Giustizia è svuotare le carceri di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 maggio 2019 Diminuiscono i reati ma il governo non cerca la soluzione al sovraffollamento. Come è stato documentato dal rapporto dell’associazione Antigone alla riduzione dei reati commessi in Italia non è corrisposta una riduzione della popolazione carceraria, che invece continua ad aumentare e ha raggiunto ormai il 120 per cento della capienza. Negli altri paesi europei in cui c’è stato un analogo calo dei delitti è proporzionalmente diminuito il numero dei carcerati. Perché questo non avviene da noi? In primo luogo perché le condanne comminate prevedono pene mediamente più alte, in secondo luogo perché la legislazione, a cominciare da quella più recente, ostacola le misure alternative al carcere e tende a impedire o ostacolare le scarcerazioni. Il governo manettaro parla solo dell’esigenza di costruire nuovi istituti di pena, ma anche in questo caso si tratta solo di parole. Ogni tentativo di riprendere il filo di una riforma carceraria che applichi la Costituzione viene bollata come “svuota-carceri”, come se avere le prigioni piene fosse un obiettivo lodevole. Invece questo sarebbe proprio il momento giusto per modernizzare e umanizzare il sistema delle pene, che quanto meno sono detentive, tanto più evitano la recidiva. È un tema difficile, che si scontra col sensazionalismo che porta l’informazione a enfatizzare singoli casi. L’altro elemento “di opinione” che ostacola la riforma è la cosiddetta “percezione” della criminalità, che sarebbe in aumento nonostante i dati reali dicano il contrario. Anche questa però non è una bizzarria della psicologia nazionale, è l’effetto di campagne propagandistiche strumentali, comprese quelle di chi oggi, da ministro dell’Interno, evita di parlare della reale diminuzione della criminalità, che invece negava quando stava all’opposizione. È giusto tener conto degli ostacoli politici e psicologici per affrontarli e superarli con il ragionamento e la convinzione, per denunciarne la natura spesso strumentale e irrazionale, non per considerarli una barriera insuperabile che demotiva e disarma anche chi sarebbe convinto della necessità di un cambiamento. Lontani dagli occhi, lontani dalla Costituzione di Marco Magnano riforma.it, 18 maggio 2019 Il nuovo rapporto sul carcere presentato dall’Associazione Antigone sottolinea la distanza tra la pena reale e quella prevista dalla Carta fondamentale. Un paradosso in un Paese in cui calano i reati. Giovedì 16 maggio l’Associazione Antigone, che da quasi trent’anni monitora e studia il sistema carcerario italiano, ha presentato il suo XV rapporto annuale, dedicato al rapporto tra “pena reale” e “pena secondo la Costituzione”, due termini che oggi risultano piuttosto distanti e che dovrebbero essere riavvicinati. Due anni fa, il rapporto di Antigone aveva scelto come parola chiave quella del “ritorno del carcere”, ovvero il sempre più marcato ricorso alla pena detentiva in controtendenza rispetto agli anni precedenti, dopo che, anche in seguito alla Sentenza Torreggiani del 2013, la popolazione carceraria aveva visto una limitata riduzione. Oggi, a distanza di due anni, è evidente come il sovraffollamento del sistema penitenziario italiano sia ancora in crescita. Al 30 aprile 2019 erano 60.439 i detenuti, di cui 2.659 donne. Le presenze in carcere sono cresciute di 800 unità rispetto al 31 dicembre 2018 e di quasi 3.000 rispetto all’inizio dello scorso anno. Ma soprattutto ci sono oggi ben 8.000 detenuti in più rispetto a tre anni e mezzo fa. Secondo il rapporto, questa tendenza porterà entro due anni ai numeri della condanna europea. In effetti, il tasso di affollamento sfiora attualmente il 120% e, dalle rilevazione effettuata dall’Osservatorio di Antigone durante il 2018, con la visita di 85 strutture carcerarie, è risultato che in un caso su cinque non viene rispettato il parametro dei tre metri quadrati per detenuto, soglia considerata dalla Corte di Strasburgo minima e al di sotto della quale è alto il rischio di trattamento inumano o degradante. Il tasso di affollamento può essere considerato tuttavia più elevato se si tiene conto che in ben 37 istituti, tra quelli visitati dall’associazione, ci sono spazi non in uso per ristrutturazione o inagibilità, e non sempre i dati ufficiali sui posti disponibili ne tengono conto. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, evidenzia un paradosso: “siamo - racconta - in progressivo aumento come popolazione carceraria, laddove invece siamo in una progressiva diminuzione del numero dei reati connessi. La riforma dell’ordinamento penitenziario nella precedente legislatura è stata poca cosa rispetto alle aspettative e poca poca cosa nella giusta direzione. Ma il bilancio più radicale è un bilancio di tipo culturale, che poi ha avuto un impatto sul sistema penale penitenziario e da qui la scelta di richiamare la Costituzione nel titolo del nostro rapporto. Siamo in un’epoca nella quale si può dire esplicitamente che una persona deve marcire in galera a prescindere da chi sia questa persona, quindi si può esplicitamente andare contro quel dettato costituzionale che i nostri padri costituenti avevano ben presente”. Se cresce il numero dei detenuti, diminuisce però in termini assoluti e in percentuale quello degli stranieri in carcere, a conferma di quanto non esista alcuna relazione tra il fenomeno migratorio e la criminalità. Citando il rapporto, “negli ultimi dieci anni sono diminuiti di oltre 1.000 unità infatti i detenuti non italiani nelle carceri. Gli stranieri erano il 34,27% al 31 dicembre 2017, il 33,9% al 31 dicembre 2018 e sono attualmente il 33,6%. Se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36% (considerando anche gli irregolari)”. Ma c’è un dato che più di ogni altro rende evidente la difficoltà del sistema penale italiano: il 2018, infatti, ha segnato una nuova ripresa nel tasso di suicidi in carcere. Stando al dato raccolto da Ristretti Orizzonti sono stati 67, un tasso di oltre 11 suicidi ogni 10.000 detenuti. Nel 2019 sono già 31 i morti, a conferma che in carcere ci si uccide quasi 18 volte di più che in libertà. “È sempre difficile parlare di una scelta umana, profonda, individuale”, chiarisce Susanna Marietti. “Però - prosegue - quello che ci dice questo dato è che è un carcere sovraffollato non è solo un carcere dove manca il metro quadro, ma è un carcere dove un sistema che è pensato per un certo numero di persone deve invece farsi carico di molti di più e quindi deve suddividere la propria attenzione, che è un’attenzione dei medici, un’attenzione degli psicologi, un’attenzione degli educatori, un’attenzione della polizia penitenziaria. Quello che succede è che l’individualità si va a perdere e quel trattamento individualizzato di cui ci parla nell’ordinamento penitenziario è ormai illusorio. La disperazione non riesce a essere intercettata, e quindi non riesce a essere sostenuta, a essere riportata dentro binari normali che evitino il gesto estremo”. Dopo un’intera legislatura, la scorsa, passata a ragionare su come riformare un sistema in cui i problemi sono numerosi e noti da decenni, oggi il percorso sembra interrotto. “L’emergenza oggi sembra un’altra - conclude Marietti - e cioè la corsa continua a creare un nemico che non c’è, perché in questi primi quattro mesi del 2019 i reati sono calati del 15 per cento rispetto ai corrispondenti 4 mesi del 2018. La corsa a creare un nemico e poi a raccontarci che ci difenderanno da questo nemico sembra l’unica cosa che riempie il nostro orizzonte politico”. Meno reati ma più detenuti: il paradosso del governo cattivista di Tania Careddu Left, 18 maggio 2019 “Nonostante l’impegno e le parole di gran parte degli operatori del diritto, nonostante il lavoro quotidiano umanocentrico e garantista di una moltitudine di poliziotti, educatori, assistenti sociali, magistrati, avvocati, esperti, studiosi, nonostante il susseguirsi di sentenze delle Corti che hanno posto limiti all’esercizio illimitato del potere di punire, nonostante i discorsi alti e densi provenienti da autorità morali indiscusse, enorme è il rischio di un declino che porti ad affermare che l’articolo 27 della Costituzione sia un orpello formale di cui liberarsi (…) È in questa lotta impari tra un’idea costituzionale e legale di pena e una proposta politica moralmente violenta nonché palesemente incostituzionale che si inserisce il rapporto di Antigone 2019”, Il carcere secondo la Costituzione. Le parole del presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, nell’editoriale del XV Rapporto sulle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, premettono l’analisi di una tendenza che pone pressanti interrogativi. Perché, sebbene i numeri siano chiari, i conti non tornano. E cioè, si registra un continuo incremento del numero dei detenuti ma l’aumento non è imputabile all’incremento degli ingressi in carcere ed è, piuttosto, riscontrabile un allungamento delle pene scontate dai detenuti condannati in via definitiva nonostante non si registri un aumento della gravità dei reati commessi. Deducendone che le spiegazioni alla crescita della popolazione carceraria slegata dalla (non) impennata nell’andamento della criminalità sono da ricercarsi altrove. Quasi certamente nell’intervento spasmodico e compulsivo del legislatore sul codice penale - prova ne siano la nuova legge sulla legittima difesa o i vari aumenti di pena per rapina e furto in appartamento - motivando le modifiche come necessarie a contrastare presunti fenomeni criminali predatori in vertiginoso aumento. Tutt’altro: il decremento dei reati si è registrato nei primi nove mesi del 2018, seguendo un trend cominciato nel 2017, con cinquantatré delitti in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con il 9 per cento in meno di rapine e il 15 per cento di quelle in appartamento, confermandosi, anche, nei primi mesi del 2019. E proprio quando cresceva la retorica d’odio verso le popolazioni rom, tra il 2016 e il 2017, il numero delle segnalazioni riferite a persone denunciate per il reato di impiego di minori nell’accattonaggio scendeva da centoventicinque a ottantotto così come quello delle segnalazioni di persone denunciate o arrestate per il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano: da 46.669 a 33.596, nonostante la questione della perniciosità dell’immigrazione fosse al centro del dibattito pubblico e faceva la fortuna elettorale dei più. E nonostante molti stranieri, di punto in bianco, abbiano perso certezze anagrafiche e titolo di permanenza nel nostro Paese a causa del decreto Salvini e nonostante le discriminazioni nell’accesso alle misure alternative non detentive e a quelle cautelari, il numero di stranieri reclusi è rimasto stabile. Anzi, a onore del vero, negli ultimi dodici mesi, è diminuito dello 0,42 per cento. Piuttosto, nei confronti degli stranieri, è facile riscontrare discriminazioni nelle offerte di trattamento: una su tutte, nel contatto con gli affetti personali, condizionato da negligenze dei consolati e delle rappresentanze diplomatiche o da problemi tecnici nella corrispondenza telefonica. A fermare la crescita del numero dei detenuti non è nemmeno l’applicazione delle misure alternative, sebbene siano in continua espansione: sia perché vengono inflitte direttamente dal regime di libertà, senza il passaggio dal carcere, sia perché la loro applicazione è distribuita in maniera iniqua nei territori, ciò non svalutandone la loro efficacia nel reinserimento sociale e la loro utilità relativamente al risparmio sui costi. Che, in carcere, diminuiscono per detenuto, scendendo da 137 euro nel 2018 a 131 nel 2019, mentre aumenta, di diciassette milioni, il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di cui beneficia, in particolar modo, l’edilizia carceraria che comprende la realizzazione di nuove infrastrutture e il potenziamento di quelle esistenti, escludendo la manutenzione ordinaria. E tralasciando, così, il diritto a condizioni strutturali degne che, al pari di quello alla salute, alla territorialità della pena, allo studio e al lavoro, dovrebbe essere garantito e che, invece, viene puntualmente violato: nel 2018, di violazioni, ne sono state registrate centoventi, una ogni tre giorni. Un’asta al ribasso sui diritti fondamentali che, nell’anno considerato, ha contato più di diecimila casi di autolesionismo e sessantaquattro suicidi, causati pure da abusi e maltrattamenti che le denunce, pervenute per mail al Difensore civico di Antigone e riportate nel Rapporto, ancora al vaglio dell’Autorità giudiziaria, testimonierebbero. Il numero dei suicidi nelle carceri nostrane fa schizzare il Belpaese in vetta alla classifica europea, toccando punte percentuali del 38 per cento e così superando la media europea del 28 per cento. In cima, l’Italia, anche, per i tassi di persone detenute senza una condanna definitiva, pari al 34 per cento del totale contro il 23 per cento della media Ue. Nella quale, sempre l’Italia, è il primo Paese per incremento della popolazione detenuta, in controtendenza rispetto al resto del continente; le sue carceri sono le più affollate, con un tasso del 115 per cento versus il 93 per cento della media europea, e la presenza di stranieri nel sistema penitenziario italiano è percentualmente molto più elevata che nel resto d’Europa. Conseguenza di una legislazione che, ostacolando percorsi di lavoro regolari, spinge nel circuito dell’illegalità. E sebbene sia il Paese europeo in cui si uccide meno, i detenuti delle carceri italiane hanno pene molto più alte dei vicini europei: le persone detenute che scontano l’ergastolo rappresentano il 4,4 per cento dei condannati contro una media del 3,5 per cento e le condanne comprese tra i dieci e venti anni registrano sei punti percentuali in più della media degli Stati europei. Tradotto: in Italia si sta in carcere più che negli altri Paesi europei, con pene che finiscono per essere de-socializzanti. In barba