L’uomo che ha servito la giustizia e lo Stato 306 volte fuorilegge di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 maggio 2019 Oggi va in pensione Luigi Pagano, vero servitore dello Stato e fra gli uomini che più hanno contribuito a rendere meno incivili le carceri. Ma non va in pensione l’ipocrisia degli imbucati al coro di meritati tributi, che poi nei loro ruoli di decisori politici restano sordi alle grida dei numeri. Ad esempio alla curva dei rimedi risarcitori al sovraffollamento secondo le due forme di legge, e cioè sconto al detenuto di 1 giorno di pena ogni 10 di lesione subita, o 8 euro di compensazione per giorno di pregiudizio. “Il flusso di questi reclami per violazione dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo - osservano sul luglio 2017 - giugno 2018 i giudici di Sorveglianza - si è ormai stabilizzato a livelli decisamente più elevati rispetto al passato e con una molto significativa percentuale di esiti favorevoli”: a Milano 101 reclami accolti su 234 decisi, addirittura 100 su 140 a Pavia, 105 su 123 a Varese. Come dire che, in un anno, lo Stato si è riconosciuto 306 volte fuorilegge. Proprio nei luoghi dove dovrebbe insegnarne il rispetto. Lega: detenuti serbi, kenyani e kazaki sconteranno pena nei loro Paesi agvilvelino.it, 1 maggio 2019 “Grazie a queste ratifiche di accordi e trattati, fortemente voluti dalla Lega, i detenuti serbi, kenyani e kazaki sconteranno la pena per i crimini commessi qui in Italia nelle prigioni del loro Paese. Una collaborazione con gli altri Governi fondamentale per l’Italia che si inserisce nell’ambito degli strumenti finalizzati all’intensificazione e alla regolamentazione dei rapporti di cooperazione tra Italia e altri Paesi, con i quali si persegue l’obiettivo di rendere più` efficace il contrasto alla criminalità. Attualmente, ad esempio, i cittadini serbi detenuti nelle prigioni italiane sono 154 mentre solo un italiano è detenuto in carceri serbe”. Così i deputati della Lega Dimitri Coin, Vito Comencini e Simone Billi. “Come gruppo Lega siamo sempre stati favorevoli a tutti quegli accordi internazionali che prevedono l’estradizione dei criminali ed ancor meglio se questa estradizione porta davvero allo scontare la pena nel proprio territorio. Anche il primo accordo con il Kenya intende disciplinare con chiarezza il settore dell’assistenza giudiziaria penale: ad esempio su richiesta degli stati contraenti ci si impegna a consegnare persone ricercate. L’obiettivo è garantire il principio della doppia incriminazione che è fondamentale; come dopo il caso di Cesare Battisti, dove la collaborazione con gli altri Governi è stata fondamentale per l’estradizione del criminale che si trovava in un altro Paese”, hanno concluso i deputati del Carroccio. Stanchi della toga, magistrati in fuga di Gigi Di Fiore Il Mattino, 1 maggio 2019 Sempre più giudici e pm chiedono di andare in pensione in anticipo. Emorragia nelle Corti di Appello, vuoti in organico anche in Cassazione. È una vera emorragia. Fuga dalla magistratura. Nell’ultimo anno e mezzo, sono aumentate le richieste di pensione anticipata istruite dalla quarta commissione del Csm. È la generazione che visse gli anni di Tangentopoli ad abbandonare la toga con una media di 3-4 anni d’anticipo rispetto al limite consentito. In un anno e mezzo, sono state 232 le delibere definite su magistrati che hanno utilizzato, avendo raggiunto 40 anni di contributi, la possibilità di andare via prima. In altri 30 casi, le domande sono in istruttoria. Tra le richieste a Napoli, il nome più famoso è quello del presidente del Tribunale, Ettore Ferrara, che ha spiegato: “Vado via perché sono stanco e amareggiato. Mi sono sentito abbandonato in decisioni delicate prese da solo”. Ma a Napoli anche altri magistrati con ruoli direttivi chiedono di andare in pensione prima. Come Marco Occhiofino, gip degli anni di Tangentopoli e attualmente presidente di sezione del Tribunale. Dopo otto anni, avrebbe dovuto cercare un equivalente ufficio direttivo in concorso o retrocedere a giudice. Ha preferito andarsene. Come il presidente della prima sezione di Corte d’appello napoletana, Maria Cultrera. E poi c’è anche il presidente vicario della Corte d’appello, Antonio Casoria. E altri magistrati con incarichi direttivi o semi-direttivi lasciano. Come Fausta Como, presidente di sezione nel settore civile, o Angela Cirillo, presidente di sezione al Tribunale per i minori. Conferma Antonio Lepre, presidente togato della quarta commissione del Csm: “Sì, è vero, c’è una vera e propria corsa di colleghi alla pensione in anticipo. Un chiaro segnale di disagio in un lavoro che alcune riforme legislative hanno reso più burocratizzato, privilegiando la quantità alla qualità del lavoro giudiziario”. Demotivazione, responsabilità in aumento con riforme che modificano norme senza incidere sugli organici e sull’organizzazione degli uffici. Due mesi fa, il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, fornì i dati sui magistrati in servizio: sono 9.921 (7.430 giudici e 2.491 pm), ma gli organici ne prevedono 10.751. I fuori ruolo sono 217. La fuga dagli uffici giudiziari riguarda soprattutto le Corti d’appello. Il record spetta a Milano: su 33 domande di pensione anticipata, 22 provengono dalla Corte d’appello. Un trend comune anche a Napoli, dove su 27 domande sono 12 quelle dalla Corte d’appello. Stesso fenomeno a Roma, dove su 22 domande ben 12 arrivano dalla Corte d’appello e 10 dal Tribunale. Naturalmente, è il settore giudicante quello da cui i magistrati scappano. Quello più oscuro, più gravoso, pieno di fascicoli e meno di riflettori. Le Corti d’appello confermano carenze strutturali che, un mese fa, costrinse il presidente della Corte d’appello napoletana, Giuseppe De Carolis, a denunciare le difficoltà a smaltire gli arretrati. I motivi? Proprio i crescenti vuoti di organico e l’accumulo di sentenze degli anni passati. Ma, forse per la prima volta negli ultimi anni, la fuga in anticipo investe anche gli uffici della Cassazione che in passato venivano considerati i più tranquilli. Quelli da cui quasi nessuno andava via fino allo scadere del termine ultimo per la pensione di vecchiaia, prima a 75 anni poi dal 2016 a 70. E invece, tra le domande arrivate al Csm, ben 15 sono partite da giudici della Cassazione. Per questo, non sembra un caso che il 17 aprile il plenum del Csm abbia ratificato la decisione del ministro Alfonso Bonafede di bandire concorsi per nuovi posti negli organici della Cassazione: 4 presidenti di sezione, 1 posto di avvocato generale, 48 consiglieri, 17 sostituti procuratori generali. Ma le domande di pensione anticipata restano. E ne sono state depositate anche tre in applicazione della riforma di quota 100, su cui però il Csm sta ancora esaminando l’estensione ai magistrati. Quattro mesi fa, anche l’ex ministro Anna Finocchiaro ha chiesto di andare in pensione. Avrebbe dovuto tornare a fare il magistrato, dopo appena sei anni di effettivo servizio e 32 di aspettativa per incarichi politici. Ha scelto di andarsene. E se i magistrati, anziché andare in tv, si esprimessero solo con i loro atti? di Antonino D’Anna Italia Oggi, 1 maggio 2019 Pier Paolo Pasolini, poco tempo prima di morire, affermò che a tutti noi farebbe comodo addebitare la violenza a una causa esterna. Ancora una volta i fatti di Manduria (Ta), con la drammatica morte di Antonio Stano seguita a un lungo periodo di violenze e vessazioni gratuite da parte di un gruppo di ragazzini (ma al momento non è chiaro se l’uomo sia morto per diretta conseguenza di quanto accaduto), provano che il vecchio Ppp aveva perfettamente ragione. Come funziona il gioco? Funziona così: Manduria è stata additata al mondo come sentina di tutti i mali, visto e considerato che le aggressioni a Stano si sono verificate nell’indifferenza più completa di una popolazione intera. In tutto questo la madre di uno di questi ragazzini dice che a Manduria non c’è niente, ci sono solo i bar. La violenza, dunque, se c’è stata è comunque figlia dei bar, visione da Sud Italia anni 70 (e anche 50) nella quale i locali di ritrovo erano - per le anime timorate di Dio - sentine di vizio frequentate da perdigiorno che fischiavano alle ragazze facendo i pappagalli. E dopo una cartolina del genere si conclude che la causa esterna nella causa esterna è stata finalmente individuata. Chiudiamo tutti i bar d’Italia e nessuno pesterà pensionati. Ovviamente gli altri 60 milioni di italiani che non vivono a Manduria possono sentirsi rassicurati: queste cose sono roba per altri, cose così possono succedere soltanto lì. Memoria corta: tanto per fare un esempio, il 1° febbraio scorso il giudice del Tribunale dei Minori di Venezia Maria Teresa Rossi ha così deciso sui ragazzi che hanno dato fuoco ad Ahmed Fadil, marocchino 64enne a Santa Maria di Zevio, nel Veneto della piena occupazione. Uno ha 13 anni e dunque non è imputabile; l’altro ne ha 16 e la giudice gli ha concesso la messa in prova per tre anni. Ossia, scrive Repubblica.it, comunità, lavori socialmente utili e psicoterapia. Come vedete queste cose succedono ovunque: ma trovare la causa esterna rilassa e scarica le coscienze. Il punto non è sindacare le decisioni della dottoressa Rossi: il punto è che la dottoressa Rossi non ha fatto, come i magistrati tarantini, dichiarazioni nelle quali preannunciava eventuale uso del pugno duro. Non bastava tutto quel che questi giovanottini manduriesi avrebbero combinato (avrebbero, perché anche loro sono presunti innocenti fino a sentenza definitiva); ci voleva anche il procuratore della Repubblica di Taranto, dottor Carlo Maria Capristo, che, parlando al Tg1, ha detto che saranno chieste pene esemplari nei confronti di chi sarà ritenuto responsabile. Permettetemi di pensare che dichiarazioni del genere mi mettono a disagio come cittadino italiano. Credo che, in uno Stato di diritto, un magistrato debba esprimersi attraverso le sue richieste di pena nel processo e attraverso le sentenze del processo: dire in anticipo che si chiederanno pene esemplari non credo sia rispettoso nei confronti di chi sarà imputato. Perché, anche se non sono figli nostri, potrebbero esserlo. E se qualcuno tra loro fosse innocente che cosa succederebbe? Non esiste una dose accettabile di illegalità di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 maggio 2019 Il magistrato di Catanzaro Emilio Sirianni è finito in prima pagina perché indagato dal procuratore di Locri per favoreggiamento di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace coinvolto nell’inchiesta sulla gestione dei fondi per l’accoglienza dei migranti. “Da calabrese ho pensato