Abolire il carcere. Prove di utopia in Europa di Giuseppe Rizzo Internazionale, 19 maggio 2019 L’abolizionismo ha una lunga storia nel vecchio continente, e oggi dà risposte concrete a una situazione insostenibile. Una mattina di qualche inverno fa, il freddo di Padova aveva seccato i terreni intorno al carcere Due Palazzi e gelava il fiato di decine di persone davanti al suo ingresso. Erano giornalisti e familiari di detenuti, ed erano lì per partecipare a un convegno organizzato dall’associazione Ristretti Orizzonti. Tra loro c’era una ragazza di diciotto anni. Piccola e magra, era contenta e nervosa per il padre, che doveva intervenire a uno degli incontri. Lui era in prigione da quando lei era nata. Lei non aveva mai mangiato un gelato con lui. Le chiesi qual era stata la cosa più complicata da gestire in tutti quegli anni. Ci pensò un po’ su, poi rispose: “All’inizio è stato il pensiero che mio padre fosse innocente, poi il dover fare i conti con i suoi sbagli, infine il giudizio degli altri. Per tutti sono solo la figlia di un ergastolano. Ho cominciato ad avere meno paura di questo giudizio quando ho capito che il carcere è uno specchio. Giudichiamo i detenuti e le loro famiglie, ma dimentichiamo che stiamo giudicando anche il nostro riflesso”. Il carcere è uno specchio, è vero, e torna utile ricordarlo quando si ha la malasorte, o la curiosità, di affacciarvisi. Nel caso dell’Italia, si scopre presto che l’immagine riflessa è tra le peggiori in Europa. Nelle celle italiane sono rinchiuse sessantamila persone, diecimila in più di quelle che possono contenere. È una situazione soffocante, e una delle conseguenze è che dal 2000 a oggi in carcere si sono suicidate 1.065 persone. In Europa il nostro paese ha diversi primati. Per esempio, è il secondo per tasso di affollamento, preceduto da Cipro e seguito da Ungheria e Turchia. Ed è il settimo per numero di detenuti. Una cosa che ha in comune con alcuni stati dell’Unione europea è la crescita enorme del numero di persone recluse. In Francia nel 2000 erano 48mila, oggi sono 74mila; nel Regno Unito si è passati da 64mila a 82mila; in Italia da 53mila a 60mila, ma nel 1990 erano la metà. Tutto questo è avvenuto nonostante i reati nel tempo siano diminuiti. Cosa spiega allora l’espansione del carcere? Le ragioni sono complesse e vanno cercate nelle crisi economiche che hanno colpito soprattutto la classe media e creato più poveri, nei tagli allo stato sociale e nell’indebolimento della politica. Dal cortocircuito di questi elementi, secondo l’antropologo francese Didier Fassin, nasce l’ossessione per la sicurezza e la punizione. “Gli individui si dimostrano sempre meno tolleranti (...) le élite politiche rafforzano o addirittura anticipano le inquietudini securitarie dei cittadini (...) per trarre benefici elettorali”, scrive in Punire, una passione contemporanea (Feltrinelli 2018). A farne le spese sono per lo più tossicodipendenti, stranieri e poveri. L’unica riforma Contro questo uso del carcere come arma classista e di vendetta sociale si è riflettuto molto in Europa. Già nel 1899 Lev Tolstoj scriveva in Resurrezione che “queste istituzioni portano la gente al massimo di vizio e corruzione, cioè aumentano il pericolo”, e sono di fatto irriformabili. Sono parole simili a quelle pubblicate da Altiero Spinelli nel 1949 sulla rivista Il Ponte: “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. Negli anni ottanta la riflessione sulla detenzione è rilanciata nell’Europa del nord. Il norvegese Nils Christie con Abolire le pene? (Edizioni Gruppo Abele 1985) e l’olandese Louk Hulsman con Pene perdute (Colibrì Edizioni 2001) si scagliano contro l’intero sistema penale. Mentre il norvegese Thomas Mathiesen propone un piano in tre punti per fare a meno delle prigioni: ridurre i limiti massimi di pena; smantellare la struttura carceraria; trasferire le risorse al sistema dell’affidamento ai servizi sociali. Una buona sintesi di tutte queste posizioni è contenuta nel libro “Abolire il carcere” (Chiarelettere 2015). Pubblicato nel 2015 da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, è uno dei testi di riferimento dell’abolizionismo italiano, in grado di spiegare il fallimento del carcere e svelare alcuni luoghi comuni duri a morire. Uno è che in gabbia ci siano solo persone pericolose. Non è così: gli assassini, i mafiosi e i trafficanti internazionali di droga sono “a malapena il 10 per cento del totale”. Un altro è che la galera sia un buon deterrente. È vero il contrario: “I reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. La percentuale scende al 19 per cento tra chi è affidato in prova ai servizi sociali. Un altro luogo comune è che la prigione sia sempre esistita. Nient’affatto: è tra il settecento e l’ottocento che “al posto delle strazianti pene corporali, si sceglie la soluzione detentiva”. Le prigioni servivano a riformare un sistema ancora più brutale. Oggi le si dà per scontate, così come in Italia si dava per scontata la pena di morte prima di Cesare Beccaria, negli Stati Uniti la schiavitù e in Sudafrica l’apartheid. La storia ha dimostrato che le cose potevano cambiare. E allora è davvero tanto difficile immaginare un’alternativa? Manconi e gli altri ci hanno provato, invitando a depenalizzare il più possibile, a cancellare l’ergastolo e il carcere minorile, a ridurre le pene e a favorire misure alternative. “Le autorità che per ignoranza e demagogia proclamano la guerra alla droga e fanno, o lasciano fare, la guerra ai drogati, sono, temo, complici di violenze terribili”, ha scritto Adriano Sofri. È vero anche nel caso delle guerre alla povertà e all’immigrazione: cioè finiscono per fare la guerra ai poveri e agli immigrati. Il carcere è la cassa di risonanza di queste violenze. Lo specchio, dove l’immagine riflessa è quella di tutti. L’abolizionismo è lo sforzo di chi ce lo ricorda e immagina delle alternative. Perché è giusto abolire il carcere di Rachel Kushner* Internazionale, 19 maggio 2019 Non è vero che le prigioni rendono la società più sicura. Anche per questo è arrivato il momento di immaginare alternative più umane e più efficaci. Abolire il carcere è giusto. Sono sempre di più gli attivisti e gli studiosi convinti che mettere le persone in prigione sia il modo sbagliato per contrastare la violenza. Tra loro c’è Ruth Wilson Gilmore, che negli Stati Uniti si batte per cambiare il sistema. Ruth Wilson Gilmore racconta sempre un aneddoto. Nel 2003 era a Fresno, in California, per una conferenza sulla giustizia ambientale. I partecipanti erano arrivati da tutta la Central valley, la vasta pianura che copre la regione centrale dello stato, per discutere dei gravi rischi che minacciavano le loro comunità, quasi tutti causati da decenni di coltivazioni su scala industriale. Ancora oggi in quella zona si respira l’aria peggiore di tutti gli Stati Uniti e le persone che ci abitano (circa un milione) bevono acqua di rubinetto più tossica di quella di Flint, in Michigan (da anni al centro di uno scandalo sulla contaminazione delle risorse idriche). Il “programma giovani” della conferenza prevedeva un dibattito in cui i ragazzi parlavano di quello che li preoccupava e poi decidevano insieme cosa fare per promuovere la giustizia ambientale. Gilmore, nota docente di geografia e figura di primo piano del movimento per l’abolizione del carcere, era tra le persone che avrebbero preso la parola. Mentre preparava il suo intervento, qualcuno le ha detto che i ragazzi volevano parlarle. È andata nella sala dove erano riuniti e si è accorta subito che molti di loro erano di origine ispanica, figli e figlie di braccianti del settore agricolo, per lo più alunni delle scuole medie, quindi abbastanza grandi per avere idee forti e diffidare degli adulti. La guardavano con le sopracciglia aggrottate e le braccia conserte. Gilmore ha capito al volo che ce l’avevano con lei. “Come va ragazzi?”, ha chiesto entrando. Uno di loro si è fatto avanti e ha detto: “Abbiamo sentito dire che lei è un’abolizionista. Ma davvero vuole chiudere le prigioni?”. Gilmore ha risposto che era vero: voleva chiudere le prigioni. A quel punto i ragazzi le hanno chiesto perché, ma prima ancora che lei potesse rispondere, uno ha detto: “Ma allora che ne facciamo di chi fa cose molto brutte?”. Altri hanno aggiunto: “E a quelli che fanno male alle persone?”. Lei si è resa conto che quei ragazzi, che venissero da piccoli centri agricoli o dalle case popolari alla periferia di Fresno e di Bakersfield, avevano una consapevolezza innata di quant’è brutto il mondo e che non sarebbe stato facile convincerli. “Capisco come la pensate”, ha risposto. “Ma vi dico una cosa: invece di chiederci se un tizio va messo dietro le sbarre, non sarebbe meglio cercare di capire perché pretendiamo di risolvere certi problemi ripetendo gli stessi comportamenti che provocano quei problemi?”. Stava invitando i ragazzi a riflettere sul motivo per cui la società sceglie di diventare un modello di crudeltà e di vendetta. Gilmore ha avvertito un senso di gelo: i ragazzini la guardavano come fosse una nuova maestra che giustifica le sue teorie fasulle sostenendo che dice quelle cose per il loro bene. Ma non si è lasciata scoraggiare, e ha spiegato che in Spagna, dove gli omicidi non sono frequenti, in media le persone condannate per questo reato passano in carcere sette anni. “Coooosa? Solo sette anni?”, ha esclamato uno dei ragazzi. Erano così increduli che cominciavano a sciogliersi un po’, come se avessero trovato qualcosa che li indignava molto più delle idee di Gilmore. Dal rogo alla cella Lei ha continuato raccontandogli che in Spagna, nell’improbabile eventualità che qualcuno decida di risolvere un problema ammazzando un’altra persona, lo stato gli fa perdere sette anni della sua vita durante i quali è costretto a pensare a quello che ha fatto e a cercare d’immaginarsi come si comporterà una volta uscito di prigione. “Questo modo di regolare la faccenda”, ha detto Gilmore, “ci dice che dove la vita è preziosa, è preziosa sul serio”. In altre parole, ha aggiunto, in Spagna hanno deciso che siccome la vita ha un valore enorme, è meglio non comportarsi in modo punitivo, violento e distruttivo nei confronti di chi fa del male al prossimo. “Questo dimostra che, per chi è alle prese con i problemi della vita quotidiana, comportarsi in modo violento e distruttivo non è una soluzione”. I ragazzi hanno reagito con uno scetticismo espresso da sguardi diffidenti. Gilmore ha continuato a parlare, convinta dei suoi argomenti maturati in tanti anni di riflessione come studiosa e attivista, ma quel pubblico era difficile da convincere: i ragazzi le hanno detto che ci avrebbero pensato e l’hanno liquidata. È uscita dall’aula sentendosi sconfitta. Ma alla fine della giornata, quando dovevano presentare le loro conclusioni alla conferenza, i ragazzi hanno annunciato, con grande sorpresa di Gilmore, che le loro preoccupazioni più grandi erano tre: i pesticidi, la polizia e le carceri. “Stavo lì seduta ad ascoltare quei ragazzi e il mio cuore ha avuto un sussulto”, racconta. “Il movimento abolizionista è olistico, nel senso che considera i rapporti tra le persone e l’ambiente nel loro insieme. Per questo temevo che parlandogli degli spagnoli potessero concludere che fuori dagli Stati Uniti le persone sono semplicemente migliori o più gentili, che quello che succede altrove non conta per le loro vite. E invece avevano assimilato il concetto generale che avevo cercato di trasmettergli, cioè il valore della vita. E quindi si sono fatti una domanda: “Perché abbiamo ogni giorno l’impressione di vivere in un posto dove la vita non è preziosa?”. Nel tentativo di trovare una risposta, hanno capito cos’è che li rende vulnerabili”. Il movimento per l’abolizione del carcere può apparire provocatorio e intransigente: per capire cos’è bisogna concentrarsi sui dettagli. Per Gilmore, che lotta per questa causa da più di trent’anni, è un obiettivo di lungo periodo e allo stesso tempo un programma politico concreto, fatto di investimenti pubblici in tutti gli aspetti indispensabili per una vita produttiva e libera dalla violenza: lavoro, istruzione, edilizia popolare, sanità. Gli abolizionisti non si chiedono: “Cosa faremo con le persone violente in un eventuale futuro senza carceri?”. Piuttosto si concentrano su come ridurre le disuguaglianze e dare alle persone le risorse di cui hanno bisogno, ben prima del momento ipotetico in cui - sono parole di Gilmore - “finiscono per combinare qualche casino”. Nel 1885 lo scrittore britannico William Morris scriveva: “Ogni epoca storica ha avuto le sue speranze. Queste speranze guardano a qualcosa che va oltre la vita di una data epoca e sono un tentativo di proiettarsi nel futuro”. Morris era un proto-abolizionista: nel suo romanzo utopico Notizie da nessun luogo (Garzanti 1995) non esistono carceri, e questo è considerato l’ovvio prerequisito di una società felice. Al tempo di Morris il carcere, come forma più diffusa di punizione, era relativamente nuovo in Inghilterra, dove storicamente chi commetteva dei reati passava un breve periodo in prigione prima di essere trascinato fuori e fustigato nella pubblica piazza. Come ricorda Angela Davis nel libro Aboliamo le prigioni? (minimum fax 2009), anticamente il common law britannico prevedeva che per il reato di petty treason (cioè quando un subordinato tradiva un superiore) il colpevole venisse bruciato vivo, ma nel 1790 c’era stata una riforma che aveva introdotto la pena dell’impiccagione. In Europa le riforme dell’ordinamento giudiziario approvate sulla scia dell’illuminismo hanno portato gradualmente al rifiuto delle punizioni corporali: invece di essere punito immediatamente, il condannato veniva recluso per un periodo di tempo fissato dalla legge. Tra le proposte del cosiddetto movimento penitenziario che si diffuse all’inizio dell’ottocento nel Regno Unito e negli Stati Uniti c’era l’adozione di metodi punitivi più umani. In altri termini, l’introduzione del carcere era una riforma. Tuttavia, anche se nelle sue origini filosofiche il carcere doveva essere un’alternativa umana alle percosse, alla tortura o alla morte, con il passare del tempo si è trasformato in un elemento stabile della vita moderna, anche se nessuno, neanche i suoi sostenitori e gli amministratori del sistema penitenziario, lo considera particolarmente umano. Oggi nelle carceri statunitensi ci sono più di due milioni di detenuti, sono soprattutto neri o appartenenti ad altre minoranze, e quasi tutti vengono da comunità povere. Il sistema carcerario statunitense ha violato ripetutamente i diritti umani e ha mancato il suo obiettivo di riabilitazione, ma non solo: non è dimostrato che abbia disincentivato la criminalità né che abbia reso la società più sicura. L’idea di riformare il carcere ha cominciato a prendere piede tra i politici statunitensi dopo l’impennata delle pene detentive cominciata nel 1980. Ma gli abolizionisti sostengono che le tante riforme attuate negli ultimi decenni non hanno fatto altro che rafforzare il sistema. Per fare un esempio, tutti gli stati americani che hanno abolito la pena di morte hanno introdotto l’ergastolo senza condizionale, che molti considerano una pena di morte eseguita con altri mezzi. Lo stesso discorso vale per le riforme recenti. La prima riforma delle carceri federali adottata da dieci anni a questa parte (il First step act, sostenuto da entrambi i partiti e promulgato dal presidente Donald Trump alla fine del 2018), prevede la scarcerazione di appena settemila detenuti sui due milioni e 300mila totali. E si applica solo alle prigioni federali, che ospitano meno del 10 per cento della popolazione carceraria. Il punto, secondo Gilmore, è che non bisogna cercare di “migliorare” il sistema carcerario, ma impegnarsi a livello politico per ridurne la portata e le conseguenze, per esempio fermando la costruzione di nuove prigioni e chiudendo un po’ alla volta quelle esistenti. Un obiettivo che richiede un faticoso lavoro di organizzazione dal basso e la volontà di usare i fondi statali non per punire ma per aiutare le comunità più vulnerabili. Scuole come prigioni - Fin dalla nascita del sistema attuale, chi critica l’istituzione carceraria si è sempre chiesto se le prigioni siano davvero la soluzione più efficace per risolvere i problemi della società. Nel 1902 Clarence Darrow, un celebre avvocato statunitense, disse davanti ai detenuti del carcere della contea di Cook, a Chicago: “Il carcere non dovrebbe esistere, perché non raggiunge lo scopo che dice di perseguire”. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta negli Stati Uniti il movimento abolizionista raccolse consensi tra persone appartenenti a gruppi diversi tra loro: studiosi, politici (anche moderati), parlamentari federali e statali ed esponenti di varie fedi religiose. Nei paesi scandinavi il movimento abolizionista non ha ottenuto la soppressione definitiva delle carceri ma ha permesso di passare al “carcere aperto”, che punta al reinserimento delle persone nella società e che ha fatto calare di molto i tassi di recidiva. Dopo la rivolta scoppiata nel 1971 nel penitenziario di Attica, nello stato di New York, in cui morirono 43 persone, negli Stati Uniti si diffuse la convinzione che servissero cambiamenti drastici. Nel 1976 Fay Honey Knopp, una quacchera che gestiva una cappella carceraria, pubblicò un opuscolo intitolato Invece del carcere: manuale per gli abolizionisti. Tre gli obiettivi principali: moratoria sull’edificazione di nuovi penitenziari, liberazione dei detenuti e superamento della criminalizzazione e dell’uso del carcere come mezzo di correzione. Le proposte degli abolizionisti per raggiungere quegli obiettivi somigliano in modo sorprendente a quelle (mai realizzate) del programma di great society voluto dal presidente Lyndon Johnson negli anni sessanta: creare milioni di nuovi impieghi, combattere le discriminazioni sul posto di lavoro, desegregare le scuole, estendere la rete di protezioni sociali, costruire nuovi alloggi. Ma in molte città si cominciava a sentire l’impatto devastante della crisi del settore industriale, un problema che non è stato affrontato con programmi di tutele sociali ma con nuove forme, anche severe, di criminalizzazione. Alla fine degli anni novanta, con l’aumento delle carceri e della popolazione carceraria, è emerso un nuovo movimento per fermare la costruzione di penitenziari. Ha mosso i primi passi in California. Tra i leader c’erano Gilmore e Angela Davis, che nel 1998 hanno fondato, insieme ad alcuni attivisti di San Francisco, Critical resistance, un’organizzazione che ha fatto dell’abolizione del carcere il suo principio cardine. Cinque anni dopo è nata la Californians united for a responsable budget (Curb), per combattere la costruzione di nuove carceri. La Curb si è messa in luce con alcune campagne di successo che hanno bloccato la creazione di nuove prigioni per un totale di 140mila nuovi posti letto solo in California, uno stato dove i detenuti sono circa duecentomila. Tutte le campagne a cui Gilmore ha partecipato sono partite da una coalizione di persone che rischiavano di subire le conseguenze negative di un nuovo penitenziario. Gilmore non ha semplicemente seguito la strategia di combattere direttamente l’istituzione carceraria sperando nell’adesione di altri, ma al contrario ha cercato contatti con gruppi che si erano già mobilitati. Che si trattasse di ambientalisti da convincere sul fatto che una nuova prigione avrebbe danneggiato la biodiversità, o di membri di comunità locali preoccupati per l’impatto di un edificio carcerario sulle falde acquifere, “il nostro principio è sempre stato mettere in contatto organizzazioni già esistenti”, mi spiega Gilmore. “Bisogna parlare con la gente e capire cosa vuole”. Un esempio: nel 2004 gli elettori della contea di Los Angeles dovevano votare su un provvedimento che prevedeva l’assunzione di 5mila tra nuovi agenti di polizia e vicesceriffi e l’ampliamento del carcere cittadino. Gilmore ha contribuito a organizzare una campagna nei quartieri di South Central e di East Los Angeles: ha organizzato incontri con i cittadini, ha parlato con loro incoraggiandoli a fare domande e a esprimere i loro bisogni. Le esigenze dei residenti di quei quartieri coincidevano con quelle dello sceriffo della contea di Los Angeles e del dipartimento di polizia? Volevano davvero più agenti nelle loro comunità? La risposta era no, e il provvedimento è stato bocciato alle urne. “Il lavoro organizzativo è stato lento e faticoso, ma alla fine abbiamo vinto”. Poco dopo, quando il governo della California ha deciso di costruire carceri “più attente ai bisogni di genere”, gli abolizionisti hanno messo in piedi un’organizzazione insieme alle detenute dei penitenziari femminili dello stato. Circa 3.300 detenuti maschi e femmine hanno firmato una petizione, preparata dall’associazione Justice now, per opporsi alla prospettiva di essere spostati nei nuovi penitenziari separati. Un elenco delle detenute e dei detenuti firmatari (un rotolo di carta lungo sette metri e mezzo) è stato presentato al parlamento della California, provocando l’imbarazzo dei deputati della commissione bilancio per l’edilizia carceraria. La proposta iniziale è stata respinta. “Non si può dire che tutte le persone che avevano partecipato a quelle campagne fossero abolizioniste”, dice Gilmore. “Ma gli abolizionisti si sono impegnati per consentire a diverse tipologie di detenuti con bisogni diversi di decidere in prima persona che quella di costruire nuove carceri era una pessima idea”. Un nuovo corso Nel 1994, quando si è iscritta alla Rutgers University del New Jersey, Ruth Wilson Gilmore aveva 43 anni ed era un’attivista navigata, con un’istruzione informale ma a tutto campo ottenuta seguendo studiosi come Cedric Robinson, Barbara Smith e Mike Davis, l’autore di Città di quarzo (Manifestolibri 2008), che ha introdotto l’espressione “complesso penitenziario-industriale”. All’inizio Gilmore pensava di prendere un dottorato di ricerca in pianificazione urbanistica alla Rutgers: le sembrava la cosa più vicina a quello che voleva fare, cioè approfondire i problemi sociali del mondo che abbiamo costruito. Ma poi ha conosciuto Neil Smith, un influente geografo marxista, e ha deciso di iscriversi a geografia. Ha scoperto che quella disciplina le permetteva di analizzare i rapporti tra città e zone rurali e di riflettere su come la vita sociale è organizzata in sistemi di competizione e cooperazione. Quattro anni dopo ha preso il dottorato e poi è andata a insegnare all’università di Berkeley, in California. Voleva che il nome del suo primo corso fosse Geografia carceraria, ma il capo dipartimento non era d’accordo e le ha proposto: “Perché non lo chiami ‘Razza e criminalità’?”. Lei ha risposto che le sue lezioni non riguardavano né la razza né la criminalità (il capo dipartimento sostiene che le cose siano andate diversamente). In ogni caso Gilmore l’ha avuta vinta, inventando di fatto il concetto di geografia carceraria, un ambito di ricerca che fa luce sui complessi legami tra paesaggio, risorse naturali, economia politica e infrastrutture, ma che tocca anche temi come l’operato della polizia, l’incarcerazione, la segregazione e il controllo delle comunità. Negli anni ha influenzato il modo di pensare di molti geografi, oltre che generazioni di studenti e attivisti. Ho avuto una dimostrazione dell’abilità di Gilmore nell’affrontare la questione delle carceri in una chiesa di Chicago, a un incontro con Angela Davis moderato da Beth Richie, docente di diritto all’università dell’Illinois. Le tre intellettuali nere, radicali e femministe hanno preso posto su enormi e decorate cattedre vescovili. All’incontro, organizzato da Critical resistance, c’erano molti attivisti del South Side, la zona povera e a maggioranza nera di Chicago. In sala c’erano vibrazioni positive, ma quando Davis ha sollevato l’argomento delle carceri private, l’atmosfera si è caricata di tensione. Oggi è sempre più diffusa l’idea che il “vero” problema dell’incarcerazione di massa sia il fatto che ci sono carceri gestite da aziende. Ma chiunque affronti l’argomento con serietà sa che non è così. Basta dare un’occhiata ai numeri: il 92 per cento dei detenuti statunitensi si trova in strutture finanziate con fondi pubblici e gestite dallo stato. In pratica, anche se domani venissero chiuse tutte le prigioni private, il numero di detenuti che tornerebbero liberi sarebbe molto basso. Nel corso del dibattito Davis ha ammesso che è sbagliato concentrarsi troppo sulle prigioni private, ma poi ha detto che è importante puntare i riflettori su questo tema per far capire il ruolo del carcere nel sistema capitalistico. Gilmore ha risposto dicendo che non sono state le prigioni private a causare l’incarcerazione di massa: “Le aziende naturalmente non sono buone né innocenti, sono semplicemente dei parassiti del sistema”. Poi si è lanciata in una dissertazione sulla differenza tra la ricerca del profitto che muove le aziende e il modo in cui sono finanziati i penitenziari pubblici. Ha spiegato che gli enti governativi non fanno profitti, quindi hanno bisogno di entrate, e le agenzie statali sono in competizione tra di loro per assicurarsi i fondi disponibili. In una situazione di austerità, i finanziamenti al welfare vengono tagliati, e i fondi disponibili finiscono alla polizia, ai vigili del fuoco e alle istituzioni carcerarie. A quel punto, altre agenzie cercano di ottenere fondi imitando la polizia. Il dipartimento dell’istruzione, per esempio, capisce che è più facile avere soldi dallo stato per i metal detector che per altre cose. E nel frattempo le carceri ottengono fondi che tradizionalmente andavano altrove (i soldi per l’assistenza sanitaria pubblica, per esempio, sono convogliati sui “servizi di salute mentale” delle prigioni). Insomma, spiega Gilmore, “se segui i soldi alla fine non ti sorprendi di quanto guadagnano i privati ma di quante persone lavorano per il dipartimento degli istituti penitenziari. In California le guardie carcerarie sono la lobby più potente: sono un’unica categoria, con un unico datore di lavoro, quindi per loro è facile organizzarsi. E infatti sono in grado di decidere le elezioni a tutti i livelli, dai procuratori distrettuali fino al governatore dello stato”. Nel bilancio della California per il 2019 sono previsti 15 miliardi e mezzo per il sistema carcerario. Solo gli stipendi dei dipendenti assorbiranno il 40 per cento di quella somma (tra il 1982 e il 2000 le autorità hanno costruito 23 nuove prigioni e la popolazione carceraria nello stato è aumentata del 500 per cento). Quindi stiamo parlando non di un’impresa a scopo di lucro ma di un’industria sovvenzionata dallo stato. La casa del sindacato A sentire Gilmore, le prigioni non sono il frutto del desiderio di qualche “cattivo” di sbattere dentro i poveri e i neri. “Non è che una mattina lo stato si sia svegliato dicendo: ‘Facciamo un dispetto ai neri’. L’esito non era scontato: perché andasse com’è andata sono dovute succedere tante altre cose”. E infatti la storia che lei racconta è popolata da una lunga serie di personaggi e avvenimenti: gli agricoltori che hanno affittato o venduto allo stato i terreni su cui sono state costruite le prigioni; il sindacato delle guardie carcerarie; i politici dei vari stati; le amministrazioni comunali; la siccità, che ha fatto crollare il valore di terreni su cui poi sono stati edificati i penitenziari; la crisi economica che ha portato a enormi centri urbani deindustrializzati; e infine il destino dei discendenti di quelli che emigrarono nella California meridionale durante e dopo la seconda guerra mondiale per lavorare nelle fabbriche. Insomma, la tesi di fondo di Gilmore è che la costruzione di carceri era tutt’altro che inevitabile. Ma più prigioni si costruivano e più lo stato diventava bravo a riempirle, anche quando la criminalità era in calo. Il suo libro Golden gulag, pubblicato nel 2007, è considerato un’opera fondamentale da docenti universitari e attivisti. Alcuni passaggi possono scoraggiare per il livello di tecnicismo, ma di persona Gilmore è diretta e accessibile. Ha un modo di fare caloroso ed estroverso, ride spesso e lega bene con tutti. Parla in modo chiaro, anche se respinge ogni semplificazione. Ti fa riflettere sui legami tra le grandi strutture che stanno dietro la costruzione delle carceri, ma anche tra gruppi di persone che potrebbero lavorare insieme per cambiare le cose, per esempio gli ambientalisti e i sindacati degli insegnanti. È così che nel 1999 ha messo insieme un gruppo formato sia da braccianti sia da imprenditori agricoli per fermare la costruzione di un carcere nella contea di Tulare, in California, ed è riuscita a convincere la California state employees association (Csea), un sindacato di dipendenti pubblici che allora aveva più di 80mila iscritti, ad appoggiare la campagna contro il nuovo carcere di Delano. “Le guardie non credevano ai loro occhi: tutti quei dipendenti pubblici che si schieravano contro altri dipendenti pubblici. Eravamo sorpresi anche noi”, racconta Gilmore. La Csea ha capito una cosa, spiega: una guardia carceraria era un dipendente statale che per