto speciale. Ma è disponibile anche il modello in scala dell’Ape Piaggio decorata a mano dall’artista Giovanna Maria Boscani. Chi farà una donazione speciale sarà menzionato come produttore associato. “Per Grazia Non Ricevuta” è realizzato con il contributo della Regione Sardegna; e il supporto della Fondazione Sardegna Film Commission. Qui il link per la campagna crowdfounding: produzionidalbasso.com/project/per-grazia-non-ricevuta-docufilm/ Quanta pace e giustizia si potrebbero costruire con 1.686 miliardi di dollari? di Andrea Tarquini La Repubblica, 20 maggio 2019 Paesi in forte espansione economica e paesi in grave crisi, democrazie e regimi autoritari, superpotenze industriali-postindustriali, paesi emergenti, paesi poveri. Il mondo è composto da tante realtà diverse, ma quasi tutte con un dato in comune: la tendenza prevalente all´aumento delle spese militari, che negli ultimi cinque anni per la prima volta sono giunte al massimo livello dalla fine della guerra fredda. In particolare, le spese militari nel mondo in totale sono aumentate dello 0,4 per cento in termini reali a 1.686 miliardi di dollari. Ma ben piú importante, in alcuni casi vertiginoso, è l´aumento dei bilanci per le forze armate negli Stati Uniti, in Cina, in Russia in India. Crescono le spese militari anche in Europa, Italia compresa anzi prima in percentuale tra i membri europei dell´Alleanza atlantica nonostante la spending review e l´alto debito sovrano, mentre tendono a calare in quasi tutti i Petrostati a causa dei bassi prezzi del greggio. Ecco la precisa diagnosi dell´ultimo rapporto annuale del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), forse la fonte più attendibile in materia a livello mondiale. Vediamo la situazione, caso per caso. In Europa occidentale l´aumento complessivo è stato del 2,6 per cento, a conferma della tendenza iniziata l´anno precedente. Significativo il fatto che secondo il SIPRI è l´Italia il paese in cui è stato registrato l´aumento più notevole con un più 11 per cento tra il 2015 e il 2016. I dati sul nostro paese sono sostanzialmente confermati dalla Nato. Secondo cui la spesa militare italiana è aumentata l´anno scorso del 10,63 per cento. Nell’Europa centrale le spese per la difesa sono cresciute complessivamente del 2,4 per cento. Più marcatamente in paesi Nato come Polonia o Baltici, dove, rileva il Sipri, è aumentata la percezione-allarme per la minaccia posta dalla politica aggressiva della Russia di Putin. Trend nuovo e forte anche nel pacifico Grande Nord: la Svezia ha appena deciso di ristabilire la leva obbligatoria per donne e uomini e di aumentare il bilancio della Difesa del 15 per cento, viste le continue, pericolose provocazioni aeree, navali, sottomarine, di cyberwar e fake news da parte del Cremlino. Passiamo alle superpotenze. Gli Stati Uniti, dopo diversi anni di riduzione o contenimento, hanno aumentato le loro spese (611 miliardi di dollari) dell´1,7 per cento rispetto all´anno precedente. Ben superiore in percentuale è la crescita delle spese militari della Russia di Putin (69,2 miliardi di dollari, ma occorre tenere conto che il costo del lavoro anche nell´industria militare in Russia è infinitamente inferiore a quello negli Usa o in Europa) che registra una crescita del 5,9 per cento, e della Cina (analogo discorso come per la Russia sul basso costo del lavoro su cui “fare la tara”) con 215 miliardi e un aumento del 5,4 per cento. Putin ha rapidamente trasformato le sue forze armate dotandole di armamenti ultratecnologici dell´ultima generazione e di capacità operative dimostrate in modo devastante ad esempio con l´intervento in Siria. La Cina, che ha appena mostrato al mondo la sua prima portaerei fatta in casa, e dispone di migliaia di moderni jet da combattimento compresi tre modelli di cacciabombardieri stealth cioè invisibili ai radar nonché di una marina militare a crescenti capacità oceaniche di proiezione lontana della forza, ha a lungo termine capacità industriali e tecnologiche superiori a quelle russe, e si pone nel futuro come principale rivale degli Usa. Vola anche la spesa militare indiana, che aumenta dell´8,5 per cento, quinto paese nel mondo per investimenti nel settore militare) sia per l´arsenale nucleare coi primi missili intercontinentali, sia per modernissime armi convenzionali. Come il prossimo acquisto di circa 120 caccia invisibili Sukhoi Pak T-50, di produzione russa ma il cui sviluppo è reso possibile dalla collaborazione di team di ingegneri aeronautici indiani. In Medio Oriente si registra una crescita solo in alcuni paesi come Iran e Kuwait, mentre in Arabia Saudita e Iraq la diminuzione è netta: in Arabia saudita il calo è addirittura