e detto spesso cose truci della terra in cui sono nato e ho scelto di rimanere. Perché è una vita che mi misuro ogni giorno con l’ottusità predatoria delle sue classi dirigenti e l’ottusità servile delle sue genti”, scrive sul sito volerelaluna.it(lodando un libro di Chiara Sasso: Riace, una storia italiana) il magistrato di Catanzaro Emilio Sirianni, finito in prima pagina perché indagato dal procuratore di Locri per favoreggiamento di Mimmo Lucano, il sindaco di Riace coinvolto nell’inchiesta sulla gestione dei fondi per l’accoglienza dei migranti. “È una vita”, prosegue lo sfogo contro quella Calabria a volte insopportabile, “che assisto impotente allo sperpero feroce della sua bellezza, quella che si vede (e si vede sempre meno) e quella che non si vede e sta in luoghi remoti dell’animo, in ricordi che ci portiamo dietro e fatichiamo sempre più a tener vivi. Capirete quindi quella sorta di manata al petto quando lessi la prima volta di un’utopia realizzata proprio qui, in questa terra che è sempre stata dieci passi avanti al resto del Paese in tutto ciò che vi è di peggio. Corsi lì subito e non potei più smettere di continuare a farlo, con le gambe e con il cuore”. È difficile, per chi ha visto troppi esempi di canagliume intorno allo sfruttamento del business immigrazione, come l’affidamento di rifugiati a società specializzate in “derattizzazione” o ad albergatori che si vantavano d’essere ostili agli “altri” ma invocavano le prefetture al grido di “ridateci i nostri profughi!”, non capire lo spirito, la generosità, la disponibilità di Mimmo Lucano. Preso a modello anche da registi come Wim Wenders. Ma è difficile anche comprendere certe “scorciatoie” illegali (“sono un fuorilegge”) che gli sono imputate. Men che meno però, se è vero quanto scrive il procuratore di Locri Luigi D’Alessio, è comprensibile che un magistrato non si limiti a una generica solidarietà ideale ma consigli un imputato sulle mosse da fare, lo solleciti a “cancellare le mail che si scambiava con lui”, lo allerti “a parlare di persona evitando comunicazioni telefoniche” e via così. Per sostenere le buone ragioni e contrastare le norme sbagliate chi maneggia la giustizia deve credere un po’ di più nella legalità. O esiste una dose omeopatica di illegalità accettabile? Nuovo Cinema Inferno di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 1 maggio 2019 Se combino qualcosa che reputo buono e me ne vanto con gli amici, sono un narciso. Ma se combino qualcosa di orribile, mi riprendo con il telefonino mentre lo faccio e poi sparo il filmato nell’iperspazio affinché tutti ammirino la mia malvagità, che cosa sono? Anzitutto un fesso, verrebbe da suggerire, dal momento che proprio quelle immagini serviranno a inchiodarmi alle mie responsabilità. Una spiegazione suggestiva, ma forse non esaustiva. Ci dev’essere qualche altro demone a spingere un delinquente a squarciare deliberatamente il muro di omertà e di mistero che da sempre accompagna gli atti delittuosi. Ormai non esiste fattaccio di cronaca che non si porti dietro un fardello di prove inconfutabili raccolte e diffuse dagli stessi carnefici. Andiamo a Manduria, vicino a Taranto, dove una banda di adolescenti inariditi dalla noia si accanisce a telefonino sguainato su un anziano fragile e indifeso. Nei video, che con decisione discutibile la polizia di Stato ha reso di pubblico dominio, si vedono quei ragazzini infierire sul pover’uomo. Gli lanciano i cappotti addosso, come se fosse un attaccapanni. Lo riempiono di ceffoni e di insolenze. Lui urla e chiede aiuto, loro sghignazzano e continuano l’opera di umiliazione. Uno schifo da nascondere anche a sé stessi. E invece quei tangheri sembrano andarne fieri. Non si limitano a riprendere le torture inferte a un inerme. Le diffondono con voluttà, in una chat chiamata “Gli orfanelli”, dal nome del loro oratorio di provenienza. Stendiamo un velo pietoso, anzi non stendiamolo affatto, sui tanti adulti che ricevono le immagini nei loro telefoni e non muovono un dito, se non il pollice per scorrere al video successivo - l’indifferenza è la vera malattia dell’anima - e torniamo ai nostri bulletti. Perché sentono il bisogno di farci conoscere le loro pulsioni peggiori, quelle che un tempo avremmo definito “indicibili” e che ora invece vengono addirittura esibite, forse con orgoglio, di sicuro con disinvoltura? O quei ragazzi non sanno più distinguere il bene dal male e postano sui social le loro botte a un anziano con lo stesso spirito con cui posterebbero un canestro decisivo nella finale del torneo di basket della scuola. Oppure hanno smarrito qualsiasi nesso logico tra azione e risultato e non sanno più collegare la causa (video diffuso sulla chat) con l’effetto (prima o poi quel video arriverà sul telefono di un poliziotto). A meno che le nuove generazioni vivano lo smartphone come una protesi e non riescano nemmeno più a concepire i propri atti disgiunti dalla loro rappresentazione scenica: una cosa esiste solo se io la “mando in onda”. I protagonisti di queste vicende sono sempre giovanissimi. L’imprenditore adulto (si fa per dire) che a Afragola scattava foto intime alla sua ex dopo averla violentata, minacciando di mandarle agli amici se lei non gli avesse restituito in contanti il valore dei regali che lui le aveva fatto nel corso degli anni, usava le immagini come arma di ricatto. Una finalità bieca, ma almeno razionalmente decrittabile. I ragazzi cresciuti fin da piccoli con uno smartphone tra le dita la pensano in modo diverso. Prendiamo i due camerati ventenni di Casapound che hanno abusato di una donna in un pub di Viterbo. Il video con cui hanno ripreso le proprie gesta non obbedisce ad altro scopo che a vellicare una concezione criminale e distorta di maschilismo. Nelle immagini si vede la vittima sdraiata per terra nel bar. Uno dei ceffi le solleva un braccio e lo lascia ricadere subito giù, per avere la prova che la donna è svenuta a causa del pugno che lui o il compare le ha appena esploso in faccia. Il film prosegue, ma non è né Spielberg né Fellini, solo un becero susseguirsi di gesti meschini: loro che la spogliano e la violentano a turno. La giudice delle indagini preliminari ha parlato di scene raccapriccianti. Ma allora perché i due violentatori le hanno riprese? E come fanno a dichiararsi innocenti, quando sono stati loro stessi a confezionare le prove della propria colpevolezza? Può essere che il telefono dia ai carnefici la percezione di trovarsi dentro una nuvola di impunità? Preferisco credere alla tesi opposta: che nel subconscio di questi balordi covi il bisogno di venire smascherati. E che lo smartphone, in cambio di un quarto d’ora di gloria autocelebrativa, offra loro la possibilità di costruirsi da soli le sbarre della propria prigione. Castrazione chimica, l’impatto mediatico e i dubbi tra efficacia e deriva giuridica di Alessandro Moscatelli* Corriere Veneto, 1 maggio 2019 Tolleranza zero nei confronti dei sex offenders. Lo sdegno nei confronti degli autori di reati a sfondo sessuale, stanno indicendo il Legislatore ad imbracciare anche su questo tema la via delle risposte immediate al fine di offrire una reazione “dura” ad una escalation di violenza, che vede coinvolti sempre più anche minori. E su questa scia, c’è chi invoca a gran voce l’introduzione anche nel nostro ordinamento della cosiddetta castrazione chimica. Misura esclusa dal disegno di legge del governo c.d. “Codice rosso”, ma non per questo abbandonata: come precisato da autorevoli esponenti del governo, si tratta solo di un dietrofront momentaneo, con l’impegno di includere tale strumento in un provvedimento ad hoc. La speranza è che il legislatore, si interroghi profondamente sull’efficacia della cd. castrazione chimica per la repressione dei reati a sfondo sessuale. Va preliminarmente sollevato un dubbio, siamo sicuri che subordinando la sospensione condizionale della pena a trattamenti farmacologici inibitori della libido, con il consenso del condannato, venga rispettata la funzione preventiva, rieducativa e retributiva della pena? Sarebbe ingenuo pensare che, una repressione temporanea dell’impulso sessuale sia sufficiente ad inibire il comportamento patologico deviante dei sex offenders. La violenza sessuale non è quasi mai, infatti, la soddisfazione di un impellente bisogno fisiologico, di un impulso ma spesso trae soddisfazione dall’esercizio del potere e del dominio sulla vittima, molto spesso sono addirittura azioni di offesa pianificate nel tempo. E a proposito di fisiologia, pare lecito domandarsi come andrà diversamente coniugato il suddetto trattamento ormonale a seconda che il colpevole di reati a sfondo sessuale sia un individuo di sesso maschile o femminile. Infatti, questi delitti, un tempo prerogativa prettamente maschile, sono oggi commessi anche da donne, seppur in bassa percentuale. Si pensi al recentissimo caso dell’insegnante che ha ripetutamente abusato di un suo alunno. In ogni caso, affinché queste terapie abbiano una qualche forma di successo, sarebbe necessario affiancare al trattamento farmacologico anche sedute di psicoterapia volte alla rieducazione del colpevole. È evidente però che in tali casi è di estrema importanza la motivazione dell’individuo al cambiamento. E quale motivazione potrà mai avere un condannato per reati sessuali che sceglie di sottoporsi temporaneamente a trattamenti inibitori della libido al fine di evitare il carcere? C’è il grande rischio quindi che queste terapie diventino una mera finzione. C’è poi da ricordare che la castrazione deve inevitabilmente essere temporanea e reversibile. Diversamente, tale strumento sarebbe manifestamente incostituzionale, incidendo in modo permanente su un diritto indisponibile della persona. Ed a questo punto chi garantisce, una volta terminata la terapia ed esauriti gli effetti farmacologici, la non recidività del soggetto? Potrebbe verosimilmente riemergere tutta la pericolosità sopita in via temporanea dal farmaco, plausibilmente potenziata dal noto effetto contrario conseguente alla sospensione della somministrazione del trattamento farmacologico. C’è poi il tema del consenso prestato per sottoporsi alla terapia farmacologica, in che modo esso viene concesso dal reo, in quali condizioni psicologiche deciderà di prendere la pastiglia o di farsi l’iniezione. La castrazione chimica è, dunque, una misura che apre la strada a parecchi interrogativi. Portato alla ribalta dell’attenzione pubblica per risolvere un grave problema che tocca dritto al cuore della società civile, è in realtà una soluzione sotto molti punti di vista inefficace, traducendosi in un modo giuridicamente