avere un lavoro doveva avere un carcere; ma poi c’erano anche i fabbri, le segretarie, i custodi e altri impiegati pubblici che non dovevano per forza lavorare in un istituto penitenziario, ma che avrebbero finito per farlo se tutte le risorse fossero andate al sindacato dei secondini. Alla fine il carcere di Delano è stato comunque aperto. Ma secondo Gilmore c’è voluto molto più tempo di quanto ne sarebbe servito se non ci fosse stata la campagna di protesta degli abolizionisti. Racconta: “Siamo arrivati al punto che i parlamentari statali ci dicevano: ‘Fateci costruire solo questo e poi basta’. Erano stremati. All’inaugurazione il capo del dipartimento delle carceri ha detto: ‘Probabilmente questa sarà l’ultima prigione che apriremo nello stato’”. Mike Davis mi ha detto: “Per capire Ruthie, devi capire da che ambiente proviene e che famiglia ha avuto”. Gilmore è nata nel 1950 ed è cresciuta con i tre fratelli a New Haven, nel Connecticut, in una famiglia che lei stessa definisce “afrosassone”. “Avevamo la determinazione tipica dei puritani”, racconta Gilmore: “Non potevo commettere errori perché tutto ciò che facevo era per i neri”. La famiglia Gilmore frequentava quella che allora era la chiesa congregazionale di Dixwell avenue, molto legata al movimento per i diritti civili. “Il principio della chiesa era che tutti dovevano imparare il più possibile”, ricorda. La domenica a catechismo studiavano la storia dei neri e gli insegnanti li incoraggiavano a farsi delle domande. “Quando dicevi una cosa, qualsiasi cosa, la regola era che dovevi spiegare come facevi a saperla”. Suo padre, Courtland Seymour Wilson, lavorava in una fabbrica di armi Winchester, dove era un importante leader sindacale. Quando era bambina, le uniche occasioni in cui Gilmore vedeva entrare dei bianchi in casa erano le riunioni sindacali. Lei si sedeva sulle scale ad ascoltare quegli uomini, che fumavano e discutevano fino a tarda notte, e li sbirciava dalla finestra quando uscivano. “Parcheggiata fuori c’era sempre un’auto da cui non scendeva mai nessuno, e se ne andava quando se ne andavano gli altri”, ricorda. Quando ha saputo dell’agenzia Pinkerton, assoldata per spiare i lavoratori delle miniere, ha capito che a bordo di quell’auto parcheggiata fuori casa dovevano esserci le spie della Winchester. Courtland Seymour Wilson incoraggiava Ruthie, che già da piccola era portata per lo studio. Nel 1960 una scuola privata che aveva deciso di desegregare le sue classi prima che fosse costretta a farlo per legge, mandò delle lettere alle chiese nere più rispettate chiedendo di segnalare le bambine “idonee” a iscriversi. Gilmore fece l’esame di ammissione e lo superò. Fu la prima alunna nera della scuola, nonché una delle poche che venivano da una famiglia della classe operaia. Era sempre triste, ma imparava molto. Nel 1968 s’iscrisse allo Swarthmore college, in Pennsylvania, dove si interessò alla politica del campus. Era l’anno delle occupazioni. Lei e un gruppo di altri studenti neri, tra cui la sorella minore di Angela Davis, Fania, provarono a convincere la direzione ad accogliere altri studenti neri, e una volta anche Angela Davis andò a Swarthmore per dare qualche consiglio agli studenti. “Sembrava incredibilmente matura e preparata”, ricorda Gilmore. “Aveva i modi tipici dell’Alabama, parlava lentamente e con tono deciso, e portava la minigonna”. Agli studenti Davis disse: “Prima cercate di capire ciò che volete e poi non mollate la presa. Fatevi sentire”. Dopo Swarthmore Gilmore s’iscrisse a Yale e si lasciò assorbire completamente dallo studio. “Ogni anno trovavo un insegnante che mi apprezzava davvero e s’interessava a quello che scrivevo e pensavo”, racconta. Uno era George Steiner, e un altro il critico cinematografico e teatrale Stanley Kauffmann. Alla fine si laureò con una tesi sul teatro, poi partì per un viaggio senza meta per tutti gli Stati Uniti, che la portò nel sud della California. Lì incontrò Craig, si sposarono e dal 1976 si dedicano insieme alla militanza politica. Con il tempo Gilmore ha capito che certe convinzioni a cui la gente si aggrappa non solo sono false ma lasciano spazio a posizioni politiche che, invece di puntare a riforme fondamentali e significative, sostengono interventi non incisivi o poco mirati. Ecco un elenco di convinzioni che lei ha smontato: l’idea che un numero significativo di persone in prigione sia stato condannato per reati non violenti legati alla droga; il fatto che il carcere sia una prosecuzione della schiavitù con altri mezzi e, per estensione, che la maggioranza dei detenuti sia formata da neri. Per Gilmore, come per molti altri studiosi e attivisti, dire che le prigioni sono piene di criminali non violenti è un’affermazione discutibile. In tutti gli Stati Uniti i detenuti per reati legati alla droga sono meno di uno su cinque, eppure la convinzione che siano molti di più si è diffusa a macchia d’olio, sulla scia della straordinaria popolarità di The new Jim Crow, il libro di Michelle Alexander sugli effetti devastanti della guerra alla droga. Quei casi in realtà sono gestiti principalmente dal sistema carcerario federale, che ha dimensioni relativamente ridotte. Idee da smontare È facile indignarsi per le leggi draconiane che puniscono i reati non violenti e per i pregiudizi razziali. Alexander li elenca in modo avvincente e persuasivo. Tuttavia, la maggior parte dei detenuti nelle carceri statali e federali è stata condannata per reati definiti violenti, tra cui c’è di tutto, dal possesso di armi da fuoco all’omicidio. Invece di affrontare questa realtà scomoda, molti si concentrano sui “relativamente innocenti”, come li chiama Gilmore: tossicodipendenti o vittime di false denunce, che rappresentano solo una piccola percentuale dei detenuti. Ho sollevato l’argomento con Alexander, che ha risposto: “Penso che l’incapacità di alcuni studiosi come me di affrontare apertamente il problema della violenza dia quasi l’impressione che approviamo l’incarcerazione di massa delle persone violente. Quelli di noi che lottano per mettere fine al sistema della criminalizzazione di massa devono cominciare a parlare di più di violenza, e non solo dei danni che provoca, ma anche del fatto che non si risolverà mai costruendo altre gabbie”. Tuttavia, negli Stati Uniti è difficile parlare di carcere senza partire dal presupposto che esiste una popolazione che deve stare in carcere. “Quando si sostiene la tesi dell’innocenza relativa per mostrare quant’è triste che i relativamente innocenti siano sottoposti alle forze della violenza dello stato come fossero criminali, si perde di vista un elemento importante”, sostiene Gilmore. “Ci dovremmo chiedere, per esempio, se le persone criminalizzate debbano davvero sottostare alle forze della violenza organizzata. O se quest’ultima è proprio necessaria”. Un’altra idea sbagliata ma molto diffusa, secondo Gilmore, è che i detenuti siano in maggioranza neri. Oltre alla pericolosità di associare i neri alle prigioni, questa convinzione non tiene conto delle cifre della demografia delle prigioni, che cambia da uno stato all’altro e da un periodo all’altro. I neri sono senz’altro la popolazione più colpita dall’incarcerazione di massa (gli afroamericani rappresentano il 12 per cento della popolazione statunitense e il 33 per cento di quella carceraria), ma è anche vero che, secondo il Bureau of justice statistics, le persone di origine ispanica sono il 23 per cento dei detenuti e i bianchi sono il 30 per cento. Gilmore ha sentito dire che le leggi sulla droga saranno modificate perché oggi l’epidemia di oppioidi sta colpendo i bianchi delle zone rurali. Una favola che la manda fuori di testa: “La gente dice: ‘Figuriamoci se mettono dentro i bianchi’. E invece è proprio così: anche i bianchi finiscono dentro”. Se le persone si convincono che le prigioni siano popolate prevalentemente da neri, saranno anche più disposte a credere che il carcere fa parte di un complotto per schiavizzarli di nuovo. E questa, ammette, è una tesi che implica due verità fondamentali: che le lotte e le sofferenze dei neri sono al centro della storia dell’incarcerazione di massa; e che il carcere, come la schiavitù, è una catastrofe per i diritti umani. Ma soprattutto, l’idea del carcere come una versione moderna di segregazione serve a far sì che la gente si preoccupi per una popolazione che altrimenti ignorerebbe. “I colpevoli meritano di essere ignorati, ma l’incarcerazione di massa è un fenomeno così clamoroso che la gente comincia a pensare a come prendersi cura di chi ha commesso un reato. E per farlo deve collocare queste persone in una categoria che le rende degne della cura altrui. Questa categoria è la schiavitù”. Chi ruba qualcosa o aggredisce qualcuno va in carcere, dove non riceve nessuna formazione professionale, nessun rimedio per i suoi traumi e problemi, nessuna possibilità di recupero. “La realtà della prigione, e della sofferenza nera, è straziante come il mito del lavoro in schiavitù”, osserva Gilmore. “Perché mai abbiamo bisogno di fare questa associazione sbagliata per capire quanto è orribile?”. Gli schiavi erano costretti a lavorare per massimizzare i profitti dei proprietari di piantagioni, che si arricchivano con il commercio del cotone, dello zucchero e del riso. Il carcere, aggiunge Gilmore, è un’istituzione governativa, non è un’impresa e non si basa sul lucro. Potrà sembrare un tecnicismo, ma le distinzioni tecniche contano, perché non si può accusare il sistema carcerario di essere schiavista se le carceri non schiavizzano i detenuti. Come ha detto l’attivista ed ex detenuto James Kilgore, “il problema più pressante per i detenuti non è lo sfruttamento del loro lavoro. È il fatto di essere in gabbia senza poter fare granché e senza beneficiare di programmi o risorse che li mettano in condizione di farcela nella vita quando escono di prigione”. Secondo stime del National employment law project, settanta milioni di statunitensi hanno precedenti penali, un fatto che spesso gli impedisce di trovare un lavoro, così molti finiscono nell’economia informale, che negli ultimi vent’anni ha assorbito un’enorme quota di manodopera. “Giardiniere, assistente sanitario a domicilio, lavori in nero e senza contributi”, spiega Gilmore. “Persone che hanno un posto nell’economia, ma non hanno nessuno controllo sul loro lavoro. Dovremmo pensare non solo alle enormi dimensioni del problema, ma anche alle enormi potenzialità che offre. Se così tanti lavoratori potessero beneficiare di un’organizzazione che li inserisse in una solida formazione, sarebbero in condizione di avanzare rivendicazioni nei confronti di chi gli paga il salario e delle comunità in cui vivono. È uno degli obiettivi a cui dovrebbe condurci il pensiero abolizionista”. Perdona e dimentica - Il termine “abolizione” rimanda volutamente al movimento per l’abolizione della schiavitù. “Ci vorranno generazioni per portare a termine questo lavoro e non credo che vivrò abbastanza per veder cambiare le cose”, mi dice l’attivista nera Mariame Kaba. “Ma so anche che i nostri antenati, che erano schiavi, non avrebbero mai potuto immaginare che vita faccio io oggi”. Kaba, Davis, Richie e Gilmore mi hanno detto - usando quasi le stesse parole - che non è un caso se alla testa del movimento per l’abolizione del carcere ci sono donne nere. Davis e Richie hanno usato l’espressione “femminismo abolizionista”. Secondo Davis, “storicamente le femministe nere hanno immaginato cambiamenti della struttura sociale che andrebbero a vantaggio non solo delle nere ma di tutti”. Alexander mi ha detto: “Il fatto che oggi tante persone vogliano abolire il carcere dimostra che sia negli ambienti universitari sia nei circoli di base si è fatto un lavoro enorme. Ma se l’espressione ‘abolizione del carcere’ fosse usata dalla Cnn tanta gente storcerebbe il naso. Gilmore ha sempre detto che il suo movimento non vuole solo chiudere le prigioni, ma è una filosofia del cambiamento”. Quando Gilmore si trova di fronte una platea contraria all’abolizione del carcere - persone convinte che lei voglia ingenuamente sostenere che la gente va in prigione solo perché ha fumato un po’ d’erba - risponde che un suo cugino è stato assassinato e che a lei non interessano quelli che fumano erba. Tuttavia, con me ammette: “In tutta questa storia c’è una cosa che non si può negare: le persone sono stanche del male, del dolore e dell’ansia”. Mi descrive le sue conversazioni con persone contente che i mariti o i padri violenti siano stati allontanati da casa. Della sua esperienza personale con la violenza, ne parla in tono più filosofico, anche se la ferita per la perdita del cugino non sembra ancora rimarginata. “Ne ho parlato con mia zia. Quando le ho detto: ‘Perdona e dimentica’, lei ha risposto: ‘Perdona ma non dimenticare mai’. Aveva ragione: le circostanze in cui è avvenuto quel fatto devono cambiare in modo che cose simili non possano ripetersi”. Per Gilmore, “non dimenticare mai” significa che il problema non si risolve con la violenza di stato o con la violenza personale, ma cambiando le condizioni in cui si verifica la violenza. Tra i progressisti americani circola un’idea quasi cristiana di empatia, e cioè che dobbiamo trovare il modo di prenderci cura di chi ha fatto del male. Per Gilmore è poco convincente. Quando i bambini di Fresno l’hanno provocata sull’abolizione del carcere, non gli ha chiesto di provare empatia per chi aveva fatto loro del male o avrebbe potuto farglielo. Ha chiesto perché, come individui e come società, crediamo che il modo per risolvere un problema sia “ammazzarlo”. In realtà, gli stava chiedendo se secondo loro la punizione era logica e se funzionava. E ha lasciato che fossero loro a trovare la risposta. *Rachel Kushner è una scrittrice statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è “Mars Room” (Einaudi, 2019). Bagnoli, Nola e Santa Maria Capua Vetere: tre nuove carceri per la detenzione “light” di Carlo Porcaro Il Mattino, 19 maggio 2019 Bagnoli, Nola e S. Maria Capua Vetere: queste le località in cui sorgeranno nuove carceri o verranno ampliate quelle esistenti. Alcuni immobili del ministero della Difesa verranno ceduti al ministero della Giustizia al fine di costruire appunto istituti penitenziari. Domani, a Palazzo Salerno in piazza del Plebiscito, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede firmeranno il relativo protocollo d’intesa. A quanto trapela, nelle scorse settimane ci sono stati appositi sopralluoghi. Innanzitutto nel quartiere Bagnoli, dove l’ex caserma Cesare Battisti in via Caduti di Nassiriya dovrebbe subire un restyling: al