del 30 per cento. Anche altri paesi petroliferi non mediorientali, ad esempio il Venezuela (meno 56 per cento) che recentemente si era lanciato in una pazzesca corsa al riarmo acquistando cacciabombardieri bisonici e tank russi, hanno dovuto contrarre le spese, per il calo del prezzo del greggio e per fattori di grave crisi economica interna. Quello che in decenni passati i migliori economisti critici americani battezzarono “il complesso militare-industriale” gode insomma di ottima salute. Tanto più che i dati del Sipri non includono né il commercio di armi leggere come pistole, fucili da combattimento, bazooka, lanciarazzi portatili, né le spese di paesi chiusi a riccio con una censura assoluta, come la Corea del Nord. Le fake news su un Papa che difende sempre la vita di Claudio Magris Corriere della Sera, 20 maggio 2019 Quando Francesco parla di tutti gli esseri umani esposti a sofferenze e ingiustizie non fa che annunciare, come è suo dovere, il messaggio evangelico. Fake News, da qualche tempo una delle parole più frequenti della nostra realtà e delle sue cronache ; se arriva una notizia la prima cosa che ci si chiede è se non sia falsa, una fanfaluca o una truffa. Le tecniche della falsificazione sono molte. La bufala totale, l’annuncio di un avvenimento mai accaduto, di un disastro o di un attentato che non hanno avuto luogo. L’attribuzione di un delitto o di una delittuosa manovra a persone o a gruppi che non ne sono responsabili o la cui responsabilità non è stata accertata con rigore, come nei casi eclatanti di stragi. Menzogne goffe e pacchiane ma efficaci nel loro imponente e macchinoso rumore dai tanti decibel. C’è un’altra tecnica efficace: censurare la comunicazione di un fatto, darne una versione amputata di alcuni fondamentali elementi e dunque alterata ; citare solo quegli aspetti che sono utili alla tesi che si vuol sostenere o al risultato che con quell’informazione si vuole ottenere. Questa operazione chirurgica svisa radicalmente il significato di ciò che si dice o si scrive. Se si dà notizia che un uomo ha sparato ad un altro è importante sapere se per caso pure quest’ultimo impugnava una pistola o stava per sparare. Un esempio di tale deformazione tramite sottrazione è costituito da tante faziose aggressioni mediatiche a papa Francesco I, attaccato quale eversore della Tradizione cristiana cattolica, sabotatore della bimillenaria struttura della Chiesa, delle sue gerarchie e delle sue verità. Quale è la sostanza di tali anatemi ? Quando papa Francesco parla delle sofferenze degli uomini, di tutti gli esseri umani esposti a innominabili sofferenze e ingiustizie, non fa che annunciare, come è suo dovere, il messaggio evangelico, le parole di Gesù, il quale ha detto che respingerà e condannerà chi ha negato aiuto ai sofferenti, ai bisognosi, agli affamati assetati ed ignudi, perché così facendo ha negato aiuto pure a lui. La stessa idea di Europa di papa Francesco, più volte da lui ribadita, è l’idea di un’Europa solidale, laica e cristiana in quanto è stato il cristianesimo a sfatare l’assolutezza totalitaria del potere ed affermare i diritti inalienabili di ogni individuo nei confronti di ogni potere. Lo ha sottolineato di recente con grande vigore un intenso saggio di Dario Antiseri, studioso e filosofo liberale e liberista. Ma quando papa Francesco ha alzato la voce in difesa ad esempio dei migranti, gli ultimi degli ultimi, vittime di tutti e spesso usati da tutti in ignobili propagande politiche, è stato vilipeso e attaccato da demagoghi rozzi e inumani. Si è giunti a definirlo un agente al servizio di un bieco progetto di un nuovo Ordine asservito alla grande finanza speculativa e globalizzata, creatore di un’umanità omogeneizzata e indistinta. Papa Francesco diventa così un personaggio dei romanzi di James Bond, uno di quei nascosti o camuffati Signori del Male, a capo di misteriose e delittuose associazioni più o meno segrete che progettano distruzioni apocalittiche e planetarie. Come rivelano queste accuse pacchiane, la barbarie è spesso anche kitsch. Del resto lo starnazzare contro i Pontefici - ben diverso dalla critica rispettosa ma anche doverosamente dura nei confronti dell’uno o dell’altro pontificato - è un tiro al bersaglio prediletto nello sconcio Luna Park in cui viviamo. Quattro palle per un soldo, invita il baraccone. È accaduto pure al predecessore di papa Francesco, a Benedetto XVI, oggetto di molte indecenti trivialità, alle quali la sua personalità di grande intellettuale studioso aveva forse difficoltà a rispondere con la dovuta rudezza, come il pastore che prende il bastone per scacciare i lupi. Non ho mai capito, ad esempio, perché chi fischiava