lecito di evitare il carcere. Le misure premiali e i benefici penitenziari non sono infatti, secondo il nostro ordinamento penitenziario, concessi sulla base dell’osservazione scientifica della personalità e della rispondenza a trattamenti personalizzati, così da poter rispondere ad una effettiva diminuita pericolosità sociale del soggetto, ma potrebbero essere erogati in modo indiscriminato, così rispondendo alla sete popolare di giustizia. Ecco allora che, in questa prospettiva, la castrazione chimica potrebbe assumere i connotati di una risposta a basso costo (al contrario di seri percorsi riabilitativi che richiedono invece sforzi certamente più complessi) e ad alto impatto mediatico per dimostrare quanto il legislatore abbia a cuore la problematica dei reati sessuali. Occorre, quindi, arrestare al più presto questa deriva giuridica e trovare in fretta un’efficace soluzione ad un problema che si radica nella psiche della persona, e non nei suoi livelli di testosterone. *Avvocato La verità di Fiammetta Borsellino sulla strage di via d’Amelio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2019 La figlia del magistrato ucciso da cosa nostra sarà all’università di Rende. Con la presenza eccezionale di Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice antimafia dilaniato dal tritolo dalla mafia, si approfondirà anche il tema della ‘ nuova’ emergenza che permise l’introduzione del 41bis e la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e l’Asinara. Giovedì 2 e Venerdì 3 maggio la figlia del giudice Paolo Borsellino sarà infatti ospite a Catanzaro, presso l’aula magna della Facoltà di Sociologia e a Rende, presso la Sala Tokyo del Museo del Presente alle 10. Gli incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus e realizzati in collaborazione con il Comune di Rende, la Camera Penale di Cosenza “Fausto Gullo” e l’Università Magna Graecia, rivolti principalmente agli studenti medi e universitari, avranno lo scopo di non parlare della solita antimafia, molto spesso di facciata, ma saranno finalizzati a ricostruire i motivi della strage di Via d’Amelio che vanno oltre le narrazioni vigenti. Sì, perché tante sono le domande, finora rimaste inevase, su alcuni punti oscuri ancora del tutto da chiarire. “La testimonianza di Fiammetta - scrive in una nota l’associazione Yairaiha - è ricerca di verità. Chi ha voluto veramente le stragi? Perché l’inquinamento delle prove? Perché le omissioni, i depistaggi? Perché il dossier mafia-appalti viene archiviato dopo due giorni dalla strage? Per troppo tempo sono prevalse diverse “verità processuali” contrapposte l’una all’altra, che non cercavano la verità, ma saziavano l’opinione pubblica che chiedeva giustizia”. Gli organizzatori sottolineano che “le stragi di Capaci e Via d’Amelio hanno segnato indelebilmente la storia d’Italia: per oltre un quarto di secolo le “verità” processuali, hanno offerto una ricostruzione perimetrata in una strategia della mafia. 26 anni di processi basati su indagini approssimative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia ora smentiti ora riaccreditati, salvo poi rivelarsi collaboratori pilotati o costretti alla collaborazione”. A differenza del teorema sulla presunta Trattativa Stato Mafia che avrebbe offerto delle concessioni ai mafiosi come l’ammorbidimento del 41bis, pare che gli organizzatori del convegno raccontino invece un’altra storia. “La “nuova” emergenza - scrivono sempre nella nota - permise l’introduzione del 41bis e la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e l’Asinara. I racconti dalla sezione Agrippa fanno emergere come “normale” trattamento penitenziario vessazioni e torture sistematiche. Migliaia di prigionieri in quegli anni, colpevoli o innocenti, vengono torturati e umiliati dagli agenti dello Scopp (antesignano del Gom). Queste torture verranno denunciate da un coraggioso Magistrato di Sorveglianza, Rinaldo Merani, che invierà una dettagliata relazione - denuncia alle Procure di Livorno e Firenze”. La storia della strage di Via D’Amelio offre molteplici piani di lettura e analisi che implicano la storia politica, giudiziaria, economica e sociale dell’intero Paese. “In questi due incontri - continua la nota - assieme a Charlie Barnao, Cleto Corposanto, Sandra Berardi, Marcello Manna, Marina Pasqua, Lisa Sorrentino, Ciro Tarantino e Maurizio Nucci, proveremo a ricostruire alcuni degli aspetti più salienti di quello che i giudici del Tribunale di Caltanissetta nel Borsellino- quater, con la sentenza del 2017 - le cui motivazioni sono state depositate a luglio del 2018 - hanno definito “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Assieme - conclude l’associazione Yairaiha - proveremo a ricomporre un pezzo di storia che ha avuto molti giudici e poche verità”. Giulio Regeni, nasce la commissione che affianca la procura di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 maggio 2019 La Camera dà mandato a venti deputati di indagare per un anno al fine di individuare le responsabilità e le circostanze politiche dell’assassinio. Il presidente della Camera, Roberto Fico: “È un messaggio a chi pensa che lo Stato italiano, il Parlamento italiano si dimentichino di Giulio Regeni. Invece andiamo avanti fino in fondo per ottenere la verità per un nostro ragazzo torturato e ucciso in Egitto”. Avrà i poteri dell’autorità giudiziaria ma non la funzione giurisdizionale che è in capo alla magistratura, la Commissione monocamerale di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni istituita ieri dalla Camera con voto quasi unanime. In altre parole, potrà utilizzare gli stessi strumenti degli inquirenti - con le limitazioni imposte dal rispetto dell’inchiesta aperta dalla procura di Roma all’indomani del 3 febbraio 2016, quando sulla strada tra Il Cairo e Alessandria venne ritrovato il corpo quasi irriconoscibile del giovane ricercatore friulano - ma con la finalità di individuare non certo le responsabilità personali e penali, ma quelle politiche. Quelle cioè che il pm Sergio Colaiocco e il procuratore capo Giuseppe Pignatone - che tra un mese andrà onorevolmente in pensione - non hanno potuto indicare. Malgrado un lungo ed efficace lavoro di indagine, costantemente ostacolato dalle autorità egiziane. Dopo la discussione generale di lunedì tra i pochissimi deputati rimasti al lavoro nel lungo ponte festivo, i voti a favore della Commissione sono stati 379, mentre si sono astenuti solo 54 deputati di Forza Italia che avevano sostenuto un emendamento volto a focalizzare il campo di inchiesta sulle “possibili connessioni” tra la morte del ricercatore italiano e “l’attività di ricerca in ambito accademico effettuata dallo stesso”. Ossia, sul ruolo dell’Università di Cambridge e della tutor di Giulio, la professoressa Maha Abdel Abdelrahman. Anche perché, spiega Pierantonio Zanettin, primo firmatario dell’emendamento di FI, “siamo preoccupati per una eventuale rottura di rapporti tra Italia ed Egitto che resta un baluardo essenziale contro il terrorismo fondamentalista”. Con la Lega, che aveva adottato una strategia ostruzionistica, invece l’accordo è arrivato riducendo il budget di spesa previsto (che nel testo base era fissato a 100 mila euro) e la durata del primo mandato (erano 18 mesi sia nella proposta di Erasmo Palazzotto, di Sinistra Italiana, che in quella di Sabrina De Carlo, M5S). Così, alla fine, i venti deputati che faranno parte della nuova Commissione, designati dai gruppi parlamentari proporzionalmente al peso politico, avranno a disposizione un anno e 60 mila euro per “raccogliere tutti gli elementi utili per l’identificazione dei responsabili della morte di Giulio Regeni nonché delle circostanze del suo assassinio”. E “verificare fatti, atti e condotte commissive e omissive che abbiano costituito o costituiscano ostacolo, ritardo o difficoltà per l’accertamento giurisdizionale delle responsabilità relative alla morte di Giulio Regeni, anche al fine di valutare eventuali iniziative normative per superare, nel caso di specie e per il futuro, simili impedimenti, nonché per incrementare i livelli di protezione delle persone impegnate in progetti di studio e di ricerca all’estero, in funzione di prevenzione dei rischi per la loro sicurezza e incolumità”. Al termine dei 12 mesi la Commissione, che potrà sempre riferire alla Camera “anche nel corso dei propri lavori, ove ne ravvisi la necessità o l’opportunità”, dovrà presentare una relazione conclusiva. Che si spera possa essere più incisiva di quanto sia stato, per esempio, il rapporto della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi presieduta dall’allora senatore Ignazio Marino, che pure già nel marzo 2010 individuò - inutilmente, dal punto di vista delle conseguenze - la presenza di fratture recenti sulla schiena del cadavere del povero geometra romano. “Oggi è un giorno di festa perché questa Commissione ha un grande valore simbolico e politico - esulta invece Erasmo Palazzolo cercando di fugare ogni dubbio - Dopo anni di depistaggi e mistificazioni finalmente il Parlamento ha fatto un passo avanti verso la ricostruzione di una verità storica e politica su una delle pagine più tristi per il nostro Paese. Con la Commissione, l’Italia potrà individuare e indicare le responsabilità politiche, nonché i moventi e le circostanze del suo assassinio”. Sull’incisività del nuovo organismo non ha dubbi neppure il presidente della Camera, Roberto Fico, che si è detto “molto soddisfatto” per l’approvazione della pdl. “Oggi, dopo tre anni, dovrebbero esserci la verità, la giustizia e non la commissione di inchiesta, ma purtroppo, siccome non ci sono state, dobbiamo andare avanti e usare ogni strumento”. Contemporaneamente, ha assicurato Fico, “il governo e senz’altro anche il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio” si stanno occupando dell’eventuale interruzione degli scambi commerciali con l’Egitto se non ci saranno sviluppi giudiziari. In ogni caso, per il presidente della Camera questo passo “è un messaggio a chi pensa che lo Stato italiano, il Parlamento italiano si dimentichino di Giulio Regeni. Invece andiamo avanti fino in fondo per ottenere la verità per un nostro ragazzo torturato e ucciso in Egitto”. Traffico d’influenze con sanzioni più leggere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 17980/2019. Traffico di influenze più chiaro. Ma in continuità con il passato. Però, quanto alle condanne inflitte, ma non definitive, per millantato credito, queste devono rimodulate alla luce del nuovo e più mite trattamento sanzionatorio. La Corte di cassazione, nella prima sentenza dedicata alla nuova fisionomia del delitto