momento è un rudere immerso in vegetazione alta e lasciata incolta per anni a due passi dall’ex Italsider; un anno fa si pensò di trasferirvi i migranti distribuiti in tutte le regioni d’Italia. Il secondo carcere nuovo, ma questa è idea che risale a tanti anni fa e diversi Governi fa, a Nola precisamente nella località Bosconfangone: il modello di riferimento del progetto è il carcere norvegese di Halden ad Oslo, ovvero niente sbarre alle finestre, assenza di mura perimetrali, campi sportivi e piscina, laboratori per le attività ricreative e per apprendere un mestiere. La terza novità è la costruzione di due padiglioni nuovi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel casertano per accogliere 400 detenuti. “L’obiettivo è ridurre il sovraffollamento attuale”, fanno sapere i due Ministeri coinvolti. Al momento sono 7.800 detenuti in Campania su una capienza di 6.100 distribuiti in 18 istituti tra adulti e minorili. Secondo gli addetti ai lavori sono due le emergenze: la gestione dell’immigrazione e la recidività di chi si macchia di reati legati alla tossicodipendenza. Poi c’è il tema dei soggetti che hanno già subito un processo e sono in attesa di notifica. Ne ha parlato recentemente a Napoli dalla Prefettura il ministro dell’Interno Matteo Salvini. “Ma non li porti certo tutti in carcere. Devono cambiare le leggi - commenta Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. Ricordo che tra agosto 2017 e agosto 2018 tutti i delitti sono diminuiti mentre aumentati i detenuti. Non c’è emergenza sicurezza allora - aggiunge - costruire nuove carceri non è una risposta giusta visto l’andamento in calo della criminalità. Poi per fare nuove strutture servono 25 milioni di euro: 125mila euro a posto letto. Un singolo detenuto adesso ci costa 136 euro al giorno, di cui solo 2 vengono spesi per il trattamento rieducativo. Depenalizzare - conclude Ciambriello - costa meno che incarcerare e meglio istituti piccoli con ragioni di reinserimento sociale”. Roma: detenuto suicida in carcere, in quattro rischiano il processo Il Messaggero, 19 maggio 2019 Detenuto di 24 anni si toglie la vita all’interno del carcere di Regina Coeli a Roma: due agenti di polizia penitenziaria originari di Frosinone e due medici della Rems di Ceccano finiscono davanti al giudice dell’udienza preliminare per l’ipotesi di reato, a vario titolo, di omicidio colposo e falso ideologico. I fatti risalgono alla notte tra il 23 e 24 febbraio del 2017 quando O.F., di 47anni, e L.V., di 49 anni, entrambi agenti, si trovavano in servizio presso il carcere della Capitale. Quella notte Valerio Guerrieri, detenuto di 24 anni, in un momento di depressione si tolse la vita impiccandosi all’interno dell’istituto penitenziario. A seguito di quell’episodio la procura avviò un’inchiesta e i due agenti finirono sul registro degli indagati per l’ipotesi di reato di omicidio colposo. A conclusione delle indagini il pubblico ministero ha chiesto il loro rinvio a giudizio. Secondo quanto emerso dall’inchiesta i due indagati, addetti al controllo del detenuto che doveva essere guardato costantemente a causa delle sue condizioni psichiche, non lo avrebbero sorvegliato nei tempi e nei modi stabiliti. Il giovane venne trovato morto all’interno del bagno del carcere. Dato lo stato in cui era caduto il ventiquattrenne, la dirigenza del carcere romano aveva stabilito che doveva essere controllato ogni 15 minuti. Ma secondo le indagini così non sarebbe stato. Quando i due poliziotti trovarono il ragazzo ormai non c’era più nulla da fare. Inutile ogni tentativo di rianimarlo. Il giovane era deceduto per soffocamento. Subito dopo gli investigatori della procura avviarono le indagini anche per quanto riguarda la corda utilizzata. Come mai dalle ispezioni che venivano effettuate quotidianamente all’interno delle celle non era stata trovata? Domande che attendono ancora di avere delle risposte. I familiari del detenuto, che si sono costituiti parte civile, continuano a chiedere giustizia per il loro Valerio. Per quanto riguarda i due medici che all’epoca dei fatti si trovavano in servizio presso una Rems di Ceccano sono accusati di falso ideologico perché, avendo sottoposto a visita il giovane detenuto, avrebbero omesso di disporre, date le sue condizioni psichiche, il ricovero in una struttura extra penitenziaria. Secondo la procura se il giovane fosse stato ricoverato in un presidio ospedaliero idoneo alla sua patologia, si sarebbe potuto evitare il suo comportamento autolesivo. Anche per loro è stata avanzata la richiesta di rinvio a giudizio. L’udienza preliminare si terrà il prossimo 10 giugno. I due agenti di polizia penitenziaria saranno difesi dall’avvocato Cristhian Alviani. Spetterà adesso al legale difensore smontare tutto il castello accusatorio costruito nei confronti dei suoi assistiti. Napoli: dai detenuti di Secondigliano un quadro di Cenerentola per Noemi Il Mattino, 19 maggio 2019 Iniziativa “Fair Play” con i detenuti dedicato alla piccola Noemi: la polizia penitenziaria del carcere di Secondigliano e alcune associazioni si sono recate al Santobono dove è ricoverata la bimba rimasta ferita nella sparatoria in piazza Nazionale il 3 maggio scorso. “Nell’occasione abbiamo incontrato i genitori di Noemi, ai quali abbiamo donato un quadro raffigurante la principessa Cenerentola realizzato dai detenuti del carcere di Secondigliano con una lettera e una preghiera che hanno scritto per la piccola in cui le esprimono solidarietà e vicinanza per quanto accaduto” spiega la promotrice del Fair Play, Franca Lovisetto, della E-Vent, giunta in ospedale insieme con Antimo Cicala, commissario capo della polizia penitenziaria, con il cappellano del carcere don Giovanni Russo e con Piermassimo Caiazzo, dell’associazione Occt. I volontari hanno, inoltre, donato al reparto pediatrico un libro di fiabe e un altro quadro e hanno consegnato alla famiglia della bimba di quattro anni una medaglia e una targa. Trieste: la musica oltre le barriere, concerto degli studenti alla Casa circondariale di Roberto Srelz triesteallnews.it, 19 maggio 2019 Riavvicinare, ricordando che l’esperienza che si sta vivendo mentre si è ‘dentro’ - che va a costituire un periodo della vita trascorso letteralmente in un altro mondo molto distante da quello di chi è ‘fuori’ e del ‘prima’ - è destinata a concludersi, e i due mondi a coincidere nel proseguire l’esperienza di una vita normale. Poche cose avvicinano più della musica, ed è stata proprio la musica a entrare nella Casa Circondariale di Trieste, in via del Coroneo, su iniziativa dell’avv. Elisabetta Burla, garante dei diritti dei detenuti, e della d.ssa Alessia Trevisan, psicologa, con l’adesione partecipata del liceo Carducci-Dante e dei suoi studenti. Le ragazze e i ragazzi che studiano musica al Carducci-Dante hanno incontrato i detenuti e le detenute, in molti casi solo poco più grandi d’età, suonando per loro, a pochi metri di distanza, in un quasi faccia a faccia carico d’emozione. Chiediamo, subito, all’uscita dalla Casa Circondariale, a Oliva Quasimodo, dirigente del liceo, di raccontarci dell’esperienza: “Questa è la settimana nazionale della musica per le scuole; sullo stimolo della dottoressa Trevisan e di Elisabetta Burla abbiamo inserito questo incontro nel nostro programma, ed è stata una bellissima esperienza. Molto profonda. La nostra scuola è a cento metri di distanza, ma non ci pensiamo mai, è una realtà che non conosciamo e abbiamo voluto partecipare. La musica ha un potere magico; la partecipazione è stata grandissima, toccante”. A Michele Gallas, insegnante, chiediamo quale sia stato il programma eseguito dagli studenti: “Oggi abbiamo portato un solista e due gruppi, sono allievi di 5a e 4a superiore: un solista di chitarra, un quintetto vocale femminile e un trio di Sax, passando da musica molto seria a musica leggera riarrangiata; c’è stato uno scambio empatico, molto silenzioso e molto attento, e anche le proposte più raffinate sono state apprezzate. La parte più difficile è stata controllare l’emotività: entrare in una Casa Circondariale e suonare per i detenuti non succede ogni giorno, in particolare per i ragazzi che studiano c’è stata grande emozione, mille domande. Che hanno trovato tutte una risposta molto semplice, i detenuti sono uomini e donne come tutti gli altri e tutto si è sciolto, con un grandissimo scambio di emozioni fra pubblico ed esecutori. L’emozione più grande, “Yesterday” di Lennon e McCartney. E poi lo Spiritual. E la suite della Carmen”. Da parte delle organizzatrici dell’occasione d’incontro, un ringraziamento sentito ai ragazzi dell’indirizzo scolastico musicale e ai loro genitori, che hanno consentito ai figli di entrare in carcere, e al liceo Carducci-Dante. Margherita Crisetig, coordinatrice del dipartimento musicale: “Qui non c’erano un palco e un pubblico che si aspettava l’evento. Ci sono voluti diversi mesi di preparazione per l’iter burocratico, che è piuttosto lento, ma non ci sono state difficoltà particolari: entrati all’interno del carcere, dove tutto è delimitato, ristretto, è passato tutto in un momento: l’emozione molto positiva, un silenzio e un’attenzione che non mi aspettavo. Spero questa esperienza si possa rifare, organizzandola magari in maniera più cadenzata, utile sia ai ragazzi che a loro”. “È diverso”, ci dice Alice, quando chiediamo ai ragazzi che hanno suonato di dirci che cosa hanno vissuto. “Bello. Portiamo con noi quello che facciamo a scuola, facciamo emozionare le persone”. “È stato molto positivo per tutti noi: non è stata la prima volta davanti al pubblico, ma questo è un pubblico speciale. Molto sincero”. “Entrare è stato portare un sorriso, non hanno la possibilità di farlo spesso”, aggiunge Katarina. “Molto molto bello, ci dimentichiamo che sono persone che hanno sbagliato ma meritano di essere capite e hanno sentimenti come noi”. “Un’esperienza forte”, ci dice Lorenzo Moro: “Molto attenti. Molto bello. Si comunica sempre qualcosa con la musica, è un messaggio universale”. “È stata un’emozione unica. Non vanno ai concerti, chissà quando avranno un’altra occasione”, conclude Irene. “Come sempre, entrare in carcere per incontrare i detenuti non è la cosa più facile”, ci dice Patrizia Burla. “Le autorizzazioni vanno legate al progetto stesso e alle persone esterne al progetto, e all’incidenza che possono avere. Ancora non è passato il messaggio che un maggior contatto fra esterno e interno può dare buoni frutti: i due mondi prima o poi si incontrano di nuovo. Le persone di fede musulmana ospiti della Casa Circondariale hanno rinunciato allo spazio per la loro preghiera pubblica, rimanendo nelle loro stanze, per consentire di utilizzare lo spazio per il concerto, e questo è un forte messaggio se pensiamo all’integrazione. L’approccio all’organizzazione di questi momenti d’incontro sconta dei retaggi culturali, e questo è negativo, difficile da superare; ma abbiamo iniziato e lo riproporremo il più possibile. Anche quella di oggi è stata un’esperienza incredibile, i ragazzi magnifici, la risposta arrivata dalla popolazione dei detenuti molto profonda e molto positiva: con la musica ricordi quando eri a casa, il rapporto con qualcuno che amavi, puoi spaziare con la fantasia. Esci di più”. Presso la Casa Circondariale hanno suonato Lorenzo Moro, solista di chitarra; il quintetto vocale composto da Maria Celoro, Alice Franco, Irene Morpurgo, Francesca Papini, Katarina Spasic e il trio di saxofoni di Andrea Biasotto, Michele Gallio, Enrico Leonarduzzi. Napoli: a Poggioreale la rassegna cinematografica “Uno sguardo su Napoli e oltre” di Roberta D’Agostino mydreams.it, 19 maggio 2019 Prende il via la rassegna cinematografica “Uno sguardo su Napoli e oltre” realizzata da Arci Movie e da Cpia2 di Napoli all’interno della casa circondariale “G. Salvia” di Poggioreale. L’apertura della rassegna, il 20 maggio alle 12.00, è affidata al regista Roberto Andò che presenta il suo film “Una storia senza nome”. 20 incontri con ospiti del mondo della cultura, dello spettacolo, del cinema, del giornalismo compongono la rassegna “Uno sguardo su Napoli e oltre”, nata dalla sinergia tra Arci Movie e la scuola serale del Cpia2 di Napoli, che prenderà il via lunedì 20 maggio (fino al 26 luglio) all’interno della Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale con il film “Una storia senza nome” del regista Roberto Andò che sarà presente con Maria Luisa Palma Direttrice del carcere di Poggioreale e con Rosa Angela Luiso, Dirigente scolastico del Cpia2 di Napoli. “La rassegna che da anni Arci movie porta avanti nel carcere di Poggioreale - dichiara Roberto D’Avascio presidente di Arci Movie - rappresenta bene la nostra idea di promozione del cinema con una forte componente sociale. Per portare il cinema lì dove non potrebbe esserci, trasformando un piccolo pezzo del carcere di Poggioreale in una sala cinematografica, magari un poco arrangiata, ma capace di sprigionare sogni. Sempre con l’obiettivo di riattivare forme di educazione e di socialità attraverso la cultura, in particolare attraverso un magico flusso di luce e di immagini capaci di raccontarci delle storie. Con la risposta della grande passione che molti detenuti hanno dimostrato alle proiezioni”. L’iniziativa vede impegnati 4 docenti e 3 volontari di Arci Movie che lavoreranno su due laboratori paralleli con due gruppi diversi di detenuti negli spazi della scuola del carcere. L’attività di proiezione in carcere sarà sempre preceduta da una introduzione critica del film e del periodo storico raccontato nella pellicola, e sarà seguita da un dibattito con i detenuti che parteciperanno alle attività. Sarà preparata e distribuita a tutti una scheda didattica per ogni film e sarà richiesto ai partecipanti di essere attivi nella produzione scritta di brevi testi, che possono alternare una narrazione di tipo personale e/o scritti critici relativi all’esperienza della proiezione. Le proiezioni saranno spesso accompagnate da alcuni ospiti del laboratorio, personalità importanti del mondo del cinema, della cultura e della società, che verranno a presentare delle opere cinematografiche e a raccontare la loro testimonianza e/o esperienza ai detenuti. Arci Movie da diversi anni svolge con i suoi operatori e volontari attività sociali di promozione del cinema nelle carceri napoletane (Poggioreale e Secondigliano) con laboratori, proiezioni, rassegne e incontri con attori, registi, intellettuali e operatori sociali sensibili alla condizione carceraria dei detenuti. In particolare, nell’ultimo triennio l’attività nel carcere di Poggioreale di Napoli si è particolarmente