Benedetto XVI per la sua contrarietà al matrimonio omosessuale non abbia sentito il dovere di tirare almeno pomodori, ma possibilmente pure corpi più contundenti, contro le finestre delle ambasciate di quei Paesi in cui - come documentava una spaventosa fotografia sul Corriere di qualche anno fa - gli omosessuali vengono decapitati. Fake News sono pure le notizie parziali e dunque settarie. Spesso i bercianti contro papa Francesco lo accusano di infangare o alterare la tradizione cattolica. Dovrebbero leggere ciò che scriveva un notevolissimo intellettuale e poeta morto ancor giovane parecchi anni fa, Rodolfo Quadrelli, cattolico fortemente legato alla tradizione - che egli scriveva sempre con la maiuscola - il quale diceva che sia i tradizionalisti retrogradi sia i progressisti zelanti negano la vitalità della Chiesa : i primi perché la ritengono esaurita e dunque morta dopo i primi secoli, i secondi perché la vedono iniziare col modernismo, negandola in blocco per quel che riguarda i secoli precedenti. C’è chi accusa papa Francesco e i cattolici impegnati nel soccorso ai più sventurati - quali ma non solo i migranti sballottati in mare o sputati sulle spiagge - di trascurare i valori e la difesa della vita in tutto l’arco della sua parabola, dai primi battiti nel ventre materno agli ultimi sulla soglia della morte. Come mai non citano le parole e i moniti di papa Francesco sull’aborto e la sua disinvolta pratica, da lui definita “assassinio per mano di un sicario”, parole chiare e dure raramente sentite ? Pure in questo caso, l’omissione ovvero censura di un aspetto della realtà presa in esame altera e falsifica quella stessa realtà. Fake News, No News. Migranti. Scontro Salvini-pm, la sicurezza spacca il governo di Michela Allegri Il Mattino, 20 maggio 2019 I primi a scendere a terra sono stati una donna incinta e il marito, proprio quando il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ribadiva il diniego allo sbarco. Anche i 47 migranti a bordo della Sea Watch3 sono approdati a Lampedusa, mentre l’imbarcazione della Ong tedesca, sequestrata dalla Finanza, è stata scortata fino a Licata. La decisione di fare scendere i profughi è stata presa dai pm di Agrigento: il procuratore capo Luigi Patronaggio e l’aggiunto Salvatore Vella, gli stessi che per primi avevano indagato il ministro per il caso Diciotti, e che ora procedono per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Un via libera che ha irritato il vicepremier leghista, che poche ore prima si era scagliato anche contro l’Onu per le critiche al decreto sicurezza bis, e che riapre il fronte - mai sopito - dello scontro tra Viminale e magistratura. “È una nave fuorilegge - dice Salvini - Se qualche procuratore intende fare il ministro si candidi”. Poi, minaccia azioni giudiziarie: “Sono pronto a denunciare chiunque faccia scendere immigrati irregolari. Vale anche per organi dello Stato: se questo procuratore autorizza, vado fino in fondo”. Salvini assiste allo sbarco in diretta tv, “se qualche ministro ha dato l’autorizzazione ne risponderà davanti agli italiani. È stato Patronaggio o Toninelli”, sbotta. E a stretto giro arriva la replica del ministro delle Infrastrutture: “Se ha qualcosa da dirmi, me la dica in faccia. L’epilogo della vicenda è legato al sequestro. Si informi prima di parlare e trovi soluzioni vere sui rimpatri”. Intanto la procura di Agrigento fa sapere che il blocco della nave serve consentire accertamenti e anche per verificare se la condotta del comandante o della Ong abbia violato la legge. Ma il fronte dello scontro è più ampio e mette di nuovo a rischio la tenuta del governo. Perché il dossier sui migranti agita gli ultimi giorni di campagna elettorale per le Europee, con Salvini che cerca di forzare i tempi per avere l’ok al decreto sicurezza bis in Cdm: “Spero che nessuno voglia perdere altro tempo”, dice. E sottolinea poi il “silenzio” del premier Conte, “sono abituato ad avere avversari tra i poteri forti”. Anche la tensione con Luigi Di Maio resta alta, con il leader del M5S impegnato mostrare il volto moderato del Movimento rispetto alla Lega. La convinzione del Viminale è che l’intervento della Finanza sia stato fatto d’accordo con i pm per aggirare il divieto di sbarco, “un’accelerazione d’intesa che ha spogliato il Viminale delle sue competenze “ dicono dal ministro. Tesi che non trova d’accordo Di Maio: “Nessun espediente, la magistratura è indipendente. La Chiesa Valdese ha lanciato una disponibilità, lavoriamo sulla redistribuzione, queste tensioni non fanno bene al Paese”. Ma Salvini se la prende con tutti. Risponde con veemenza anche all’Alto Commissariato Onu, che in una lettera al ministro degli