Reati in calo, carcere in aumento di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 17 maggio 2019 Rapporto Antigone sul carcere. Quando i numeri crescono inevitabilmente in galera si tende a stare peggio. È strano raccontare l’ultimo anno di vita nelle carceri italiane partendo da un dato che a prima vista sembra contraddittorio, inspiegabile, illogico. Eppure il sistema penale e quello penitenziario non di rado si sottraggono alla logica e alla razionalità. Le presenze in carcere - oggi vi sono nelle prigioni italiane poco meno di 61 mila persone - sono aumentate di ben 3 mila unità nell’ultimo anno e di circa 8 mila unità rispetto al 2015, così avvicinandosi pericolosamente a quei numeri che ci portarono alla vergogna di una sentenza di condanna della corte europea dei diritti umani per violazione di quell’articolo 3 che vieta, oltre alla tortura, anche i trattamenti inumani, crudeli e degradanti. Una crescita nei numeri penitenziari che non trova però spiegazione in un corrispondente aumento degli indici di criminalità. Tutti i reati sono in calo, e non da oggi. Finanche i crimini più odiosi sono meno che in passato. Negli ultimi dieci anni, ad esempio, sono notevolmente diminuiti gli omicidi (da circa 600 a 350 l’anno) mentre nello stesso periodo è cresciuto il numero degli ergastolani, dai 1.408 del 2008 ai 1.748 odierni. Anche il numero degli stranieri detenuti è diminuito sia in termini assoluti (circa mille in meno) che percentuali rispetto al 2008. Dunque come spiegare questa apparente contraddizione? Chiunque ha a che fare con le galere sa che non necessariamente esiste una corrispondenza tra indici di delittuosità e tassi di detenzione. Questi ultimi hanno risposte complesse e dipendono da molti fattori. Ecco tre possibili spiegazioni. La prima è data dalla lunghezza delle pene irrogate. Evidentemente c’è un irrigidimento dei giudici in fase di procedimento. Per fatti analoghi, o anche meno gravi rispetto al passato, si infliggono pene più lunghe. La seconda spiegazione è data dalla riduzione della concessione della liberazione anticipata. Negli ultimi cinque anni vi è stato un aumento vertiginoso delle sanzioni disciplinari nei confronti dei detenuti. I soli isolamenti disciplinari inflitti, con tutto il loro carico di dolore psico-fisico, sono aumentati dai 207 del 2013 ai 2.367 del 2018. Ad ogni sanzione disciplinare consegue quasi automaticamente, purtroppo, la negazione della liberazione anticipata da parte della magistratura di sorveglianza. Dunque un detenuto che avrebbe potuto conseguire 45 giorni di sconto sulla pena per ogni semestre di carcere espiato, a seguito della sanzione subita (anche per fatti irrilevanti) perde questa possibilità e così le detenzioni si allungano. La terza spiegazione è data dalla tipologia di detenuti che entra nel circuito penitenziario. Sempre più si tratta di persone che portano con sé storie di esclusione sociale, di marginalità o di disagio psichico. Persone che hanno scarse risorse economiche e dunque ridotte opportunità di difesa tecnica e di accesso alle misure alternative. Quando i numeri crescono inevitabilmente in galera si tende a stare peggio. Come si potrà mai vivere in carceri come quelle di Como e Taranto dove la percentuale di sovraffollamento è del 200% o a Poggioreale a Napoli dove vi sono 731 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare? Non è solo una questione di spazi. È anche una questione di opportunità di socializzazione, di qualità della vita, di occasioni educative. Il quindicesimo rapporto di Antigone sulle carceri, non a caso, è stato titolato “Le carceri secondo la Costituzione”. Un carcere privo di vita e di socialità, dove si è costretti a stare in cella per venti o addirittura ventidue ore al giorno, è un carcere non costituzionale in quanto lesivo della dignità umana. Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà, in apertura del suo intervento alla presentazione del rapporto in Senato, ha letto una lettera di un detenuto che rinunciava agli studi universitari perché di fatto gli veniva impedita la possibilità di studiare. Questa è una forma di illegalità costituzionale. Tutti coloro che si fanno paladini della legalità nella vita libera devono sapere che non esistono due o più legalità. La legalità è una. Così come vale fuori dal carcere, vale anche dentro. *Presidente Associazione Antigone Il sovraffollamento ha una causa ben precisa. Ma non è quella che si pensa di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2019 Abbiamo presentato la mattina di giovedì 16 maggio a Roma il XV Rapporto sulle carceri dell’associazione Antigone, alla presenza del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e del Capo del Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo. Da 21 anni entriamo in tutte le carceri italiane per adulti e per minori e ci preoccupiamo di raccontare all’esterno quella vita reclusa che troppo spesso si vorrebbe rimuovere e dimenticare. “Il carcere secondo la Costituzione”: è questo il titolo che abbiamo dato al Rapporto di quest’anno appena pubblicato. Perché con troppa leggerezza è oggi permesso citare una pena che deve far marcire in galera i condannati, dimenticando il dettato dei nostri padri Costituenti che le carceri fasciste le avevano ben conosciute. Continua a crescere il numero dei detenuti nelle carceri italiane, pur in presenza di un netto calo dei reati denunciati all’Autorità giudiziaria e di un corrispondente calo degli ingressi in carcere dalla libertà, quasi dimezzati negli ultimi dieci anni. Abbiamo oggi 8mila detenuti in più rispetto a tre anni e mezzo fa, quando andavano finendo gli effetti di quelle riforme - pur strutturali - che hanno seguito la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Abbiamo oggi circa 60.500 detenuti, 10mila in più rispetto ai posti letto ufficiali. I quali tuttavia non tengono conto delle varie situazioni che abbiamo potuto vedere con i nostri occhi girando per le galere, per cui non tutti i posti conteggiati sono davvero utilizzabili. Un esempio tra tutti: il carcere di Camerino, inutilizzabile dai tempi del terremoto del 2016 eppure ancora conteggiato come disponibile dal ministero della Giustizia. Se il tasso di affollamento ufficiale è del 120%, quello reale è dunque più elevato. Nel corso del 2018 abbiamo visitato 85 istituti di pena. Nel 35,3% di essi abbiamo scoperto che l’acqua calda non è assicurata. Nel 7,1% addirittura non funziona il riscaldamento. Nel 54,1% le celle sono prive di docce, pur previste dalla legge. Nel 20% non esistono spazi per le lavorazioni. Il lavoro è un nodo dolente del sistema. Solo il 30% del totale dei detenuti svolge una qualche mansione lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, con ruoli poco qualificati legati a piccoli servizi interni. Ma ciò che i numeri non dicono è che, in questo 30%, quasi sempre l’impiego è di poche ore settimanali, a turnazione e con paghe basse. Troppo poco per una seria reintegrazione sociale. In alcuni istituti italiani il numero di detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili è davvero elevato. Le due carceri napoletane la dicono lunga: a Poggioreale sono stipati 731 detenuti più della capienza, mentre