introdotta con la legge “spazza-corrotti”, la n. 3 del 2019, ne delinea contenuti e conseguenze sui processi in corso. La pronuncia, la n. 17980, depositata ieri, ha così innanzitutto puntualizzato come la nuova ipotesi di reato è stata prevista anche per rispondere in pieno alle sollecitazioni arrivate in sede europea, dal Greco in particolare (il Gruppo anticorruzione degli Stati europei), per una piena aderenza agli obblighi internazionali assunti, in particolare con la Convenzione penale sulla corruzione del 1999. La fattispecie di reato in vigore da inizio anno, pertanto, inglobando il millantato credito, sanziona anche la condotta del soggetto che si è fatto dare o promettere da un privato vantaggi personali, non necessariamente di natura economica, in cambio dell’interessamento presso un funzionario pubblico. Indipendentemente dall’esistenza di una relazione con quest’ultimo. La norma, allora, superando le difficoltà che aveva reso piuttosto incerta la linea di confine fra traffico d’influenze e millantato credito, equipara la semplice vanteria di una relazione o credito con un pubblico funzionario solo asserita, alla rappresentazione di una relazione autentica da piegare a vantaggio del privato. Non è cioè più necessaria una puntuale verifica dell’esistenza di una possibilità di influire sul soggetto pubblico. Detto questo, fatte salve le previsioni della punibilità del soggetto che intende trarre vantaggio dall’interessamento, e l’imperfetta coincidenza tra le figure verso le quali la millanteria poteva essere espressa, il nuovo articolo 346 bis del Codice penale punisce le medesime condotte già previste dall’articolo 346 abrogato. Infatti, sono sostanzialmente sovrapponibili sia la condotta strumentale (“sfruttando o vantando relazioni asserite” e quella “millantando credito”), sia la condotta principale di ricezione o promessa per sé o altri di denaro o altre utilità. Quanto però al peso delle sanzioni, la Cassazione mette in evidenza come la legge “spazza-corrotti” ha alla fine stabilito un trattamento più leggero. Infatti, l’attuale traffico d’influenze prevede solo una pena di natura detentiva, mentre il vecchio millantato credito aveva stabilito anche una pena pecuniaria. Inoltre l’attuale incriminazione fissa la detenzione in 4 anni e 6 mesi, mentre il massimo edittale del precedente reato si attestava in 5 anni. Non stride il fatto che la pena inflitta sulla base della precedente versione del Codice penale rientra pienamente nella nuova cornice definita dalla “spazza-corrotti” (la continuità appunto). Il giudice infatti è tenuto ad applicare la sanzione più lieve, valorizzando la finalità rieducativa della pena, e il rispetto dei valori dei principi di uguaglianza e di proporzionalità. Per chi occupa le case popolari non c’è “tenuità del fatto” di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2019 Corte di cassazione penale - Sentenza 13765/2019. Nessuna giustificazione o sconto di pena per “tenuità del fatto” se l’occupazione abusiva di una casa popolare permane al momento della condanna. In tal caso, infatti, non solo si continua a ledere un patrimonio immobiliare pubblico ma se ne impedisce l’assegnazione ai soggetti più bisognosi. Lo sostiene la Corte di cassazione con sentenza n. 13765 del 29 marzo 2019. Una signora, finita sotto processo per aver occupato arbitrariamente un alloggio di proprietà Iacp (e condannata da Tribunale e giudici d’Appello) porta il caso in Cassazione: andava applicata, secondo il suo avvocato, la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’articolo 131 bis del Codice penale. Intanto, rileva il legale, perché la sua assistita era incensurata e non la si poteva ricondurre nell’alveo dei delinquenti abituali. E poi, si trattava di un’azione di scarso allarme sociale. La Corte di legittimità, però, non concorda e boccia il ricorso: quello perpetrato era un reato di natura permanente, sia per le modalità di contestazione degli eventi che per “assenza di qualsiasi dimostrazione dell’interruzione della condotta illecita” provata dalla “notificazione degli atti del procedimento all’imputata proprio a quell’indirizzo”. Circa la tenuità, invece, la Cassazione ha condiviso, per la fattispecie, l’orientamento secondo il quale la mancata cessazione della permanenza è sempre ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità. Sinché continua l’azione, infatti, non cessa la compressione del bene (Cassazione, sentenza 30383/2016) e non può dirsi tenue un’offesa che non si interrompe nel tempo. In relazione all’occupazione abusiva di immobili pubblici con funzione sociale che permangano fino al momento dell’emissione della sentenza di condanna, quindi, questa “priva sia l’ente titolare che i cittadini destinatari del servizio pubblico della loro disponibilità, altera le procedure di assegnazione degli stessi ai più bisognosi”. Prostituzione minorile, sì alla attenuante per cliente che risarcisce la vittima di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 30 aprile 2019 n. 17827. A fronte della contestazione del reato di prostituzione minorile, il versamento da parte dei clienti, a titolo riparatorio, di 3mila euro (ciascuno) a favore della vittima deve essere adeguatamente valutato ai fini della concessione della specifica attenuante. Il giudice dunque non può limitarsi a giudicare “non satisfattiva” la somma senza fornire un’adeguata motivazione del diniego. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 17827depositata il 30 aprile, accogliendo con rinvio e solo sotto questo profilo, il ricorso di due uomini condannati rispettivamente ad un anno (e 800 euro di multa) e ad un anno e otto mesi (e 1000 euro di multa) per i ripetuti incontri a pagamento con un ragazzo minorenne in un albergo romano. Entrambi i ricorrenti si erano difesi principalmente sostenendo di non essere stati al corrente dell’età del ragazzo che appariva come un “adulto” e che avevano contattato su di un sito internet “riservato ai soli maggiorenni”. Per la Suprema corte però la “circostanza che la persona offesa presentasse caratteri fisici tali da indurre in errore il partner” non è “sufficiente a ritenere inevitabile l’ignoranza dell’età della vittima, né lo è il fatto che quest’ultima fosse iscritta ad un sito di incontri consentito alle sole persone maggiorenni”, ben potendo, in assenza di controlli, “l’iscrizione on-line essere effettuata anche da persone minorenni”. La Corte boccia dunque questo motivo di ricorso ribadendo che la scusante prevista dall’art. 602-quater c.p. “è configurabile solo se l’agente, pur avendo diligentemente proceduto ai dovuti accertamenti, sia stato indotto a ritenere, sulla base di elementi univoci, che il minorenne fosse maggiorenne”. “Ne consegue - continua la decisione - che non sono sufficienti, al fine di ritenere fondata la causa di non punibilità, elementi quali la presenza nel soggetto di tratti fisici di sviluppo tipici di maggiorenni o rassicurazioni verbali circa l’età, provenienti dal minore o da terzi, nemmeno se contemporaneamente sussistenti”. L’imputato infatti deve provare “di aver fatto tutto il possibile a fine di uniformarsi ai suoi doveri di attenzione, di conoscenza, di informazione e di controllo, attenendosi a uno standard di diligenza direttamente proporzionale alla rilevanza dell’interesse per il libero sviluppo psicofisico dei minori”. Tornando alla questione della attenuante, la Cassazione afferma che la Corte di appello si è limitata ad affermare che le somme versate erano “esigue rispetto al danno cagionato”, senza però spiegare “le ragioni di tale valutazione”, né “l’entità del danno cagionato alla vittima”. “La sufficienza della somma spontaneamente pagata dal colpevole per il risarcimento del danno morale cagionato dal reato alla persona offesa - conclude la decisione - non può essere esclusa con una valutazione affatto sommaria, basata sulla semplice considerazione della esiguità della stessa somma essendo il giudice tenuto ad accertare la gravità del patema d’animo subito dall’offeso e le ripercussioni del fatto lesivo nell’ambito della vita familiare e della vita di relazione del medesimo”. Campania: Radicali in visita nelle carceri irpine e beneventane ntr24.tv, 1 maggio 2019 I Radicali per il Mezzogiorno Europeo tornano nelle carceri campane con un nuovo ciclo di visite finalizzate a monitorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi lavora in queste strutture. Giovedì 2 maggio, con in prima fila l’avvocato Raffaele Minieri, promotore delle visite e della campagna per il Garante cittadino dei detenuti a Napoli, saranno a Bellizzi Irpino e a Benevento. Il giorno seguente, tappa a Sant’Angelo dei Lombardi per un ciclo di ispezioni che si concluderà ad Ariano Irpino il prossimo 18 maggio. Sarah Meraviglia, della Direzione nazionale di Radicali Italiani e segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo, ha così spiegato gli obiettivi di queste visite, nel solco di una prassi ormai consolidata nel tempo: “Giovedì 2 e venerdì 3 maggio come associazione Radicali per il Mezzogiorno Europeo, saremo in visita ispettiva presso gli istituti penitenziari dell’avellinese e del beneventano. Precisamente, faremo visita ai detenuti della casa circondariale Antimo Graziano di Bellizzi Irpino (2 maggio ore 10) della casa circondariale Capodimonte a Benevento (2 maggio ore 14.30) e della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (3 maggio ore 10:30). Le visite rientrano nella nostra azione di osservazione delle condizioni di vita dei detenuti, delle istanze loro e delle famiglie, finalizzata a portare tali bisogni all’attenzione non solo della società civile ma soprattutto delle istituzioni realmente in grado di incidere sul quotidiano della vita dei reclusi”. Sarah Meraviglia ha quindi rivendicato l’iniziativa in corso sul Garante cittadino dei detenuti a Napoli: “È proprio con questo spirito che da ormai un anno e mezzo stiamo portando avanti a Napoli una mobilitazione per ottenere la nomina della figura del Garante cittadino per i detenuti che coadiuvi la figura già esistente del Garante Regionale. Garante cittadino (presente già in diverse città italiane) che riteniamo necessario in una città come Napoli che da sola conta una popolazione carceraria di oltre 3.500 detenuti con un carcere come Poggioreale (circa 2.400 detenuti in poco più di 1.600 posti) che da sempre rappresenta utile criterio di riferimento per il monitoraggio dell’andamento del sovraffollamento nelle carceri italiane”. Infine, un’amara considerazione sul contesto politico attuale: “In qualità di Radicali, Liberali e Garantisti riteniamo che la deriva