intensificata, trovando un grande riscontro di attenzione e partecipazione nelle istituzioni carcerarie e nella dirigenza della scuola serate, ma soprattutto nei detenuti coinvolti. Gli ospiti della rassegna saranno: il regista Roberto Andò, lo storico Guido D’Agostino, il giornalista e critico musicale Federico Vacalebre, la produttrice Antonella Di Nocera, lo scrittore Lorenzo Marone. Una “Notte Bianca” per Radio Radicale. Letture e interventi contro la chiusura Corriere della Sera, 19 maggio 2019 Per Mariarosaria da Caltanissetta è “la radio sincera”. “Un oboe tra tanti tromboni” che aiuta Alberto da Belluno “a iniziare la giornata meno deluso dal mondo”. Parlano gli ascoltatori alla Notte Bianca di Radio Radicale: giornalisti e militanti leggono i messaggi di chi è cresciuto a pane “stampa e regime”, lasciati a corredo delle n2mila firme su Change.org. Perché la voce dei dibattiti e di tutti i partiti non si spenga. Una maratona di letture e interventi da venerdì sera a sabato mattina, nella sede del Partito Radicale. Sotto lo sguardo del suo leader: sulle pareti, le foto di Marco Pannella imbavagliato, trascinato, emaciato da uno dei tanti scioperi della fame. Per una notte, in via di Torre Argentina 76, il campanello non ha smesso di suonare. “Tante facce, tante nuove”, commenta Maurizio Turco, della presidenza del partito. Ma anche amici di vecchia data: da Valeria Fedeli a Bobo Craxi. Segno di quanto “è profonda la storia di questo piccolo gruppo di pazzi”, ricorda Roberto Spagnoli: il pacato conduttore di “Passaggio a sud est”, per una volta, alza la voce al microfono. “Sì, siamo una radio di partito e lo rivendichiamo, ma diamo spazio a tutti da sempre”. Paradossi speculari: “in una voce tutte le voci” è il motto di Radio Radicale; poi c’è “un ministro del Lavoro che non riceve i lavoratori”. Il cdr di Radio Radicale ha chiesto 4 incontri a Luigi Di Maio: nessuna risposta. “Sono giorni in cui bisognerà restare vigili”, dice il direttore Alessio Falconio: martedì scade la convenzione col Mise per le sedute parlamentari. A inizio settimana si discuterà l’ammissibilità degli emendamenti per la proroga. Se passeranno, lo spettro della chiusura slitterà a novembre: “la lotta dovrà continuare”. Difficile che spaventi i radicali, temprati dalle battaglie per le idee. Roberto Giachetti, in collegamento telefonico, risponde squillante a Rita Bernardini: sembra impossibile che venga da 24 ore di sciopero della sete. Ha dato il cambio a lei e a Maurizio Bolognetti: 36 e 78 giorni senza cibo, nel nome di Radio Radicale. Su Rainews Nanaa, Simone e Fabio, detenuti-operai protagonisti di “Mi riscatto per…” di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 19 maggio 2019 Si chiamano Nanaa, Simone e Fabio. Sono loro che, nel servizio curato da Milena Minutoli, andato in onda su RaiNews24, spiegano il senso di “Mi riscatto per Roma”, l’attività grazie a cui detenuti del carcere di Rebibbia lavorano per la riqualificazione delle aree verdi e delle strade della Capitale. Le parole di Nanna, Simone e Fabio, ma ancora di più i loro visi e i loro sguardi, illustrano meglio di qualsiasi testo o protocollo, la sensazione di fare qualcosa di utile alla collettività. “Io so che ho sbagliato in vita mia - dice Nanaa davanti alle telecamere - ma so anche che vedere questo parco dopo che ci abbiamo lavorato, rivederlo sistemato mi fa capire che possiamo essere utili a qualcosa. Siamo utili”. È questo il presupposto su cui si basa “Mi riscatto per”, progetto voluto dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e varie amministrazioni locali (oltre a Roma, è già attivo anche in molti centri e in altri partirà presto), con lo scopo da un lato di rendere più vivibili le città migliorandone la qualità di strade, piazze e parchi e, dall’altro, di inserire i detenuti in un percorso di recupero che permetta loro di apprendere le basi per nuovi mestieri e affinare le capacità professionali. “Ci sentiamo liberi - dice con un fil di voce il giovane Simone - e occupiamo meglio il nostro tempo”. La libertà del ‘dopo pena’ passa inevitabilmente anche per un lavoro. E conoscerne uno ed esercitarlo ora è importante. Un gruppo di detenuti di Rebibbia è stato istruito, attraverso un corso durato due mesi, da Autostrade per l’Italia per la manutenzione delle strade. Su lungomare di Ostia una squadra lavora per sistemare le caditoie e liberare i tombini dai detriti e dalla sabbia. Tra i detenuti-operai c’è Fabio che a Ostia è nato e cresciuto. Guarda il mare, pensa al passato e riflette sul futuro. “Qui sento profumo di libertà. A mia figlia ho detto che sono al lavoro perché non ho pagato delle multe e ora devo lavorare per onorare il debito”. Incroci di storie di sbagli passati e di voglia di riscatto attuale. Nel servizio di RaiNews24 si alternano anche le considerazioni di Rosella Santoro, direttrice del carcere di Rebibbia, che si sofferma sul carattere rieducativo della pena da scontare, e di Vincenzo Lo Cascio, il coordinatore dei lavori di pubblica utilità del Dap, che non ha dubbi: “Grazie a Mi riscatto per… noi riusciamo a recuperare tante persone dalla malavita”. La cultura si vendica di chi vuole negarla di Roberto Saviano L’Espresso, 19 maggio 2019 Il paradosso di chi discute insultando, senza argomentare, disprezzando gli intellettuali e ora si trova a polemizzare in favore dei libri. Mentre scrivo, il dibattito culturale - che tracima in quello politico - è concentrato sulla presenza di un editore di destra al Salone del Libro di Torino e sulla conseguente assenza di alcuni autori di sinistra che per protesta hanno cancellato i loro appuntamenti. Io non so bene se al centro del dibattito ci siano davvero i libri e il loro contenuto. Non lo so ma sarebbe bello che fosse così. Ogni volta che mi sono trovato in disaccordo con Matteo Salvini (porti chiusi, divise indossate a scopo intimidatorio e altre amenità di questo genere) e che ne ho scritto, decidendo quindi di usare l’unica arma che conosco, ovvero la parola, in risposta ho avuto solo latrati scomposti. Quindi la risposta non è mai mancata, da “Saviano mi attacca in tre pagine, ma chi se le legge tre pagine?”, agli abbracci, ai baci, ai brindisi e al pane e nutella alla faccia mia. Cosa contraddistingue gli attacchi personali di Salvini? L’essere il niente, il nulla, vuoto pneumatico. Mai un ragionamento, mai una citazione colta per affermare o legittimare il proprio pensiero, un’idea, una azione. Mai. La loro idea è che le persone si debbano identificare con loro, ma io mi domando: sono davvero così le persone? E con così intendo dire prive di curiosità e di voglia di conoscere di più? La recita dei sovranisti di oggi sembra continuamente affermare quanto tutto ciò che sia legato al tempo dedicato alla cultura sia tempo perso. Ed ecco quindi il paradosso: i fascisti, questi fascisti, i fascisti che legittimano il rutto, assumono centralità al Salone del libro, laddove di casa è la cultura, la conoscenza e quindi la capacità anche di cambiare idea. È in fondo divertente e quasi uno smacco per loro che vanno ad aizzare le folle per strada contro gli ultimi, che credono sia loro diritto andare contro il diritto, avere centralità perché pubblicano libri. E che si tratti del libro-intervista al Ministro della Mala Vita o del fumetto dedicato a Céline, di loro si parla perché nonostante tutto hanno a che fare con i libri, con la parola scritta che porta con sé, inesorabilmente, conoscenza. E, quindi, in fin dei conti posso dire che Salvini le tre pagine in cui parlavo di come nel sud Italia la Lega non agisca diversamente da come per anni ha agito Berlusconi le ha senz’altro lette e ha deciso che, non avendo strumenti per rispondere, sarebbe stato meglio il rutto scomposto, il pane e nutella, i baci e gli abbracci. E ancora libri. A Napoli, dopo l’agguato in cui è rimasta gravemente ferita la piccola Noemi, c’è stata una imponente manifestazione e il Mattino ha intervistato il figlio di un boss, anche lui nel corteo anticamorra. Oltre a dire che la camorra gli fa schifo, e dette da lui sono parole che assumono un significato diverso rispetto a quando le pronuncia Salvini, alla domanda della giornalista che gli chiede: Come ti sei salvato? lui risponde: “Con la cultura”. E continua più o meno cosi: leggo molto, mi piace citare Zygmunt Bauman quando dice che, dove le menti sono piatte, l’uomo diventa tenebroso e può diventare incline a compiere azioni efferate. Nello stesso giorno viene pubblicata un’altra intervista che mi colpisce. È un’intervista all’anti-Greta, una quindicenne svedese di Göteborg che ammette di non aver letto molto sul tema di cui si occupa Greta, ma comunque decide di volersi opporre a lei. Fa ridere lo so, ma è così: io non so nulla di architettura ma decido di voler diventare l’anti-Fuksas. Succede. Parla della Svezia in un modo che al confronto Napoli sembra la città più sicura del mondo e ammette di essersi inizialmente dedicata ad attività che avevano a che fare con l’estetica, ma poi ha deciso di dedicarsi al tema immigrazione che, dice, è un tema che non si può affrontare. Qualcuno le faccia sapere che si stanno vincendo fior di elezioni strumentalizzando il tema immigrazione condito da balle di ogni sorta. Ma parlavamo di libri, di figli di camorristi che si salvano grazie ai libri e di piccole sovraniste che decidono di combattere ciò che non conoscono perché non hanno letto nulla al riguardo. E parlando di libri, mi viene in mente una cosa che non c’entra niente: sapete che c’è un nuovo Vinci Salvini lanciato dal suo inquietante burattinaio? In fondo è la fine che merita: Salvini come un servizio di piatti vinto con la raccolta a punti del supermercato. Schiaffo a Salvini, decreto sicurezza bis verso il rinvio di Alessandro Di Matteo La Stampa, 19 maggio 2019 Il consiglio dei ministri probabilmente si farà lunedì, ma il premier Conte sarebbe pronto a rimandare tutto a dopo il voto europeo. Sarebbe l’ennesimo schiaffo a Matteo Salvini, ma pare proprio che il premier Giuseppe Conte ormai si sia convinto che il “decreto sicurezza bis” debba essere rinviato a dopo le europee. Il leader della Lega continua a ripetere “noi siamo pronti”, la pressione sul presidente del Consiglio continua, ma secondo quanto riferiscono diverse fonti di governo Conte avrebbe ormai maturato la decisione di rimandare tutto, anche il “decreto famiglia” messo a punto da Luigi Di Maio e sul quale si sono alzate le barricate leghiste. Il consiglio dei ministri di lunedì probabilmente si farà - anche se una convocazione ancora non è arrivata - ma dovrebbe essere dedicato alle nomine dei nuovi vertici della Guardia di finanza, della Ragioneria generale dello Stato e ad una serie di altri provvedimenti urgenti. In teoria un compromesso è possibile fino all’ultimo, Conte sentirà i suoi due vice-premier nelle prossime ore, ma i dubbi sul provvedimento fortemente voluto da Salvini sono tali che trovare una mediazione pare davvero complicato. Il ministro dell’Interno si è detto disposto ad apportare modifiche, ma le due riunioni di preconsiglio dei ministri della scorsa settimana non sono bastate a trovare una soluzione. “La verità - dice una fonte di governo M5S - è che il decreto andrebbe riscritto, altro che correzioni...”. I 5 stelle, ma anche il ministero degli Esteri e lo stesso premier, vedono forti rischi di incostituzionalità su diversi punti: le multe per chi soccorre i migranti in mare, la definizione di acque internazionali e aree “search and rescue” - cioè i tratti di mare in cui ciascun paese è obbligato a prestare soccorso a chi è in difficoltà - ma anche le sanzioni per chi è coinvolto in scontri con le forze dell’ordine, che secondo i 5 stelle “riguarderebbero anche chi indossa particolari abbigliamenti, come i giubbotti imbottiti da motociclista... Una follia!” La Lega, d’altro canto, ha scatenato la controffensiva sul decreto famiglia voluto da Di Maio. Il ministro Lorenzo Fontana è andato su tutte le furie per non essere stato invitato al tavolo convocato dal leader M5s la scorsa settimane e durante il preconsiglio i suoi uomini avrebbero contestato il diritto del ministero dello Sviluppo a occuparsi della materia. In risposta, gli uomini di Di Maio avrebbero obiettato che allora nemmeno Salvini dovrebbe parlare di Flat tax, che sarebbe competenza del ministro dell’Economia. Di fatto, è chiaro che al di là delle singole questioni di merito lo scontro è tutto politico. Il provvedimento di Salvini viene considerato dai 5 stelle, e dallo stesso Conte, una mossa di propaganda, che rischia però di creare molti problemi perché scritto in modo affrettato e, appunto, a rischio incostituzionalità. Un rischio che, secondo M5s, avrebbe anche attirato l’attenzione del Quirinale, anche se il capo dello Stato non ha potuto ovviamente esaminare il decreto e attende comunque di vedere il testo che verrà approvato, se verrà approvato. Per questo Conte avrebbe deciso di rinviare tutto: far passare le elezioni, nella speranza che archiviata la campagna elettorale si possa ricominciare a discutere senza l’ossessione della ricerca di consensi immediati. I “duellanti” per ora continuano a recitare ciascuno la propria parte: “Abbiamo preparato tutto - insiste Salvini - Poi non convoco io il Cdm, ma noi siamo pronti, anche a recepire eventuali miglioramenti, suggerimenti ed emendamenti”. E Di Maio, a sua volte, ribadisce: “Io mi auguro che lunedì possa esserci il consiglio dei ministri. Io devo portare urgentemente un decreto (appunto sulle famiglie, ndr)”. Conte ascolterà entrambi prima di lunedì, ma, assicurano in molti, “l’orientamento ormai è di rinviare tutto. Tanto il premier sa che nessuno, a questo punto, strapperebbe per un rinvio...”