a Secondigliano “solo” 418. Questo affollamento, si badi bene, non è dovuto ai detenuti stranieri, la cui percentuale è diminuita nel 2018 rispetto all’anno precedente. Sono gli italiani che stanno determinando il sovraffollamento delle nostre galere. Il tasso di detenzione delle persone straniere è diminuito di ben tre volte negli ultimi 15 anni. È invece la nostra sciocca normativa sulle droghe a giocare un ruolo serio nel riempire le carceri. Abbiamo una delle normative più repressive e inefficaci d’Europa su questo tema. Oltre il 35% dei detenuti nelle carceri italiane si trova lì per aver violato la legislazione sulle tossicodipendenze, a fronte di una media europea del 18%. E visto che è all’Europa che oggi stiamo guardando, teniamo a mente che negli ultimi anni i reati sono andati diminuendo nell’intera Unione europea collettivamente considerata. Conseguentemente, anche il tasso di detenzione è calato, diminuendo negli ultimi dieci anni ben del 10%. In Italia, del tutto schizofrenicamente, sono sì diminuiti i reati commessi, ma il tasso di detenzione si è invece alzato (negli ultimi due anni addirittura del 7,5%), segno di una politica criminale ideologica e insensata. Se guardassimo più ai numeri e meno alla propaganda, tante cose si farebbero chiare sulle bugie che troppo spesso ci sono raccontate. *Coordinatrice associazione Antigone Più detenuti, meno reati: il rapporto Antigone sulle carceri in Italia di Marta Rizzo La Repubblica, 17 maggio 2019 L’Associazione segnala le condizioni di vita della popolazione carceraria: con 60.439 detenuti, il sovraffollamento nelle prigioni italiane sfiora il 120%. Il sovraffollamento delle carceri aumenta, i reati no. Le donne sono solo il 4,4% dei detenuti; diminuiscono gli omicidi; crescono i suicidi dentro. Il sistema minorile si salva: “Negli Istituti penitenziari per minori il sovraffollamento è assente e il carcere è l’extrema ratio per i ragazzi”, dice il capo del dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità del ministero di Giustizia, Gemma Tuccillo. Mauro Palma - garante nazionale delle persone private della Libertà - spiega l’importanza di interrogarsi su senso e materialità della pene. Entrambi partecipano alla presentazione del XV Rapporto Antigone. L’Italia rischia la condanna di Strasburgo 2013. I detenuti in Italia sono 60.439, 55 i bambini sotto i 3 anni che vivono in carcere. Le presenze in prigione crescono rispetto al 31 dicembre 2018, ma soprattutto ci sono oggi 8.000 detenuti in più rispetto a 4 anni fa: il rischio è che nel giro di due anni si torni ai numeri della condanna europea che punì l’Italia per violazione dei diritti umani. Il tasso di affollamento sfiora il 120%. Dalla rilevazione dell’Osservatorio Antigone, risulta che nel 18,8% dei casi vi sono celle dove non si rispetta il parametro dei 3mq per detenuto: soglia minima secondo la Corte di Strasburgo, al di sotto della quale si parla di trattamento inumano. Nel 7,1% degli istituti ci sono celle in cui il riscaldamento non funziona, il 35,3% celle non ha acqua calda (a Poggioreale le due cose coincidono), nel 54,1% dei casi le celle sono prive di doccia, nel 20% non ci sono spazi per lavorare. L’importanza di comprendere l’oscuro mondo carcerario. “Il Garante nazionale - spiega Mauro Palma - ha bisogno di sguardi esterni dal mondo del sociale: lo sguardo istituzionale e necessariamente più approfondito del Garante è complementare a quello delle associazioni di analisi e intervento quale è Antigone da molti anni. Da questa sintesi di due modi di guardare, ambedue esterni ma di diverse prospettive, deve venire per l’amministrazione penitenziaria l’indicazione di come dare forma alla propria azione secondo il fine costituzionale delle pene e per la società esterna, come riconoscere l’insieme di chi sta scontando una pena come parte del proprio corpo. Così da innalzare il senso comune su questi temi, oggi gravemente basso”. Più detenuti, meno reati: il rapporto Antigone sulle carceri in Italia Nessun allarme stranieri nelle carceri italiane. Lo attesta l’Osservatorio Antigone, che denuncia come, negli ultimi 10 anni, le presenze straniere negli istituti di pena siano diminuite di oltre 1.000 unità e calino maggiormente nel 2018. Se nel 2003, su ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia, l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36% (considerando anche gli irregolari). Tra gli stranieri, calano le presenze dei rumeni e la comunità filippina (a prevalenza femminile) ha un tasso di detenzione inferiore a quello degli italiani. Più detenuti in Lombardia e maggior affollamento in Puglia. La regione con più arrestati è la Lombardia (8.610), seguita da Campania (7.844), Lazio (6.528) e Sicilia (6.509). Le regioni con maggiore affollamento sono Puglia (160,5%) e Lombardia (138,9%). Le sole regioni prive di sovraffollamento sono Sardegna e Marche. Sono 42 gli istituti di pena con un afflusso superiore al 150%: di questi, 10 si trovano in Lombardia e 6 in Puglia. Le carceri di Taranto e Como, con un tasso di affollamento del 199,7% e del 197%, sono le più sovraffollate. Seguono l’istituto di Chieti (193,6%), Brescia (193,1%) e Larino (192,1%). Nel carcere napoletano di Poggioreale ci sono 731 detenuti in più di quelli che potrebbe contenere, mentre a Secondigliano, ‘solo’ 418. A Roma, Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 400 detenuti in più della sua capienza. A Regina Coeli lo scarto è di 381 unità, a Milano Opera di 387, a Torino di 341, a Taranto di 305, a Lecce ben di 415. In ben 37 (il 43,5%) ci sono spazi in disuso per ristrutturazione o inagibilità. Non c’è nesso tra criminalità e lunghezza delle pene. La crescita dei detenuti negli istituti corrisponde a una diminuzione dei reati e degli ingressi in carcere: un paradosso tutto italiano che rischia di mettere in discussione l’Art.27 della Costituzione (“L’imputato non è colpevole sino alla condanna definitiva”). La tendenza decrescente dei delitti si conferma nel 2019 rispetto all’anno scorso, registrando un calo del 15%. Gli omicidi diminuiscono del 12,2%, i tentati omicidi del 16,2%, le rapine del 20,9%, i furti del 15,1%, le violenze sessuali addirittura del 32,1%, l’usura del 47%. Negli ultimi 10 anni, però, aumentano gli ergastolani: dai 1.408 nel 2008 ai 1.748 di oggi. Anche il numero degli ingressi in carcere è diminuito, quasi dimezzato rispetto a 10 anni fa. Aumentano suicidi, autolesionismo, isolamento. La fatica della perdita della libertà come pena al reato commesso, è inutile negarlo, provoca sofferenza: i detenuti che assumono terapia psichiatrica sotto prescrizione medica sono il 28,7% del totale dei ristretti. Nel 2018, sono aumentati i suicidi: Ristretti Orizzonti ne segnala 67. In carcere, d’altra parte, ci si toglie la vita quasi 18 volte di più che in libertà e in alcuni istituti il tasso è di gran lunga superiore come a Taranto dove negli ultimi 12 mesi ci son stati 4 suicidi. Quattro morti, di cui tre suicidi, nel carcere di Viterbo da gennaio 2018. Dal 2015 aumentano anche altri fatti critici: gli atti di autolesionismo nel 2018 sono stati 10.368, quasi 1.000 in più dell’anno precedente; i tentati suicidi 1.197 lo scorso anno, 1.132 