giustizialista e stato-centrica alla quale stiamo assistendo, dopo un anno di governo Lega-5Stelle, rappresenti una minaccia ancora più grande per le minoranze tutte che vivono nel nostro paese, alle quali troppo spesso viene assegnato l’ignominioso ruolo di capro espiatorio di ogni male e tra le quali rientrano in prima linea proprio le persone private della libertà”. Aosta: carcere di Brissogne, Morrone “stop a detenuti in ozio tutto il giorno” gazzettamatin.com, 1 maggio 2019 Il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone ha fatto visita al carcere di Brissogne e ha annunciato un progetto per far lavorare i detenuti. Lavoro per i detenuti del carcere di Brissogne. È quanto uno degli obiettivi del sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone, il quale ieri, lunedì 29 aprile, ha visitato la casa circondariale di Brissogne. “La casa circondariale di Brissogne presenta alcune criticità strutturali a cui stiamo cercando di far fronte” ha aggiunto il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Si è svolta lunedì 29 aprile, la visita alla casa circondariale di Brissogne del sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone e del capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Accompagnati dai consiglieri regionali della Lega Vallée d’Aoste Andrea Manfrin, Nicoletta Spelgatti, Paolo Sammaritani e Luca Distort, hanno visitato la struttura penitenziaria e incontrato il direttore Rosalia Marino, il comandante della polizia penitenziaria Andrea Tonellotto, i sindacati ed i rappresentanti delle guardie carcerarie. “Una delle prime problematiche che ho dovuto affrontare quando mi sono insediato - ha spiegato il sottosegretario Morrone - è stato il carcere di Aosta che non aveva né il comandante né il direttore. Ora ha entrambi, seppur prestati da istituti vicini con un mandato ad interim”. Sulla situazione del carcere di Brissogne, Morrone ha poi aggiunto. “Stiamo lavorando per migliorare la sicurezza delle nostre guardie penitenziarie: da parte mia e del Governo c’è un’attenzione particolare per uomini e donne che svolgono il loro lavoro cercando di favorire il recupero dei detenuti, ma devono poter svolgere il loro compito in assoluta sicurezza. Presto, una volta terminato il concorso, verranno assunti 1.500 nuovi agenti di polizia penitenziaria che permetteranno di ridurre il carico orario degli agenti già in servizio, garantendo al tempo stesso turni meno stressanti”. “Stiamo lavorando per mettere in collegamento l’istituto penitenziario valdostano con il territorio e le aziende circostanti per fare in modo che i detenuti non stiano in ozio tutto il giorno e per insegnare loro un mestiere”, ha detto Morrone. All’incontro in carcere era presente anche il presidente del tribunale di Aosta Eugenio Gramola che, nei giorni scorsi, aveva denunciato la carenza di giudici e il sovraccarico di lavoro di quelli attualmente in servizio. “Con il presidente Gramola - ha spiegato il sottosegretario Morrone - abbiamo avuto un incontro informale in cui abbiamo analizzato la situazione della Procura di Aosta per cercare di migliorare anche qui il sistema giustizia. Il tribunale di Aosta necessita di nuovi magistrati e di nuovi assistenti giudiziari. Stiamo aspettando i tempi tecnici dovuti al concorso, ma a breve entreranno in ruolo tremila nuovi assistenti giudiziari e 600 nuovi magistrati ordinari che andranno a coprire le carenze organiche nei tribunali di tutto il paese Aosta compresa. Non accadeva da tempo che ci fosse un governo che investiva così tanto in termini di capitale umano. Stiamo cercando di migliorare il più possibile il sistema giustizia in Italia anche investendo in capitale umano”. Viterbo: sovraffollamento e disagi, i volontari del carcere chiedono aiuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2019 I volontari del Gruppo Assistenti Volontari Animatori Carcerari (Gavac) chiedono per il carcere di Viterbo soluzioni che non abbandonino detenuti e famiglie. Eccesso di detenuti (612 per 432 posti), cronica carenza di agenti ed educatori (solo 4), un padiglione chiuso per lavori, troppi detenuti con patologie psichiatriche che avrebbero bisogno di strutture e assistenza adeguate: sono i problemi più gravi nella casa circondariale Mammagialla di Viterbo secondo la Onlus Gavac nata trent’anni fa dall’intuizione dell’allora cappellano don Pietro Frare. “Pur condividendo l’allarme diffuso, lanciato anche dai media, ritengo che oltre che i colpevoli vadano cercate soluzioni - spiega Claudio Mariani, volontario del Gavac e docente di Criminologia al Centro studi criminologici di Viterbo. Tre suicidi nel 2018 di Viterbo necessitano una lente di ingrandimento: le responsabilità vanno accertate, ma bisogna partire dal disagio crescente, frutto di un clima poco sereno, che aumenta gli episodi di aggressività. Le mele marce sono ovunque, ma a Viterbo lavorano anche operatori con umanità fuori dal comune”. Il Gavac, grazie a finanziamenti di diocesi, Fondazione L’Arca e alcuni soci, gestisce una casa di accoglienza per detenuti in permesso premio e loro famiglie che vanno a trovarli, distribuisce generi di prima necessità e negli ultimi due anni ha aiutato a laurearsi 8 detenuti. “L’invito del Papa a mettersi a servizio nella fraternità, rivolto Giovedì Santo nel carcere di Velletri, vale anche per Viterbo: spesso le catechesi più importanti arrivano dai detenuti, capaci di ascolto e affetto commoventi. Trasformarli da problema a risorsa è fondamentale”, conclude Mariani. Questo fa il paio con la visita, nel giorno di Pasquetta, effettuata dalla delegazione del Partito Radicale composta da Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Giovanni Zezza. Ricordiamo, come già riportato da Il Dubbio, che nel carcere di Viterbo, da anni al centro delle cronache a causa dei suicidi sospetti e presunti pestaggi, c’è un fortissimo disagio per la presenza di numerosi detenuti con problemi psichiatrici, molto spesso avendo come compagni di cella persone con altrettanti problemi come la tossicodipendenza. Situazioni che mettono in difficoltà gli stessi agenti penitenziari a causa anche dei pochissimi operatori sanitari qualificati. Ma non solo. Grazie alla visita della delegazione del Partito Radicale è emerso che anche alla sezione del 41bis non mancano detenuti con forti disagi psichici, di cui uno - quando era recluso al carcere duro de L’Aquila - era stato raggiunto da un Tso e punito al 14 bis (regime di sorveglianza particolare) che, combinato con il 41bis, diventa un regime ancora più duro. Sempre lo stesso detenuto, nel carcere precedente, era stato anche ammanettato per 3 mesi durante l’ora d’aria. A questo si aggiunge il problema della mancata uniformità delle regole, quindi ad esempio accade che un detenuto al 41bis della stessa sezione ha la possibilità di poter fare le due ore d’aria senza essere sottratta l’ora per la socialità, mentre un altro no. Da ricordare che recentemente ha fatto visita comitato europeo per la prevenzione sulla tortura. Forse il rapporto sarà pubblico a novembre. “Occorre sottolineare - aveva spiegato Zamparutti - che in Italia, a differenza di altri Paesi, non esiste la pubblicazione automatica dei Rapporti: pertanto, ci dovrà essere un’autorizzazione governativa perché si proceda alla pubblicazione del Rapporto”. E forse sarebbe ora che anche noi ci adeguassimo, in nome proprio della trasparenza. Verona: ultrà pestato e rimasto invalido, gli agenti rischiano 49 anni di carcere di Laura Tedesco Corriere di Verona, 1 maggio 2019 Processo Scaroni, condanne pesanti chieste ieri in appello dal Pg contro i 7 poliziotti sotto accusa. Un totale pari a quasi mezzo secolo, per l’esattezza 49 anni, di reclusione per il pestaggio a Paolo Scaroni, picchiato a sangue da un gruppetto di poliziotti il 24 settembre 2005 a Verona. È il conto complessivo presentato ieri pomeriggio dall’accusa contro i 7 poliziotti imputati in appello a Venezia. Un totale pari a quasi mezzo secolo, per l’esattezza 49 anni, di reclusione per il pestaggio a Paolo Scaroni, picchiato a sangue da un gruppetto di poliziotti il 24 settembre 2005 a Verona. È il conto complessivo presentato ieri pomeriggio dall’accusa contro i 7 poliziotti imputati in appello a Venezia per le gravissime lesioni riportate alla stazione di Porta Nuova dall’ultrà bresciano rimasto da allora invalido civile al 100%. Voleva salire sul treno dopo aver assistito al Bentegodi alla trasferta del suo Brescia contro l’Hellas, invece riaprì gli occhi solo un paio di mesi dopo, gravemente menomato dopo il pestaggio e le manganellate che lo ridussero in fin di vita. Un dramma che ha ripercorso lui stesso, provato ma lucido, nel corso del processo di secondo grado che ieri, dopo la requisitoria del Pg e le arringhe dei difensori, è stato aggiornato a giugno per la sentenza. “All’improvviso una violenta scarica di botte mi colpì. Venni travolto dai colpi dei manganelli girati al contrario, ricordo ancora che mi affondavano nel cranio. Poi il buio”. Da allora sono passati quasi 14 anni ma Scaroni, davanti ai giudici della Corte d’assise d’appello di Venezia, non ha avuto dubbi né incertezze nel ripercorrere quel maledetto 24 settembre del 2005 che gli ha “rovinato la vita per sempre”. Sette i poliziotti della celere di Bologna assolti in primo grado per “insufficienza di prove”: la sentenza pronunciata il 18 gennaio 2013 a Verona è stata impugnata dal pm Beatrice Zanotti, che ha ottenuto un nuovo processo a Venezia. E ieri pomeriggio, con la sua requisitoria, il Pg ha chiesto per ciascuno di quei poliziotti la condanna a 7 anni di reclusione oltre all’interdizione dai pubblici uffici. Prima di subire quella “violenza inaudita e priva di senso”, Paolo faceva l’allevatore di tori, si faceva carico di un’azienda agricola con più di duecento bovini da macello ed era campione regionale di arrampicata su roccia. Faceva parte del gruppo ultrà Brescia 1911:”Ma quel pomeriggio a Verona mi hanno rubato la vita, quei poliziotti mi picchiarono a sangue senza pietà. E adesso che finalmente il mia caso è stato riaperto dalla magistratura e ci sarà un nuovo processo, voglio ricevere quella giustizia che finora non mi è ancora stata data”. Fino a 14 anni fa, Scaroni era un ragazzo in perfetta salute che amava seguire la sua squadra del cuore allo stadio, oggi è un uomo sposato, invalido al 100%, che non segue più le partite dagli spalti e la cui esistenza “è fatta di terapie, fisioterapisti, visite, cure”. Per lui, gli strascichi del massacro che subì alla stazione di Verona (il pm parlò di “feroci colpi alla testa, manganellate, calci e pugni”), dopo essergli costati 