Esteri aveva criticato le direttive anti-migranti e chiesto di non approvare il decreto sicurezza bis. “È da Scherzi a parte”, il commento del vicepremier leghista. Mentre il ministro Enzo Moavero incarica il Rappresentante italiano alle Nazioni Unite di contattare i firmatari della lettera “per chiedere elementi più precisi sulle fonti utilizzate”. I migranti scendono dalla Sea Watch. Salvini: “Chi li ha autorizzati? Li denuncio” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 20 maggio 2019 Sequestrata la nave Ong. Il ministero dell’Interno: “I migranti non scendono, se qualcuno ha aperto il porto ne risponderà”. Ma il pm ordina che vengano portati sull’isola. L’imbarcazione sarà portata a Licata. Scatta il sequestro da parte della guardia di finanza della Sea Watch 3 ferma da due giorni al largo di Lampedusa e i 47 migranti a bordo vengono fatti sbarcare: 18 di loro - donne e bambini- erano stati autorizzati a scendere dalla nave già venerdì. La svolta è stata voluta dal pm di Agrigento nonostante il no ripetuto per tutto il giorno da Matteo Salvini. Per il Viminale infatti la Sea Watch è “una nave fuorilegge” e il ministro dell’Interno ha fatto sapere di essere “pronto a denunciare” chi abbia autorizzato lo sbarco, pm compresi. La vicenda dello sbarco dei migranti dalla Sea Watch ha creato tensione all’interno del governo, con uno scambio di “accuse” su chi possa aver autorizzato l’apertura dei porti italiani. Il vicepremier leghista ha scoperto dello sbarco - attraverso le motovedette, a piccoli gruppi su gommoni della capitaneria di porto - mentre era collegato in diretta tv da Firenze con Non è l’Arena su La7. “Chi è che li ha autorizzati a sbarcare? Io no, non ho autorizzato niente, deve essere qualcun altro. Io sorrido ma è grave. Perché siamo un Paese sovrano con leggi, regole, una storia e nessuna associazione privata se ne può disinteressare. Qualcuno quell’ordine lo avrà dato. Questo qualcuno ne deve rispondere”, ha commentato Salvini, lasciando aperta la possibilità che l’input possa essere arrivato dal ministro M5s Danilo Toninelli. E ha aggiunto: “Per me possono stare lì” sulla Sea Watch 3”fino a quando non intervengono o l’Olanda o la Germania, o la Libia e Malta. Non vedo cosa c’entri l’Italia. Per me possono stare lì fino a ferragosto: gli porto da mangiare, gli porto da bere. Sono pronto a denunciare per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina chiunque sarà disponibile a far sbarcare immigrati da una nave fuorilegge. Questo vale anche per organi dello Stato”. A stretto giro è arrivata la risposta del ministro dei Trasporti. “Porti chiusi a Sea Watch come a tutte le navi che non rispettano le convenzioni internazionali. Salvini, se ha qualcosa da dirmi, me la dica in faccia. Non parli a sproposito. È evidente che l’epilogo della vicenda è legato al sequestro della nave da parte della magistratura, non serve un esperto per capirlo. Magari il ministro dell’Interno si informi prima di parlare. E trovi soluzioni vere sui rimpatri, non ancora avviati da quando è il responsabile della sicurezza nazionale”. Gli ha fatto eco anche Luigi Di Maio: “Il sequestro lo esegue la magistratura quindi non credo sia un espediente” per far sbarcare i migranti a bordo “perché la magistratura è indipendente dal governo. Quando arrivano qui contattiamo i Paesi Ue e chiediamo la redistribuzione. Io credo che la politica delle redistribuzioni è l’unica strada che abbiamo per fronteggiare il fenomeno. Poi c’è il tema dei rimpatri”. Le autorità italiane avevano consentito il trasbordo e quindi lo sbarco a terra di 18 persone, i bimbi con le loro famiglie e una donna ustionata, ma il Viminale non aveva autorizzato fino ad ora l’approdo delle altre persone. La Sea Watch, nave di una Ong tedesca, ha soccorso i 65 migranti il 15 maggio a 30 miglia dalle coste libiche. Nelle ultime ore la nave era rimasta posizionata in acque internazionali, ai margini di quelle italiane. Ed è polemica tra il governo italiano e l’Onu dopo la lettera dell’Alto Commissario sul decreto sicurezza bis: “Viola i diritti dei migranti”. Secondo la missiva indirizzata al ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi - e trasmessa anche al ministero dell’Interno “la direttiva può incidere in maniera grave sui diritti dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime - o potenziali - di detenzione arbitraria, tortura, traffico di esseri umani e altre gravi violazioni dei diritti umani”. Diverse chiese protestanti avevano offerto la propria disponibilità ad accogliere gli stranieri. “Stanotte dormirò con i naufraghi, per terra, se mi verrà impedito di procedere allo sbarco entro sera. Non è una provocazione, ma