due anni fa. Molto spesso i gesti estremi si registrano nei reparti di isolamento, dove la persona è mortificata in modo esponenziale. Da tempo si registra un aumento vertiginoso degli isolamenti disciplinari, che negli ultimi cinque anni è aumentato di più di 10 volte, passando dai 207 del 2013 ai 2.367 del 2018. Rapporto di Antigone: in Italia calano i reati denunciati ma aumentano i detenuti di Silvia Morosi Corriere della Sera, 17 maggio 2019 In totale i detenuti sono 60.439 e il tasso di sovraffollamento in alcuni istituti arriva a toccare il 150 per cento. L’associazione lancia l’allarme per la crescita dei suicidi: “Nel giro di due anni si tornerà ai numeri della sanzione europea”. Più di sessanta mila, 60.439 per la precisione. Sono i detenuti nelle carceri italiane, ottomila in più rispetto a quattro anni fa, nonostante non si registri un aumento degli ingressi né dei delitti commessi. Tra loro, 2.659 sono le donne (il 4,4 per cento del totale), di cui 51 madri con i loro 55 i bambini di età inferiore a 3 anni. Per quanto riguarda gli stranieri, dal dicembre 2017 a oggi sono calati dello 0,67 per cento, a dimostrazione che “non esiste un allarme stranieri detenuti”. In questa situazione, il tasso di sovraffollamento (il rapporto tra presenze e posti letto) sfiora il 120 per cento, e in 42 istituti (uno su cinque) il 150 per cento. I dati sono riportati nel 15esimo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone: “Il carcere secondo la Costituzione”. Come sottolinea l’ente fondato nel 1991 per la tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, se questo trend continuerà, nel giro di due anni farà tornare i numeri dei detenuti pari a quelli del 2013, quando la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, con riferimento alla condizione di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. I volontari di Antigone hanno visitato 85 istituti, riscontrando nel 18,8 per cento dei casi celle in cui non viene rispettato il parametro dei 3 metri quadrati di spazio per detenuto, soglia considerata dalla Corte di Strasburgo minima: questo avviene, ad esempio, a Milano Opera e a Napoli. A Poggioreale sono alloggiati 731 detenuti in più di quelli che l’istituto potrebbe contenere mentre nell’altro carcere cittadino, quello di Secondigliano, sono 418 i detenuti in soprannumero. A Roma, Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 400 detenuti in più della sua capienza, a Regina Coeli lo scarto è di 381 unità, a Milano Opera di 387. La crescita dei detenuti corrisponde “in modo schizofrenico” a una diminuzione costante dei reati denunciati e del numero degli ingressi in carcere. Nel 2017 i reati sono calati del 2,32 per cento rispetto al 2016, mentre nei primi nove mesi del 2018 si è registrato un ulteriore meno 8,3 per cento; nei primi quattro mesi del 2019, c’è stato un calo del 15 per cento. E torna a puntare l’attenzione sui tempi della giustizia. Tanti sono i detenuti in attesa di sentenza: al 31 dicembre 2018, 19.565 detenuti, in pratica uno su tre (il 32,8 per cento del totale) erano in carcere in attesa di condanna definitiva e questo dato sale al 38% se si guarda ai soli detenuti stranieri. Una percentuale di dieci punti superiore alla media Ue (del 23 per cento). Troppi detenuti e mancano risorse per le misure alternative di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 17 maggio 2019 Si è esaurito l’effetto dei provvedimenti che avevano allentato la pressione sulle carceri. E così, nonostante non si registri una crescita negli ingressi, né nel numero dei delitti compiuti, i detenuti continuano ad aumentare. Al 30 aprile, si è raggiunta la quota allarmante di 60.439, di cui 2.659 donne (i14,4%) e perfino 55 bambini sotto i 3 anni (che vivono in carcere con le loro 51 madri recluse). Il rapporto dell’associazione Antigone, presentato ieri in Senato, riferisce di un sovraffollamento medio sul 120%, con punte del 150 in 42 istituti di pena. Rispetto a 4 anni fa, risultano ben 8mila detenuti in più e, con questo trend di crescita nel giro di due anni si potrebbe tornare ai numeri nefasti del 2013, quando la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) condannò l’Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti. “Tre metri quadri”. Nel 2018, i volontari dell’associazione hanno visitato 85 carceri: nel 18,8% dei casi hanno visto celle in cui non si rispettava il parametro dei 3 metri quadri di spazio per detenuto (soglia minima secondo la Corte di Strasburgo). Ciò è avvenuto nel carcere di Milano Opera (387 detenuti in più della capienza) e in entrambi i penitenziari di Napoli: a Poggioreale, 731 detenuti in più, e a Secondigliano, 418 in soprannumero. E a Roma? Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 400 detenuti in più della capienza; a Regina Coeli lo scarto è di 381 unità. Secondo il Garante dei detenuti Mauro Palma, bisogna investire “anche nelle misure alternative. Certezza della pena non significa mettere dentro e buttare la chiave”. Suicidi e ferimenti. Secondo il rapporto, nel 2018 ci sono stati 67 suicidi in carcere (il ministero di Giustiziane conteggia 6 in meno). Mentre dall’inizio del 2019, si contano 31 morti in carcere (per suicidio o per altre cause). L’anno scorso, gli atti di autolesionismo sono stati 10.368 (mille in più del 2017 e 3.500 in più del 2015). Crescono pure i tentati suicidi: 1.197 lo scorso anno; 1.132 due anni fa; 955 nel 2015. Stranieri in calo. Negli ultimi dieci anni, gli stranieri in carcere sono diminuiti di oltre 1.000 unità. E nel 2018 è scesa la percentuale di detenuti stranieri sul totale dei ristretti: 33,6% rispetto al 34,27% dell’anno prima. Ancora, se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16%, finiva in carcere, oggi si è scesi allo 0,36% (considerando anche gli irregolari). In generale, a fine 2018 19.565 detenuti (in pratica uno su tre) erano ancora in attesa di condanna definitiva. La percentuale sale al 38% per gli stranieri. I minori. Su 418 ragazzi in carcere al 15 aprile scorso,170 sono minorenni, 284 “giovani adulti” tra i 18 e i 24 anni. Nelle strutture minorili - osserva Gemma Tuccillo, capo dipartimento della Giustizia minorile - “non c’è sovraffollamento, ma risultano comunque sempre affollati. Sono sempre troppi i minori ristretti”. In carcere più italiani e meno stranieri di Annalisa Antonucci L’Osservatore Romano, 17 maggio 2019 In Italia diminuiscono i reati ma aumentano le condanne e cresce l’affollamento nelle carceri. Gli istituti penitenziari accolgono sempre più italiani e meno stranieri, poche le donne, ma ben 55 i bambini reclusi con le loro madri, tanti i tossicodipendenti (un quarto dei detenuti) e troppi i suicidi. È il quadro che emerge dall’annuale rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia redatto dall’Associazione Antigone, che si batte per i diritti in carcere, condotto attraverso l’attività di osservazione che l’associazione svolge dal 1998 in tutti gli istituti penitenziari del paese. “Una situazione drammatica - ha spiegato il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, presentando a Roma il rapporto - con ben 8 mila detenuti in più rispetto solo a quattro anni fa e 3 mila rispetto all’inizio dello