. I conti si faranno dal 27 maggio. L’Onu all’Italia: “Il decreto sicurezza viola i diritti umani” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 19 maggio 2019 Lettera delle Nazioni unite all’Italia. Sea Watch davanti a Lampedusa, Salvini: finché ci sono io non sbarcano. Una lettera della Rappresentanza permanente presso le Nazioni Unite a Ginevra è arrivata al ministro italiano degli Affari Esteri, Enzo Moavero. Contiene - ne dà conferma la Farnesina - richieste di chiarimenti e “rilievi di preoccupazione” con riguardo alla bozza del cosiddetto “decreto sicurezza bis” non ancora discusso a palazzo Chigi. La lettera è già stata trasmessa per competenza al ministero dell’Interno e riceverà “da parte del governo la dovuta attenzione - sottolinea la nota di Moavero - in coerenza con il tradizionale rispetto degli impegni internazionali e dell’assoluta tutela dei diritti umani”. L’Onu, in sostanza, ha chiesto al governo di fermare il decreto sicurezza bis di Matteo Salvini in quanto “potenzialmente in grado di compromettere i diritti umani dei migranti, inclusi richiedenti asilo e le vittime o potenziali vittime di detenzione arbitraria, tortura, traffico di esseri umani e altre gravi violazioni dei diritti umani”. E tutto questo mentre a un miglio da Lampedusa la nave ong tedesca Sea Watch 3, con 47 profughi ancora a bordo - dopo che famiglie con bambini (17 persone) e una donna con ustioni erano state fatte scendere venerdì dalle autorità italiane - si trova ora alla fonda. “Finché io sono ministro dell’Interno, quella nave non entra”, ha ribadito sabato Salvini dopo che la Sea Watch3, sfidando il divieto di oltrepassare il limite delle acque territoriali, ha chiesto di entrare in porto per “ragioni umanitarie”. Eppure l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, sabato sera sembrava possibilista sullo sbarco: “Sto sentendo il presidente del Consiglio”. Pronta la replica di Salvini: “Mi auguro che nessuno mi dica cosa fare, se qualcuno mi chiama per farli sbarcare io dico no. È giusto rispettare le competenze di ciascuno...”. Da registrare anche le parole del ministro M5S delle Infrastrutture, Danilo Toninelli: “Chiedo ora ai sovranisti quanti migranti vogliono di quelli sulla Sea Watch...”. Il comandante della nave tedesca ha deciso di “sconfinare” dopo un consulto coi medici: “Alcuni migranti dicono di volersi suicidare”. Il Viminale, però, giudica “non inoffensivo” il passaggio in acque territoriali, espressione che secondo le convenzioni internazionali permette di vietare l’approdo. “Li consideriamo complici dei trafficanti”, giurano al ministero. E al Papa che domenica ripeteva che “il Mediterraneo si sta trasformando in un cimitero”, Salvini ha così risposto: “La politica di questo governo sta azzerando i morti, con spirito cristiano”. A Siracusa non si può protestare, il prefetto vieta i cortei degli operai di Alfredo Marsala Il Manifesto, 19 maggio 2019 Decreto sicurezza. L’ordinanza dettata dal decreto sicurezza. I sindacati: un colpo ai diritti dei lavoratori. Vietato protestare a Siracusa. Almeno fino al 30 settembre. Cassaintegrati, precari o lavoratori che intendessero farlo per difendere posti e diritti dovranno tenersi lontano dal petrolchimico, dai piazzali delle raffinerie, da bivi e rotatorie che portano nelle fabbriche. Per il prefetto Luigi Pizzi l’area industriale deve rimanere libera. Anche perché, e tra le motivazione è quella più incredibile, “le manifestazioni in argomento assumono ulteriori profili di criticità per l’ordine e la sicurezza pubblica, anche in considerazione della ormai avviata stagione primaverile-estiva”. Insomma, agli occhi dei turisti bisogna nascondere il disagio sociale. Ecco dunque il divieto a tempo. Per Cgil Cisl e Uil l’ordinanza firmata qualche giorno fa è “un segnale pesante di limitazione della libertà dei lavoratori a poter scioperare”. Richiamando la “circolare diramata dal capo di gabinetto del ministero dell’Interno”, il provvedimento del prefetto prevede che sull’ex statale 114 non ci potranno più essere “assembramenti di persone e automezzi” per evitare “ritardi nelle forniture di carburante ai porti e agli aeroporti della Sicilia orientale”, “il rischio per la sicurezza degli impianti, che richiedono costante manutenzione e non consentono ritardi agli ingressi” e “il diritto alla libertà d’impresa”. Roberto Alosi (Cgil), Stefano Munafò (Uil) e Paolo Sanzaro (Cisl) parlano di “pericolosa deriva regressiva dei diritti dei lavoratori e delle libertà sindacali”. Pippo Zappulla e Antonino Landro, di Art. Uno, definiscono il provvedimento “un sintomo, che rischia di essere inquadrato in un clima di crescente tensione nel Paese sul terreno delle libertà civili e sociali”. “Mai nella storia sindacale della zona industriale di Siracusa, neanche nei momenti di scontri sociali più duri, si sono assunti provvedimenti restrittivi e così forti e gravi”, accusa Zappulla. Secondo il segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, è evidente che si respira aria di limitazione delle libertà democratiche, o perlomeno di tentativi in questa direzione che ovviamente saranno contrastati dalla società democratica, come per ultimo dimostrato nel caso della professoressa di Palermo, ‘rea’ di avere garantito la libertà di pensiero e di espressione dei suoi alunni e per questo sospesa”. Pagliaro evidenzia che “il caso di Siracusa e quello della docente palermitana sono due episodi gravissimi, dallo spiccato sapore intimidatorio”. “Noi - aggiunge - siamo con i lavoratori che legittimamente protestano nel rispetto delle leggi vigenti e siamo con la professoressa Dell’Aria che si è fatta solo garante della libertà di opinione ed è rimasta vittima di un clima di repressione che si spinge fino alla contestazione delle legittime opinioni e di chi ne garantisce l’esercizio”. Il prefetto però difende la sua ordinanza: “Non comprime in linea generale il diritto o la libertà di manifestazione mira esclusivamente a tutelare la sicurezza pubblica, degli impianti industriali e della circolazione veicolare e solo in quell’area della provincia”. E richiama il decreto Salvini: “Anche in passato, come più di recente quel tipo di manifestazione ha dato luogo a consistenti rallentamenti, determinando veri e propri blocchi stradali, sanzionati dal decreto sicurezza”. Ma la Cgil insiste. “È un chiaro attacco alla libertà dei lavoratori, garantita dalla Costituzione, di manifestare e unitariamente - afferma Pagliaro - Stiamo valutando la possibilità di ricorrere contro il provvedimento”. La Corte europea dei diritti dell’uomo: “date una casa ai rom sgomberati” di Davide Lessi La Stampa, 19 maggio 2019 La Corte europea dei diritti dell’uomo ha imposto al governo italiano di trovare una sistemazione dignitosa alle famiglie rom sgomberate a Giugliano (Na). Da nove giorni 450 persone vivono senza acqua potabile, elettricità e servizi igienici. “Una condizione disumana aggravata dal fatto che quasi la metà dei coinvolti è minorenne”, denuncia Carlo Stasolla, il presidente dell’Associazione 21 luglio che, insieme all’European Roma Rights Centre, ha assistito le famiglie che hanno fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. L’emergenza umanitaria inizia lo scorso 10 maggio quando il campo rom di via del Viaticale viene sgomberato. “Motivi di salubrità e salute pubblica”, scrive il sindaco di Giugliano Antonio Poziello nell’ordinanza. Ma l’amministrazione comunale non offre una soluzione abitativa alternativa alle oltre 400 persone sgomberate, molte delle quali hanno la residenza e la cittadinanza: scappate dalla Bosnia e vivono a Giugliano ormai da trent’anni. “Sia prima che durante le operazioni di sgombero è stato intimato ai rom di uscire dal territorio comunale”, racconta l’associazione. Ma i comuni limitrofi non ci stanno: nessuno vuole accoglierli. E così le 73 famiglie, nella tarda serata del 10 maggio, prendono possesso di un’area dismessa della zona industriale di Giugliano. “Sono lì da una decina di giorni ormai. Nessuno si prende cura di loro, non c’è un presidio della protezione civile ma solo l’assistenza volontaria della Caritas e di qualche prete della diocesi”, dicono dall’Associazione 21 luglio. E denunciano: “Sono condizioni da terzo mondo. Chi può dorme in auto, gli altri all’addiaccio o in rifugi di fortuna”. “La pronuncia della Corte europea è un argine alla tendenza sempre più diffusa delle istituzioni italiane a trattare la marginalità e la povertà estrema come un problema di ordine pubblico, arrivando a compiere atti illegittimi per nascondere le gravi carenze di politiche sociali”, commenta Riccardo Magi, il deputato di +Europa che già mercoledì, in una conferenza stampa alla Camera, aveva denunciato la “violazione dei diritti umani” in corso nel comune campano. Magi domani farà parte di una delegazione di parlamentari che andrà a Giugliano per fare visita ai rom e per incontrare il sindaco. Razzismo di ritorno, la Comunità ebraica lancia l’allarme di Gianni Santamaria Avvenire, 19 maggio 2019 “Suprematismi in Europa. Dalla rabbia all’odio” è il titolo dell’incontro organizzato per domenica 19 maggio. Contro odio, razzismo, antisemitismo, xenofobia, violenza. In Europa sono ripresi a circolare rabbia e odio. Per questo la Comunità ebraica di Roma ha organizzato questa domenica, presso il Tempio di Adriano, un evento che - alla vigilia delle elezioni europee - legge con queste due lenti il riemergere di intolleranza e razzismo nel mondo (i recenti attentati in Nuova Zelanda, Sri Lanka e Stati Uniti hanno riportato in primo piano il tema del radicalismo e dell’odio religioso). “Suprematismi in Europa. Dalla rabbia all’odio” è il titolo dell’incontro, nel quale (dalle 17) interverranno il penalista Roberto De Vita, i giornalisti Paolo Berizzi e Paolo Mondani, il procuratore generale della Corte d’Appello di Roma Giovanni Salvi, il vicepresidente del progetto Dreyfus, Gianluca Pontecorvo e lo storico Alberto Melloni. Il saluto iniziale sarà del presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello. Che ha spiegato le ragioni del convegno in un’intervista. Alcune recenti manifestazioni di piazza hanno dimostrato “il rinascere di organizzazioni che rivendicano la loro natura suprematista”. Non solo negli Usa, ma anche nel Vecchio Continente. “Pensavamo - prosegue Dureghello - che fascismo e nazismo fossero pagine drammatiche ormai elaborate”. Invece non è così. “Pensavamo che la società avesse sviluppato degli anticorpi. E invece non vedo sufficiente sconcerto, indignazione, presa di distanza”. Mentre bisognerebbe “soffocare sul nascere” certe manifestazioni, “dichiarare chi sta dentro e chi sta fuori il consesso civile”. Insomma, “gli anticorpi devono palesarsi”. Dureghello non ne fa un questione di destra o sinistra, ma etica (né si pronuncia quando le si domanda della “benevolenza” della Lega verso l’estrema destra). Ferma la condanna degli striscioni contro il Papa. “Non sto parlando di antisemitismo, ma di un razzismo che pervade la società e colpisce tutti”, ribadisce. C’è poi la questione dei cronisti sotto scorta per essersi occupati di estrema destra. E quella dei social. Sui quali ha detto la sua sui media l’avvocato De Vita, che ha difeso la comunità come parte civile nel processo contro il sito suprematista Stormfront. La crescita dei reati di xenofobia, ha detto, “è anche dovuta al fatto che si può odiare senza censura”. Gli omofobi non si vergognano più del loro odio. E l’aumento delle violenze lo dimostra di Simone Alliva L’Espresso, 19 maggio 2019 Schiaffi, aggressioni, discriminazioni quotidiane. Fino alla tragedia di Umberto, ucciso con un pugno perché gay. A quattro mesi dalla nostra inchiesta “Caccia all’omo” gli episodi sono in continua crescita. E l’asticella si è alzata perché gli aggressori non hanno paura. Lo massacra sul pianerottolo di casa con un bastone a cui aveva conficcato tre chiodi arrugginiti. Colpi alla schiena, a una mano. Non si ferma finché la moglie accanto non lo implora. La vittima rimane a terra. È il vicino di casa. Non sopportava la vista di aver come dirimpettaio una persona transessuale. Prima gli insulti sui social, dal vivo e poi l’assalto. È successo 15 giorni fa a Varcaturo una frazione del comune di Giugliano in Campania. È l’omotransfoba che cresce, è un’onda che sommerge il paese. L’Italia della caccia all’omo, come raccontato da L’Espresso soltanto quattro mesi fa, non è cambiata. L’assalto alle persone Lgbt continua nel benestare di un governo che presenzia a eventi come “Il Congresso della Famiglie”, dove gli omosessuali vengono paragonati a persone malate da curare. L’omofobia lievita, si passa dagli insulti ai calci, dalle offese alle aggressioni fisiche. Ma resta un reato “fantasma”, commesso da chi trova la complicità della indifferenza altrui. Percorrendo questi ultimi mesi a ritroso ci troviamo di fronte a u n anno nero per le persone Lgbt. Un anno che non risparmia neanche gli attivisti. ““Al rogo”, “pedofilia colorata”, “giù di manganello”, “figli di cani”, “merce da termovalorizzare”, “radere al suolo per il bene dei normali”, “se comandavo io eravate tutte saponette”. Questo è il tenore di commenti che suscitano le associazioni sui social. Il 2 maggio il Presidente di Omphalos Lgbti, Stefano Bucaioni, denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia depositando 19 pagini di insulti ricevuti soltanto tra il mese di febbraio e fine aprile. Proprio aprile diventa il mese più torbido. Un mese che si lascia alle spalle il discusso “Congresso della Famiglia” ma non i suoi miasmi. Mentre ad Arezzo un ragazzo viene strattonato da buttafuori di un locale al coro “Vai via frocio di merda”, a Lodi si organizzano seminari sulla felicità vietati alle persone omosessuali: “Possono partecipare solo se desiderano praticare il celibato”. Il 16 aprile a Bologna due ragazzi appena usciti da un locale vengono circondati da sei coetanei: “Hanno cominciato a darci schiaffi, pugni e calci” racconta uno dei due “prima al mio amico, poi a me”. Lo schema non cambia: dalle domande provocatorie (“Hai il pene o la f...?”) alle botte. Fino alle minacce “Se lo dite a qualcuno torniamo con i coltelli”. Sei contro due. Un match irregolare su qualunque ring. La violenza passa sui social: a Padova due ragazze nella Casa dello studente Copernico in via Tiepolo, vengono ricoperte di insulti perché lesbiche, viene così chiesto loro di abbandonare lo stabile. Una cortina velenosa che penetra fin dentro i luoghi di lavoro: il 20 aprile una ragazza viene isolata dai colleghi che scoprono il suo orientamento sessuale: “lesbica”. Violenze, minacce, discriminazioni. Cronache delle aggressioni che raccontano un’Italia sommersa dall’odio verso le persone gay, lesbiche e trans. Con la connivenza del nuovo clima politico Il 3 marzo il sindaco di Potendera Brini sostenuto da Ceccardi e Ziello annuncia fiero: “sono normale nella mia famiglia non ci sono gay”. A Massa, Giulia all’anagrafe nasce come Tiberio, nonostante abbia completato tre anni fa il percorso di transizione al genere femminile, la successiva rettificazione anagrafica tarda ad arrivare per via di una burocrazia lenta e farraginosa. Quarant’anni, operaia in una tintoria industriale trova una casa sul mare: “il sogno di una vita”. Versa i soldi necessari, compila i documenti. Qui il proprietario si rende conto: Giulia un tempo era Tiberio. Cambia idea. Niente affitto. Il 25 febbraio a Roma un ragazzo viene fatto scendere da un taxi. Aveva chiesto all’autista