all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione” dei condannati. Che, a oggi, sono 60.439. Quasi diecimila in più dei posti letto ufficialmente disponibili, con un sovraffollamento che sfiora il 120 per cento. E non per colpa degli stranieri. Antigone: “Va bene ristrutturare le carceri, ma i fondi sono insufficienti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2019 Il rapporto dell’associazione dedica un capitolo all’edilizia penitenziaria. È in evoluzione l’edilizia penitenziaria? È la domanda posta in un capitolo, a firma di Alice Franchina, del quindicesimo rapporto di Antigone dal titolo “Il carcere secondo la Costituzione” presentato mercoledì a Roma. Nella relazione, a proposito della costruzione di nuove carceri, un cavallo di battaglia del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si mette a nudo la realtà attuale dello stato di manutenzione delle nostre carceri. Dall’osservazione di Antigone degli ultimi anni, infatti, si possono notare alcune caratteristiche che restano, nei grandi numeri, essenzialmente invariate. Anche nel 2018 in 4 istituti che Antigone ha visitato c’erano celle con il wc a vista, in un ambiente separato, in più della metà delle carceri visitate c’erano celle senza doccia e in più di un terzo c’erano celle senza acqua calda. Il riscaldamento non c’è o non funziona ovunque nel 7% delle carceri. Il governo ha recentemente convertito in legge il Decreto Semplificazioni dove contiene un articolo specifico sull’edilizia penitenziari. L’articolo è il 7, il quale dispone che, ferme restando le competenze del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti in termini di strutture carcerarie, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria concorra attivamente alle attività relative alla ristrutturazione e/ o alla costruzione di nuovi istituti nei prossimi due anni (termine 31 dicembre 2020). Antigone osserva che c’è un dato degno di nota, ovvero il forte accento posto sulla possibilità di ristrutturazione di fabbricati o di riconversione a carceri di edifici nella disponibilità dello Stato, e ciò, secondo Antigone, “costituisce senza dubbio una novità rispetto al passato”. Sempre nel rapporto Antigone sottolinea che l’ipotesi della riconversione di edifici già esistenti è molto interessante per due motivi: una diminuzione del consumo di suolo e una più probabile vicinanza degli edifici ai centri urbani (cosa che generalmente consente un rapporto più aperto con la città, una comodità per i parenti delle persone detenute), e una semplificazione dei percorsi per gli operatori ed i detenuti che svolgono lavori esterni. Ma i soldi stanziati bastano? Secondo Antigone no, perché a copertura delle disposizioni dell’art. 7 del Decreto Semplificazione, ci sarebbero circa 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. “Ciò che chiediamo a questo punto - si legge nel rapporto - è se queste cifre siano commisurate allo scopo. Infatti, se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52, con il risultato, sotto gli occhi di tutti e documentato dall’osservazione di Antigone, che lo stato delle carceri italiane non risulta strutturalmente migliorato, basteranno meno di 30 milioni di euro in due anni per dar corso alle ipotesi delineate dall’art. 7?”. Per questo Antigone evidenzia invece l’importanza di puntare a una maggiore apertura delle maglie del carcere verso l’utilizzo delle pene alternative: ciò contribuirebbe - scrive Antigone - “non solo a “svuotare” le prigioni, e quindi favorire il miglioramento dell’atmosfera detentiva, ma anche e soprattutto a realizzare in maniera più coerente il dettato costituzionale che impone che la pena non sia afflittiva e sia tesa al reinserimento sociale della persona condannata”. Infatti, da quello che emerge nel rapporto di Antigone è come il sovraffollamento del sistema penitenziario italiano sia ancora in crescita. Al 30 aprile 2019 erano 60.439 i detenuti, di cui 2.659 donne (il 4,4% del totale). Le presenze in carcere sono cresciute di 800 unità rispetto al 31 dicembre 2018 e di quasi 3.000 rispetto all’inizio dello scorso anno. Ma soprattutto ci sono oggi ben 8.000 detenuti in più rispetto a tre anni e mezzo fa. Con questo trend nel giro di due anni si tornerà ai numeri della condanna europea. Il tasso di affollamento sfiora attualmente il 120% e, dalle rilevazioni effettuata dall’Osservatorio di Antigone durante il 2018 (85 carceri visitate), è risultato che nel 18,8% dei casi vi sono celle dove non è rispettato il parametro dei 3mq per detenuto, soglia considerata dalla Corte di Strasburgo minima e al di sotto della quale estremo è il rischio di trattamento inumano o degradante. Il tasso di affollamento può essere considerato tuttavia più elevato se si tiene conto che in ben 37 istituti, tra quelli visitati dall’associazione, ci sono spazi non in uso per ristrutturazione o inagibilità. Non sempre i dati ufficiali sui posti disponibili tengono conto di ciò. Il caso più celebre è quello di Camerino, vuoto dal terremoto dell’ottobre del 2016, la cui capienza è ancora conteggiata nei posti disponibili del sistema penitenziario nazionale. Stage e laurea? Anche per gli studenti-detenuti di Annalisa Ausilio repubblicadeglistagisti.it, 18 maggio 2019 Sono universitari, faticano sui libri, sostengono esami puntando alla laurea. Tutto dietro le sbarre. Sono “studenti-detenuti” iscritti nei sedici poli universitari penitenziari, nati da protocolli di intesa fra università, amministrazioni carcerarie, enti regionali, cooperative e associazioni. Da Torino a Bologna, passando per Sassari e Roma, i carcerati che ambiscono a diventare dottori beneficiano di appositi spazi adeguati allo studio. Su 66mila detenuti, circa trecento sono universitari (secondo l’ultima ricerca relativa al 2010) di cui ottanta donne e quaranta stranieri, i meno agiati in regola con gli esami ricevono borse di studio e rimborso tasse dagli enti regionali. E per molti il percorso universitario, così come per gli studenti “a piede libero”, comporta anche lo svolgimento di tirocini formativi. “La detenzione comporta la necessità di trovare continuamente accordi per conciliare le esigenze della didattica con quelle dell’istituto”, spiega alla Repubblica degli Stagisti Antonio Vallini docente di diritto penale e delegato alla facoltà di Scienze politiche del polo penitenziario dell’università di Firenze che nel 2000, a seguito della convenzione fra Regione Toscana e amministrazione penitenziaria, ha istituito una sede didattica nella casa circondariale di Prato. Due sezioni del carcere, in media e in alta sicurezza, sono dedicate interamente al polo universitario: sono reclusi solo i sessanta “studenti-detenuti” che hanno accesso a sale comuni per poter studiare, ricevere i professori e sostenere esami. Le difficoltà non mancano, soprattutto quando per ottenere crediti formativi lo studente è chiamato a svolgere uno stage. I permessi giornalieri “È chiaro che il tirocinio non è una motivazione sufficiente per aprire le porte del carcere”, chiarisce Vallini: “l’università e l’istituto studiano delle soluzioni a seconda del singolo caso”. Diversi sono i fattori da prendere in considerazione: durata dello stage, pena residua e condizione del detenuto. Se il numero di ore è limitato, si possono ottenere i crediti formativi attraverso permessi di uscita rilasciati dalla direzione dell’istituto. In questi casi lo studente può acquisire conoscenze pratiche delle materie che ha conosciuto solo attraverso i libri in alcune strutture prossime al carcere come cooperative o associazioni individuate dall’università. Ma quando il tirocinio prevede oltre 150 ore i permessi giornalieri non sono più sufficienti. Le misure alternative per i tirocinanti Qualcuno ottiene dall’amministrazione penitenziaria il regime di semilibertà o l’articolo 21 esterno, un beneficio che consente di svolgere attività formative o lavorative fuori. “Sono valutazioni che non competono a noi, in diverse occasioni ci siamo trovati ad affrontare un diniego da parte dell’istituto”, afferma Vallini. In queste situazioni la carriera universitaria dello studente detenuto può subire un rallentamento in attesa di ottenere misure alternative o trovare, di intesa con il delegato della propria facoltà, altre soluzioni come esami integrativi o tesine supplementari. Se invece l’amministrazione concede il beneficio, il tirocinio diventa non solo l’occasione per ritornare all’esterno ma anche per entrare in contatto con il mondo del lavoro. Le strutture sono individuate dal delegato del corso di laurea e soggette alla valutazione dell’amministrazione penitenziaria. E dopo lo stage? Parlare di inserimento lavorativo dopo lo stage per un detenuto è azzardato non solo per le difficoltà economiche del momento ma anche per gli ostacoli legati al percorso di reinserimento. “Lo scopo del tirocinio è formativo, l’università non ha il compito di trovare lavoro”, chiarisce Vallini. Insomma una volta fuori, terminato il tirocinio e conseguita la laurea, anche loro, entrano nella condizione comune a tutti i neolaureati: cercare un impiego. E, come per tutti i neolaureati, l’impresa non è semplice. Molto dipende, oltre che dalla condizione individuale di ognuno, dal titolo di studio conseguito. A determinare la scelta del corso di laurea concorrono diversi fattori: non solo la spendibilità lavorativa, ma anche la pena residua e gli interessi personali. Sull’inserimento nel mondo del lavoro degli ex detenuti diventati dottori dietro le sbarre non ci sono dati specifici: certo laurearsi in carcere, oltre ad essere un importante elemento nel percorso rieducativo, potrebbe accorciare le distanze con il mondo del lavoro - ma una volta fuori l’ex detenuto deve fare i conti con la complessità, e le difficoltà, del reinserimento. I numeri Dopo dodici anni di attività, nel carcere di Prato si contano venti laureati e attualmente oltre sessanta studenti iscritti alle diverse facoltà. Sono 53 i corsi di laurea attivi: la maggior parte degli studenti predilige l’indirizzo giuridico, letterario e politico-sociale. Nel 2010, si legge nella ricerca di Antonella Barone “I numeri del trattamento”, su 300 iscritti si sono laureati 19 detenuti, di cui dieci uomini e nove donne. Studiare dietro le sbarre I poli universitari penitenziari sono sedi universitarie a tutti gli effetti: i docenti sono tenuti ad entrare in carcere per permettere agli studenti di sostenere gli esami. I professori più volenterosi possono decidere di tenere anche delle lezioni per gli iscritti al loro corso di laurea, a volte anche un solo studente. Le associazioni apportano un fondamentale contributo: seguono i detenuti nello studio, forniscono i testi e curano i contatti con i docenti. I volontari sono l’anello di congiunzione fra il contesto universitario e quello penitenziario: contribuiscono, fra mille ristrettezze, a portare avanti il difficile percorso universitario degli studenti-detenuti. Perché come scriveva Victor Hugo quasi duecento anni fa nel suo poema Mélancholia “se si apre una scuola si chiude una prigione”. La lotta al proselitismo di matrice jihadista inizia dalle carceri Italia Oggi, 18 maggio 2019 Su 60.549 detenuti presenti nelle carceri italiane, di cui 20.322 di nazionalità straniera, sono 462 alla data di oggi, si legge in una nota del ministero della giustizia, quelli monitorati per rischi connessi alla radicalizzazione e al proselitismo di matrice jihadista. Di questi, 209 sono sottoposti a un livello di attenzione classificato come alto. Nelle carceri italiane, un detenuto su 3 è straniero. E da qui parte la lotta alla radicalizzazione Jihadista. Su 60.549 detenuti presenti nelle carceri italiane, di cui 20.322 di nazionalità straniera, sono 462 alla data di oggi, si legge in una nota del ministero della giustizia, quelli monitorati per rischi connessi alla radicalizzazione e al proselitismo di matrice jihadista. Di questi, 209 sono sottoposti a un livello di attenzione classificato come alto (soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e soggetti di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione o reclutamento); 112 a un livello medio (detenuti che all’interno dell’istituto penitenziario abbiano posto in essere atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista); 141 a un livello basso (quelli che meritano un approfondimento di analisi, al fine di poter essere inseriti negli altri due livelli o mantenuti al terzo o estromessi dal monitoraggio). Inoltre, ai 462 monitorati negli istituti, devono aggiungersi poi altri 92 detenuti che da inizio anno sono stati sottoposti a profilazione, ma successivamente sono usciti dal carcere: di questi, 25 ritenuti pericolosi, espulsi all’atto della scarcerazione. “Si tratta di numeri di peso, che testimoniano del fondamentale ruolo svolto dall’Amministrazione Penitenziaria e, in particolare, dell’opera degli uomini del Nucleo Investigativo Centrale (Nic) del Corpo di Polizia Penitenziaria nell’attività di prevenzione e di contrasto al terrorismo internazionale, con particolare riferimento a quello jihadista”, si legge nella nota del dicastero guidato da Alfonso Bonafede. “È sempre più nel carcere infatti che si concentra l’attenzione al fenomeno della radicalizzazione, che, oggi, vede proprio gli istituti penitenziari al centro delle strategie di prevenzione e contrasto al terrorismo di matrice islamica. Lo sanno bene al Dap e lo sanno benissimo i poliziotti penitenziari del Nic che, a fronte di una crescita esponenziale dei detenuti da monitorare, hanno affinato nel tempo strumenti e metodologie destinati all’analisi dei soggetti e perfezionato le attività di coordinamento e di condivisione delle informazioni con le altre Forze di polizia e le Agenzie di sicurezza”. “L’osservazione quotidiana dei dati inerenti la vita intramuraria e i contatti con l’esterno di tutti i soggetti monitorati si trasforma così in una raccolta sempre più completa di informazioni basata sull’analisi proveniente