scorso anno, e un tasso di affollamento del 120 per cento che rischia di farci tornare presto alla situazione per cui Strasburgo ha condannato l’Italia”. “L’aumento delle presenza in carcere - ha aggiunto Gonnella - rende i detenuti anonimi. Oscura le loro sofferenze e la loro disperazione. Anche così si può spiegare l’aumento dei suicidi. Ma serve ricordare che ogni persona che si uccide in prigione è una sconfitta delle istituzioni tutte”. E a fronte di 60.439 detenuti reclusi al 30 aprile scorso, di cui 2659 donne (il 4 per cento del totale) ci sono stati 67 casi di suicidio con un tasso di 11,4 episodi ogni 10 mila detenuti. Nel 2018, secondo il rapporto, erano stati venti di meno. In carcere dunque ci si uccide quasi 18 volte di più che in libertà. Inoltre, secondo Antigone, in alcune carceri il tasso di suicidi è troppo elevato rispetto alla media: è il caso di Taranto dove negli ultimi dodici mesi in quattro si sono tolti la vita. Non a caso quello pugliese è uno degli istituti penitenziari più affollati d’Italia, con un tasso di presenze del 199 per cento. Ciò limita lo spazio vitale e possibili attività rivolte ai detenuti, prime fra tutte il lavoro e la formazione professionale. Il 18,8 per cento delle celle in Italia, tra cui quelle del carcere di Opera a Milano e Secondigliano e Poggioreale a Napoli, non rispetta il parametro dei 3 metri quadrati per detenuto, soglia considerata dalla Corte di Strasburgo minima, al di sotto della quale c’è il rischio di trattamento inumano e degradante. La presenza degli stranieri è diminuita negli ultimi dieci anni di oltre mille unità mentre crescono i detenuti italiani. E mentre in Europa, a fronte di una diminuzione dei reati si segnalano meno detenuti, anche in Italia i reati sono calati (del 24 per cento le rapine, del 3,3 gli omicidi, del 10 i furti in abitazione) ma di contro il tasso di detenzione è cresciuto del 7,5 per cento. Il rapporto di Antigone sfata dunque la credenza che il nostro Paese sia lassista con chi delinque. “È vero il contrario se il 17 per cento delle condanne va dai 10 ai 20 anni a fronte di una media europea di 11 anni”. “Vi è dunque una tendenza dei giudici - rileva il rapporto - a elevare le pene comminate”. Un dato fortemente negativo è anche quello relativo al ricorso all’isolamento disciplinare, “che costituisce un surplus di sofferenza rispetto alla pena in sé”, aumentato negli ultimi 5 anni di ben 10 volte. Di positivo, invece, si registra l’aumento al ricorso alle pene alternative al carcere ma, secondo Antigone, si sceglie sempre di più la detenzione domiciliare, “misura più custodiale e meno tesa alla reintegrazione sociale”. Infine nelle carceri si registra una carenza di personale del 16 per cento così come pochi sono gli educatori, in media uno ogni 78 detenuti, e i mediatori culturali di cui oltre il 60 per cento degli istituti è privo. “Il rischio che lo sguardo di Antigone, occhio della società civile, mostra - ha commentato il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - è quello che il carcere sia il luogo della marginalità sociale e dell’indifferenza di una società rancorosa. La stessa analisi è emersa dalla recente relazione al Parlamento del Garante nazionale, frutto di un mandato istituzionale intrusivo e forte. Chiara da entrambi gli sguardi emerge la necessità di ridare al carcere visibilità e riportarlo nella discussione politica, primo passo per superare quel senso di abbandono che troppo spesso sembra ultimamente caratterizzarlo”. “Per quarant’ anni ho curato gli ultimi nelle carceri italiane” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2019 Oggi si presenta a Pisa il libro di Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria. “Uomini come bestie, il medico degli ultimi”, è il libro che verrà presentato - con interventi del calibro di Adriano Sofri - venerdì alle ore 17 e 30 a Pisa, presso l’Istituzione Cavalieri di Santo Stefano, a Piazza dei Cavalieri. L’autore è il professore Francesco Ceraudo, pioniere della Medicina Penitenziaria Italiana, che per 40 anni ha diretto, da medico di primissimo ordine, il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa. Un uomo che si era sempre distinto per la sua indipendenza, anche al costo di entrare in rotta con le autorità. La prima volta dopo la morte del giovane anarchico Serantini, quando si accertò che il medico del carcere di Pisa l’aveva visitato in ritardo e frettolosamente. Al giovane che lamentava un malessere generale con forti dolori alla testa prescrisse unicamente una borsa di ghiaccio. Quel medico venne allontanato dal servizio e fu chiamato proprio Ceraudo a sostituirlo. All’epoca il centro era importante e da lì erano passati tutti, dai detenuti “ultimi della terra” a quelli cosiddetti “eccellenti”, dai mafiosi come Brusca e Liggio, a ex terroristi. Sì, perché il carcere ammala e Ceraudo lo sa benissimo. “Il carcere - spiega il professore è un fondo d’imbuto in cui scivolano fatalmente tutte le malattie del nostro tempo e del nostro mondo. La malattia è la manifestazione più sbrigativa della povertà e dello sradicamento contemporaneo”. Dagli anni bui del terrorismo fino alle carceri superaffollate. È il doloroso percorso cronologico che Francesco Ceraudo compie in quest’opera, unica nel suo genere. Professore, dopo 40 anni di esperienza perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro? La definizione di “necessità” è corretta. Avevo acquisito dei documenti, fatto valutazioni, vissuto esperienze e mi dispiaceva che andasse tutto disperso. Nel frattempo sono intervenute delle modifiche legislative nell’ambito della medicina penitenziaria e certe circostanze ed esperienze furono cosi prorompenti da meritare di non passare in sordina. Inizialmente è stato un cammino, lungo e faticoso: ho avuto delle resistenze, soprattutto da parte delle grandi case editrici. Mi rispondevano che il carcere non ha mercato, non interessa come argomento. Secondo lei hanno ragione a dire che la tematica carceraria non è adatta al mercato? Bisogna vedere come ci si pone. A Pisa ci sarà la presentazione del libro e c’è già tanta attesa, ma anche tanta curiosità. Quando andai alla casa editrice Ets di Pisa, che lo ha pubblicato, forse proprio perché il carcere era quello di Pisa, ne ho riscontrato subito la massima disponibilità. Ci sono argomenti che riguardano tematiche, tra cui la strage di Bologna, la rivolta di Porto Azzurro, dove peraltro fui coinvolto anche personalmente. Nel mio libro non faccio interpretazioni, fornisco i fatti: lascio le interpretazioni al lettore. Sulla strage di Bologna racconto dei fatti. A mio avviso Francesca Mambro e Valerio Fioravanti non c’entrano nulla. Lo dico dopo aver passato in rassegna alcuni elementi e circostanze e la mia conclusione è che loro sono estranei ai fatti. Se mi si chiede chi è stato, rispondo che non sono io a doverlo dire; posso dire invece che sia Mambro che Fioravanti sono stati sinceri nelle loro dichiarazioni ammissive rese a processo. Per esempio, su Francesca Mambro, che è stata mia paziente per tanti anni a Pisa e che ha riferito con molta chiarezza ciò di cui è stata responsabile, penso che a proposito della strage di Bologna sia estranea. Fui anche