di fermarsi a un distributore automatico per comprare delle sigarette. Gli aveva dato del “tu”. “Del tu lo dai ai tuoi simili, frocio scendi subito”. Ci sono vari livelli di omofobia. Si pratica aggredendo con le parole, con i pugni, con i calci. Ostacolando il percorso delle leggi. Favorendo terapie di “riparazione”. È un’opera di dissuasione. È il mondo giallo-verde, diviso in normali e deviati. Chi aggredisce non ha più paura né vergogna, si specchia in chi ci governa, nella maggioranza di “normali”, della continuità della specie che va protetta, del mondo che precipita e va fermato. Magari con un pugno come quello che ha ucciso Umberto Rainieri l’artista 53enne di origini abruzzesi col nome d’arte Nniet Brovdi. Un pugno in pieno volto che lo ha fatto cadere sull’asfalto dove ha sbattuto violentemente la testa. “Ucciso dall’omofobia” ha raccontato l’ex compagno, Fabio Giuffrè. È quello che resta in questa Italia dove l’unica legge che vige è quella primordiale. La legge dell’odio contro chi non si può difendere. Come Umberto Rainieri. Circondando dal branco. Ora Umberto non c’è più. La caccia all’omo continua. Canapisa diventa la festa delle forze dell’ordine di Riccardo Chiari Il Manifesto, 19 maggio 2019 La street parade era una festa giovanile colorata e rilassante, è diventata la festa degli agenti in assetto antisommossa. Nonostante le difficoltà, in migliaia sono passati dal presidio antiproibizionista in piazza Stazione. Mentre a poca distanza c’erano il sindaco Conti e Antonio Tajani in comizio elettorale: “Liberata la città da un corteo che l’ha violentata per 18 anni, diffondendo solo degrado. No a qualunque liberalizzazione di droghe leggere”. Grazie a Canapisa 2019, la Pisa democratica e antifascista ha potuto toccare con mano cosa voglia dire avere un governo della città in mano alla destra, e un ministero dell’interno guidato da Matteo Salvini. La street parade antiproibizionista era una festa giovanile colorata e rilassante, è diventata la festa delle forze dell’ordine in assetto antisommossa. Nonostante la difficoltà di arrivare in una piazza Stazione blindatissima, dove a tavolino era stato deciso di confinare la manifestazione ridotta a un presidio, almeno due, tremila persone sono passate nel corso di un pomeriggio piovoso, fra musica, canti e interventi, a dare la loro solidarietà. Mentre poco distante il sindaco Michele Conti, che ha fatto diventare la sua “contromanifestazione” un comizio elettorale, con tanto di palco per gli interventi, ricordava “l’impegno della giunta comunale di liberare la città da un corteo che l’ha violentata per 18 anni, diffondendo solo degrado”. Come da facili previsioni, le decisioni del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza hanno provocato la paralisi di mezza città, con la giunta di destra a trazione leghista pronta a chiudere il cerchio con un’ordinanza di chiusura al traffico di un buon pezzo di centro storico. Per dare poi in pasto all’opinione pubblica la fake news di un disagio provocato, al solito, da quelli di Canapisa. Di fronte a qualche centinaio di elettori della destra, e arrivato in città anche il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, di Forza Italia, pronto a ribadire il “no a qualunque liberalizzazione di droghe leggere” da parte del suo partito. Per l’ineffabile Tajani, “a Pisa non è stato impedito di manifestare a nessuno, anzi è stata fatta una scelta di ordine pubblico legittima”. Al presidio antiproibizionista c’era, fra i tanti e le tante, anche la giornalista e blogger Selvaggia Lucarelli: “Sono qui a titolo personale - ha ricordato - perché ritengo sacrosanto e inviolabile il diritto a protestare e a manifestare. E se il sindaco non vuole è perché in realtà non è in grado di assicurare il decoro della città che amministra. Il corteo doveva essere autorizzato e lui aveva il dovere di assicurare a tutti i pisani decoro e sicurezza. Perché se non è in grado di garantire la sicurezza di un corteo, figuriamoci se è in grado di farlo per un’intera città”. Libia. Tra i fedeli cristiani africani che fanno il tifo per Haftar di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 maggio 2019 “La migrazione verso l’Italia diventa una via di fuga”. Dentro le vecchie chiese libiche costruite dagli italiani nel periodo coloniale: “Le milizie che stanno dalla parte di Fayez Sarraj diventano sempre più violente, più aggressive nei nostri confronti. Così la migrazione illegale verso L’Italia diventa una via di fuga” Sono centinaia di migliaia, immigrati dall’Africa sub-sahariana ormai molti anni fa. In Libia hanno costruito una famiglia, hanno un lavoro stabile, gli anziani ricevono regolarmente pensione e indennizzi dal governo. Si distinguono nettamente dai migranti arrivati negli ultimi anni dai loro stessi Paesi d’origine e decisi a trovare rifugio in Europa. “In Libia abbiamo la nostra casa, sino a pochi anno fa non avevamo motivo di partire”, spiegano in tanti. Eppure tra quelli residenti in Tripolitania il sentimento pro-Khalifa Haftar crescere con il crescere dei combattimenti. La causa? “Le milizie. Squadre armate di banditi che appena vedono un nero cercano di approfittarne con ogni mezzo”, rispondono in coro. Ne abbiamo incontrati a decine e decine a Tripoli. Siamo andati nelle vecchie chiese costruite dagli italiani nel periodo coloniale. E abbiamo trovato che ormai i fedeli sono praticamente tutti cristiani africani: per lo più originari del Niger, della Nigeria, della Costa d’Avorio, del Ghana, del Mali, del Sudan. Gente che ha risparmi in banca, belle abitazioni, automobili. La vecchia cattedrale cattolica in occasione delle messe dal venerdì alla domenica risuona dei loro inni e balli religiosi. Nella chiesa anglicana di Santa Maria, nel cuore delle cittadella medioevale, uno dei capi locali della comunità è Wali Elethu, 47enne immigrato nel 2007 dalla Nigeria. “Siamo grati al governo libico che ci ha accolti e ci ha dato lavoro. Nessuno di noi sino a pochi anni fa intendeva tornare al Paese d’origine o imbarcarsi clandestino per l’Italia. Ma adesso con l’intensificarsi della guerra le milizie che stanno dalla parte di Fayez Sarraj diventano sempre più violente, più aggressive nei nostri confronti. Così la migrazione illegale verso L’Italia diventa una via di fuga”, racconta. E le sue parole sono un in realtà un grande lamento corale. “Le milizie rappresentano l’arbitrarietà più violenta. Rapinano, rubano, chiedono ricatti, tangenti. Ci torturano nelle loro basi si fanno dare i nostri cellulari per chiedere ai nostri famigliari di pagare riscatti impossibili”, aggiunge. Il suo racconto è quello di tanti, sebbene lui sia addirittura un funzionario del Ministero degli Esteri a Tripoli. “Io stesso sono stato fermato almeno quattro volte negli ultimi tempi. Sono stato derubato di tutto, compreso del cellulare. Il tragico è che ho capito che il governo Sarraj può nulla contro di loro. Qui il problema non è il razzismo dei libici, ma piuttosto la criminalità delle bande armate. Sono le stesse che combattono Haftar e forti di questo ruolo militare pensano di godere il massimo dell’impunità”. Parole molto simili utilizza David Raja, immigrato a Tripoli dalla Nigeria nel 2006 e oggi docente universitario d’inglese. “Con la guerra per noi neri questo è diventato lo Stato della paura. C’è bisogno di un governatore forte che sappia smantellare le milizie”. Di recente è stato fermato da uomini armati nel quartiere di Gurji, a sud della capitale. I suoi vicini di casa hanno dovuto pagare un forte riscatto e ora lui sta lavorando per rendere loro il denaro. La seconda guerra di Bosnia si è combattuta in Siria. E le vittime sono donne e bambini di Francesca Mannocchi L’Espresso, 19 maggio 2019 Gli uomini sono partiti a combattere per l’Isis e sono morti. Le mogli e i figli piccoli hanno dovuto seguirli e adesso vivono in campi profughi. I parenti cercano di farli tornare in patria, ma il governo di Sarajevo non li vuole. “Mia sorella Aida aveva una laurea, un master in chimica, la curiosità dei giovani dei 25 anni e una vita davanti qui in Europa. Oggi è una vedova di trent’anni con due figli, un niqab nero che copre la bellezza dei suoi lineamenti, un marito morto combattendo nelle truppe dell’Isis e vive nel campo di al-Hol, nordest della Siria, con altre settantamila persone”. Maja Muracevic è una donna di quarant’anni, si muove con fare elegante, indossa abiti raffinati. Siede di fronte a un caffè al primo piano di un bar di Zenica, settanta chilometri a nord di Sarajevo, Bosnia Erzegovina. Stringe il telefono tra le mani, è il solo modo che ha per parlare con Aida. Zenica è una città industriale di centomila persone. A dominare la vista è l’imponente acciaieria, costruita sulle fondamenta di un impianto del periodo austo-ungarico, la cui produzione esplose sotto Tito che fece arrivare operai da ogni luogo della Jugoslavia. A Zenica tutto è fabbrica, persino la squadra locale di calcio, che si chiama Celik: produttore di acciaio. La polvere dell’impianto copre tutto: le giostre dei bambini nei parchi, le strade e i chilometri di edifici tutti uguali, migliaia di appartamenti di architettura sovietica, enormi palazzi di colore grigio ardesia. Prima della guerra la fabbrica impiegava 22 mila persone, oggi meno di un decimo, in un paese con un tasso di disoccupazione al 36 per cento. Nel 1994, nel pieno della guerra bosniaca, a Zenica - come in altre città tra cui Mostar, Sarajevo, Gornja Maoca e Zepce - arrivò dal Medio Oriente un flusso di mujaheddin per combattere a fianco dei musulmani bosniaci contro i nazionalisti serbi e croati. La Brigata Mujaheddin venne inglobata nel 3° corpo dell’esercito bosniaco e molti dei suoi combattenti (si stima tra 2 e 5 mila) una volta finita la guerra restarono in Bosnia, dando vita a comunità di estremisti salafiti che negli anni sono diventati reclutatori di centinaia di giovani e usato il paese balcanico come base di una rete internazionale di supporto al jihad e per triangolare soldi e merci verso la Siria e l’Iraq. “La mobilitazione jihadista nei Balcani è composta da reclute locali. Non sono cioè migranti e non provengono da minoranze culturali o religiose emarginate e in cerca di riscatto, come in altri paesi europei”, dice Adrian Shtuni, esperto di politica estera e sicurezza con un focus sui Balcani. “Non c’è correlazione tra reddito, livello di istruzione e radicalizzazione: anzi, la maggior parte dei combattenti aveva un buon livello educativo e non era disoccupata”, spiega. Secondo Shtuni l’eredità delle guerre balcaniche è chiara e non è una coincidenza che i tre paesi dei Balcani occidentali che hanno contribuito con il maggior numero di combattenti siano Kosovo, Bosnia e Macedonia settentrionale che hanno vissuto l’esperienza di un esercito secessionista interetnico. Col tempo, i religiosi locali hanno sfruttato le tensioni etniche esacerbate dalla guerra manipolandole come espressioni di una tendenza globale dell’oppressione contro i musulmani: “L’Islam politico è divenuto centrale nell’identità di alcuni circoli bosniaci e i predicatori carismatici hanno cominciato all’inizio degli anni Duemila e galvanizzare centinaia di giovani invitandoli a partire”. Maja e sua sorella sono cresciute a Zenica, qui hanno vissuto e sofferto la guerra. Sono state più fortunate di altri, hanno studiato, la famiglia ha garantito loro la possibilità di un’istruzione universitaria, un lavoro ben pagato. “La religione non è mai stata centrale nelle nostre vite”, dice Maja scorrendo le fotografie di Aida. Dice di non riuscire a convivere con il senso di colpa, con il rimpianto di non aver visto, non aver capito cosa stesse accadendo a sua sorella: “Siamo una famiglia benestante, Aida ha avuto tutto ciò di cui avesse il bisogno. Era una donna emancipata. Poi un giorno ha fatto le valigie ed è andata via. Ci ha telefonato giorni dopo dalla Siria. Ha detto di essere a Raqqa, di aver raggiunto un uomo. Di non cercarla perché non avrebbe cambiato idea. Voleva essere felice, diceva che lo sarebbe stata solo lì. Ho provato a discutere con lei nei primi mesi della sua fuga. Aida diceva che non c’era applicazione dell’Islam se non nello Stato Islamico. Che fosse giusto combattere i “takfir”, i miscredenti. Ho smesso di cercarla”. Maja non ha parlato con sua sorella per cinque anni, un po’ per la vergogna, un po’ per lo smarrimento, un po’ perché non si perdonava di non essere stata in grado di fermarla in tempo. Due mesi fa ha ricevuto una telefonata dal campo di Al Hol, nord della Siria: “Aiutami a venire via”, diceva la voce flebile di Aida, “non ho di che sfamare i miei bambini. Riportaci a casa”. Così ha scoperto che Aida è ancora viva, che è madre, che suo marito l’ha costretta dentro Baghuz, ultima enclave dell’Isis fino alla fine della guerra, che è morto negli ultimi giorni di combattimenti e che Aida ha camminato stringendo i figli tra le braccia finché non è stata presa dalle forze curde e spostata nel campo profughi di al Hol. “Dobbiamo dare loro una seconda possibilità”, dice Maja, “e garantire un futuro decente ai bambini. Sono figli della Bosnia, e il nostro governo così come gli altri governi europei devono aiutarci a riportarli indietro. I bambini non hanno fatto niente, non possono pagare le colpe dei padri. E nemmeno, se ci sono, quelle delle madri”. Maja fa parte di un gruppo di persone che coraggiosamente si sta battendo con le istituzioni bosniache per riportare in patria 15 donne e 35 bambini sopravvissuti alla guerra e detenuti nel nord della Siria. Donne e bambini che vivono in un limbo, mentre le istituzioni dei loro paesi di origine si interrogano su cosa fare dei combattenti stranieri di ritorno e delle loro famiglie che potrebbero essere ancora radicalizzate. Dalla Bosnia - in cui metà della popolazione è musulmana - sono partite per unirsi all’Isis in Siria e Iraq circa trecento persone, rendendo il paese uno dei maggiori “esportatori” pro capite di combattenti jihadisti. Secondo i dati dell’Agenzia investigativa e di protezione della Bosnia, la Sipa, sarebbero andati con i genitori in Siria anche ottanta bambini, tra cui la nipote oggi tredicenne di Alema Dolamic, partita alla volta di Raqqa con sua madre e il nuovo marito - reclutato da una cellula salafita austriaca - quando ne aveva solo otto. “Se non alziamo la voce, il nostro governo non farà nulla per riportarli indietro”, dice Alema, sulla porta della sua modesta casa a Lepenica, un piccolo villaggio nelle campagne del nord della Bosnia. Alema è magrissima, capelli scuri, zigomi alti. Si muove nervosamente, a scatti. Mangia poco, con