dal contesto penitenziario che approda sui tavoli dell’Autorità Giudiziaria (quando ci sono fatti di interesse investigativo o giudiziario) nonché su quelli dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria, della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, per poi essere condivisi, nell’ambito del Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (Casa), con le altre Forze di polizia e le Agenzie di informazioni e sicurezza interna ed esterna. Non a caso gli stessi soggetti istituzionali dai quali provengono i riconoscimenti più importanti al Corpo di Polizia Penitenziaria per l’attenzione e la sensibilità sviluppata in materia”. Mattarella: “Chi predica odio ormai non ha più remore” di Ugo Magri La Stampa, 18 maggio 2019 Quando ci rappresenta agli occhi del mondo, un presidente deve sempre esporre in vetrina il meglio, i nostri lati buoni. A maggior ragione se idealmente ha di fronte Papa Francesco, la più elevata tra le coscienze morali del pianeta. Ecco perché Sergio Mattarella, a colloquio con Osservatore Romano, Radio Vaticana e Vatican News, si è preoccupato anzitutto di garantire: gli italiani rimangono brava gente, non è che di colpo sono diventati tutti malvagi. Anzi, le persone generose e solidali rappresentano ancora la netta maggioranza. Poi certo, ha dovuto riconoscere il presidente, “affiorano rumorosamente atteggiamenti di intolleranza, di aggressività, di chiusura alle esigenze altrui”. Comportamenti gravi, “da censurare con severità”, ha aggiunto. Però si tratta pur sempre di “fenomeni minoritari, sempre esistiti”. In Italia di odiatori ne circolavano ben prima che avessero inventato i social, idem gli xenofobi e i razzisti. Semmai la vera differenza rispetto al passato sta nel loro atteggiamento, oggi particolarmente sfacciato. I cattivisti non hanno più vergogna di mostrarsi tali, sentono di avere le spalle coperte. Nessuno li emargina, addirittura vengono corteggiati. “Sembrano attenuate le remore che prima ne frenavano la manifestazione”, sintetizza il capo dello Stato. Il quale ovviamente si astiene dal tirare in ballo i politici, tantomeno Salvini, a pochi giorni dalle elezioni europee. A proposito di Europa: Mattarella non ci sta a fare di ogni erba un fascio. Considera sbagliato prendersela genericamente con l’Unione, con Bruxelles e con le istituzioni Ue. A sgualcire il sogno europeo “spesso è l’egoismo degli Stati”, puntualizza il presidente della Repubblica. La vera zavorra è rappresentata “dal freno posto da alcuni Paesi” che impediscono i passi avanti, e poi cinicamente danno la colpa dei ritardi all’Europa. Anche qui: il presidente non cita Orbàn né, tantomeno, gli altri amici dei sovranisti. Ma nell’ascoltarlo, vengono subito in mente. Conte ferma il Decreto sicurezza. M5S all’attacco: Salvini pugile suonato di Ilario Lombardo La Stampa, 18 maggio 2019 Il capo dell’esecutivo gioca di sponda con i grillini per evitare il Cdm prima del voto: il testo così com’è è incostituzionale. Ma la Ragioneria dello Stato boccia Di Maio sulla famiglia: le risorse previste finora non sono certe bensì solo “eventuali”. Alle otto di ieri sera dal Viminale confermano che sono stati risolti tutti i nodi tecnici sul Decreto sicurezza bis. “Il testo - si dice - dovrà essere all’ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri”. Non “sarà” ma “dovrà”. Una terminologia che gronda preoccupazione, perché a Palazzo Chigi si sta alzando una muraglia per boicottare la norma voluta da Matteo Salvini all’ultima curva della campagna elettorale. Il canovaccio sui migranti è il pezzo forte della sua narrazione, ma questa volta potrebbe incagliarsi nella resistenza a oltranza non solo del M5S ma anche di Giuseppe Conte. È il premier, dopotutto, a mettere in dubbio che il Cdm si terrà davvero lunedì come previsto: “Non è stato ancora fissato e vedremo quali sono le priorità”. Per la Lega è un affronto. “Non risulta alcun rinvio. Tutti i nostri ministri sono stati allertati per lunedì da giorni nella data che sia Di Maio sia Salvini hanno dato come disponibile”. Resta il fatto che non c’è una convocazione ufficiale con un orario preciso. In realtà, da quanto si apprende, il Cdm dovrebbe tenersi ma solo come appuntamento interlocutorio, senza approvazioni significative. Conte gioca di sponda con i grillini per evitare di accogliere al tavolo dei ministri un testo essenziale per Salvini, a cinque giorni dalle elezioni. Le criticità emerse nel pre-consiglio di giovedì confermano le prime impressioni avute da Conte sui “profili di incostituzionalità” del testo per come è stato presentato. Dai tecnici di Chigi, del ministero del Lavoro e delle Infrastrutture il decreto è definito “sconclusionato”. Molti dubbi su almeno due passaggi li nutrono anche al Colle. Per stroncare il lavoro delle Ong Salvini prevedrebbe sanzioni a chi porta aiuti in mare e contemplerebbe uno svuotamento delle funzioni del ministero dei Trasporti. Una “forzatura” per concentrare nelle mani dell’Interno il controllo sulla navigazione che non piace a Conte. Il caso della nave Sea Watch piomba con un tempismo perfetto, mentre i duellanti di governo se le danno di santa ragione. L’imbarcazione è il terreno dello scontro, tenuto fino a oggi sotterraneo, tra il premier e il leader della Lega. Conte ha fatto sapere di volersi tenere il più possibile lontano dalla mischia elettorale. Ma è Salvini a tirarlo dentro. Il capo del governo però non replica e si limita a invitare “tutti i ministro a mantenere toni adatti a chi rappresenta le istituzioni”. E aggiunge: “Io, secondo Costituzione, coordino l’attività dei ministri. Di tutti i ministri, nessuno escluso”. La difesa è tutta del M5S: “L’attacco di Salvini al presidente Conte sul tema dei migranti è l’ennesimo maldestro tentativo di spostare l’attenzione dalle continue notizie di rappresentanti della Lega coinvolti in casi di corruzione” fanno sapere fonti grilline di governo. Ma le stesse fonti fanno un passo in più e sintetizzano così il ragionamento dei vertici 5 Stelle: “Salvini è un pugile suonato dopo che gli ultimi sondaggi hanno registrato un pesante calo. Un classico: quando un politico si crede onnipotente inizia la sua discesa”. Ma il bollettino della rissa quotidiana registra anche un colpo assestato dalla Lega. Quando il ministro della Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, definisce “incerta” (rispetto ai suoi emendamenti), la strada del decreto confezionato da Di Maio per dare aiuti ai nuclei familiari, sa già che è arrivata una bocciatura dalla Ragioneria dello Stato al testo promosso dal grillino. Vengono definite “eventuali” le risorse destinate e ottenute, secondo i calcoli di Di Maio, dai risparmi sul Reddito di cittadinanza. Il capo politico M5S, in cerca di nuove misure da mettere in vetrina al posto del sussidio, reagisce con fastidio alle indicazioni del Ragioniere: “Non esistono problemi di copertura” ribatte. In sintesi: i controlli trimestrali sul Reddito permetteranno di accertare quali sono le somme cumulate in un fondo ad hoc; l’Inps ha già accertato i risparmi e sempre l’ente pubblico si occuperà di attivare i fondo ed erogare le somme per le famiglie “prima del 2020”. Erogazione che, messa così, agli occhi del Tesoro, resta al momento virtuale. Giustizia, la resa dei conti. “Riforma o ci sarà la crisi” di Simone Canettieri Il Messaggero, 18 maggio 2019 Rompere l’alleanza sul tema delle garanzie faciliterebbe la ricomposizione del centrodestra. La distanza rimane siderale tra Lega e M5S. E non solo perché adesso, con gli arresti e le inchieste che incalzano le cronache, il tema della giustizia è diventato centrale nella campagna elettorale del governo. La riforma del processo penale e civile rischia di essere il primo vero incidente per i gialloverdi subito dopo le Europee. Un casus belli che potrebbe portare l’esecutivo dritto dritto al tunnel della crisi. Nessuno evoca questo scenario apertamente, ma quando ci sarà da mettere le mani ai codici per evitare che dal r gennaio lo stop alla prescrizione diventi una “bomba atomica sui processi” (copyright Giulia Bongiorno) allora le frizioni e “i non detti” di queste ultime settimane diventeranno plastici. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dice che la riforma è pronta, con il via libera delle associazioni magistrati e avvocati, e che sarebbero state recepite anche le osservazioni del Carroccio. “Mancano i passaggi finali - dicono da via Arenula - peccato che i nostri alleati abbiano disertato gli ultimi due appuntamenti per chiudere la pratica”. Dalla Lega danno un’altra versione: Giulia Bongiorno, ministro della Pa ma responsabile Giustizia del partito di Salvini, non ha mai visionato alcuna bozza, dunque non ha mai recepito alcun testo. Ergo: non c’è stato ancora un confronto “nel merito”. Rimane tra i due partner di governo un approccio culturale agli antipodi che potrebbe spingere il Carroccio alla rottura su un tema identitario (idem per il M5S) ritornando così con il centrodestra. Bongiorno ripete da settimane: io voglio essere costruttiva e aperta al confronto, lasciando però inalterati i miei e i nostri principi. Dunque da parte del ministro non è in atto alcuna controriforma del processo penale, però Bongiorno non derogherà ai principi della Lega: garanzia degli imputati, tempi certi, nessuno strapotere ai pm e separazione delle carriere (argomento però che non si trova nel contratto di governo). Si intravede così uno scontro pronto a esplodere già dalla settimana dopo il voto per le Europee. Dice infatti Bonafede: “La riforma l’ho già scritta. Un pacchetto, quindi, già esiste: certo è che non si tratterà più di una giustizia a favore o contro qualcuno. Ora di giustizia si discute, ma a favore dei cittadini”. Ma mai come in questa fase la sfiducia tra i partner è alle stelle. Anzi dal M5S spiegano: “Vogliono bloccare il nuovo processo penale? Facciano pure, poi così si faranno esplodere in mano la famosa bomba atomica, perché dal 1° gennaio 2020 lo stop alla prescrizione entrerà comunque in vigore”. La Lega ha le idee talmente chiare che è pronta a mettere sul tavolo le idee che Giulia Bongiorno si porta da dietro da una vita di attività professionale. Ci sarà un punto di mediazione? “Chi lo sa”, chiosano appunto dal Carroccio. Il clima è impazzito, soprattutto dopo gli arresti della città-simbolo di Legnano. Di Maio getta nell’aria il ritorno di una nuova Tangentopoli, Salvini lo stoppa così: “Fortunatamente i tempi di tangentopoli sono passati” e che non esiste la “presunzione di colpevolezza”. Pesano le inchieste giudiziarie, a partire da quella che si è abbattuta sul Pirellone, ma anche lo strappo sul caso di Armando Siri. Nemmeno il tempo di far metabolizzare la revoca del sottosegretario leghista, che i grillini sono pronti ad andare all’assalto di Edoardo Rixi. Il 30 maggio è attesa la sentenza del processo sulle cosiddette spese pazze dei consiglieri regionali liguri, in cui anche il viceministro è imputato (il procuratore aggiunto Francesco Pinto ha chiesto una condanna 3 anni e 4 mesi). Per Luigi Di Maio dovrà lasciare in caso di condanna. “Se pensano che dopo le elezioni cambierà qualcosa e che con la minaccia di far cadere il governo il M5S accetterà di tenersi un condannato nell’esecutivo, continuano a non capire il valore dell’anti-corruzione per il Movimento”, sottolineano i pentastellati in reazione alle parole del capogruppo della Lega Riccardo Molinari secondo cui “quando manca la fiducia e se Di Maio è convinto che la Lega sia un partito di corrotti, andare avanti diventa molto complicato”. Chi non ci sta è Rixi. Che parla “di Vietnam quotidiano” e accusa gli alleati di rincorrere “a strumenti che forse sono più vicini regimi totalitari”. Parole che non lasciano presagire un’intesa. Alla fine il governo può saltare sulla giustizia di Fausto Carioti Libero, 18 maggio 2019 Il M5S tentato di utilizzare le inchieste per scatenare la crisi. Il Carroccio: se ci trattano da corrotti crolla tutto. Giuseppe Conte si prepara ad aprire i porti alla nave della ong tedesca Sea Watch, che ha imbarcato 65 immigrati in acque libiche, e Matteo Salvini interviene per bloccarlo: “Non c’è presidente del Consiglio o ministro dei Cinque Stelle che tenga, in Italia i trafficanti di esseri umani non arrivano più”. Succede anche questo, a nove giorni dalle Europee. Va da sé che l’idea di Conte non è farina del suo sacco: dietro c’è Luigi Di Maio, la cui linea ormai prevede l’opposizione a qualunque cosa dica o faccia il ministro dell’Interno, e che da un’umiliazione di Salvini sul terna dell’immigrazione avrebbe tutto da guadagnare. I sondaggi che girano tra i grillini, peraltro, rafforzano la loro convinzione che sfidare la Lega consenta di recuperare qualche punto. Va in scena così l’ennesima giornata scandita da insulti e minacce. A Salvini replica infatti Di Maio, scagliandogli contro l’ingiuria più grave: essere tale e quale all’altro Matteo, quello del Pd. “Non posso commentare la prepotenza e l’arroganza di questo tipo, che ricorda Renzi quando gli chiedevano di far dimettere la Boschi”, dice il ministro del Lavoro. “Di uomini soli al comando ne abbiamo già avuti”, incalza, “e non ne sentiamo la mancanza”. La questione che rischia di fare esplodere tutto in realtà è un’altra, e Di Maio ci arriva subito dopo: “Questa prepotenza, soprattutto sull’immigrazione, aumenta quando la Lega è in difficoltà con gli scandali di corruzione”. Nella narrazione dei Cinque Stelle, gli alleati sono infetti al pari dei peggiori partiti della prima repubblica. Il non detto è la fantomatica inchiesta giudiziaria di cui tra gli addetti ai lavori si vocifera da giorni, pronta a schiantarsi su uno o più esponenti apicali della Lega. Il leader grillino allude ogni volta che può. L’altro giorno aveva detto che “il governo va in crisi solo sulla corruzione”. Sul Fatto di ieri, nuòvo messaggio cifrato: “Se alcune inchieste territoriali”, come quella sulla giunta di Legnano in cui è spuntata un’intercettazione