chiamato come testimone al processo sulla strage di Bologna: a dire il vero non ero contento di dover andare a rendere testimonianza. Un’amica mi anticipò infatti che in Procura a Bologna si vociferava che avrei potuto essere in pericolo per delle dichiarazioni che potevo rendere. Sono dovuti arrivare alla quarta citazione di testimone per portarmi con accompagnamento coattivo innanzi alla Corte: come testimone raccontai quello che sapevo, parlando per sette ore e venendo ascoltato. Alla fine fui sorpreso nel leggere in sentenza che come teste ero stato ritenuto assolutamente inattendibile. Fu un fatto per me eclatante, ma forse mi consentì di non diventare un bersaglio. Nel suo libro passa in rassegna dei personaggi che ha potuto incontrare. Tra questi c’è anche Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” della mafia... Siino era un tipo molto attento e prudente, poi è divenuto un collaboratore. Era una persona che sapeva destreggiarsi, che aveva la fiducia di Totò Riina, ma anche di altri che potevano essere in contrapposizione. Nel libro, a proposito di lui, racconto di un attacco ischemico che ebbe. Ricoverato al centro clinico, mi resi conto della cosa e lo dissi all’autorità giudiziaria. Fu così che da Roma Nicolò Amato, allora Capo del Dap, mandò un’ispezione a Pisa per verificare se quello che avevo scritto fosse vero. Vennero i medici ispettori e accertarono che era tutto realistico. Amato aveva ipotizzato che ci fosse stata una tresca tra me e il Siino. Poi, un giorno, dopo qualche anno, andai al carcere e incrociai Nicolò Amato: scoprii che nel frattempo era diventato l’avvocato di Siino. Ci sono altri personaggi che cita nel suo libro? Il più complicato era Vittorio Mangano. Prendeva aria vicino al mio studio. Ho avuto modo di parlargli in quelle passeggiate. Disse che era lui l’uomo più amato e cercato dai magistrati; disse che lui era stato scelto da Dell’Utri e che doveva stare attento ai figli di Berlusconi, che non fossero sequestrati. Disse anche che non avrebbe mai parlato e che sarebbe stato “come un pesce”: muto. Incontrai anche Mario Moretti. Lui veniva dal carcere di Novara, era stato aggredito e aveva un problema all’articolazione della mano sinistra. Arrivò per un intervento di chirurgia plastica. Prima dell’intervento mi volle parlare: in maniera minacciosa, mi disse di stare attento a quello che avrei fatto e che in sala operatoria non ci sarebbe dovuto entrare nessuno. Poi capii che lui aveva saputo che sarebbe arrivato il generale Dalla Chiesa e per questo motivo temeva che quest’ultimo potesse entrare in sala operatoria e approfittare dell’anestesia per farlo parlare. Alla fine l’intervento riuscì molto bene al punto che Moretti si complimentò con me e lo staff. Uno che mi ha lasciato il segno fu invece Francis Turatello, detto “Faccia d’angelo”. Un personaggio che ci sapeva fare. Racconto nel libro di un episodio particolare. Un giorno ci fu un ammutinamento nella cella di una degenza: sei detenuti si barricarono e minacciarono di dar fuoco ai materassi e al resto. Nel momento in cui venivo avvertito della vicenda stavo parlando con Turatello. Lui sentì la cosa e mi disse “dottore mi dia l’autorizzazione, che ci vado a parlare io”. Ero sempre stato prudente, ma credevo anche nelle iniziative. Andai a comunicare la sua disponibilità e stranamente il comandante mi dette il nulla osta: tutti conoscevamo il grande carisma di Turatello. Andammo alla cella e appena lo videro, rimasi basito: si inginocchiarono per baciargli la mano. Lui disse “ragazzi non ci si comporta così” e in due minuti risolse il problema. La prefazione del suo libro è scritta da Adriano Sofri, uno scritto lungo ben 17 pagine... Con Adriano Sofri ho passato dieci anni come medico penitenziario. Lo considero uno scrittore, anzi un poeta quando parla di carcere. Ho scelto lui per la prefazione del mio libro e sono rimasto allibito di quanto fosse corposa. Ha parlato di ogni capitolo, in ogni capitolo c’è lui. Il suo libro affronta anche il diritto all’affettività negata e l’ergastolo ostativo... Certamente. La negazione dell’affettività in carcere è la conseguenza di malattie, fisica e psichica. All’estero, perfino in Albania, hanno le camere dell’amore, in Italia ancora non ci sono. C’è ovviamente anche un capitolo sull’ergastolo. Posso solo ricordare da medico che dopo un certo periodo di anni noi cambiamo le nostre cellule cerebrali, come ha ben evidenziato lo scienziato Umberto Veronesi Uno dei capitoli più attuali è quello di Stefano Cucchi... Luigi Manconi venne nominato Presidente della Commissione Parlamentare e mi chiese una consulenza sul caso. La vicenda di Stefano non è stato gestito bene dai medici. Nel film, che è indubbiamente bello, si chiude una porta ma non si capisce che cosa sia successo e si lascia all’immaginazione, ovviamente anche perché era in corso il processo. A questo punto, sorge il problema: anche tenendo presente che il medico di guardia del carcere non fece il suo dovere fino in fondo non capendo che gli ematomi evidenti non potevano essere dovuti alla caduta delle scale, come aveva dichiarato Cucchi. Dal primo minuto che fu portato all’Ospedale Pertini il primario sarebbe dovuto intervenire, ma non ha mai visto né visitato Cucchi. All’ospedale Stefano presentava una glicemia altissima. È stato completamente abbandonato dal punto di vista terapeutico: da medico penso che si sarebbe dovuti intervenire immediatamente e fare un certificato di incompatibilità con la carcerazione, così che il magistrato avrebbe potuto mandarlo agli arresti domiciliari. Come vede il futuro del carcere? Lo vedo nero, il governo non fa altro che chiedere più carcere per tutto. Ho avuto la fortuna di conoscere Vassalli e Conso, non ci sono paragoni con il governo attuale. Basti ricordare che il capo del Dap ha negato contro ogni evidenza il sovraffollamento in carcere seppur persino il ministro stesso abbia dovuto ammetterlo. Per la mia esperienza ritengo che il carcere non debba essere la prima soluzione, ma una extrema ratio, per questo è importante valorizzare le pene alternative. Ma soprattutto bisogna mettersi in testa che la pena non può che essere riabilitativa e non afflittiva. Arrivano i filosofi in carcere per aiutare a pensare meglio di Antonella Barone gnewsonline.it, 17 maggio 2019 Due progetti sperimentali di consulenza filosofica - pratica da anni utilizzata per ridurre disagio e problemi di relazione in contesti lavorativi, scolastici e ospedalieri in alternativa alla psicologia e a discipline più tradizionali - sono oggetto dei protocolli d’intesa firmati oggi dal Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per Umbria e Toscana Antonio Fullone e dalla presidente di Eu-Topia onlus Anna Maria Corradini. Il consulente filosofico, a differenza dello psicologo o dello psicoterapeuta, non cerca le cause del malessere del paziente e non indica soluzioni, ma accompagna il consultante a una riflessione critica sul proprio modo di pensare la realtà, aiutandolo a metterne a fuoco contraddizioni nella concreta esperienza di vita. Proprio il lavoro sulla consapevolezza rende questa disciplina adatta alle persone detenute le cui scelte sono state determinate in gran