64 giorni di coma lo costringeranno per tutta la vita a dipendere da medici e ospedali. Una vera condanna: “I colpevoli, invece, finora non hanno ricevuto alcuna condanna per avermi ridotto così”. In primo grado indagini e processo, purtroppo, non erano riusciti a individuare con esattezza chi avesse materialmente colpito Paolo. Lui, però, non si è mai dato per vinto e, nel frattempo, ha ottenuto dallo Stato un risarcimento pari a un milione e quattrocento mila euro. “Ma la mia speranza - confida - è che a pagare siano quegli agenti che mi picchiarono in quel modo... Senza alcuna ragione”. Perugia: Luca Verdolini racconta le attività della coop Frontiera Lavoro di Luigi Cristiani foodmakers.it, 1 maggio 2019 Ciao Luca, ci racconti come nasce il progetto per la figura professionale di “Addetto alla cucina”? “Il corso di formazione professionale per “Addetto alla cucina” è stato finanziato dal Fondo Sociale Europeo attraverso l’avviso pubblico “Umbriattivagiovani” della Regione Umbria ed è riservato a dieci detenuti di età inferiore ai 30 anni ristretti presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia. Il percorso formativo ha una durata di 255 ore ed è articolato in lezioni sia di teoria che di pratica al temine delle quali gli allievi si sottoporranno ad un esame finale per il conseguimento della relativa qualifica professionale. La metodologia adottata prevede un’attenta selezione dei partecipanti svolta di concerto con l’equipe trattamentale dell’istituto di pena che consenta al detenuto di intraprendere un percorso di crescita e sviluppo professionale al termine del quale possa ambire ad una collocazione nel mercato ordinario di lavoro. I diversi risultati concreti conseguiti dalla nostra cooperativa sociale nel corso degli anni, inseriti stabilmente al lavoro 107 detenuti, dimostrano come i processi di reinserimento sociale funzionino e che l’applicazione delle misure alternative alla detenzione permette l’abbattimento del tasso di recidiva oltre a consentire il rispetto dei principi di dignità ed umanità della pena sanciti dalla nostra Carta Costituzionale”. Gli chef/docenti del corso sono stati definiti “I Quattro Moschettieri del Gusto”, ci racconti qualcosa di loro? “Il corso di cucina si svolge presso il laboratorio formativo all’interno della struttura penitenziaria ed è magistralmente condotto dai nostri fantastici “Moschettieri del Gusto”, vale a dire gli chef Catia Ciofo, Andrea Mastriforti, Antonella Pagoni e Cristiano Venturi. Catia Ciofo, umbra originaria di Ospedaletto sul Monte Peglia, ha utilizzato nelle sue lezioni due ingredienti fondamentali, la musica e la poesia, riuscendo a creare un’atmosfera magica capace di catturare l’attenzione degli allievi. Il secondo Moschettiere è lo chef Cristiano Venturi, pesarese di origini, nominato dal Presidente della Repubblica nel 2001 Ambasciatore della cucina italiana nel mondo ed attualmente docente presso l’”Istituto Alberghiero Enrico Fermi” di Perugia. Andrea Mastriforti è il Moschettiere più giovane ed è una scoperta delle “Golose Evasioni”, giovanissimo, ha una grande passione, tanto entusiasmo e voglia di fare, trasmessa anche dai suoi genitori ristoratori di comprovata esperienza. Infine, Antonella Pagoni, romana di origini, chef e pasticcera in uno dei più noti ristoranti di Perugia, si occuperà della quarta ed ultima portata della cena evento”. Questa è la quinta edizione, quali sono stati i riscontri delle passate edizioni? “Golose Evasioni” è un evento specialissimo che si svolge all’interno del Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia trasformato per l’occasione in un vero e proprio ristorante. Si tratta di una cena evento, giunta alla sua quinta edizione, con protagonisti 10 allievi detenuti che avranno così l’opportunità di dare un saggio delle competenze acquisite durante l’attività formativa. La risposta della cittadinanza è sempre molto positiva, ad ogni cena hanno partecipato circa 240 persone, a pagamento, e ha visto il coinvolgimento delle autorità e delle istituzioni cittadine sempre attente e sensibile alle nostre iniziative. In questa quinta edizione la serata sarà introdotta da un prezioso contributo musicale dell’”UmbriaEnsemble” diretto dalla violoncellista Maria Cecilia Berioli e la cena sarà attentamente valutata dallo chef stellato Giancarlo Polito e dal critico gastronomico Leonardo Romanelli, ospiti d’onore delle “Golose Evasioni 2019”. Come avete ideato la Cena evento “Le Golose Evasioni”? “La sfida più importante è proprio quella culturale. Con la sua costante apertura al pubblico tale evento vuole essere un’opportunità di interfacciarsi con l’universo carcerario e riflettere sul senso della pena. Per ottenere i risultati di cui abbiamo parlato è fondamentale sensibilizzare, anche attraverso queste iniziative, il tessuto socio economico del territorio, promuovere una cultura dell’accoglienza, favorire l’accettazione delle diversità. Solo in questo modo si previene il rischio di ricadute in comportamenti devianti e si garantisce nel lungo periodo la sicurezza delle nostre città. Il controllo del territorio se disgiunto da politiche di inclusione rischia di agire come moltiplicatore del disagio sociale. Troppo spesso la persona detenuta una volta che ha terminato di scontare la propria pena torna a vivere in condizioni di marginalità. Dobbiamo riuscire a costruire un sistema che consenta a queste persone di cambiare vita una volta per sempre e questo è possibile solo attuando una politica sociale che deve essere necessariamente complessiva.” Ci racconti altre iniziative della vostra cooperativa sociale? “Grazie ai finanziamenti messi a disposizione dal Fondo Sociale Europeo avremo a breve la possibilità di dare continuità alle azioni intraprese ampliando l’offerta formativa anche alla sezione femminile del carcere di Perugia e prevedendo oltre a quella di “addetto alla cucina” altre figure professionali che possano avere un buon grado di occupabilità. Nel prossimo mese di giugno si darà avvio ad un progetto Fami (Fondo Asilo Migrazione ed Integrazione Ministero dell’Interno) con soggetto capofila la Regione Umbria rivolto alla popolazione detenuta extracomunitaria ristretta presso gli istituti di pena di Perugia e di Terni alla quale sarà destinata una specifica azione di orientamento al lavoro che consentirà di creare una banca dati delle professionalità. Ed infine saranno riattivati i progetti in collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna di Perugia e di Terni per favorire l’inserimento al lavoro di chi si trova già in misura alternativa attraverso percorsi di orientamento e attivazione di tirocini formativi in azienda”. Brescia: “Belle dentro” (e fuori), le detenute viaggiano sul metrò di Alessandra Troncana Corriere della Sera, 1 maggio 2019 Gli scatti di Corsini con le ragazze di Verziano in posa come modelle. Infradito, sigaretta incollata alla bocca, capelli anarchici domati in qualche modo dalla coda. Prima, Renato Corsini - direttore del Macof - ha fotografato le detenute di Verziano in cella, appoggiate alle sbarre in tutina di lycra o sedute davanti alla televisione, tra le riviste strappate e le foto dei figli appese alle pareti. Poi, le ha messe in posa dietro un telo grigio, trasformate dall’eye-liner e dalla lacca. Dopo essere state modelle per un libro, Belle dentro, pubblicato due anni fa, le detenute usciranno dal carcere per un viaggio metaforico in metropolitana: per il Brescia Photo Festival, organizzato da Brescia Musei e Macof, gli scatti di Corsini saranno esposti in metropolitana, alle fermate San Faustino e piazza Vittoria (la vernice venerdì, alle 17.30). Quando sono entrate in carcere, le cattive ragazze hanno dovuto spogliarsi anche della femminilità: la loro foto più recente era quella segnaletica. Corsini gliel’ha restituita con un ritratto in posa, dopo una seduta di trucco e parrucco tra le mani perfettamente smaltate delle sorelle Co’, che le hanno sottoposte a piega, taglio e dosi massicce di fondotinta. “Abbiamo dato loro i 15 minuti di celebrità di cui parlava Andy Warhol. Al Photo Festival - spiega il direttore del Macof - esporremo immagini-adesivo del prima e del dopo”. Ci sono le foto delle detenute in cella, in lavanderia, nei corridoi di Verziano, ancora spettinate e senza correttore, e quelle del backstage, con i truccatori e il loro arsenale di rimmel e lucidalabbra. Poi, il risultato finale: “Mi aspettavo fossero titubanti, ma alcune ragazze ci hanno chiesto copie degli scatti per mandarli alle famiglie: ci tenevano ad essere ritratte, perché avrebbero avuto un ricordo, un documento, di un pezzo della loro vita. Devo ringraziare la direttrice del carcere Francesca Lucrezi e la Camera penale di Brescia, che hanno collaborato al progetto”. Palermo: il Carro trionfale di Santa Rosalia costruito dai detenuti dell’Ucciardone Quotidiano di Sicilia, 1 maggio 2019 Al via la costruzione del Carro Trionfale di Santa Rosalia per il festino di Palermo. è stato annunciato nel corso di una conferenza stampa presso la Casa di reclusione Ucciardone “Calogero Di Bona”. Ai presenti è stato comunicato l’avvenuto spostamento del cantiere per la realizzazione del Carro in un’area interna del Carcere. Lo spostamento si è ritenuto opportuno per fare in modo che tutti i reclusi selezionati e volontari possano lavorare insieme ottimizzando tempi e risorse. Durante i lavori i detenuti saranno guidati da due esperti, un falegname e un mastro fabbro ferraio, già collaboratori storici di Fabrizio Lupo, scenografo nonché progettista del Carro Trionfale di questa edizione. Sarà la tutor Alessia D’Amico a coordinare il lavoro degli allievi dell’Accademia delle Belle Arti di Palermo coinvolti nel progetto, che dopo aver già realizzato il modellino del Carro in scala 1 a 10, procederanno ora al suo sviluppo. Lo spunto per l’idea del Carro è nato dall’osservazione del lavoro degli studenti di uno dei corsi del Cipia Palermo 1, condotto da Vincenzo Merlo, che da cinque anni realizzano, tra le altre cose, gli sgabelli artistici attraverso il recupero di arredi dismessi del carcere. Due di questi sono stati già donati a Papa Francesco e all’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice. Desiderio comune a tutti è che questa occasione possa contribuire a far uscire, fuori dalle mura dell’Ucciardone, il frutto del lavoro dei detenuti, affinché diventi una concreta attività lavorativa. All’incontro con la stampa erano presenti tutti i dieci detenuti coinvolti nel progetto, che hanno avuto la possibilità di raccontare le loro riflessioni. “Questo progetto - dichiara Giovanna Re, direttrice