la fretta di chi deve sbrigare una formalità nel flusso di cose più serie di cui deve prendersi cura, e quella più seria di tutte è riportare a casa sua sorella Alina, partita nel 2014 quindici giorni dopo aver sposato un uomo conosciuto in internet, Nermin Jahic, nome di guerra Abu Zekeri. “Un giorno mi ha mandato una fotografia da una stazione degli autobus, in Austria. Ha scritto: “Verrò a trovarti”. Dopo due giorni invece era in Siria”. Alema non ha mai smesso di parlare con sua sorella in questi anni. Racconta una moglie “vittima dell’influenza del marito”, che ha imposto alla donna, a sua figlia e ai due più piccoli nati in Siria, una vita in nome di una interpretazione corrotta dell’Islam. “All’inizio non si lamentava, sostenendo che vivessero agiatamente e secondo il volere di Allah, e che suo marito stesse combattendo gli infedeli. Ma dopo la sua morte in battaglia, nel 2017, ha cominciato a raccontare dettagli che aveva taciuto e per la prima volta a dire che voleva tornare”. Dopo la morte di suo marito Alina, con altre donne e bambini, è stata spostata di città in città, e rinchiusa in case speciali per vedove e orfani di miliziani morti in battaglia. Intorno a loro guerra e morte. Alema prende il telefono, cerca un messaggio audio di quei giorni. Rumore di spari in lontananza. Poi la voce debole di una donna: “Alema, ci hanno dato delle cinture, ho paura”. Alema sapeva a cosa servissero quegli oggetti, erano cinture esplosive. Il messaggio continuava: “Ci hanno detto che non dobbiamo arrenderci, ci hanno detto: non fatevi catturare, quando si avvicinano fatevi saltare in aria”. Erano gli ordini per tutti e per tutte: una volta sconfitti, il mandato era diventare kamikaze. Poco importava se sarebbero morti tutti, bambini compresi. Era il volere di Allah. Poi di nuovo silenzio per settimane e improvvisamente una telefonata: l’avevano spostata di nuovo. “Un giorno disse che un uomo le aveva proposto di portarla in Turchia in cambio di soldi. Così ho scoperto una rete di trafficanti che dall’interno dello Stato islamico contrabbandavano persone. Lavoravano su entrambi i lati, in Turchia e per conto dell’Isis. Quell’uomo aveva detto a mia sorella e ad altre quattro donne che una volta in Turchia le avrebbe portate di fronte all’ambasciata bosniaca. Ho seguito le indicazioni del trafficante e spedito 1.500 dollari in Turchia. Ma dopo aver ricevuto il denaro il trafficante le ha abbandonate nel deserto siriano. Ho perso i contatti con lei per settimane, poi una mattina mi ha scritto: “Alema non ce l’ho fatta. Ci hanno preso i curdi, sono nel campo di Roj.” È ancora lì, da allora”. Alema, una donna umile nata e cresciuta in un villaggio agricolo sui monti bosniaci, da allora, inizio del 2018, combatte la sua quotidiana battaglia con i ministeri (dell’informazione, degli affari esteri, della sicurezza) con le ambasciate, con i servizi segreti e l’intelligence, per riavere sua sorella e i suoi nipoti. Non si vergogna, è anzi consapevole delle contraddizioni. “Penso che la maggior parte di loro siano vittime, ma so anche che ci sono donne che ancora sostengono le ragioni dell’Isis. Rappresentano un problema, ma va risolto nei paesi di origine, non spostato nei campi profughi siriani dove la radicalizzazione può solo aumentare. Mia sorella è una cittadina bosniaca che ha fatto un errore. Ci hanno detto che i bambini nati in Siria devono essere sottoposti a test del Dna, per accertare che siano veramente figli suoi, perché la Bosnia non può riportare indietro bambini che non hanno certificati di nascita. Ho detto: va bene, fatelo. È passato un anno e mezzo e stiamo ancora aspettando. La verità è che non li vogliono indietro. E che preferiscono saperli prigionieri che sobbarcarsi l’onere di portarli a casa e pensare di reinserirli nella società”. La nipote ormai tredicenne di Alema - quella che ha lasciato la Bosnia a otto anni - da allora non è più andata a scuola. Oggi è un’adolescente traumatizzata, che ha ricordi di un’infanzia spensierata e poi di guerra. Gli altri due bambini nati in Siria non sono registrati se non nei documenti dello Stato Islamico, è come se non esistessero. Sono apolidi, privi di diritti. “Non mi vergogno del mio impegno pubblico, penso che il destino dei nostri cari sia parte dell’orrore che il mondo ha vissuto in questi anni a causa dell’Isis, chiudere gli occhi non risolverà il problema. I bambini e le donne, anche quelle radicalizzate, non meritano di vivere in quelle condizioni: senza cibo, senza acqua. Senza medicine”. Alema osserva le fotografie di sua sorella dal campo, è magrissima. Uno dei bambini sembra denutrito. Alema scuote la testa, il suo volto si fa teso. Sul tavolo di fronte al divano una cartellina con i documenti raccolti, accumulati durante le decine di visite ai ministeri a Sarajevo. “Lo stato bosniaco è colpevole perché ha tollerato il reclutamento, che era sotto gli occhi di tutti. I salafiti hanno gestito per anni para-moschee, centri religiosi illegali. Tutti ne conoscevano l’esistenza, e da lì gli estremisti hanno riempito la testa dei giovani e portato intere famiglie in Siria. Tutti lo sapevano, allora come oggi. Con la differenza che prima agivano pubblicamente, tollerati dal governo, oggi stanno nell’ombra”. Gli studi di Adrian Shtuni confermano che una caratteristica della radicalizzazione bosniaca è l’esistenza di una vasta rete di “para-jammats”, enclave salafite che vivono in conformità con la Sharia: “Una parte considerevole dei combattenti e delle loro famiglie hanno aderito a queste comunità e sono partite dopo aver trascorso lì del tempo. In Bosnia la radicalizzazione è frutto di un investimento sostenuto da entità islamiche mediorientali che diffondono una forma ultraconservatrice di Islam politico”. Eldin Berbic ha 38 anni: sua sorella Elzedina e i suoi cinque figli sono nel campo di al Hol dalla fine di gennaio. Elzedina è partita per Raqqa con il suo primo marito, bosniaco e tre figli, nel 2012. Ed è stata una delle ultime ad uscire da Baghuz. Sei anni e mezzo di Stato islamico. Un marito morto da miliziano nel 2015, due figli nati in Siria, un secondo marito siriano, che ora - stando alle informazioni del fratello - è riuscito a scappare in Turchia. Una storia complessa, quella della famiglia Berbic. Il padre dei due - Miralem Berbic - è partito per la Siria nel 2014, ufficialmente per riportare indietro la ragazza, eppure pochi mesi dopo compariva in uno dei brutali video di propaganda dell’Isis dal titolo “Onore del Jihad, messaggio ai Balcani”. Nelle foto scattate a Deir el Zor che Eldin mostra indossa sempre una mimetica, sorride, stringe tra le braccia la nipote di appena tre anni e già coperta integralmente dal niqab. Eldin stesso, autista, manovale, muratore spesso all’estero per lavoro, racconta di essere stato avvicinato da cellule salafite, in Germania e in Austria, uomini di Mohamed Porca, religioso bosniaco che aveva studiato in Arabia Saudita a capo della moschea al Tawhid di Vienna. Uno dei principali finanziatori e organizzatori di viaggi verso la Siria per i radicalizzati di tutta Europa. “Se parti per il grande progetto dello Stato islamico”, dissero a Eldin nel 2011, “daremo 40 mila euro alla tua famiglia”. Eldin si è consultato con alcuni imam poi ha deciso di resistere alla tentazione del denaro. “Non era vero Islam, lo sentivo”, dice. È rimasto in Bosnia, a Zenica anche lui. Vive in una casa, che sembra una baracca, insieme a sua madre. Che non parla mai, ma stringe le foto della figlia. Eldin è sincero, non descrive sua sorella come una donna sottomessa e non in grado di scegliere: “Quando suo marito era ancora vivo”, racconta, “Elzedina non voleva tornare qui, diceva di aver compreso solo in Siria il significato profondo dell’Islam. Ricevevano uno stipendio militare, il marito aveva ruoli di responsabilità. Dicevano di percorrere “la strada della vita nel nome di Allah”“. Poi lei è rimasta vedova, mentre l’Isis iniziava a indebolirsi. Si è risposata con un combattente siriano, ma subito dopo sono iniziate le richieste d’aiuto. Voleva andare via, ma non poteva. Le donne erano minacciate, gli uomini volevano strappare loro i bambini e punirle. Dicevano: andate via ma lasciateci i bambini. Elzedina non l’avrebbe mai permesso. Alla fine il marito è fuggito e lei e i bambini sono rimasti intrappolati a Baghuz fino alla fine della guerra. Ora sono in un campo che in pochi mesi è passato da dieci a settanta mila persone. “La guerra è guerra, e noi la conosciamo bene, siamo figli di una terra di guerre. Ma un campo di detenzione è una prigione e non posso pensare mia sorella e i bambini lì. La chiamano terrorista, la gente mi tratta con orrore e disgusto. Io che ho saputo resistere a quel richiamo dico che queste donne hanno sperimentato il peggiore odio e dobbiamo aiutarle a guarire”. Ma - come altrove in Europa - le autorità bosniache sono lente nell’affrontare le richieste delle famiglie, la loro preoccupazione sono le sfide alla sicurezza che potrebbero sorgere con il ritorno di persone da una zona di guerra e un ambiente di militanza. E la sfida più impegnativa, lasciar crescere una generazione di potenziali combattenti sotto l’influenza anche carismatica di chi è tornato a casa dopo l’esperienza dell’Isis, donne comprese. Cosi le famiglie aspettano, mentre i governi sembrano sordi e riluttanti a rimpatriare i loro cari. “I bambini non sono colpevoli, non possono pagare”, dice Eldin. “Sono stati addestrati alla guerra, ora devono essere addestrati alla pace”. Israele divide i palestinesi per controllarli meglio di Amira Hass Internazionale, 19 maggio 2019 Sono nel campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme, in Cisgiordania, in casa di Abu Nidal. Il nostro primo incontro risale al luglio del 2018, anche se conoscevo già il suo nome: l’avevo letto in un elenco di detenuti amministrativi (i palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza processo, senza sapere di cosa sono accusati) che stavano facendo lo sciopero della fame. In quell’occasione dovevo scrivere un articolo sull’ennesimo raid dell’esercito israeliano che si era concluso con la morte dell’ennesimo ragazzino palestinese: il quindicenne Arkan Mezher. Durante l’attacco bambini e ragazzi erano scesi in strada lanciando pietre ai soldati per protestare contro l’invasione delle loro case. Arkan aveva lanciato una pietra contro una Jeep blindata che si stava allontanando dal campo, e per questo era stato ucciso dai soldati israeliani. Lo scorso luglio ho incontrato Abu Nidal a casa dei familiari di Arkan, nei giorni del lutto, in una stanza piena di uomini. Solo uomini, naturalmente. Non gli ho teso la mano perché non sapevo se anche al campo, dove la sinistra è sempre stata forte, valesse l’usanza conservatrice per cui gli uomini palestinesi non stringono la mano alle donne. Abu Nidal mi ha teso la sua, chiedendomi perché non l’avessi fatto io: “Da noi ci si stringe la mano e ci si bacia”, mi ha spiegato. E a quel punto mi ha salutata dandomi un bacio davanti a tutti. Sono tornata da Abu Nidal all’inizio di aprile per scrivere di un altro raid dell’esercito israeliano e di un altro ragazzo palestinese morto: Sajid Muzher. Sajid aveva diciassette anni e mezzo, faceva il paramedico volontario della Palestinian medical relief society, ed era il cugino di Arkan. La nonna dei due ragazzi è una profuga originaria del villaggio di Hulda (diventato poi il famoso kibbutz dove per anni ha vissuto lo scrittore Amos Oz). Suo marito aveva combattuto l’occupazione nel 1967 e per questo fu esiliato in Giordania. Lei andava a trovarlo e nel frattempo cresceva i figli da sola. Oggi ha ottant’anni e conta sull’aiuto dei nipoti. In particolare faceva affidamento su quello di Arkan e Sajid. Il 27 marzo ci sono stati due raid dell’esercito a Dheisheh. In entrambi i casi Sajid è uscito di casa per soccorrere i feriti. Alle due di notte i soldati hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma senza provocare feriti. Alle sei del mattino ci sono stati tre feriti, tutti colpiti da proiettili veri. Quando l’esercito si stava già ritirando, Sajid e i suoi amici sono venuti a sapere di un altro ferito lungo la strada principale. Hanno attraversato il campo di corsa e hanno visto i soldati che andavano via a piedi dall’altro lato della strada. Per non essere scambiati per dei manifestanti, i giovani paramedici vestiti con giubbotti arancioni hanno rallentato l’andatura. All’improvviso Sajid è caduto. Al suo amico ha detto di essere stato ferito a una gamba. Ma sulla gamba non c’era traccia di colpi d’arma da fuoco. In ospedale si sono resi conto che era stato ferito all’addome. Tutti pensavano che sarebbe sopravvissuto, invece l’operazione per salvarlo è andata male. Dal comunicato dell’esercito ho capito che chi l’aveva ucciso faceva parte di un’unità speciale. Dopo aver incontrato i testimoni della vicenda e il padre di Sajid, sono tornata da Abu Nidal. Abbiamo parlato dei molti detenuti amministrativi originari del campo. Lui e i suoi familiari non fanno che entrare e uscire dal carcere. E non per aver partecipato a operazioni militari. È risaputo che a Dheisheh non ci sono armi (a differenza del campo profughi di Jenin, per esempio). Per decenni, infatti, i leader politici del campo sono stati contrari al possesso di armi. Qui non si spara neanche ai matrimoni, contravvenendo a quella strana usanza per cui i momenti di festa sono accompagnati da colpi sparati in aria. Questo significa che Israele usa la detenzione amministrativa per colpire qualsiasi iniziativa o critica sociale o politica, con pene di almeno sei mesi di carcere, di solito anche di più. Grazie alla sua esperienza di detenuto, e analizzando il trattamento riservato agli altri prigionieri palestinesi, Abu Nidal è diventato una specie di antropologo delle politiche israeliane. “L’ultima volta mio fratello è stato arrestato dopo di me”, mi ha raccontato. “In carcere ho fatto presente che è prassi comune mettere in cella insieme le persone della stessa famiglia. La guardia mi ha risposto: ‘Non parlare in generale, parla per te. Dì che vuoi stare in cella con tuo fratello’”. Abu Nidal aggiunge: “Una volta accettavano che noi palestinesi avessimo dei rappresentanti politici, mentre oggi ci trattano come individui separati. Questo riflette quello che succede fuori, il modo in cui l’occupazione ci divide, geograficamente e socialmente. All’uscita di ogni villaggio l’esercito ha messo un cancello di ferro che può essere chiuso in qualsiasi momento, isolando la comunità. Anche fuori ci costruiscono delle piccole celle separate”.