riguardante Salvini, “dovessero arrivare più in alto, ci sarebbero dei problemi”. Perfetto per rafforzare i sospetti dei leghisti, convinti che tra il M5S e certe procure esista un canale diretto. È un’idea che inizia a prendere corpo trai pentastellati, quella di far saltare l’esecutivo sulla questione giustizia. I vantaggi non mancherebbero: il reddito di cittadinanza è stato varato, così come la cancellazione della prescrizione, mentre Salvini non avrebbe la “tassa piatta”, l’autonomia delle regioni del Nord, la riforma del processo e le altre cose che gli sono state promesse. A Di Maio e i suoi basterebbe rivedere il limite dei due mandati (nel movimento già se ne sta discutendo) e ricostruire i rapporti col Partito democratico sull’asse giustizialismo-spesa pubblica, per provare a rimediare un altro giro. Nulla più di una tentazione, al momento. Dipenderà da cosa accadrà sul fronte giudiziario e dal risultato delle Europee: se quest’ultimo non sarà troppo brutto per il M5S, la crisi di governo diventerebbe un rischio accettabile. Magari usando come detonatore la vicenda di Edoardo Rixi, viceministro leghista alle Infrastrutture, che a fine mese saprà se verrà condannato nel processo di primo grado sulle “spese pazze” dei consiglieri liguri, dopo che la procura ha chiesto per lui una condanna a tre anni e quattro mesi. I grillini già dicono che in quel caso dovrà mollare la poltrona, e sarebbe il secondo salviniano dopo Armando Siri. Quanto può durare un’alleanza in cui uno dei due soci confida che l’altro venga crivellato dalle inchieste? Risponde il capogruppo del Carroccio a Montecitorio, Riccardo Molinari: “Un conto è il teatrino della campagna elettorale, un conto è quando si fa una differenza antropologica tra onesti e disonesti e si mettono i propri alleati dall’altra parte del mondo. Quando manca la fiducia e se Di Maio è convinto che la Lega sia un partito di corrotti, andare avanti diventa molto complicato”. Lo stesso Salvini ha smesso di fingersi ottimista: il governo, dice, “va avanti dopo le elezioni europee se c’è chi mantiene la parola data. Dai Cinque Stelle vedo troppi no”. Effetto Salvini, ora la polizia è divisa: “Un po’ di sobrietà non guasterebbe” di Francesco Grignetti La Stampa, 18 maggio 2019 Dopo il caso striscioni, al Viminale c’è chi teme di ritrovarsi con un corpo etichettato come “polizia personale del ministro dell’Interno”. Striscioni sequestrati, felpe indossate ai comizi, selfie pro e contro, i voli, e ora pure i video degli studenti nelle scuole. Ogni giorno, una polemica. Non è facile essere polizia ai tempi di Matteo Salvini. La fortissima impronta politica che il leader leghista ha impresso alla sua guida del Viminale è la grande novità di questo 2019. Solo che il gioco della sovrapposizione tra i due ruoli sta creando un fenomeno tra i più sgraditi tra chi veste la divisa blu: trovarsi al centro dell’arena politica e non al di sopra. È questo il senso di quel durissimo botta e risposta, via tweet, tra Roberto Saviano e il prefetto Franco Gabrielli, quando il Capo della polizia ribadì: “La polizia di Stato serve il Paese e non è piegata ad alcun interesse di parte”. Già, ma lo scivolamento progressivo verso il cuore della fornace è nei fatti. Si prenda il caso degli striscioni sequestrati prima dei comizi di Salvini. “Ai tempi di Cossiga - racconta Giuseppe Tiani, segretario del sindacato Siap - lavoravo in una Digos. Era il tempo in cui dappertutto si scriveva Cossiga con la K. Noi intervenivamo sempre”. Gli fa eco Enzo Letizia, dell’associazione funzionari di polizia: “Tutti strumentalizzano perché tutti vorrebbero che all’avversario politico si facesse quel che non tollerano per essi”. E infatti sono stati sempre sequestrati gli striscioni contro Berlusconi o contro Prodi, per non parlare di come è stata contrastata l’animosità contro Renzi o contro Maria Elena Boschi. Spiegazione ufficiale: “Uno striscione provocatorio è ovvio che venga esaminato: può nascondere un’insidia, o potrebbe scatenare la reazione dei fan di quel partito, o comunque essere una perturbazione delle libertà costituzionali. Guai a permettere ai facinorosi, di destra come di sinistra, d’impedire il regolare svolgimento dei comizi”. Non sfugge a nessuno, però, che Salvini ci abbia messo del suo. E i sindacalisti lo invitano alla cautela. Dice Tiani, con sottile ironia: “Il ministro dovrebbe considerare l’enorme visibilità di cui gode, gli effetti indesiderati, e un po’ di sobrietà non guasterebbe. Anche perché ci sono menti meno illuminate della sua...”. Neanche a farlo apposta, ieri un candidato della Lega alle elezioni comunali di Spinea (Venezia) ha scatenato altre polemiche perché ha usato sue foto in divisa da Vigile del Fuoco per i manifesti. Piccoli Salvini crescono. Al Viminale insomma temono di ritrovarsi con una polizia di Stato etichettata come “polizia personale salviniana” che neanche ai tempi di Scelba. Il rischio è la delegittimazione. Anche perché qualcuno sbanda pericolosamente. Si prenda quel segretario regionale del sindacato autonomo Sap, che ha dichiarato: “Il connubio tra Lega e polizia di Stato è divenuto indissolubile”. Dalla sponda opposta, ha subito reagito Daniele Tissone, il segretario del sindacato affiliato alla Cgil, il Silp: “Dichiarazioni gravissime. La nostra credibilità, talvolta anche a torto, è legata a comportamenti che non sono quelli della stragrande maggioranza di noi, correndo cosi il rischio di farci ripiombare nel clima tipo quello del post-G8”. Ancora più duro è stato Tiani, criticando la “deriva culturale di esponenti del mondo sindacale e politico che portano in sé i prodromi di un neo-autoritarismo delle forze di polizia, una sottocultura che va arginata e respinta”. Anche il segretario generale del Sap, Stefano Paoloni, si rende conto che quella frase era infelice. Perciò dice: “La politica nazionale del sindacato è dettata dal sottoscritto e l’autonomia non si discute”. Detto questo, sono innegabili certe vicinanze. “Ma non solo con la Lega - dice ancora Paoloni - e praticamente tutte le richieste del nostro sindacato sono state recepite nel Contratto di governo. Stiamo uscendo dal periodo del pregiudizio ideologico contro di noi”. D’altra parte il legame con Salvini viene da lontano. “Gli ho regalato io la prima felpa della polizia, quando venne a una nostra manifestazione in piazza Montecitorio”. Era l’ottobre del 2016. Avvocato in Costituzione. Bonafede: “una scelta fondamentale” di Simona Musco Il Dubbio, 18 maggio 2019 Il ministro della Giustizia Bonafede spinge sulla riforma. Ok, in pre-Consiglio, per il progetto di legge sul patrocinio a spese dello Stato, che verrà discusso nella prossima seduta. L’avvocato in Costituzione è una svolta “fondamentale” per sancire l’importanza del suo ruolo come “pilastro per il diritto alla difesa e per la tutela di tutti gli altri diritti dei cittadini”. Un risultato che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha presentato con orgoglio ieri, a via Arenula, assieme al presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin, nel corso della prima seduta giurisdizionale dei nuovi membri del Cnf. “Si tratta di un articolo scritto insieme al Consiglio nazionale forense - ha sottolineato il ministro ed è davvero emozionante che l’avvocato possa entrare in Costituzione, com’è giusto che sia. Il ministro della Giustizia è l’unico citato dalla Carta, è citata anche la magistratura e per chiudere il cerchio è giusto che sia citato anche l’avvocato”. Ma il Guardasigilli ha anche annunciato l’approvazione, nel pre-Consiglio di ieri, dell’altro progetto frutto della collaborazione con il Cnf, ovvero quello relativo al patrocinio a spese dello Stato, che verrà discusso alla prossima seduta utile. L’aria che si respira, dunque, è di forte collaborazione, nonostante le divergenze. “Ci sono cose che condividiamo - ha evidenziato Mascherin - e altre che non condividiamo, ma il cuore del rapporto deve essere basato sulla lealtà e sull’offrire un’alternativa valida quando non siamo d’accordo su qualcosa”. I temi sono tantissimi e parte di questi verranno affrontati il 29 maggio nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf, alla presenza, anche in quel caso, del ministro. La “lista della spesa” presenta punti ritenuti “fondamentali” dal Cnf, tra i quali, oltre l’avvocato in Costituzione, proprio la rivisitazione della normativa sul patrocinio a spese dello Stato, con una nuova “versione” “che vada a compensare il lavoro di chi fa seriamente il patrocinatore, per dar vita ad una normativa che gratifichi chi si impegna professionalmente - ha evidenziato Mascherin - e risolva problemi come tempi, modalità e liquidazioni da parte dei giudici”. Ma tra i temi ci sono anche un monitoraggio sull’equo compenso, disegno di legge che Bonafede appoggiò dai banchi dell’opposizione, e il perfezionamento delle specializzazioni. “Per quanto riguarda il tavolo di riforma per i processi civile e penale - ha aggiunto Mascherin - siamo contenti che sia stato dato un ascolto forte a quelle che erano le criticità sollevate. Altre cose, come la prescrizione, che io definisco eterna e alcuni passaggi del decreto spazza corrotti, non le condividiamo e il ministro lo sa, ma speriamo di continuare a discuterne, affinché, sperimentati questi istituti, si possa poi anche rivederli”. Bonafede ha ribadito l’importanza del rapporto con il Cnf, “fondamentale per la mia attività - ha sottolineato - e sono contento di poter proseguire questo dialogo tramite il presidente Mascherin, un punto di riferimento costante per me in questi mesi”. Un momento fondamentale è stato, appunto, il tavolo per la riforma del processo, perché “abbiamo creato un metodo nuovo, in cui il ministro, prima di parlare con le parti politiche, si è voluto confrontare con gli addetti ai lavori, per cercare una linea comune”. E su alcuni temi, sono state proprio le obiezioni sollevate a quel tavolo a consentire di limare il progetto iniziale che prevedeva un avvicinamento del nuovo processo civile a quello del lavoro - evidenziando l’importanza di avere le memorie istruttorie dopo la prima udienza. “Ci sono tanti progetti su cui continueremo a lavorare - ha concluso Bonafede - e da parte mia ribadisco totale lealtà e grande senso di gratitudine ogni volta che da quel dialogo ho la possibilità di migliorare il mio lavoro. Sono avvocato, seppur sospeso, ma quando uno è avvocato lo è per sempre”. Avvocato in Costituzione, il sì delle toghe riflette la scelta di Calamandrei sul Csm di Alessandro Parotta* Il Dubbio, 18 maggio 2019 A distanza di pochi mesi dalla stesura della prima bozza di proposta, l’iniziativa del Cnf di inserire la figura dell’avvocato nella Carta costituzionale prende vigore, con la presentazione del testo al Senato, l’impegno alla sua approvazione rinnovato dal guardasigilli Alfonso Bonafede e un’ulteriore autorevolissima approvazione come quella del primo presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Non è un caso che sia anche un magistrato della sua levatura a unirsi all’iniziativa del Consiglio nazionale forense per mettere in evidenza l’esigenza di modificare la Costituzione, introducendovi la figura dell’avvocato. Come brillantemente illustra il presidente Canzio, la necessità di una riforma in tal senso è ricollegabile al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della difesa, tassello irrinunciabile della professione forense. A chi gli eccepisce che la figura dell’avvocato è contemplata nell’articolo 24 della Carta, il magistrato risponde - mediante l’uso del linguaggio a cui è più abituato, quello delle aule di giustizia - che non vi sono elementi espliciti ma solo indizi impliciti, che non legittimano, a livello Costituzionale, in alcun modo la professione dell’avvocato in relazione alla sua figura di Difensore e parte imprescindibile del processo. Le parole di Canzio sono condivisibili e trovano la sua ragione nel meccanismo di inserire in coda al secondo comma dell’articolo 111 il richiamo alla imprescindibilità dell’avvocato per garantire la tutela giurisdizionale e alla necessaria condizione di libertà e indipendenza in cui il difensore deve poter esercitare la sua attività. Poche righe, ma che portano con sé il peso specifico del profilo dell’avvocato, figura divisa tra il dovere di osservare la Legge e quello di difendere - da qualsiasi accusa - l’Assistito. Proprio per questo è sinonimo di libertà. Non v’è chi non veda come il contenuto chiaro e sintetico sopra riportato garantirebbe all’avvocato di poter essere costituzionalmente tutelato: profilo non di poco conto. Con una riforma in tal senso, ne trarrebbero beneficio non solo gli avvocati ma anche tutte le altre parti del processo se non lo stesso sistema giudiziario, che, in tal modo, sarebbe governato da condizioni di effettiva parità e indipendenza tra le parti, le quali - è bene ricordarlo - seppur con funzioni e attribuzioni diverse, esercitano ciascuno un proprio fondamentale ed imprescindibile ruolo, quali attori del procedimento giudiziario. Dalle parole di Canzio emerge anche il ricordo per il quale fu proprio l’avvocato Calamandrei, in seno all’assemblea costituente, a volere inserire i principi in ordine all’autonomia e all’indipendenza della Magistratura. In un discorso del 22 maggio 1946, proprio l’avvocato Calamandrei, infatti, ribadiva che “il principio della indipendenza del potere giudiziario deve essere praticamente attuato mediante l’autonomia amministrativa della magistratura. Se il potere giudiziario deve essere veramente indipendente, com’è il potere legislativo, bisogna che i componenti dei suoi organi, al pari di quelli che compongono gli organi legislativi, non dipendano come impiegati del potere esecutivo”. Risulta, dunque, particolare e dovrebbe far riflettere la circostanza per la quale siano stati proprio un - autorevole - avvocato prima ed ora un illustre Magistrato a voler costituzionalizzare e tutelare le proprie controparti del processo: chi meglio di loro può capire la fondamentale importanza di poter contare su organi della medesima giustizia liberi, autonomi ed indipendenti? Non a caso a Torino lunedì prossimo si terrà un dibattito sul tema dell’”avvocato nella Costituzione” che vedrà interventi dei vertici della magistratura torinese, dei rappresentanti dell’Ordine forense e del vicepresidente del Csm David Ermini. Sembra un altro segno del rafforzarsi di un reciproco riconoscimento che può solo assicurare ulteriore forza, autonomia e autorevolezza non alla singola parte ma all’intero ordine giudiziario. *Direttore Ispeg - Istituto Studi Politici Economici e Giuridici Tortora, la lezione europea di Francesca Scopelliti* La Repubblica, 18 maggio 2019 Nonostante le false accuse non abbandonò mai le battaglie di legalità e giustizia. Anche grazie a Radio Radicale. Oggi ricorre il 31° anniversario della morte di Enzo Tortora. E sette giorni dopo, domenica 26, si vota per eleggere il nuovo Parlamento europeo: due occasioni che si intrecciano nel passato e nel presente. Nella memoria di Enzo come candidato con i radicali di Marco Pannella (il quale ci ha lasciato il 19 maggio di tre anni fa) proprio per le Europee de11984: una campagna elettorale eccezionale, nella forma e nella sostanza. Il “candidato-imputato”, il “candidato fantasma”, ristretto agli arresti domiciliari che, grazie a Radio Radicale poteva rivolgersi agli italiani per “dare il senso” di quella candidatura. Una scelta “politica” che era già nei suoi pensieri. In una lettera dal carcere scriveva: “Ora, il mio compito è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza, ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che “onorano”, per paradosso, il fascismo, vengano a cessare”. A Strasburgo, Enzo non si sarebbe occupato dell’installazione dei missili o del prezzo dei fagiolini sul mercato europeo, o peggio della targa da applicare sul fondoschiena dei cani, ma esclusivamente della riforma dei codici, del buon funzionamento della giustizia e della sacrosanta tutela dei diritti dei cittadini, “sia di quelli che stanno dentro, sia di quelli che stanno fuori”. In quegli stessi giorni, con una tempestività sospetta e con l’intento di demonizzare quel “camorrista” con velleità parlamentari, veniva depositata la richiesta di rinvio a giudizio per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Ma non funzionò: il Partito Radicale raggiunse il 3,5% di voti e Tortora 450mila preferenze. A chi gli chiedeva se era più felice per la libertà riacquistata o per la conferma dell’affetto della gente, lui rispondeva: “Sono felice perché comincia una nuova vita, con l’impegno di una battaglia in cui credo”. Enzo Tortora fu un apprezzato e stimato parlamentare europeo: fece conoscere la giustizia italiana e si batté per una giustizia europea, raccontò le carceri italiane e si impegnò per carceri europee. Dopo la condanna a 10 anni, si dimise. Ritornò agli arresti domiciliari, affrontò il processo d’appello e fu assolto senza mai abbandonare la sua “predicazione” di legalità e di diritto. Ma il tempo è tiranno e il 18 maggio del 1988 Enzo se n’è andato, lasciandoci un esempio. Una speranza. Questo il ricordo, doloroso ma esemplare, crudele ma illustre. E il presente? Oggi manca la passione di un “credo” forte che faccia dell’emiciclo di Strasburgo la cattedrale degli ideali democratici, della libertà, della legalità e della giustizia giusta. Ho sentito dire ad un candidato che l’Europa “è una entità astratta”, dove Spinelli, De Gasperi, Schuman e gli altri sembrano essere stati dei simpatici visionari. Resta però il valore di un “megafono” che non ha cambiato registro e anche in assenza delle voci più autorevoli continua a mantenere viva quell’eredità, quel suo patrimonio culturale, politico e sociale. Sì, questa eccezionale campagna elettorale ha una grande “complice”: Radio Radicale, che permise ad un innocente in carcere di comunicare con il mondo e raccontare la verità di una brutta storia di malagiustizia. Una storia che i giovani devono conoscere. Una radio che i giovani devono difendere da chi vuole spegnerla, proprio per tenere accesa la libertà del loro futuro. *Francesca Scopelliti, che fu compagna di Enzo Tortora, è presidente della “Fondazione per la giustizia Enzo Tortora” Toscana: carceri, Rossi scrive al ministro della Giustizia “fermiamo le morti per gas” di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 18 maggio 2019 La Regione disposta a collaborare alle spese per sostituire i fornelli con piastre elettriche. Giovedì a Sollicciano la morte di un detenuto di 24 anni. La Regione Toscana è disponibile a contribuire alle spese per sostituire i fornelli a gas in dotazione ai detenuti delle carceri con piastre elettriche. Ad annunciarlo è il presidente Enrico Rossi che ha scritto una lettera aperta al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dopo la morte del giovane di 24 anni deceduto nel carcere di Sollicciano per aver inalato del gas, usato come sostanza stupefacente, dalla bomboletta da campeggio del suo fornello. “È solo l’ultimo episodio, con esito tragico, di un uso distorto di questo gas che, a Sollicciano come in altre carceri, diventa strumento per togliersi la vita o surrogato di sostanza stupefacente - ha scritto Rossi - In quest’ultimo caso, l’inalazione del gas conduce spesso ad una forma di tossicodipendenza, per prevenire la quale lo Stato ha il dovere di prendere adeguate precauzioni. Da tempo il Garante dei diritti delle persone detenute nelle strutture penitenziarie della Toscana chiede la sostituzione di tali fornelli con piastre elettriche. Una proposta che faccio mia e che le sottopongo”. Già ieri, infatti, il Garante dei detenuti toscani Franco Corleone aveva lanciato l’allarme. I fornelli, infatti, spesso vengono usati anche dai tenenuti per togliersi la vita. “Tale sostituzione - si legge - già realizzata in altre carceri, implicherebbe anche adeguamenti delle strutture penitenziarie, attraverso la dotazione delle celle di prese di corrente. La Regione Toscana offre la propria disponibilità a contribuire alle spese necessarie per tali adeguamenti nell’edilizia penitenziaria presente nel territorio regionale. Sono convinto che si tratterebbe di una decisione di buon senso. Tutelerebbe la dignità e la salute delle persone ristrette e accrescerebbe il livello di civiltà del nostro Paese”. Nella lettera Rossi parla infine anche del sovraffollamento nelle carceri. “Resta eccessivo il numero di persone detenute per fatti di lieve entità legati a detenzione e spaccio di stupefacenti - ha scritto il governatore - sono convinto che per casi simili la detenzione in carcere non assolva al compito che la Costituzione le affida, ovvero la rieducazione del condannato, e aggravi la già pesante condizione di sovraffollamento in cui versano le strutture penitenziarie. Per questo, è opportuno procedere finalmente ad una seria modifica della legislazione in materia e prevedere il rafforzamento di misure e strumenti terapeutici per assicurare le cure ai soggetti affetti da tossicodipendenza”. Campania: l’assessore Fortini “risorse per le carceri, ma salvaguardare sistema welfare” di Marco Grasso irpinianews.it, 18 maggio 2019 “Se si immaginano risorse solo per determinate questioni, il sistema rischia di franare. Bisogna invece considerare il sistema di Welfare che vogliamo costruire ed è in questo contesto che va inserito il problema delle carceri”. Per l’assessore regionale alle Politiche Sociali Lucia Fortini, alla Casa Circondariale di Bellizzi per partecipare al convegno “La pena oltre le mura del carcere: le misure di comunità alla luce della riforma dell’ordinamento penitenziario”, organizzato dal Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale della Provincia di Avellino, la Provincia di Avellino, la Caritas e la Camera Penale Irpina, “le misure alternative alla detenzione presuppongono un sistema di prevenzione che funzioni da un lato ed una capacità di accoglienza dall’altro. Come Regione abbiamo finanziato, con quattro milioni di euro, dei programmi di formazione anche migliorare la coscienza del singolo individuo, in modo che colga l’opportunità di uscire da un carcere e non costituisca un fattore di rischio per la collettività”. “L’emergenza sovraffollamento ci spinge a guardare oltre le mura di un carcere”, precisa Carlo Mele, Garante provinciale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà e Direttore Caritas Diocesana di Avellino. “In carcere ci sono immigrati che non sanno dove andare. Oppure tanti, troppi ragazzi: in questo caso si deve pensare ad un maggiore utilizzo delle misure alternative”. A livello nazionale, a fronte di una capienza delle carcere di 51mila detenuti, ce ne sono quasi 10mila in più. “In più. come noto, il personale non è adeguato a gestire il numero di detenuti. Senza contare i servizi assolutamente inadeguati, come nel caso dell’istruzione e della salute”, precisa Mele. Il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria campana Giuseppe Martone, intervenuto in sostituzione di Francesco Basentini, Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, si sofferma sui tagli della Madia che quantifica in 700 unità. “È stato ignorato che in Italia sono stati costruiti altri cinque padiglioni all’interno di carceri già esistenti, questo ha evidentemente complicato ulteriormente il lavoro degli agenti”. “Non bisogna inoltre ignorare che l’età media del personale è ormai superiore ai 50 anni, con tutte le conseguenze del caso. Fortunatamente dovrebbe partire a breve un concorso per 2800 soprintendenti che dovrebbe contribuire a riequilibrare la nostra pianta organica anche in vista dell’assunzioni di altri agenti. Nel giro di un anno e mezzo - conclude - la situazione potrebbe complessivamente migliorare”. Sdegna: il dramma dei cuochi delle carceri “ci stanno licenziando, siamo disperati” di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 18 maggio 2019 Nuova emergenza lavorativa nell’Isola, il grido di dolore arriva dalle cucine dei penitenziari isolani: “Siamo stati sospesi e tra qualche giorno riceveremo le lettere di licenziamento. Abbiamo più di quarant’anni, come riusciremo a dar da mangiare ai nostri figli? Solinas, aiutaci”. C’è chi lavorava da dieci a Uta, chi da venti a Isili e chi da un quarto di secolo a Bancali, preparando pasti per tutto il personale carcerario. Poi, dopo mesi di stipendi non ricevuti, la doccia fredda: tutti a casa. Eccolo, l’ultimo dramma nel mondo del lavoro in Sardegna, stavolta tocca ai trenta cuochi delle carceri isolane. “A causa di gravi inadempienze contrattuali, denunciate dai lavoratori e anche da noi, la Marconi Group, a partire da oggi, non gestisce più l’appalto. Ci sono mesi di stipendi non pagati e, adesso, tutti i lavoratori e lavoratrici sono stati sospesi”, spiega Simone Congiu, sindacalista della Cgil. “Stiamo protestando da diversi mesi, vogliamo avere risposte da parte del provveditorato regionale che è la stazione appaltante. Non è ancora arrivata nessuna lettera di licenziamento, ma purtroppo l’unica notizia è che il servizio mensa è sospeso, alle guardie penitenziarie vengono erogati dei buoni pasti. L’azienda è stata sbattuta fuori ed è in via di fallimento. Tutti i lavoratori hanno tra i quaranta e i cinquant’anni, chiediamo aiuto a tutti e speriamo in un interessamento da parte del presidente regionale Christian Solinas”. E loro, i lavoratori, si raccontano: c’è chi ha 52 anni ed è pronto a partire lontano dalla Sardegna, allontanandosi dai suoi cari, chi ha il mutuo della casa da pagare e chi è sposato, ha figli e il suo è l’unico stipendio che entra - meglio, entrava - in casa. Firenze: 24enne empolese muore in cella, dolore e polemiche di Matteo Leoni Il Tirreno, 18 maggio 2019 La vittima ha inalato gas da un fornello e la pratica sarebbe molto in uso tra i detenuti per sballarsi. Il pm ha disposto l’autopsia. Un detenuto è morto inalando gas dal fornello della sua cella nel carcere di Sollicciano, sembra per cercare di sballarsi. È accaduto nella notte tra mercoledì e giovedì, in una sezione della casa circondariale dedicata ai tossicodipendenti. Si tratta di Fabrizio Laperotine, 24 anni, empolese di origine africana. Ben conosciuto dalle forze dell’ordine locali, si trovava dietro le sbarre per furto. Era stato condannato in primo grado, e aveva fatto ricorso in appello. Una morte assurda, causata da una pratica che purtroppo pare molto diffusa nelle carceri: inalare il gas dei fornelli sarebbe un’abitudine per i tossicodipendenti reclusi, come confermato anche dal garante regionale per i detenuti Franco Corleone. A dare allarme agli agenti di custodia è stato il compagno di cella, che a sua volta aveva inalato il gas ma senza accusare malori. Per il ventiquattrenne invece le cose sono andate diversamente. Si è accasciato a terra e per lui non c’è stato più nulla da fare. Il pm di turno Leopoldo De Gregorio ha disposto l’autopsia. Per annusare il gas i compagni di cella avevano atteso la chiusura delle porte blindate del reparto, un momento in cui ci sono meno controlli, ed è più facile agire indisturbati. A Empoli, dove la notizia della morte di Laperotine ha suscitato cordoglio e dolore, il 24enne ci era nato e cresciuto. Presto sono arrivati piccoli problemi con la giustizia (soprattutto furti di biciclette), che alla fine lo hanno portato fino a Sollicciano, in una delle due sezioni dedicate ai tossicodipendenti. Luoghi dove la sera si combatte l’astinenza cercando di sballarsi con quello che c’è a disposizione: il gas dei fornelli. Una vicenda che ha creato anche polemiche, su cui intervenuto il garante Corleone. La sua proposta è “dotare la struttura di piastre elettriche al posto dei fornelli. Una risposta alla popolazione carceraria composta per oltre il 50% da spacciatori e tossici”. Un secondo step Corleone lo individua nella riorganizzazione delle sezioni delle carceri. Mettere i tossicodipendenti tutti insieme, come avviene in tutti i