protempore della Casa di Reclusione Ucciardone - realizza appieno l’obiettivo della rieducazione perché la città offre una importate opportunità ai detenuti. Il carro, simbolo di pace di riconciliazione e di riscatto, investe i detenuti di un impegno carico di responsabilità e, loro stessi, sono chiamati a compiere un’attività a favore della società civile e della collettività”. “Stiamo seguendo la tradizione - sottolinea il sindaco Orlando - e ringrazio tutti i palermitani che concorrono a questa grande festa, la festa della città alla quale inviterò il Ministro della Giustizia affinché possa anche lui mettersi in corteo e partecipare al Festino”. “Oggi siamo qui - aggiunge l’assessore Adham Darawsha - per ribadire che Palermo è l’Ucciardone e l’Ucciardone è Palermo, nel senso che per noi questi luoghi che sono di solito dei luoghi di segregazione devono essere luoghi di inclusione”. Se la stampa è libera, ma libera veramente di Gian Mario Gillio riforma.it, 1 maggio 2019 La giornata internazionale per la libertà di stampa che si tiene ogni anno il 3 di maggio quest’anno ha un sapore particolare che l’Unesco (la Giornata internazionale per la libertà di stampa è stata indetta il 3 maggio del 1993 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dietro raccomandazione della Conferenza Generale dell’Unesco) ha voluto mettere in chiaro: “Journalism for democracy”. Il giornalismo per la democrazia è dunque lo slogan scelto per il 2019. Ma ancor più esplicito è il sottotitolo: “giornalismo e elezioni ai tempi della disinformazione”. Parlare di libertà di stampa non è scontato, infatti, dal gennaio 2018 a fine ottobre dello stesso anno i dati riportati da Reporters sans frontieres erano davvero preoccupanti: 67 giornalisti e 4 operatori uccisi nel mondo, 299 giornalisti detenuti nelle carceri. In Italia che ha conquistato punti nella classifica (su 180 paesi), passando dal 48 posto al 43simo in tema di libertà di stampa, nel novembre 2018 si contavano 19 giornalisti sotto scorta, 3360 minacciati, 176 misure di vigilanza disposte dalle forze di polizia, 126 atti intimidatori. Numerosi giornalisti, soprattutto nella Capitale e nel Sud del Paese “si dicono minacciati - ricorda Ossigeno per l’Informazione- e sotto pressione da parte di gruppi mafiosi che non esitano a penetrare nei loro appartamenti per rubare computer e documenti di lavoro confidenziali, quando non sono attaccati fisicamente”. Dalle analisi emerse e diffuse dal Centro di coordinamento delle attività di monitoraggio sugli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, si evince che in gran parte dei casi si tratta di intimidazioni “poste in essere per lo più con minacce pubblicate in rete o verbali, condotte violente o missive, danneggiamenti e telefonate anonime. Tali episodi - si legge ancora - presentano matrici e motivazioni di natura politica e sportiva riconducibili alla criminalità organizzata o ad ambienti di illegalità diffusa o di degrado sociale”. Proprio per questi dati allarmanti sono state programmate quarantotto ore di mobilitazioni in tutta Italia per difendere la libertà di stampa, le giornaliste e i giornalisti, le i blogger, le operatrici e gli operatori dell’informazione. Il 2 maggio a Trento una lunga serie di interventi è stata programmata dal Sindacato giornalisti del Trentino Alto Adige per dire “un secco no”all’attacco alla libertà d’informazione, con gli intereventi di Obct Fazila Mat, Asmae Dachan, Rocco Cerone, Mauro Keller, Paolo Borrometi, Monica Andolfatto, Carlo Muscatello, Giuseppe Giulietti, Antonella Napoli e Donato Ungaro. Il 3 maggio (nella Giornata internazionale della libertà d’informazione) insieme a Articolo 21, Fnsi, Usigrai, la Rete NoBavaglio, e le realtà e le persone che vorranno aderire, a Roma è previsto un presidio dalle 10.30 a piazza Santi Apostoli (vicino alla sede di rappresentanza dell’Unione Europea)”per ricordare le e i giornalisti uccisi: Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Victoria Marinova, Lyra McKee e per chiedere la libertà di stampa in Turchia, in Siria, in Egitto. Per dire no alle minacce e alle aggressioni, anche verbali, contro le croniste e i cronisti. Per chiedere garanzie perché la libertà d’informazione sia resa possibile e per porre fine alle querele e alle liti temerarie. Per ricordare Massimo Bordin e chiedere che Radio Radicale possa essere messa nelle condizioni di continuare a garantire la trasparenza di quanto accade nei palazzi delle istituzioni”, ricordano i promotori. Alle 16 nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) è prevista una tavola rotonda per confrontarsi sul Manifesto di Assisi, il “Decalogo” delle buone pratiche, sottoscritto due anni fa ad Assisi per un linguaggio e una informazione improntata al rispetto, alla veridicità, alla responsabilità e al rispetto delle libertà. “Tra le molte declinazioni della parola “libertà” certamente c’è anche quella religiosa - rileva il moderatore delle Tavola valdese, pastore Eugenio Bernardini (che in passato aveva presentato una mozione accolta e inserita nel manifesto, sul pluralismo religioso) -: la madre di tutte le libertà. Un baluardo da seguire per contrastare tutte le oppressioni. Anche se in Italia la libertà religiosa è costituzionalmente garantita, riteniamo che non sia pienamente compiuta. Come chiese metodiste e valdesi e come Federazione delle chiese evangeliche in Italia, siamo convinti che la libertà del prossimo sia l’unica garanzia per la libertà di tutti. In un tempo in cui si moltiplicano attacchi verbali e violenze, riteniamo che il Manifesto di Assisi sia assolutamente opportuno. Abbiamo visto in questi ultimi mesi quanto la “buona” o la “cattiva” informazione, siano in grado di orientare l’opinione pubblica. È necessario ricordarci, sempre, che quando scriviamo o commentiamo fatti, cose, avvenimenti, i nostri referenti sono delle persone, e che come tali meritano il dovuto rispetto anche quando si è chiamati a denunciarne atti illegali o immorali. Siamo chiamati a scrivere degli altri con la stessa cura che chiederemmo per noi stessi”, afferma Bernardini. Il 3 maggio dalle 16 in corso Vittorio Emanuele II 349 all’incontro dedicato al Manifesto di Assisi è prevista la partecipazione di padre Mauro Gambetti e di Padre Enzo Fortunato, custode e Portavoce del Sacro Convento di San Francesco di Assisi, quella di padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, di Saleh Ramadan Elsayed, imam della Grande Moschea di Roma, di Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma, di Gian Mario Gillio, responsabile comunicazione, relazioni esterne e rapporti istituzionali della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei). L’incontro sarà moderato da Roberto Natale, coordinatore del Comitato scientifico di Articolo 21. Con loro, oltre ai rappresentanti della Fnsi e di Articolo21 già presenti al presidio delle 10,30 (Giuseppe Giulietti, Raffaele Lorusso, Vittorio Di Trapani, Paolo Borrometi, Elisa Marincola e Stefano Corradino, Antonella Napoli, Graziella Di Mambro, Carlo Picozza), interverranno Paola Spadari, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, Marino Bisso, della Rete NoBavaglio, Riccardo Cristiano, dell’Associazione Amici di Padre Dall’Oglio. I negozi di cannabis light rischiano la chiusura di Giorgio Sturlese Tosi Panorama, 1 maggio 2019 Il “no” del Ministero della Salute manderebbe in crisi un settore ora in pieno boom. Una spada di Damocle pende sulle centinaia di negozi cannabis light che hanno aperto in tutta Italia. Dal dicembre 2016 è stata legalizzata la vendita di prodotti ricavati dalla marijuana (del tipo cannabis sativa) che abbiano un principio attivo stupefacente di Thc (deltatetraidrocannabinolo) inferiore a 0,2. Prodotti che non sono considerati droghe. E si possono vendere, comprare, bere, mangiare e fumare. I negozi dove si trovano cosmetici alla canapa, oli essenziali, biscotti, tisane e infiorescenze, persino hashish da fumare si sono moltiplicati. Oltre che legali, queste sostanze sarebbero anche innocue; e, anche se è ammessa una soglia di tolleranza fino allo 0,6 per cento di Thc, non dovrebbero comportare alterazioni psichiche. Il condizionale però è d’obbligo. L’estate scorsa il Consiglio superiore di sanità, organo del ministero della Salute, ha infatti espresso un parere negativo sulle infiorescenze vendute come se fossero caramelle ai banconi dei negozi di smart drug, sostenendo che la concentrazione dì Thc “può penetrare nel cervello e nei grassi corporei anche a basse percentuali”. Il ministro della Salute Giulia Grillo aveva annunciato provvedimenti non appena avesse avuto a disposizione dati certi. Quasi un anno dopo, lo stesso ministero, interpellato da Panorama, non ha sciolto il dubbio, parla ancora di “possibili rischi per la salute” e rivela di aver proposto alla Commissione europea un regolamento attuativo, che preveda limiti e controlli più stringenti, già al vaglio del Parlamento italiano. Mentre politici e scienziati decidono, il 30 maggio le sezioni riunite della Corte di Cassazione dovranno esprimersi sui sequestri effettuati dal Nas dei carabinieri e dalla polizia in negozi che vendevano questi prodotti. Se i loro ricorsi dovessero essere respinti, le saracinesche dovrebbero abbassarsi per tutti. Ornella Paladino, che ha convertito alla canapa industriale centinaia di ettari in Piemonte, ha appena presentato alla Camera dei deputati il neonato Consorzio nazionale tutela della canapa: “In Italia, solo nel 2018, sono sorte 700 aziende agricole legate al boom della canapa light” dice Palladino. “Della canapa non si butta nulla: può diventare stoffa, laterizi ecologici, oli terapeutici; anche cibi e bevande, ma non si può demonizzare un intero settore, in crescita, dicendo “non è escluso che faccia male”. II nostro consorzio si propone di certificare ogni passaggio della filiera produttiva per garantire che Thc non superi i limiti di legge. Pur se non è vietato, non vendiamo ai minori. Noi non siamo spacciatori, rispettiamo le regole”. Esperto degli aspetti legali intorno alla produzione della cannabis è l’avvocato Giacomo Bulleri, a cui si rivolgono agricoltori di canapa e negozianti di erba light: “Il volume di affari intorno alla canapa sativa, in Italia, supera i 7 miliardi di euro” stima Bulleri. “Oltre 700 i negozi che vendono estratti e infiorescenze. Gli agricoltori sono finanziati con fondi europei. Un pronunciamento negativo della Corte di Cassazione comporterebbe un grave danno economico e una crisi del settore”. Oggi chi compra un grammo di marijuana per “uso ricreativo” rischia grosso. Se venisse fermato alla