un atto di solidarietà”, aveva invece dichiarato il comandante della nave, Arturo Centore. Svizzera. Sì a norme più restrittive sulle armi La Repubblica, 20 maggio 2019 Con un referendum la Svizzera ha detto sì a una legge più restrittiva sulle armi, secondo il modello delle norme antiterrorismo dell’Ue. I favorevoli sono stati il 63,7% dei votanti. Tra i Cantoni, solo nel Ticino la maggioranza è stata per il no. Al testo si erano opposti il partito conservatore e delle società sportive di tiro a segno. Il governo aveva fatto intendere che un’eventuale bocciatura della legge avrebbe potuto comportare un’esclusione della Confederazione elvetica, che non appartiene all’Ue, dagli accordi di Schengen e Dublino, con conseguenze negative in settori chiave come asilo, sicurezza e turismo e perdite per le casse svizzere di “diverse migliaia di milioni di franchi l’anno”. Le armi circolanti in Svizzera sono circa 2,3 milioni, tre ogni dieci residenti, proporzione che piazza il Paese al 16esimo posto nella classifica di armi pro capite. Non esiste un registro centrale delle armi, nè la legge approvata con il referendum lo introduce. La normativa prevede, però, che chi possiede un’arma ne comunichi il modello alle autorità e specifica quali armi sono proibite e quali sono consentite soltanto a chi debba farne uso sportivo, in questo caso con una “autorizzazione speciale” e controlli periodici. Gli elettori svizzeri hanno anche approvato ad ampia maggioranza in un referendum una riforma fiscale per adeguare la tassazione delle imprese agli standard internazionali. Chiamati alle urne, il 66,4% dei votanti e l’insieme dei 26 cantoni elvetici hanno detto “sì” al pacchetto di misure elaborato dal Parlamento e che associa la riforma della tassazione delle imprese a nuove misure per il finanziamento del principale pilastro del sistema pensionistico, l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (Avs). La riforma dell’imposizione delle imprese è stata varata per evitare il rischio di sanzioni internazionali ed adeguare la legislazione svizzera agli standard dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Standard che esigono l’abolizione di statuti fiscali speciali concessi a società che operano prevalentemente a livello internazionale e che saranno quindi tassate come le altre. Il testo approvato è denominato “Legge federale concernente la riforma fiscale e il finanziamento dell’Avs (Rffa)”. Esso abbina infatti a questa riforma fiscale alcune misure per assicurare i finanziamenti delle pensioni. Una “compensazione sociale” pari a 2 miliardi di franchi l’anno che saranno versati nelle casse dell’Avs. Tale somma dovrebbe corrispondere all’importo perso dalla Confederazione e dai Cantoni per offrire anche in futuro una tassazione sufficientemente attraente per le imprese, affinché restino in Svizzera, dopo a riforma. Molti oppositori alla legge hanno deplorato l’esito della votazione e criticato che il quesito abbia unito due tematiche tra loro estranee per assicurarsi la maggioranza. In passato, proposte presentate separatamente sui due temi erano state bocciate in votazione popolare. Libia, le prove dei crimini di guerra di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 maggio 2019 A sei settimane dall’inizio dell’offensiva per la conquista di Tripoli, Amnesty International ha denunciato l’esistenza di prove di attacchi indiscriminati contro il quartiere di Abu Salim che potrebbero essere qualificati, di fronte a un tribunale internazionale, come crimini di guerra. Il quartiere di Abu Salim - noto soprattutto per il famigerato carcere in cui nel 1996 Gheddafi ordinò una strage di detenuti - è stato attaccato coi missili durante una fase particolarmente aspra di combattimenti, intorno alla metà di aprile. A essere colpite sono state soprattutto le zone di Hay al-Intissar, Hay Salaheddin e il complesso residenziale chiamato “Edifici Kikla”. Sebbene queste zone siano controllate dalle Forze di sicurezza centrali di Abu Salim, una milizia affiliata al Governo di accordo nazionale di al-Sarraj, le immagini satellitari analizzate da Amnesty International non hanno evidenziato la presenza, al momento degli attacchi, di basi militari, posti di blocco od obiettivi militari nelle aree residenziali colpite o nelle loro immediate vicinanze. Non è certo chi abbia effettuato gli attacchi su Hay al-Intissar, Hay Salahaddin e gli “Edifici Kikla”. Le forze di al-Sarraj e l’Esercito nazionale libico (Eln) del generale Haftar si sono lanciati accuse a vicenda. Tutti i residenti di Abu Salim sentiti da Amnesty International hanno puntato il dito contro l’Eln. Quello che è chiaro è che entrambi gli schieramenti militari sono in possesso di razzi 107mm e lanciatori Grad, le armi impiegate negli attacchi. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità dal 4 aprile, quando è iniziata l’avanzata su Tripoli delle forze del generale Haftar, oltre 454 persone sono state uccise e 2.154 ferite. Tra i morti e i feriti ci sono anche operatori sanitari. Circa 70.000 persone sono state costrette a fuggire dalle loro case, a volte ricostruite dopo il conflitto del 2011. La situazione umanitaria è inoltre resa difficile dalle frequenti interruzioni della corrente e dalla carenza di forniture mediche ospedaliere. Stati Uniti. Crimini di guerra Usa, Trump prepara la grazia per i militari accusati di Sara Mauri Il Giornale, 20 maggio 2019 Chiesti i dossier al dipartimento di Giustizia. L’obiettivo è il Memorial Day del 27 maggio. E Pare che Trump abbia deciso di essere visto agli occhi del mondo come un nuovo “elargitore” di grazie. E che il perdono non resti prerogativa di pochi. Sembra, infatti, che Trump stia preparando le carte per graziare alcuni militari Usa accusati di aver commesso crimini di guerra. Appena chiusa la vicenda della concessione di grazia a Conrad Black, ex magnate dei media che aveva pubblicato un libro generoso su Trump, arriva questa nuova sorpresa: secondo il New York Times, venerdì la Casa Bianca avrebbe richiesto al Dipartimento di Giustizia i dossier necessari per procedere alle grazie di diversi membri delle forze armate. Le richieste sarebbero state inviate il giorno prima della celebrazione dell’Armed Forces Day, giorno dedicato alle forze armate, in previsione del Memorial Day del 27 di maggio, giorno in cui l’America rende omaggio ai caduti in guerra. Tra le richieste di documenti per la grazia (a parlare funzionari Usa che hanno scelto l’anonimato), ci sarebbe quella di Edward Gallagher, capo delle operazioni speciali dei Navy Seals. Accusato di aver sparato a civili disarmati e dell’uccisione di un prigioniero nemico in Irak, Gallagher dovrebbe essere processato nelle prossime settimane. Gli altri file dovrebbero contenere il caso di un ex appaltatore della sicurezza recentemente dichiarato colpevole di sparatorie verso iracheni disarmati nel 2007; il caso del maggiore Mathew Golsteyn, berretto verde dell’esercito accusato di aver ucciso un afghano disarmato nel 2010 e il caso di un gruppo di cecchini dei Marines che avevano urinato sui cadaveri di combattenti talebani morti. I documenti potrebbero contenere casi di altri militari. I membri delle forze armate accusati di crimini di guerra sono stato sostenuti da legislatori conservatori e molti hanno spinto affinché Trump intervenisse. Per la giustizia americana si tratta di persone condannate o in attesa di giudizio per crimini di guerra. I file includono dettagli sulle accuse penali o lettere che indicano pentimento. La concessione di grazia ai militari accusati di aver commesso crimini di guerra, però, non sarebbe un fulmine a ciel sereno. Già in passato, infatti, Trump aveva concesso delle grazie aggirando i protocolli e i canali tradizionali. Solamente all’inizio di maggio, ha graziato Michael Behenna, condannato per aver ucciso un iracheno durante un interrogatorio nel 2008. Ma il Trump aveva anche graziato alleati, come l’ex sceriffo dell’Arizona Joe Arpaio. Per l’assemblaggio dei file di grazia ci vogliono in genere mesi, ma i dossier sui militari dovranno essere pronti prima del Memorial Day. Se la richiesta dei documenti necessari per elargire le grazie mostra un segnale evidente delle intenzioni del presidente, è vero anche che Trump è noto per i suoi cambi di opinione repentini. La Casa Bianca non ha commentato. L’America concederà davvero la grazia ai militari Usa accusati di crimini di guerra? Per saperlo dovremo aspettare il 27. Brasile. Lula: “Da questa cella combatto per il mio Paese” di Domenico De Masi Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2019 Dalle 16 alle 17 del 25 aprile scorso il Dipartimento della Polizia Federale del Paranà ha permesso a me e a mia moglie di visitare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva nel carcere di Curitiba, dove è detenuto dal 7 aprile 2018 e dove deve scontare altri sette anni di prigionia. Siamo amici di Lula dal 2003 quando, in sua presenza, Oscar Niemeyer ci consegnò ufficialmente il progetto dell’Auditorium di Ravello. Prima di recarci nella prigione abbiamo pranzato con gli avvocati che lo difendono gratuitamente fin dal primo grado del processo. Ci hanno aggiornato sulla situazione penale del presidente, sullo stato di avanzamento del ricorso al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sulla procedura che avremmo dovuto rispettare nel carcere