penitenziari, non sarebbe una buona idea: “Nella cella dove è morto il detenuto tutti e due usavano gas per inebriarsi - precisa Corleone - e questo pone dei dubbi. Sarebbe più utile farle misurare con altre esperienze”. Roma: Piazza di Siena ripulita dai detenuti di Rebibbia in vista del Csio di Ida Di Grazia Il Messaggero, 18 maggio 2019 Piazza di Siena risplende grazie al lavoro dei detenuti di Rebibbia: “Per noi ogni giornata trascorsa in questo modo vuol dire metà pena. Stiamo imparando un mestiere” “Per noi ogni giornata trascorsa in questo modo vuol dire metà pena” sono queste le parole di uno dei neo giardinieri, detenuto del carcere di Rebibbia, la lavoro per far risplendere Piazza di Siena. Da un paio di settimane circa 70 detenuti si stanno dedicando alla cura del verde di Villa Borghese, nella zona deputata al concorso ippico. Mentre erano a lavoro, questa mattina, hanno ricevuto la visita di Marco Di Paola - presidente della Federazione Italiana Sport Equestri, uno dei deus ex machina del concorso di Piazza di Siena (23 al 26 maggio) - e dell’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi di Roma, Daniele Frongia, coordinatore delle iniziative portate avanti da Roma Capitale per il reinserimento dei detenuti. L’intervento su Piazza di Siena fa parte del progetto “Mi riscatto per Roma”, partito circa un anno fa e frutto di un accordo fra Roma Capitale, il Tribunale di Sorveglianza di Roma e il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Sono 70 in tutto i detenuti impiegati in lavori di manutenzione urbana e la selezione è fatta secondo criteri precisi, come spiega Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti del Comune di Roma: “Innanzitutto c’è la non pericolosità sociale, in sostanza i candidati non devono avere a loro carico reati gravissimi; devono essere a non più di 2-3 anni dal fine pena, devono avere una buona condotta ed essere idonei fisicamente”. “Per noi ogni giornata trascorsa in questo modo vuol dire metà pena - ha detto uno dei neo-giardinieri - Stiamo imparando un mestiere, con la speranza di trovare lavoro in una cooperativa quando saremo fuori”. “Questo progetto è anche uno stimolo - ha aggiunto un altro - perché si partecipa solo comportandosi bene in carcere”. Il loro lavoro si svolge tutti i giorni, sabato e domenica esclusi, e riguarda non solo i dintorni dell’ovale su cui si svolgerà il concorso ippico, ma anche l’area del Galoppatoio, che dall’anno scorso fa parte a pieno titolo del programma di gare, con iniziative collaterali. “Si tratta di un’occasione importante a sfondo sociale - ha detto Marco Di Paola, presidente FISE - e anche di un’opportunità per tenere Villa Borghese più pulita”. Il progetto detenuti è parte della sinergia che anima l’organizzazione di Piazza di Siena, tra Roma Capitale, l’Agenzia Sport e Salute e la Fise. Una formula di cui Di Paola è convinto sostenitore: “Mi sembra una miscela vincente, perché consente a noi di promuovere lo sport e al Comune di valorizzare la città e mettere in campo figure manageriali importanti. Procediamo così da tre anni e i benefici su Piazza di Siena si stanno vedendo”. Il lavoro svolto nell’ambito del progetto può portare a benefici concreti: permessi speciali, anticipo sul fine pena e abbattimento delle spese di carcerazione, quelle che l’ex detenuto deve in vario modo pagare allo Stato una volta scontata la pena. Tutti i detenuti coinvolti ricevono un corso di formazione e possono ottenere un “sussidio di accompagnamento” finanziato dalla Cassa delle Ammende, un ente del Ministero della Giustizia presieduto da Gherardo Colombo. Lo stanziamento per Roma, per il 2019, è di un milione, sui tre messi a disposizione per analoghe iniziative a livello nazionale. “Questo non è un progetto spot, ma una iniziativa strutturata. I detenuti - ha spiegato Daniele Frongia, assessore allo Sport e Grandi Eventi di Roma Capitale - sono impiegati in varie zone della città secondo una programmazione precisa. Così possono rendersi utili alla comunità e nello stesso tempo imparare un mestiere, il che potrebbe aiutarli in maniera decisiva una volta usciti dal carcere”. In qualità di coordinatore delle iniziative di Roma Capitale per il reinserimento dei detenuti, Frongia è impegnato da circa un anno nel progetto “Mi riscatto per Roma”, di cui fa parte l’intervento su Piazza di Siena e Villa Borghese, che segue a stretto giro quello operato in occasione di un altro grande evento sportivo romano, la Formula E. “Crediamo molto in questo progetto - ha spiegato Frongia - e chiederemo all’Amministrazione Penitenziaria di aumentare il numero dei detenuti impiegati (oggi sono settanta, ndr). Del resto, sono proprio loro i primi ad essere entusiasti del progetto. Mi hanno chiesto se è possibile operare anche in estate, per la manutenzione delle spiagge, e in effetti è una cosa alla quale stiamo pensando”. Roma Capitale paga la formazione dei detenuti, nonché i materiali e le divise. “Il tutto per uno stanziamento inferiore ai 10 mila euro”. Genova: detenuti per pulire la città, il Comune firma l’accordo genovatoday.it, 18 maggio 2019 Detenuti al lavoro sulle strade della città per aiutarla a restare pulita, e per avviare un percorso di reinserimento sociale: la giunta comunale ha approvato uno schema di Accordo Quadro che coinvolge una lunga serie di attori e che segue il progetto già avviato dalle amministrazioni locali e dagli istituti penitenziari di Milano, Napoli, Roma, Torino, Pescara e Palermo. All’accordo aderiscono, oltre al Comune, anche Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Liguria, Tribunale di Sorveglianza di Genova, Cassa delle Ammende e Autostrade per l’Italia. Si inserisce all’interno di un programma ministeriale che promuove l’avvio di progetti di recupero e inclusione sociale di detenuti degli istituti penitenziari della città, e a stabilire come impiegare le risorse sarà l’Unità Organizzativa Valorizzazione del Volontariato - Area Servizi alla Comunità: si tratterà principalmente di interventi mirati all’utilizzo delle persone nell’ambito di lavori straordinari di pulizia e restituzione del decoro di spazi pubblici e di azioni di prevenzione dei rischi idrogeologici e antincendio boschivo. “Questa iniziativa ha come obiettivo primario il recupero sociale dei detenuti, ma avrà anche importanti benefici per la nostra città - ha detto Sergio Gambino, consigliere delegato alla predisposizione piani per la valorizzazione ed implementazione delle sinergie tra strutture comunali, del volontariato ed enti esterni in materia di Protezione civile - Tutte le attività che potranno essere coordinate e portate avanti renderanno la nostra città più pulita e più sicura. Il primo passo sarà individuare gli interventi e renderli operativi con appositi protocolli”. Il Comune ha già specifica che il progetto, fondato sull’attività di “lavoro volontario e gratuito” per persone in stato di detenzione che possono usufruire dei benefici regolamentati dall’ordinamento penitenziario, non comporterà alcuna spesa a carico del bilancio dell’amministrazione. Sulmona (Aq): leggere Dante oltre le sbarre di Lilli Mandara lillimandara.it, 18 maggio 2019 Non è una parola qualsiasi, è un superlativo, un dono fatto senza corrispettivo: ha gli occhi umidi e la voce che si spezza Giuseppe Fanfani mentre racconta ai detenuti del supercarcere di Sulmona il significato del perdono, declinando tre storie diverse, di quelle che fanno capire quanto sia importante pentirsi e perdonare soprattutto quando ti appresti a chiudere una porta, che sia quella di un carcere o quella della vita, e in una di queste c’è lui con suo padre, sul letto di morte. Lo libera un applauso, forte e riconoscente, da quel groppo in gola che gli impedisce di continuare. È un pomeriggio magico, emozionante, delicato quello di ieri al supercarcere di Sulmona, 166 ergastolani su 380 detenuti: Giuseppe Fanfani, avvocato di grido, ex sindaco di Arezzo, ex componente laico del Csm, artista e ora appassionato interprete della Divina commedia che recita a braccio incantando le platee di mezza Italia, è qui per regalare due ore di poesia pura a un nutrito gruppo di studio di detenuti che tra l’altro sono membri della giuria popolare del premio Croce. Un’iniziativa che fa parte del programma della Fondazione Irti per la diffusione della cultura negli istituti penitenziari in accordo col Csm e portata avanti dall’ex vice presidente del Csm Giovanni Legnini. Fanfani è stato invitato per recitare Dante, tra poco leggerà il canto quinto del Purgatorio, un canto poco conosciuto, e dice subito che la sua vicinanza al mondo che vive dietro le sbarre lui la vuole trasmettere così, attraverso la poesia. È importante la poesia, lo è per la Fondazione Irti che ha promosso questo evento, lo è per tutti. Ed è importante la conoscenza in generale. Anche Dante lo diceva, “la conoscenza è un dovere”, non è un optional, e lo diceva Sant’Agostino: “Uno dei doveri della collettività è la conoscenza pubblica, di tutti”, solo così cresce una società. E quanto è attuale e politico questo inizio, lui lo sa e lo dice, “io posso parlare più liberamente, adesso”. D’altronde proprio Fanfani e Legnini furono i firmatari di una proposta per la modifica dell’ordinamento penitenziario e l’umanizzazione delle carceri. “Mi piace venire qui - ha esordito Legnini nel saluto iniziale - e parlare come abbiamo fatto in passato di letture, cultura e scrittura. E la dimostrazione dell’importanza della cultura ci viene proprio dalla storia, è la storia che ci racconta di tantissimi detenuti per ragioni politiche che hanno prodotto dal carcere libri, saggi, lettere che hanno rappresentato ponti con la società, per citare solo Pertini, Spaventa, Gramsci. Grazie alla cultura sarà possibile affrontare le prove più dure come la detenzione”. E si fa attentissima la platea quando Fanfani comincia a raccontare le storie dei “morti per forza” del quinto canto del Purgatorio, i morti ammazzati, e peccatori fino all’ultim’ora, che si pentono nel momento del trapasso conquistando così l’accesso al purgatorio. “Pentimento e perdono non possono essere disgiunti - spiega - Io stesso sono un grande peccatore, chi non lo è. Anzi, chi dice di esserne immune è il più pericoloso”. Che bella parola è il perdono, mica è una parola qualsiasi, è un superlativo, una condizione umana che non ha corrispettivo. “Perdonatemi”, disse il padre a lui, Giuseppe e agli altri figli poco prima di morire, in pace. “Bisognerebbe che se ne rendesse conto lo Stato, oggi più che mai, dell’importanza del perdono - e tutti quelli che invocano inasprimenti delle pene a scopi elettorali”. Perdonò Mandela, percorrendo il viale che lo allontanava dalla sua cella, “se non avessi lasciato l’amarezza e l’odio dietro di me, sarei ancora dietro le sbarre”, perdonò Renzo, il perdono ha due dimensioni, una individuale l’altra sociale, e serve a liberare l’animo e a darci serenità. C’è un altro messaggio, nel quinto canto, importante per questo momento, per l’epoca che viviamo: “Vien dietro a me e lascia dir le genti”, e cioè lasciamo che parlino, ignoriamo i chiacchiericci, spiega ancora Fanfani. E quando alla fine l’avvocato-poeta termina di declamare a braccio, con commozione e passione, il quinto canto del Purgatorio, non c’è solo l’applauso ma anche l’abbraccio, uno per uno, con i detenuti presenti in sala. Lo scambio di parole, di impressioni, con lui e con Legnini, che conosceva già personalmente molti di loro. Al direttore Sergio Romice tocca concludere l’evento, i ringraziamenti di rito, alla coordinatrice del gruppo, alla fondazione, ai protagonisti. La promessa di Fanfani, è il regalo più bello per i detenuti: “Io non costo niente, verrò ogni volta che mi chiamerete”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): studenti apprendono in carcere l’arte della panificazione Ristretti Orizzonti, 18 maggio 2019 Si è concluso il percorso di alternanza scuola-lavoro di “Arte Bianca”, un workshop sulle materie prime del territorio e sulla straordinaria arte dell’impasto e della panificazione svoltosi presso la Casa di Reclusione “Bartolo, Famiglietti e Forgetta” di Sant’Angelo dei Lombardi. Il carcere altirpino è di nuovo all’avanguardia nel percorrere nuove strade di inclusione e di trasparenza per un mondo, quello penitenziario, che troppo spesso appare chiuso e distante dalla società civile. Il laboratorio formativo è promosso dall’Istituto Alberghiero “Giuseppe De Gruttola” di Ariano Irpino, guidato dal Dirigente scolastico Pietro Petrosino, con la sezione staccata di Vallesaccarda. La scuola ufitana ha voluto far sperimentare ai propri studenti un diverso approccio all’alternanza scuola-lavoro. Gli studenti, infatti, si sono immersi in un’esperienza davvero particolare: portare il loro percorso formativo all’interno del carcere altirpino, dove tra l’altro è aperta una sezione dell’Istituto alberghiero “Vanvitelli” di Lioni, diretto dal prof. Centrella, soggetto attivo nella formazione professionalizzante dei detenuti che all’interno del carcere studiano le loro stesse materie e praticano le stesse esperienze formative. Insomma, un approccio di relazione che contribuisce ad abbattere muri e pregiudizi sulla realtà carceraria. La scelta della Casa di Reclusione santangiolese per un’esperienza assolutamente innovativa è stata dettata dalla considerazione che questo carcere è noto a livello internazionale per le sue best practices e per essere una struttura detentiva a vocazione agro alimentare. Qui, con la produzione di miele, vini, ecc.., si è scelto di prestare attenzione ai prodotti eno-gastronomici tipici del territorio, con l’impiego esclusivo dei ristretti che attraverso questo lavoro sperimentano una valida alternativa alla devianza. Il workshop ha visto la luce per l’impegno profuso della professoressa Francesca Archidiacono, supportata dai professori Antonio Branca, Connie Goglia e Gerardo Pergamo dell’Istituto alberghiero “ De Gruttola”, e dal prof. Pasqualino La