guida di un veicolo avendo con sé dell’erba potrebbe passare seri guai. Alessandro Abruzzini, vice questore aggiunto del Servizio di Polizia stradale spiega perché: “C’è un vuoto normativo che può essere colmato solo con il Testo unico sugli stupefacenti. Se fermato dalle forze dell’ordine, un automobilista in possesso di cannabis, o che l’abbia fumata, deve essere sottoposto al test che rivela la presenza di Tch nell’organismo. Se è positivo e il guidatore appare “in stato di alterazione” vengono disposti esami più approfonditi e può scattare la sospensione della patente”. Per questo i negozianti raccomandano di tenere sempre con sé lo scontrino dell’erba acquistata legalmente. “Che per me è carta straccia” confida un esperto poliziotto dell’antidroga di Milano. “Non mi basta sapere se l’erba o il fumo che hai addosso è davvero legale e l’hai comprata in un negozio autorizzato. Intanto io ti porto in commissariato”. Venezuela. Guaidó guida l’insurrezione. Maduro: “È un colpo di Stato” di Emiliano Guanella La Stampa, 1 maggio 2019 L’opposizione venezuelana ha rotto gli indugi e ha giocato l’ultima disperata carta per rovesciare il governo di Nicolas Maduro, un tentativo di colpo di Stato, dall’esito, però, ancora molto incerto. L’ennesima giornata cruciale per il Venezuela è iniziata ieri all’alba con un video diffuso sui social dove il presidente designato dal parlamento Juan Guaidó compariva assieme a Leopoldo Lopez, ex leader dell’opposizione condannato nel 2015 e oggi agli arresti domiciliari. Circondato da militari Guaidó ha chiesto alla popolazione di scendere in piazza per l’operazione finale e ha invitato i militari a insorgere contro il “regime usurpatore” di Maduro. Il contesto non era casuale; i due erano davanti alla base de La Carlota, nella zona Est di Caracas, ex aeroporto civile oggi convertito a uso militare. I militari a lui fedeli si sono stretti un braccialetto azzurro sul braccio e da lì è iniziato un lungo assedio alla base stessa, durato poi tutta la giornata. “Cammino senza ritorno”. Scene da guerra civile, con i soldati ribelli e i civili insorti da una parte e i militari lealisti barricati dentro. Mentre la notizia della ribellione si diffondeva in rete, nonostante la censura imposta dal governo ai social media, alcuni servizi di messaggeria come WhatsApp continuano a funzionare, i collaboratori di Maduro hanno stretto le fila intorno al presidente, chiamando civili, militari e paramilitari, i temibili collettivi armati, ad andare sotto il Palazzo di Miraflores per difenderlo. Guaidó e Lopez sono riusciti a spostarsi in piazza Altamira, bastione dell’opposizione e da lì hanno improvvisato un comizio sul tetto di una jeep. “Questo è un cammino senza ritorno, è arrivato il nostro momento. Oggi costruiamo la storia, non molleremo fino a quando non avremo raggiunto il nostro obbiettivo”. Le cariche - La tanto attesa insurrezione militare, però, non c’è stata. Col passare delle ore ci si è resi conto che la maggioranza dei generali sarebbero rimasti fedeli a Maduro e che non c’erano movimenti significativi di truppe verso gli oppositori. A La Carlota gli scontri sono intensificati e alcuni manifestanti che cercavano di entrare nella base sono stati sorpresi dai carrarmati della guardia nazionale bolivariana che li hanno attaccati da dietro. Una decina di giovani sono stati investiti da un blindato, mentre i militari fedeli al governo continuavano a lanciare da dentro la base gas lacrimogeni per disperdere la folla. Il nodo della Carlota - La battaglia per La Carlota può avere un senso solo se si tiene presente che al suo interno è operativa una pista di 1.200 metri che può servire come base d’atterraggio per elicotteri o aerei militari di medie dimensioni; il posto ideale per ricevere un aiuto esterno come quello statunitense, considerando che Donald Trump non ha mai escluso l’opzione militare per risolvere la crisi venezuelana. L’altro elemento strategico nell’Operazione finale avviata da Guaidó è stata la liberazione di Lopez, figura simbolica della resistenza al chavismo, che era rimasto defilato in tutta la recente crisi. Lopez ha spiegato che ad aprirgli la porta della casa che era da due anni la sua prigione domiciliare sono stati alcuni agenti del Sebin, i servizi segreti, che hanno deciso di passare dall’altra parte. Uomini al comando di Manuel Ricardo Figueroa, il capo dei servizi, che da ieri si è dato alla macchia. Una defezione importante, ma troppo poco per pensare ad un crollo dell’appoggio dei militari a Maduro. Ieri sera “Lopez, sua moglie e sua figlia sono entrati come ospiti” nell’ambasciata del Cile a Caracas. Frontiere chiuse - Mentre dagli Stati Uniti arrivavano appelli alla resa incondizionata, il presidente ha resistito barricato a Miraflores ed è comparso a fine giornata per assicurare ai suoi che l’ennesimo golpe contro la rivoluzione era fallito. Diversi focolai di protesta, però, sono continuati nella notte, segnale che il malcontento popolare, golpe o no, è destinato a durare ancora. Oggi, primo maggio, Maduro intende portare in piazza migliaia di sostenitori per celebrare la natura socialista della rivoluzione bolivariana. Caracas, intanto, è sempre più isolata. Le poche compagnie aeree che ancora volano in Venezuela (Air France, Iberia, Tap, American Airlines e Air Europa) hanno cancellati i loro voli e le frontiere con Colombia e Brasile rimangono chiuse. Un Paese, ormai, abbandonato al suo incerto destino. Venezuela. Un popolo stremato che chiede aiuto di Franco Venturini Corriere della Sera, 1 maggio 2019 Sono passati ormai più di tre mesi da quando Guaidó ha sfidato Maduro. E il “presidente dell’opposizione” ha provato a giocare tutte le sue carte. La situazione è fluida. E rischiosa: perché per la prima volta le forze di terra di Usa e Russia potrebbero fronteggiarsi. Stanco di aspettare, il “presidente dell’opposizione” Juan Guaidó ha giocato ieri mattina tutte le sue carte. Sono passati ormai più di tre mesi da quando Guaidó ha sfidato il “presidente del potere” Nicolás Maduro e si è autoproclamato suo legittimo successore. Cinquanta Paesi lo hanno riconosciuto (non l’Italia, ma più per i contrasti tra Lega e 5Stelle che per una vera scelta di politica estera). Gli Stati Uniti hanno sottoposto il regime al potere a sanzioni durissime. La Russia e la Cina hanno invece difeso Maduro. La popolazione è in miseria, mancano spesso elettricità e acqua ma gli aiuti sono stati respinti. E i militari, soprattutto, non hanno sin qui preso partito contro il potere chavista. In Venezuela non è più il tempo dell’attesa, deve essersi detto Guaidó. Ecco allora che per la prima volta si sono visti davanti a una base aerea e nelle vie del centro di Caracas piccoli reparti militari con pezzi di stoffa blu attorno al collo e al braccio per farsi riconoscere come anti-Maduro, ecco gli scontri tra manifestanti civili e pretoriani del regime, ecco il pieno appoggio di Washington (il segretario di Stato Pompeo ha persino evocato un piano di fuga di Maduro, che la Russia avrebbe sconsigliato), appoggio del Brasile e dell’Argentina a Guaidó e la Spagna favorevole invece, mentre Bruxelles tace e aspetta, a un processo democratico che porti a nuove elezioni senza l’uso di una forza che in realtà già viene usata. Si ha l’impressione di una situazione fluida, mentre sono enormi, questo è certo, i pericoli che la mezza insurrezione e la mezza repressione innescano. Un blindato di Maduro che ha investito i manifestanti di Guaidó ha riportato alla memoria la strage della Tienanmen di cui cade quest’anno il trentennale, ed è questo il primo rischio: una rivolta strisciante che diventa guerra civile se i militari davvero si divideranno. Se davvero Guaidó sarà riuscito a portare dalla sua parte unità importati dell’esercito, isolando la guardia nazionale che difende Maduro. Bisognerà aspettare e vedere. Ma nel frattempo potrebbe prendere corpo un pericolo ancora più grave. Le forze militari americane sono dietro l’angolo e, hanno detto, “non interverranno”. Ma almeno cento consiglieri militari russi sono in Venezuela, in attuazione, ha spiegato Mosca, di vecchi accordi con Caracas. Se Washington decidesse di muovere i suoi uomini, saremmo tutti sull’orlo del primo scontro diretto tra forze di terra Usa e forze russe. Putin ha subito convocato il suo consiglio di sicurezza e a Washington si tengono analoghe riunioni. Per scongiurare il peggio, più che per vincere. E così si torna alle solite domande. Chi ha parlato con i militari, sembra senza successo? Qualcuno è in grado di mediare? Si arriverà a libere elezioni, malgrado gli errori e le colpe di tutti i protagonisti attuali? Molti interrogativi e risposte tutte da costruire. Mentre i venezuelani, questa è l’unica certezza, sono al limite della resistenza e chiedono aiuto. Uganda. Detenuto in un carcere di massima sicurezza l’oppositore Bobi Wine Nigrizia, 1 maggio 2019 La pop star ugandese e parlamentare dell’opposizione Robert Kyagulanyi, conosciuto come Bobi Wine, è detenuto in un carcere di massima sicurezza dopo essere stato incriminato ieri per il suo presunto ruolo in una manifestazione di piazza nel luglio 2018 contro la legge che tassa l’uso dei social media. Wine, 37 anni, è apparso in corte con il suo berretto rosso, simbolo del suo movimento contro il lungo regime del presidente Yoweri Museveni, al potere dal 1986. Dovrà tornare in tribunale il 2 maggio. Il popolare cantante è emerso come un potente avversario di Museveni. Wine, che esorta i giovani ugandesi a prendere le redini del paese, ha lasciato intendere che potrebbe candidarsi alla presidenza nel 2021. Per il suo attivismo è stato più volte arrestato e detenuto. L’ultima volta la scorsa settimana. Il parlamentare è anche accusato di aver intralciato il convoglio presidenziale lo scorso agosto. Quest’ultimo arresto ha scatenato proteste di piazza a Kampala da parte dei sostenitori che chiedevano la sua liberazione, concluse con decine di arresti, e una campagna social media: #FreeBobiWine. Decine di importanti musicisti internazionali, tra cui Angelique Kidjo e Chris Martin, hanno firmato una lettera che chiedeva il suo rilascio. Museveni, 74 anni, è ora in grado di ottenere la rielezione ad un sesto mandato nel 2021, dopo che il parlamento ha approvato la rimozione della clausola costituzionale che impediva a chiunque avesse più di 75 anni di candidarsi alla presidenza. Negli ultimi anni le forze ugandesi sono state accusate di intimorire e torturare gli oppositori percepiti. L’Uganda non ha assistito a un pacifico trasferimento di potere dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1962.