parte da una visione della realtà che chiede una nuova riflessione. Uno degli accordi tra Provveditorato Regionale (Prap) ed Eu-Topia, organizzazione di utilità sociale senza fini di lucro, prevede tuttavia anche un percorso specifico per gli operatori penitenziari allo scopo di favorirne il benessere personale, conoscere le proprie potenzialità e perseguire la propria realizzazione. Le attività previste dai protocolli si svolgeranno nei due istituti del distretto che saranno individuati dai rispettivi staff di direzione dei progetti, composti da rappresentanti delle istituzioni firmatarie. Il protocollo di consulenza filosofica destinato ai detenuti ha come obiettivi specifici il miglioramento della qualità della vita detentiva e personale attraverso la riduzione dei conflitti e il trattamento di problematiche riguardanti la sfera emozionale. I consulenti filosofici proposti da Eu-Topia potranno entrare negli istituti come volontari (artt. 17 e 78 ordinamento penitenziario) e svolgeranno la propria attività con il coordinamento del funzionario giuridico-pedagogico referente per il progetto. Trattare problemi di disagio e sofferenza nelle relazioni e problemi legati ad autostima e problematiche legate alla sfera emozionale per il miglioramento della qualità della vita personale e professionale sono invece tra gli obiettivi del protocollo di consulenza destinato al personale penitenziario che si articolerà in cinque incontri tematici con gruppi di massimo dieci operatori e in colloqui individuali. Le attività di entrambi gli accordi, della durata di due anni, non comportano spese per l’Amministrazione Penitenziaria e prevedono l’elaborazione di studi e ricerche per individuare e definire strategie d’intervento efficaci nell’ambito del trattamento. Le scorciatoie pericolose nella lite sulla giustizia di Massimo Franco Corriere della Sera, 17 maggio 2019 La maggioranza giallo-verde appare più l’ultimo prodotto della crisi ventennale del sistema che l’inizio di un nuovo corso. “Nuova Tangentopoli” contro “giustizia a orologeria”. Non preoccupano soltanto le inchieste per corruzione. Inquieta altrettanto l’uso che delle indagini si va facendo: da parte di chi le subisce e da parte di chi pretende di esserne immune in nome di una superiorità morale dai contorni piuttosto controversi. Si notano un eccesso di giustizialismo e di vittimismo che finiscono per velare la sostanza di quanto sta accadendo. Tra un Movimento Cinque Stelle che arriva a sostenere una “nuova Tangentopoli” riguardante solo gli altri, e una Lega convinta di essere sotto attacco perché sta vincendo, non si sa bene chi scegliere: nessuna delle tesi, in realtà, è convincente. Verrebbe da dire che le impostazioni delle due forze della maggioranza populista, in apparenza così agli antipodi, si sostengono a vicenda. L’idea di una giustizia a orologeria, retaggio del passato ma tentazione eterna di molti tra quanti vengono accusati, è un comodo scudo per nascondere le proprie responsabilità politiche: a prescindere da quelle penali tutte da provare. Ma anche la rapidità con la quale si criminalizzano avversari e alleati ha qualcosa di regressivo e di difensivo: quasi che l’”onestà”, molto tra virgolette, fosse un alibi contro l’incompetenza; e un’arma di distrazione contro alcuni casi di presunta corruzione non liquidabili come inesistenti solo perché gli indagati sono stati costretti alle dimissioni. L’impressione è che questi atteggiamenti simmetrici e opposti incornicino alla perfezione i rapporti controversi tra politica e magistratura. Il fatto che vengano registrati alla vigilia di elezioni europee di grande importanza anche per la politica interna, rende lo sfondo ancora più scivoloso e ambiguo: per il governo e per le stesse opposizioni, toccate a titolo diverso dalle indagini, dal Pd a Forza Italia. Tende a prevalere l’uso spregiudicato che le forze politiche fanno del potere giudiziario, al di là della volontà e dell’interesse degli stessi giudici. Arruolarli come “testimonial” di una nomenklatura inguaribilmente marcia rischia di accreditare una magistratura come manichea e di parte. Ma lo stesso risultato negativo si produce accusando neanche troppo larvatamente i giudici di muoversi per contrastare l’ascesa di un partito. In questo modo di affrontare le vicende che toccano la classe politica da Nord a Sud, riaffiora uno strumentalismo preoccupante. E si ripropone un “doppio standard” che conferma la regressione dei diritti e del dialogo tra partiti e tra poteri, che è la migliore ricetta per cuocere a fuoco lento la credibilità già bassa delle istituzioni. Il problema di fondo sembra essere da decenni identico: la selezione della classe dirigente, che riguarda le vecchie e le nuove forze politiche. Brilla l’incapacità non solo di scegliere persone competenti e oneste, ma di agire per evitare infiltrazioni del malaffare, riformarsi dall’interno e dunque evitare il ruolo inevitabile di supplenza dei giudici. Sotto questo aspetto, la maggioranza giallo-verde appare più l’ultimo prodotto della crisi ventennale del sistema che l’inizio di un nuovo corso. Mostrare le fedine penali dei candidati, come fanno i Cinque Stelle, non è un antidoto sufficiente a evitare che gruppi di interesse opachi li influenzino. Né si può invocare l’inesperienza per giustificare casi come quelli che si sono registrati intorno alla giunta grillina a Roma, e non solo. In politica l’inesperienza e l’ingenuità sarebbero semmai aggravanti, non attenuanti. Se non sei in grado di difenderti da chi usa le amministrazioni per arricchirsi in modo illecito, non puoi difendere chi ti ha eletto. Costringere alle dimissioni un indagato, o espellerlo, non risolve il problema; al massimo lo segnala e cerca di tamponarlo. Quanto alle inchieste che toccano esponenti del Carroccio e di FI, la sensazione è che nascano soprattutto dalla lunga permanenza del centrodestra al potere in alcune regioni-chiave del Nord, come il Pd in Umbria: a conferma che ormai il potere logora anche chi ce l’ha da troppo. Fuggire dalle responsabilità identificandosi con le Procure, o delegittimandole, sarebbe l’ennesima scorciatoia, foriera di equivoci e veleni iniettati in una società già sufficientemente esacerbata. Sicurezza e famiglia, è scontro sui decreti e l’ultimo Cdm rischia Il Messaggero, 17 maggio 2019 In pre-consiglio i grillini smontano il dl di Salvini, che apre a modifiche. L’occasione sarebbe ghiotta: due bei decreti da sfornare lunedì, a meno di sei giorni dalle elezioni. Uno targato Matteo Salvini sulla sicurezza, l’altro Luigi Di Maio sul fondo unico a favore delle famiglie. Ma tale è lo scontro tra 5Stelle e Lega, che ieri sera perfino il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti non dava per certa l’ultima riunione del Consiglio dei ministri prima del voto europeo: “Lavorate alle modifiche, ma non sono nelle condizioni di dire se lunedì ci sarà la riunione del governo”, ha detto ai suoi. E i grillini hanno fatto sapere: “La creatura di Salvini era stata smontata pezzo per pezzo”. Contro il decreto del vicepremier leghista, quello che prevede le multe per chi salva i migranti in mare ed espropria le competenze di alcuni dicasteri, durante il pre-consiglio