Penna, affiancato dai docenti di laboratorio della sede carceraria dell’Istituto alberghiero “Vanvitelli”, proff. Palma Mascolo, Nunziata Loira, Vincenzo De Gisi e Pietro Vigorita. Dice la prof.ssa Archidiacono: “Il progetto “Arte bianca” ha portato per tre giorni, il 13, 14 e 17 maggio, gli alunni del “De Gruttola” a seguire direttamente presso il carcere altirpino il workshop sulle materie prime del territorio e sulla unicità dell’arte dell’impasto e della panificazione. Mestro panificatore d’eccezione è stato Carmine Mollo, dell’Accademia Arte Bianca di Avellino. Un sincero ringraziamento - prosegue Archidiacono - è dovuto al Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Campania, al Magistrato di Sorveglianza di Avellino ed alla Direzione della Casa di Reclusione santangiolese, nella persona della dott.ssa Giulia Magliulo e di tutto il suo staff di collaboratori, che da subito ha creduto nella bontà ed utilità del progetto, mettendo a disposizione gli spazi necessari e consentendo l’interazione tra l’interno e l’esterno, continuando sulla strada dell’apertura al territorio. “L’iniziativa, singolare nella sua peculiarità, ha offerto occasione a questo Istituto - commenta la Direttrice Magliulo - la possibilità di avere un maggiore contatto con le realtà esterne al carcere, in una prospettiva di apertura e cooperazione tra istituzione penitenziaria e comunità esterna”. Il progetto è stato reso possibile anche per la collaborazione degli esercizi commerciali della zona, in particolare il Conad Superstore di Lioni, che hanno fornito i prodotti tipici utilizzati dagli studenti per le loro creazioni durante il laboratorio formativo. San Gimignano (Si): pranzo “oltre le sbarre” con detenuti chef ilcittadinoonline.it, 18 maggio 2019 Mercoledì 22 maggio con i detenuti di Alta Sicurezza studenti della sede carceraria dell’Istituto “B. Ricasoli”. Chef per un giorno pronti ad accogliere gli ospiti con un pranzo “oltre le sbarre”. Mercoledì 22 maggio la Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, ospita la terza edizione di “Insieme con gusto”, iniziativa che vede protagonisti i detenuti del circuito di Alta Sicurezza che studiano nella sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale “Bettino Ricasoli” di Siena. I detenuti - corsisti delle classi III, IV e V C - prepareranno antipasti, primi e secondi piatti e dessert per circa 80 persone presenti su invito. L’iniziativa “Insieme con gusto” è stata avviata nel 2017 e ripetuta con crescente interesse e partecipazione sia da parte degli ospiti che dei detenuti studenti, pronti a cimentarsi ai fornelli e a mettere in campo la creatività in cucina che anima anche il loro blog “Scriviamo…con gusto, scriviamocongusto.wordpress.com, dove vengono raccolte ricette e riflessioni degli stessi studenti delle cinque classi dei regimi di Media e Alta Sicurezza. Grazie al blog e ad altri progetti didattici, gli studenti riescono a valorizzare le loro potenzialità e capacità con laboratori dedicati alla cucina e occasioni di confronto con il mondo esterno. Migranti. È scontro totale sulla Sea Watch. Salvini minaccia M5S di Andrea Colombo Il Manifesto, 18 maggio 2019 Il leghista: delinquenti, porti chiusi. I grillini ormai non possono cedere. Ma è guerra anche sul decreto sicurezza e sull’Italexit. Di Maio: “Di uomini soli al comando non ne sentiamo la mancanza. L’arroganza di Salvini ricorda quella di Renzi ma la vera emergenza è la corruzione, non l’immigrazione”. È campagna elettorale, certo, ma non è pensabile che non lasci ferite profonde la rissa da osteria nella quale è degenerata, molto più violenta tra i due alleati di quanto non sia mai stata tra maggioranza opposizione. Sul piano personale siamo agli insulti, sul piano politico a una divaricazione sull’intero campo. L’affondo più fragoroso di ieri viene da Salvini. Colpisce Di Maio ma ancora di più Conte. Dopo aver tenuto a freno l’ira per giorni, il leghista ieri è sbottato. A una quindicina di chilometri da Lampedusa c’è di nuovo la Sea Watch e stavolta gli alleati a cinque stelle sono meno disposti del solito a lasciare le redini nelle mani del ministro degli Interni. Ma l’immigrazione è il suo terreno, quello dove si sente più sicuro e dove può rispolverare l’arroganza proibita quando si gioca in casa 5S, cioè sul terreno della corruzione: “Nessun ministro e neanche il presidente del consiglio pensi di ordinarmi di far arrivare le navi con i migranti”. Chiusura drastica, dei porti e del dialogo: “Sono delinquenti, i nostri porti sono chiusi”. Dal Viminale segue a stretto giro l’indicazione di rotta: “Vadano in Tunisia”. Conte, diplomatico, evita la scontro diretto: “Possiamo contrastare la criminalità degli scafisti rispettando i diritti fondamentali. Non abbiamo mai consentito che morisse nessuno”. Di Maio, invece, risponde a muso duro: “Di uomini soli al comando ne abbiamo già avuti e non ne sentiamo la mancanza. L’arroganza di Salvini ricorda quella di Renzi ma la vera emergenza è la corruzione, non l’immigrazione”. A spostare lo scontro nel campo caro ai 5S, quello dove vanno sul velluto, il Salvini furioso non ci sta, e cala la carta sulla quale punta dal momento stesso della sconfitta sul caso Siri: il decreto Sicurezza bis: “Mi arrabbierei se per motivi elettorali qualcuno lunedì, al consiglio dei ministri, dicesse no al decreto”. Per i 5S far passare senza modifiche le nuove norme di Salvini, con l’odiosa multa su chi salva vite, vorrebbe dire perdere definitivamente ogni credibilità agli occhi dell’elettorato di sinistra. Ma in serata arriva un comunicato del Viminale, brutale e perentorio: “Il decreto dovrà essere all’ordine del giorno del prossimo cdm. È solido ragionevole e necessario”. Ma i pentastellati la partita se vogliono giocare tutta sul piano della corruzione. Un lunghissimo comunicato firmato dai capigruppo dei 5S D’Uva e Patuanelli chiede di fatto alla Lega di mettere alla porta chiunque sia indagato per corruzione: “È evidente che il moltiplicarsi delle inchieste ci pone di fronte a un’emergenza e i partiti hanno l’obbligo di dare l’esempio. Non abbiamo perso la fiducia nella Lega ma solo nei confronti di indagati e arrestati”. Cosa significa lo chiarisce poco dopo l’anonima ma ufficiale “fonte” dei 5S: “Non pensiamo che la Lega sia fatta tutta di corrotti ma che si tenga i corrotti sì”. Per il Carroccio l’invito è irricevibile. “Ma quale emergenza. Sono tre casi”, minimizza Salvini. Immigrazione e corruzione sono i fronti più fragorosi ma quello davvero significativo è un altro. È sui conti pubblici e sul rispetto delle regole europee che si registra la vera sterzata del Movimento. Ieri Salvini ha messo da parte le perifrasi: “Tornerei alle regole pre-Maastricht. Bruxelles ci porta alla piena disoccupazione”. Fino a poco tempo fa Di Maio non la pensava molto diversamente e proprio su questo terreno comune i due partiti si erano incontrati. Le cose sono cambiate. Di Maio oggi è il più deciso difensore della Ue, costi quel che costi. La replica a Salvini è categorica: “Le regole vanno cambiate ma non permetterò di portare l’Italia fuori dalla Ue”. L’Italexit è una boutade o poco più. Il cambio di passo dei 5S è invece clamoroso e repentino: meno di due settimane fa era Di Maio a sostenere lo sforamento del 3% di deficit. Non è escluso che la conversione abbia un preciso significato. I 5S sanno che il rischio di crisi è ormai fortissimo: in questo caso dovrebbero fare il possibile per evitare la corsa alle urne. Il riposizionamento sull’Europa è condizione ineludibile per cercare una via. Se il governo si sgretolerà nei prossimi mesi bisognerà prima di tutto scegliere chi porterà il Paese alle urne e, una volta trovata una formula, sarà quasi inevitabile tentare di adoperarla non per settimane ma per mesi, almeno sino alla primavera. Se dovesse accadere il peggio, l’improvviso amore per la già detestata Ue mette i 5S in condizione di poter dialogare con il Pd e forse persino con Fi per strappare quel provvidenziale rinvio. Lo stupro delle donne è (ancora oggi) un’arma di guerra. La denuncia delle Ong di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 18 maggio 2019 Dalla Bosnia alla Cecenia, dal Ruanda al Congo e più di recente in Iraq: la violenza sessuale è un dramma senza fine e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si lega le mani. Il 13 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione volta a combattere l’uso dello stupro come arma in guerra. Una buona notizia? Non proprio. Il documento è uscito ampiamente impoverito dopo i veti posti da Stati Uniti, Russia e Cina, che si sono uniti in una strana alleanza per “annacquare” i diritti delle vittime. A dirlo non sono soltanto le Ong - tra queste l’italiana Fondazione Pangea e Amnesty International - e le attiviste come Amal Clooney, ma gli stessi Paesi che si sono battuti per avere una risoluzione che desse più poteri, in primis la Germania, e la stessa Italia attraverso l’ambasciatore Stefano Stefanile, rappresentante permanente a New York, che sperava in un testo “più onnicomprensivo e inclusivo”. Dalla bozza su cui Berlino aveva lavorato duramente la strana alleanza ha imposto di eliminare l’istituzione di un nuovo e specifico organismo per monitorare e segnalare gli stupri. E su pressioni di Washington è stato tolto ogni riferimento alla “salute riproduttiva” che, per estensione, costituiva il sostegno all’interruzione di gravidanza per le vittime di violenze sessuali in guerra. Alla riunione hanno partecipato, oltre al ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas e al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, anche i premi Nobel per la Pace 2018 Nadia Murad e Denis Mukwege, che ci ricordano gli esempi più recenti dello stupro come arma di guerra. Nadia Murad è una delle 6.700 e più donne yazide fatte prigioniere in Iraq, torturate e violentate dagli uomini dell’Isis. Mutwege è un attivista e medico congolese, specializzato in ginecologia e ostetricia, che nel 1998 ha fondato il Panzi Hospital, dove cura le donne stuprate dai soldati congolesi. “Non c’è una guerra dove non ci siano stupri”, sostiene Simona Lanzoni, vicepresidente e capo dei progetti di Fondazione Pangea. “Ma è con la guerra della ex Jugoslavia negli anni Novanta e con la denuncia da parte di associazioni di donne che lo stupro emerge come arma di guerra, utilizzata in maniera massiccia e sistematica”. Nel febbraio del 2001 per la prima volta il reato di violenza sessuale contro le donne è considerato un crimine contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia. Una sentenza storica condanna tre miliziani serbo-bosniaci per lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale di donne. Le associazioni umanitarie calcolano che tra il 1992 e il 1995 tra le 20 e le 50mila vittime della guerra nella Bosnia-Erzegovina furono abusate dalle forze nazionaliste. Ma i casi che arriveranno all’Aja saranno una percentuale piccolissima rispetto al dramma. Le violenze sessuali arrivano poi in Kosovo dal 1996 al 1999 e dopo i Balcani proseguono con altri protagonisti - i soldati della Federazione russa - nella guerra in Cecenia dal 1999 al 2009, con testimonianze riportate da Human Rights Watch, che documenta anche gli stupri in Sierra Leone durante la guerra civile che termina nel 2002. In Africa lo stesso schema di stupri si ripete in Ruanda con il conflitto tra Hutu e Tutsi tra il 1990 e il 1993, in Congo tra il 1997 e il 2002. “Nei Balcani e in Africa sub-sahariana ci sono decine di migliaia di donne che attendono giustizia”, dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Nella Repubblica Democratica del Congo i conflitti e gli stupri iniziati negli anni Novanta proseguono ancora oggi. Lo stesso accade in Sud Sudan oggi e in passato a causa del genocidio del Ruanda che ha avuto un’incidenza altissima di stupri di guerra”. Non ha fatto eccezione la guerra in Iraq con le violenze sessuali perpetrate dai soldati americani, conosciuti anche per gli abusi sulle donne giapponesi in tempo di pace, sin da quando nel 1945 hanno base nell’isola di Okinawa. “Lo stupro è un’arma per spaventare - spiega Simona Lanzoni- ma è anche usato come pulizia etnica. E questo è accaduto contro le yazide in Iraq e accade contro le rohingya in Myanmar. Se stupriamo le donne, i figli non saranno rohingya: questa è la logica”. Per Lanzani la risoluzione del Consiglio di Sicurezza “delegittima le istituzioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia, come la Corte penale internazionale alla quale Stati Uniti, Cina e Russia non hanno aderito. Un accordo in controtendenza con “tutti i progressi che si stanno facendo in questo campo”. Un passo avanti, anche se molto più corto e incerto di quello che si sperava, è stato comunque fatto. Grazie alla risoluzione le varie agenzie dell’Onu potranno giustificare un budget per i progetti di assistenza alle donne. Stati Uniti. Sistema penale e ingiustizia algoritmica di Paolo Benanti settimananews.it, 18 maggio 2019 Negli Usa si registra un sempre maggiore utilizzo delle AI per il sistema giudiziario e penitenziale. Algoritmi di calcolo del rischio di recidiva - risk assestment - utilizzando i dati passati se aiutano e velocizzano il sistema penale dall’altro possono semplicemente perpetrare errori o pregiudizi passati. Cosa fare? Se l’uso che facciamo dei sistemi di intelligenza artificiale è limitato agli algoritmi che animano il machine learning per i feed di notizie di Facebook o i risultati di ricerca in Google, questa potrebbe non avere un enorme impatto personale. Tuttavia alla conferenza Data for Black Lives, tenutasi prima settimana di maggio, tecnologi, esperti legali e attivisti della comunità informatica hanno voluto guardare all’AI in prospettiva mettendo in piedi un confronto sul sistema di giustizia penale americano. In questo ambito un algoritmo può determinare la traiettoria della vita di una persona. Qualche dato - Gli Stati Uniti imprigionano più persone di qualsiasi altro