prima, durante e dopo la visita. In effetti non si tratta di un carcere vero e proprio, ma di una caserma della polizia Federale inaugurata - ironia della sorte - proprio da Lula nel 2007, quando era presidente, e ora usata come carcere speciale per i principali condannati nell’ambito dell’operazione Lava Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite, condotta dal giudice Moro, poi gratificato dal presidente Jair Bolsonaro con ben due ministeri riuniti in un super-ministero della Giustizia e della Sicurezza pubblica. Per arrivare alla cella di Lula siamo stati presi in consegna da un militare giovane e gentile che sovrintende a tutta la giornata del prigioniero; siamo stati sottoposti a un’attenta ma cortese perquisizione da parte di due poliziotte; abbiamo salito le scale che portano al piano superiore e siamo passati accanto a un microscopico cortile con alti muri di cinta che lasciano intravedere in alto solo un quadrato di cielo: è il luogo dove Lula, se vuole, può trascorrere l’ora d’aria quotidiana. Un piccolo corridoio porta alla cella del prigioniero. Davanti alla porta due guardie vigilano notte e giorno le telecamere a circuito chiuso. Lula ci accoglie con visibile affetto. Indossa una tuta, ci fa sedere a un tavolino di plastica con quattro sedie. Insieme a un letto che mi colpisce per la sua piccolezza, a uno scaffale, a un armadio, a un comodino, a un televisore (abilitato solo a tre canali nazionali) e a una cyclette (su cui fa sette chilometri al giorno per tenersi allenato), è tutto ciò che arreda una stanza di circa quattro metri per cinque. Qui Lula è condannato a stare in totale isolamento 24 ore su 24. Il lunedì, se vuole, può ricevere un cappellano; il giovedì, dalle 16 alle 17, può ricevere una o al massimo due persone, dietro permesso della direzione della prigione. L’unico conforto gli viene dalle voci che gli arrivano dall’esterno del carcere, dove un presidio di un centinaio di compagni convenuti da tutto il Brasile è attendato a turno, notte e giorno, e gli augura a gran voce il buon giorno, la buona notte, la libertà. Lula non è un intellettuale e quindi la lettura gli fa compagnia meno di quanta ne farebbe a me. Lui ha fatto studi sgangherati, anche se è il presidente del Brasile che ha creato il maggior numero di università disseminate in tutto il paese. Mi dice: “Mia madre era analfabeta e io sono ignorante. Ma mi chiedo come fanno tanti politici e tanti magistrati, pure essendo istruiti, a commettere errori e ingiustizie così gravi”. E poi aggiunge: “Sono ignorante, eppure avevo previsto la crisi prima di Tony Blair, prima di Putin, prima di Obama. Soprattutto avevo previsto che il prezzo maggiore l’avrebbero pagato i lavoratori”. La figlia gli ha fatto avere un termos di caffè. Ce ne offre con la fugace felicità di poterci accogliere quasi come se stessimo a casa sua. Parliamo dell’Italia: ricorda i suoi incontri ufficiali con Craxi, Berlinguer e Andreotti; i suoi seminari con i sindacalisti della Cgil e della Cisl. Si rammarica di essere stato solo una volta a Napoli: per assistere a una partita di Maradona. Sogna di tornare a visitare la toscana, ma è consapevole che il sogno non si avvererà. “Il Pci, tramutandosi man mano in Pd, ha dimenticato il popolo”, dice con la sua solita, fulminante lucidità. Si accorge che io guardo la cella con malcelato sgomento e mi dice: “Non preoccuparti: sono vissuto per anni, insieme a mia madre e ai miei sette fratelli, in una stanza molto peggiore di questa, nel retrobottega di un bar di San Paolo”. Ha fatto il lustrascarpe, il venditore ambulante, l’operaio in una fabbrica metalmeccanica dove, a 19 anni, ha lasciato un dito sotto una pressa. Mi chiede cosa penso dell’attuale situazione politica nell’Occidente e dello stato di salute della democrazia. Gli dico che sto leggendo Post-democrazia di Colin Crouch e mi è sempre più chiaro perché il neo-liberismo non poteva non fare piazza pulita di tutte le grandi riforme che lui ha realizzato durante gli otto anni della sua presidenza: Bolsa Família, Fome zero, Programa de Aceleração do Crescimento, difesa dell’Amazzonia, promozione dell’agricoltura familiare, Brasil Sem Miseria, aumento della scolarizzazione, tutti i programmi di welfare grazie ai quali 40 milioni di brasiliani hanno scalato i gradini sociali e il 54% ha raggiunto la classe media. A ripercorrerlo oggi con la memoria, sembrano miracolosi gli anni in cui tutto questo si potette fare ed è lampante il motivo per cui il capitalismo non poteva tollerarlo. Non a caso Warren Buffet, il quarto uomo più ricco del mondo, ha detto senza ritegno: “La lotta di classe esiste, siamo noi ricchi che la stiamo conducendo, e la