si sono schierati i tecnici di palazzo Chigi e dei ministri grillini (Difesa, Infrastrutture, Lavoro, Giustizia) e perfino la Farnesina che con Enzo Moavero è formalmente a sostegno di Salvini. Durante una riunione descritta dai 5Stelle “pacata, in quanto il rappresentante di Salvini ha riconosciuto la fondatezza delle critiche”, il provvedimento voluto dal ministro dell’Interno è stato cannoneggiato. E rimaneggiato. Nel mirino è finito l’articolo 1. Sia il rappresentante degli Esteri, sia quello della Giustizia, hanno fatto notare che non “si possono stabilire sanzioni e il divieto di salvataggio, in quanto nelle attività di soccorso in mare in acque internazionali non è possibile far valere la sovranità nazionale”. Stoppato anche l’articolo 8, quello sul Commissario straordinario per eliminare l’arretrato nell’esecuzione delle sentenze e sull’assunzione a tempo determinato di 800 esecutori. “Il Commissario sarebbe giustificato se ci fosse una grave inerzia e inefficienza da parte dell’amministrazione, ma non c’è né l’una né l’altra”, hanno osservato gli esperti di Bonafede. “Con le assunzioni a termine si favorirebbe la creazione di sacche di lavoro precario e ciò è sconsigliabile”, hanno obiettato i tecnici di Di Maio. Tant’è, che alla fine, Giorgetti ha dovuto ammettere: “Non so se faremo a fare tutte queste correzioni per lunedì”. Salvini, contattato telefonicamente, ha però dato ordine di accelerare e, soprattutto, di... mediare: “Accogliete i rilievi, il decreto si deve fare a tutti i costi”. Così, nelle prossime ore, verranno celebrati incontri “bilaterali” tra gli esperi del Viminale e i rappresentanti dei vari dicasteri “per affrontare e risolvere i punti critici”. Con i leghisti che danno per certo l’approdo del decreto lunedì in Consiglio dei ministri: “Si va verso una mediazione positiva, limeremo qualche dettaglio e non c’è alcun dubbio che lunedì il provvedimento si farà. I 5Stelle decina da che parte stare, con chi difende i confini o con gli scafisti?”. I grillini, mentre il premier Giuseppe Conte si eclissa per evitare di diventare il punch- ball, però non si lasciano impressionare: “Il decreto di Salvini è tutto da rifare, vanno scritti ex novo interi articoli e non c’è alcun accordo”. Conclusione: “A questo punto neppure si sa se verrà celebrato il Consiglio dei ministri lunedì. Verrà fatto solo se ci sono scadenze improrogabili come alcune nomine”. Insomma, il solito scontro, come è già accaduto sullo sblocca cantieri, sul decreto crescita, etc. A farne le spese, con un rinvio complessivo a dopo le elezioni (se il governo resterà in piedi) sarebbe anche il provvedimento di Di Maio “per incentivare la natalità” con un fondo ad hoc a favore delle famiglie. Per ritorsione infatti Salvini potrebbe stopparlo: non può accedere che a 6 giorni dalle elezioni la Lega resti senza bandierina da issare e i 5Stelle invece varino un loro decreto, scippato per di più nei contenuti al ministro leghista della Famiglia Lorenzo Fontana. Se questo sarà l’epilogo si scoprirà oggi pomeriggio, quando tornerà a riunirsi il pre-consiglio a palazzo Chigi. Lega: “Riforma Bonafede irricevibile” di Lodovica Bulian Il Giornale, 17 maggio 2019 Il Carroccio boccia la proposta: “È punitiva a favore delle Procure”. Nei giorni della nuova tangentopoli, dell’ondata di arresti e di inchieste da nord a sud - l’ultima ieri ha coinvolto un sindaco della Lega - il M5s accelera sul suo cavallo di battaglia, la giustizia. Ma la riforma del processo penale, annunciata dal ministro Alfonso Bonafede, rischia di trasformarsi nel nuovo terreno di scontro degli opposti schieramenti insieme al governo. Con il caso Siri che ancora brucia al Carroccio e all’orizzonte quello che potrebbe aprirsi su un altro leghista, il viceministro Edoardo Rixi - la sentenza del processo sulle spese pazze in Piemonte è prevista dopo le Europee. In questo clima è arrivato ieri l’avvertimento di Bonafede: “La riforma del processo penale si farà entro il 2019. Spero prima dell’estate di portarla all’attenzione del Cdm, anche perché è pronta da un mese e mezzo, e poi entro fine anno ci sarà l’approvazione”. Non solo, le lungaggini sarebbero colpa della Lega, secondo Luigi Di Maio, visto che “Salvini ha fatto saltare già due volte la riunione”. Per ora la partita resta congelata fino al 26 maggio. Ma all’indomani delle urne, la legge che nelle intenzioni dovrebbe ridurre i tempi dei processi dopo lo stop alla prescrizione, aprirà l’ennesimo duello. Nei patti, il via libera alla norma grillina - inserita lo scorso novembre nel pacchetto anticorruzione - che stoppa la clessidra giudiziaria dopo la sentenza di primo grado, era “condizionato” alla riforma organica del processo penale. Altrimenti, il solo stop alla prescrizione sarebbe stato una “bomba atomica sui processi”, così l’aveva definita il ministro Giulia Bongiorno. Ma i contenuti della bozza di riforma preparata dal ministro grillino avrebbero già irritato gli esponenti di via Bellerio con proposte considerate “irricevibili, troppo spostate a favore delle procure. Noi siamo garantisti, ma loro vogliono una riforma punitiva”. Tanto che Salvini ha già mandato a dire che sul punto non cederà: “Valuteremo la proposta e la emenderemo. Gli accordi sulla giustizia sono chiari. Quindi o parte la riforma complessiva del processo penale, in cui la prescrizione potrà essere una minima parte del complesso, oppure non esistono processi all’infinito che vanno a sovrapporsi in una struttura come quella di oggi che è barbara”. “La riforma si scrive in via Arenula”, ha ribattuto ancora lo stesso Bonafede. Sul balletto Forza Italia attacca: “Viene quasi da ridere, anzi da piangere, assistendo alle convulsioni del governo sulla giustizia - dice Anna Maria Bernini. La Lega, dopo aver approvato supinamente il taglio della prescrizione, improvvisamente si accorge che i Cinque Stelle vogliono una riforma della giustizia punitiva, totalmente spostata sulle procure e priva di garanzie per gli imputati”. Castrazione chimica, come buttare alle ortiche secoli di civiltà giuridica di Caria Corsetti Left, 17 maggio 2019 L’annuncio di soluzioni come questa alimenta il rancore diffuso e indebolisce lo stato di diritto. L’introduzione della legge del taglione nel Codice di Hammurabi del diciottesimo secolo a.C. fu indubbiamente un avanzamento in senso progressivo. Non si affidava la determinazione della pena alla libera vendetta delle vittime, ma si stabiliva una proporzionalità. Non si poteva infliggere una pena superiore al danno ricevuto. Il principio di diritto conosciuto con la locuzione “occhio per occhio” introduceva dunque un bilanciamento che limitava le degenerazioni vendicative. Il principio di proporzionalità, nei secoli, sì è ulteriormente raffinato e si è agganciato, in termini progressivi, al grado di civilizzazione delle società, in una costante tensione protesa a trovare un punto di equilibrio tra la gravità dell’illecito e l’entità della pena che avrebbe dovuto essere inflitta. La finalità della funzione rieducativa è anch’essa correlata alla proporzionalità, posto che una pena percepita come ingiusta non predispone sotto il profilo psicologico, alla rieducazione. La funzione della