paese al mondo. Alla fine del 2016, quasi 2,2 milioni di adulti erano detenuti in carceri o prigioni e altri 4,5 milioni erano in altre strutture correzionali. In altre parole, nel 2016, 1 adulto ogni 38 americani era sotto una qualche forma di supervisione correzionale. L’incubo di questa situazione è uno dei pochi problemi che uniscono i politici di ogni schieramento. Vi è un’enorme pressione per ridurre il numero di prigioni senza rischiare un aumento della criminalità. Per questo le corti degli Stati Uniti si sono rivolte a strumenti automatizzati nel tentativo di gestire gli imputati attraverso il sistema legale in quello che ritengono il modo più efficiente e sicuro possibile. È qui che inizia la parte affidata all’intelligenza artificiale di tutta la questione. AI e criminalità - I dipartimenti di polizia utilizzano algoritmi predittivi per definire strategie su dove inviare le pattuglie in servizio. Le forze dell’ordine utilizzano sistemi di riconoscimento facciale per aiutare a identificare i sospetti. Queste pratiche hanno richiesto un necessario esame per capire se e come effettivamente migliorino la sicurezza o se semplicemente perpetuino delle disuguaglianze già esistenti nel sistema sociale. I ricercatori e i difensori dei diritti civili, ad esempio, hanno ripetutamente dimostrato che i sistemi di riconoscimento facciale possono fallire in modo spettacolare, in particolare per gli individui che non sono di etnia caucasica. Un celebre caso ha meritato la cronaca quando un AI ha scambiato dei membri del Congresso per criminali condannati. Ma lo strumento più controverso, che sta pian piano irraggiando il sistema giuridico USA, interviene di gran lunga dopo che la polizia ha arrestato qualcuno. Si stanno diffondendo degli algoritmi di valutazione del rischio criminale. Gli strumenti di valutazione del rischio sono progettati per fare una cosa: prendere in considerazione i dettagli del profilo di un imputato e dare un punteggio di recidiva: un numero singolo che stima la probabilità che lui o lei tornerà a commettere un crimine. Un giudice quindi utilizza il punteggio per una miriade di decisioni: quale tipo di servizi di riabilitazione dovrebbero ricevere particolari imputati, se dovrebbero essere tenuti in custodia prima del processo e quanto gravi dovrebbero essere le loro condanne. Un punteggio basso apre la strada per un esito più lieve. Un punteggio elevato fa esattamente il contrario. La logica per l’utilizzo di tali strumenti algoritmici è che se è possibile prevedere con precisione il comportamento criminale, è possibile allocare le risorse di conseguenza, sia per la riabilitazione che per le pene detentive. In teoria, riduce anche qualsiasi pregiudizio che influenza il processo, perché i giudici stanno prendendo decisioni sulla base di raccomandazioni basate sui dati e non sul loro istinto. A questo punto però appare evidente qual è il problema fondamentale di questi sistemi. Gli strumenti di valutazione del rischio che utilizziamo oggi sono spesso guidati da algoritmi addestrati su dati storici connessi al crimine. Come già detto in altri post, gli algoritmi di apprendimento automatico utilizzano le statistiche per trovare schemi nei dati. Quindi, se si danno “in pasto” dei dati storici sulla criminalità a un algoritmo, questo sceglierà i modelli associati al crimine. Ma questi schemi sono correlazioni statistiche, in nessun caso le correlazioni individuate sono forme di causazione. Piove? Cerchiamo di spiegare questa differenza. Partiamo da una domanda quotidiana: “Piove?”. Una risposta basata su un’analisi scientifica tradizionale si fonda sulla causazione. La scienza, in particolare la meteorologia, ci dice che una nube è formata da miliardi di goccioline d’acqua, ciascuna delle quali è a sua volta formata da circa 550 milioni di molecole d’acqua. Queste goccioline sono il risultato dell’evaporazione dell’acqua da oceani, mari, corsi d’acqua dolce, vegetazione e suolo. Il vapore acqueo viene quindi portato verso l’alto da correnti ascendenti; salendo, l’aria si raffredda e raggiunge la saturazione. Tuttavia questo non è sufficiente per provocare la condensazione del vapore, dato che la goccia d’acqua formatasi tende a sua volta ad evaporare. In condizioni normali non si potrebbe avere la condensazione del vapore e quindi la formazione di nubi, neanche in presenza di sovrasaturazioni del 500%. Fortunatamente, nell’aria sono presenti particelle di pulviscolo atmosferico e cristalli di ghiaccio che agiscono come “nuclei igroscopici” o “di condensazione” (di dimensioni comprese tra 0,1 e 4 µm) che promuovono e agevolano la trasformazione di stato delle particelle di vapore. Le precipitazioni e quindi la pioggia possono avvenire però solo quando la forza peso risulterà maggiore della resistenza offerta dal moto ascendente che ha portato alla formazione della nube stessa e che tende a mantenere le goccioline in sospensione. Occorrono centinaia di milioni di goccioline di nube per formare una goccia di pioggia del diametro compreso tra 200 µm e qualche millimetro. I due principali meccanismi di formazione sono l’accrescimento per coalescenza e il processo Bergeron-Findeisen. Nonostante il meccanismo di formazione della pioggia sia sempre pressoché lo stesso, le cause dell’innesco di questo fenomeno possono avere varie origini: lo scontro tra fronti caldi e freddi che provoca un moto ascendente di aria umida, che raggiunge quindi il punto di rugiada e inizia il processo di coalescenza; la pioggia convettiva, causata da un forte riscaldamento del suolo diurno che provoca un moto convettivo di umidità anche molto intenso che può scatenare temporali, in genere limitati ad un’area geografica circoscritta; il sollevamento orografico per via della morfologia del terreno che obbliga aria umida a risalire e quindi scaricare l’acqua sotto forma di pioggia. È tipico in questo caso la formazione di un’ombra pluviometrica; grandi eventi atmosferici che periodicamente provocano la pioggia, come i monsoni o i cicloni tropicali. Capito questo per poter rispondere alla domanda di cui sopra basterà vedere dove si generano quelle cause e tolte le cause togliamo l’effetto. Se per le questioni meteorologiche individuare le cause è più semplice parlando di fenomeni regolati da relazioni, per quanto complesse, matematiche e strettamente deterministiche, per il comportamento umano questo da sempre è risultato assai arduo. Grazie alla correlazione alla domanda “Piove?” possiamo rispondere in maniera diversa. Se possiamo avere i dati di apertura degli ombrelli possiamo rispondere: “Piove dove ora si stanno aprendo gli ombrelli”. E se questi dati storici sono sufficienti possiamo anche fare delle previsioni sul comportamento della pioggia. Il punto però è che non c’è modo solo correlando i dati di rispondere a una domanda sulla causa. In altri termini non sappiamo se sono gli ombrelli che si aprono che causano la pioggia o se la pioggia causa l’apertura degli ombrelli. Se siamo disposti a non interrogarci sulle cause la correlazione ci può però fornire risposte su dove sta accadendo un fenomeno. Questo è un tipo di risposta che può aiutare molto per altri tipi di domande. Per esempio se sono un venditore ambulante di ombrelli questa informazione mi aiuta ad incrementare il mio business. Se faccio il fisico dell’atmosfera la correlazione ombrello e pioggia però non aumenta la mia conoscenza dell’atmosfera. Il sistema carcerario statunitense - Se un algoritmo ha trovato, ad esempio, che il reddito basso è correlato con un’elevata recidiva, nessuno pensa che il basso reddito abbia effettivamente causato il crimine. Ciascuno può richiamare alla memoria numerose persone che, anche con reddito basso, vivono vite dignitose e più che oneste. Ma questo è esattamente ciò che fanno gli strumenti di valutazione del rischio: trasformano le intuizioni correlative in meccanismi di punteggio causale. Ora le popolazioni che storicamente sono state colpite in modo sproporzionato dalle forze dell’ordine, specialmente quelle a basso reddito e minoritarie, sono a rischio di essere ulteriormente oltraggiate e vessate con punteggi di recidiva elevati. Di conseguenza, l’algoritmo potrebbe amplificare e perpetuare i pregiudizi incorporati nei dati e generare dati ancor più distorti alimentando così un circolo vizioso. Poiché la maggior parte degli algoritmi di valutazione del rischio sono proprietari, e quindi inaccessibili alla loro struttura computativa per la tutela della proprietà intellettuale, è anche impossibile mettere in questione le loro decisioni o renderle responsabili. Il dibattito su questi strumenti infuria ancora. Lo scorso luglio, oltre 100 tra attivisti dei diritti civili e organizzazioni a sostegno delle comunità e delle minoranze, tra cui l’Aclu e la Naacp, hanno firmato una dichiarazione che esorta a non utilizzare la valutazione del rischio nel percorso penale. Allo stesso tempo, sempre più giurisdizioni e stati, tra cui la California, si sono rivolti a questi strumenti sperando di poter sistemare le carceri sovraffollate e un sistema giudiziario e correttivo al limite. Se mal utilizzata o implementata senza un’adeguata valutazione etica e sociale, la valutazione del rischio basata sui dati potrebbe essere un modo per ripulire e legittimare dei sistemi oppressivi. In questo senso, per esempio, è da leggere la denuncia di Marbre Stahly-Butts, direttore esecutivo di Law for Black Lives che ha detto sul palco di una conferenza, che è stata ospitata al Mit Media Lab. È un modo per distogliere l’attenzione dai problemi reali che interessano le comunità a basso reddito e minoritarie, come le scuole private e l’inadeguato accesso all’assistenza sanitaria. Come minoranze e popolazioni svantaggiate, ha detto Stahly-Butts: “Non siamo rischi. Siamo bisogni”. Ancora una volta appare evidente che per gestire questa frontiera dell’innovazione abbiamo bisogno di strumenti epistemologi adeguati e di un algor-etica che dia forma ad algoritmi responsabili. Stati Uniti. Il piano di Trump per i migranti: “Entra chi lo merita” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 18 maggio 2019 “Il sistema non favorirà più i legami familiari”. I dem bocciano la riforma: figli separati dai genitori. Un sistema di immigrazione “basato sul merito”, che garantisca insieme la sicurezza degli Stati Uniti, e l’accesso da parte delle persone più qualificate. È la riforma proposta ieri da Trump, che però si è scontrata subito con la bocciatura da parte dalla leadership democratica al Senato e alla Camera, dove i repubblicani non hanno i voti necessari a far approvare la legge. Parlando nel Rose Garden della Casa Bianca, il presidente ha illustrato i principi di un piano che sarebbe frutto del compromesso tra l’ala intransigente del suo consigliere Miller, deciso a diminuire anche l’immigrazione legale, e quella più pragmatica del genero Kushner, che ha in mente l’esigenza degli imprenditori di attirare talenti. Trump ha iniziato dalla sicurezza, tema che lo ha sempre contraddistinto. Ha ripetuto la volontà di costruire il muro per fermare gli illegali, e tenere fuori i criminali, dando così soddisfazione alla sua base bianca, timorosa di essere scavalcata dalle minoranze. Quindi ha spiegato le linee generali della sua proposta. Il piano immaginato lascerebbe il numero totale degli immigrati ammessi negli Stati Uniti grosso modo invariato, privilegiando però il merito come criterio di ammissione, rispetto ai legami familiari. Oggi in America entrano legalmente un milione e centomila persone all’anno. Il 12% delle carte verdi viene assegnato sulla base delle qualità, mentre due terzi degli immigrati sono sponsorizzati da parenti che già si trovano nel Paese. Circa 50.000 permessi sono poi distribuiti con una lotteria aperta a tutto il mondo, con alcuni limiti per le nazioni che hanno già avuto molti ingressi. Il nuovo piano punta a lasciare intatto il numero complessivo degli immigrati ammessi negli Usa, rovesciando però i criteri di selezione. Le carte verdi assegnate in base al merito saliranno dal 12% al 57%, mentre gli accessi consentiti attraverso i legami famigliari scenderanno da due terzi a un terzo. La lotteria verrà eliminata, e verrà introdotto un visto chiamato “Build America”, per favorire chi può aiutare a costruire l’economia del paese. Per essere ammessi bisognerà passare un test di educazione civica, e un background criminale. Poi sarà necessario conoscere l’inglese, e la pratica sarà aiutata da eventuali offerte lavoro. Le carte verdi andranno in maggioranza a chi potrà dimostrare di guadagnare sopra una certa soglia, per non penalizzare i lavoratori americani che ricevono compensi bassi. Chi studia e vuole creare nuove imprese sarà aiutato a restare, mentre oggi chi riceve borse di studio come la Fulbright è costretto a tornare nel paese d’origine. Il piano non tocca la questione del Deferred Action for Childhood Arrival, ossia il piano Daca, voluto dal presidente Obama per evitare la deportazione di circa 800.000 illegali, portati negli Usa dai genitori quando erano bambini. La Casa Bianca ha detto che i “dreamers” non sono stati inclusi perché sono un tema troppo divisivo, ma la verità è che intende usarli come pedina di scambio quando dovrà trattare con i democratici l’approvazione della legge. La Speaker della Camera Pelosi, e il leader della minoranza al Senato Schumer, hanno subito bocciato il piano. Schumer ha detto che “non è un serio tentativo di riformare l’immigrazione, ma un documento anti immigrati”. Pelosi ha aggiunto: “Cosa vuol dire merito? La famiglia non ha merito? Quando separi i figli dai genitori peggiori solo le cose”. Kushner ha descritto la proposta come un punto di partenza per la discussione, sapendo che così non ha alcuna possibilità di essere approvata al Congresso. Il sospetto dei democratici è che Trump l’abbia lanciata solo per galvanizzare la sua base in vista delle presidenziali del 2020, invece di negoziare una vera soluzione.