stiamo vincendo”. Lula è in gran forma, lucido e combattivo come non mai, per nulla fiaccato da un anno di isolamento carcerario. È consapevole che, in America e in Europa, la sinistra non uscirà alla svelta dalla situazione in cui si è cacciata e che ora ha davanti a sé una lunga marcia da compiere. Anche i processi, le condanne, l’odio scatenato contro il Partito dei Lavoratori (Pt), le colpe vere che il Pt ha commesso e quelle che gli sono state cucite addosso dai mass media implacabili e concentrici, sono come un grande seminario, una grande auto-analisi alla quale la sinistra è costretta e dalla quale uscirà migliorata. Parliamo dei social media e del ruolo che essi hanno svolto nelle ultime elezioni brasiliane: Bolsonaro ha 7 milioni di follower su Facebook e 3,5 su Linkedin, oltre ad avere alle spalle la guida e la protezione di Bennon. Mi ricorda che qualche mese fa è morto un suo nipotino e il figlio di Bolsonaro ha esultato twittando che si trattava di una giusta punizione divina. Mi dice pure che quando sua moglie, morta di cancro, andò a farsi la prima tac, il referto apparve su Facebook prima di essere comunicato a lei e a lui. A suo avviso, comunque, il rapporto fisico, diretto, con il popolo, resta assi più umano, caldo, convincente di quello via internet. Insieme ci chiediamo - senza saper dare una risposta - come mai, in tutto il mondo, la destra usa internet con maggiore frequenza e maggiore efficacia della sinistra. Comunque la destra indulge alle fake news con una spregiudicatezza immorale che sarebbe impraticabile da parte di una sinistra coerente con i propri valori. Gli faccio notare che prima le bugie erano monopolio dei potenti - direttori di giornali, capi di Stato, ecc. - mentre ora, grazie a internet, sono alla portata di tutti: internet ha democratizzato la falsità. Ci fa notare che, nella società postindustriale, le dittature si appropriano del potere con modi e tecniche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati nella società rurale e in quella industriale. Oggi, per fare un golpe, non occorrono più i manganelli e i carri armati: basta l’azione combinata di quattro strumenti: i media, la magistratura, i social media e le libere elezioni. Con i media si manipolano le masse demonizzando gli avversari e rendendone ovvia e attesa l’eliminazione; con la magistratura li si mette in galera eliminandoli dalla competizione elettorale; con i social media si vincono le elezioni; con le elezioni si assicura un alibi democratico alla dittatura. In questo modo il Brasile è passato in soli tre anni da una democrazia compiuta a una post-democrazia in cui il presidente Bolsonaro, il vice-presidente e sette ministri sono militari. E, per colmo del paradosso, i militari, rispetto a Bolsonaro a suoi tre figli energumeni che lo affiancano notte e giorno, appaiono come altrettanti saggi moderati. Lula ci parla con calore e affetto. Soprattutto con la sottintesa consapevolezza della propria qualità di leader e del proprio ruolo di guida morale. Sa che in carcere sta conducendo la sua ultima battaglia, quella per il riconoscimento della propria innocenza; sa che da questa cella angusta deve riuscire a smascherare il “golpe” realizzato contro di lui, contro il Pt e contro i lavoratori tutti, dalla destra brasiliana in combutta con gli Stati Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto è cosciente che in questi pochi metri quadri si compie un piccolo pezzo di storia sua personale e del Brasile. Un’ora passa presto. Il carceriere ci ricorda che i 60 minuti sono scaduti. Lula ci lascia con tre viatici: sua madre gli ha sempre raccomandato la dignità e lui non la baratterà mai con la libertà. Ora ha 72 anni di età e ha da scontare altri sette anni di pena. Gli piacerebbe vivere in casa con i figli e i nipotini, ma non accetterebbe mai gli arresti domiciliari o il braccialetto elettronico. Si batterà fino alla fine per il riconoscimento della propria innocenza ma, se non riuscirà a dimostrarla, morirà in questa stanza, dignitosamente. Sulla porta, prima che noi lo lasciamo nella sua solitudine coatta, tiene a dirci ancora due o tre cose: “Se, fuori di qui, parlerete di questo nostro incontro, riferitelo in piena libertà, con le parole che vi suggerisce il cuore. Però intrattenetevi un poco con i compagni che presidiano la prigione per farmi sentire il loro affetto, riferite loro la mia gratitudine e ditegli, per conto mio, che la lotta è di lunga durata e che la dignità non può essere barattata con nulla”. Strana storia questa del Brasile, paese grande e incomparabile, dove però Bolsonaro vive nel palazzo presidenziale di Brasilia e Lula vive in una cella di pochi metri quadrati.