prevenzione, della dissuasione o della difesa sociale, confermano la concezione della pena polifunzionale nel nostro ordinamento. L’ottica rieducativa ha consentito l’elaborazione di misure alternative alla detenzione che incentivano la partecipazione e la collaborazione attiva del detenuto. L’elaborazione dottrinaria sulla polifunzionalità della pena, e la giurisprudenza costante elaborata nelle direzione del rafforzamento del senso di giustizia per una più qualificante convivenza civile, non hanno impedito al potere esecutivo di celare la propria incapacità dando in pasto all’opinione pubblica l’idea che la civiltà giuridica potesse essere buttata alle ortiche, indicando alle masse che la soluzione al reato odioso della stupro potesse essere risolto con la castrazione chimica. Pur volendo trascurare il fatto che l’inibizione chimica degli ormoni della libido, una volta sospeso il trattato euro farmacologico, scatena un aumento della aggressività del violentatore, la soluzione proposta conferma ancora una volta, ove ce ne fosse bisogno, che i proponenti non hanno alcun;) intenzione di trovare una soluzione legislativa, quanto piuttosto hanno intenzione di indebolire lo stato di diritto amplificando il sentimento di rancore delle masse. Il solo evocare hi paiola “castrazione” alimenta il senso di paura e nello stesso tempo costruisce un canale verso il culaie orientare la propensione alla vendetta di cena parte del l’elettorato. Invocare la castrazione chimica significa negare che lo stupro sia una azione volta ad affermare un potere e un controllo, e significa relegarlo a mera espressione genitale. Lo stupro non è conseguenza del desiderio, lo stupro è esercizio del controllo di un soggetto su un’altra persona ed è un’arma per esercitare potere, è annullamento della realtà umana della donna. Per cui non è lo spauracchio della chimica farmacologica che lo può prevenire, semmai una adeguata educazione sessuale sin dalla scuola primaria, da sempre osteggiata dal fondamentalismo religioso che da noi è di matrice cattolica. L’assenza di educazione di genere, l’assenza di politiche volte ad impedire forme di discriminazione, la diffusione di religioni che hanno lo stupro nelle loro strutture simboliche, sono questi gli clementi che contribuiscono a diffondere la cultura dello stupro nella quale la castrazione chimica si innesta come esibizione di una banalizzazione del problema e della sua soluzione. La castrazione chimica rievoca, in definitiva, la legge del taglione che se nel diciottesimo secolo A.C poteva qualificarsi in tutta la sua valenza progressiva, è indubbio che nel 2019 D.C. sconta una innegabile regressiva cialtroneria. Per i giudici onorari riforma della riforma di Claudia Morelli Italia Oggi, 17 maggio 2019 Magistrati onorari, riforma della riforma in arrivo. Lo schema di disegno di legge inserito all’ordine del giorno per il consiglio dei ministri di lunedì porta a termine un confronto avvenuto “a singhiozzo” tra il ministero della giustizia e le rappresentanze dei magistrati onorari e poi sfociato in un accordo di massima un paio di mesi fa. Lo schema messo a punto dai tecnici del guardasigilli Alfonso Bonafede apporta modifiche alla più ampia riforma del 2017, n. 117, da una parte per dettare regole più stringenti in materia di incompatibilità e dall’altra per risolvere questioni più “sindacali” (ricordiamo che la variegata categoria di magistrati onorari si è astenuta dalle udienze a scaglioni nel mese di maggio e fino ad oggi). Lo schema ridisegna le incompatibilità, equiparandole a quelle parentali previste per la magistratura ordinaria. E in ogni caso gli avvocati e i praticanti abilitati non possono esercitare le funzioni di magistrato onorario in uffici giudiziari compresi nel circondario del tribunale nel quale esercitano la professione forense, ovvero nel quale esercitano la professione forense i loro associati di studio, i membri dell’associazione professionale, i soci della società tra professionisti. Sono riviste le modalità di pagamento, ogni due mesi e non più trimestrali; prevista la possibilità di chiedere il trasferimento di sede per assistere un familiare in stato di bisogno o disabile; viene stabilita una opzione per la liquidazione della indennità (anche fissa); si precisa che i magistrati in servizio potranno continuare ad esercitare fino al 68° anno di età mantenendo le stesse funzioni mentre la liquidazione dell’indennità sarà calcolata fino alla fine dell’incarico e non più limitatamente ai primi 4 anni di servizio. Novità infine anche per le funzioni di pubblico ministero per i procedimenti assegnati al tribunale in composizione monocratica. Consulta: legittima l’inapplicabilità della particolare tenuità da parte del giudice di pace di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2019 Corte costituzionale - Sentenza 16 maggio 2019 n. 120. La Corte costituzionale, sentenza 120 depositata il 16 maggio, conferma la non applicabilità della non punibilità per particolare tenuità del fatto da parte dei giudici di pace. Il ricorso era stato sollevato dal Tribunale ordinario di Catania, adito in appello da un imputato per lesioni colpose (a seguito di un sinistro stradale) condannato dal locale giudice di pace alla pena di 400 euro. Secondo il rimettente sussistevano tutti i presupposti per adottare una pronuncia di non punibilità, “atteso che la pena prevista per il reato di cui all’art. 590 c.p. rientra nei limiti edittali stabiliti dall’art. 131-bis, primo comma, cod. pen. e che si tratta, nella specie, di un’offesa di particolare tenuità, tenendo anche conto delle modalità della condotta, meramente colposa e alla luce dell’esiguità del danno cagionato alla persona offesa”. Di diverso avviso la Consulta che in primis ricorda la decisione delle Sezioni unite della Cassazione (n. 53683/2017) che ha affermato l’inapplicabilità dell’articolo 131-bis del codice penale ai reati di competenza del giudice di pace, in quanto il Dlgs. n. 274 del 2000 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace) contiene già, nel suo complesso, “una distinta disciplina della materia”. In particolare, l’articolo 34 regolamenta integralmente la fattispecie del fatto di particolare tenuità che così “scherma l’applicabilità, altrimenti operante, dell’art. 131-bis cod. pen.”. Si tratta dunque di “regimi alternativi”. E le ragioni che giustificano, sul piano del rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, questa alternatività “risiedono nelle connotazioni peculiari dei reati di competenza del giudice di pace e del procedimento innanzi a quest’ultimo rispetto ai reati di competenza del tribunale”. Il procedimento penale davanti al giudice di pace infatti configura “un modello di giustizia non comparabile con quello davanti al tribunale”. In particolare il giudice di pace è chiamato a conoscere di reati di ridotta gravità, espressivi, per lo più, di conflitti interpersonali a carattere privato. Per i quali “è stato configurato un nuovo e autonomo assetto sanzionatorio, nel segno della complessiva mitigazione dell’afflittività”. Sia per i reati di competenza del tribunale, sia per quelli di competenza del giudice di pace, rileva dunque la particolare tenuità del fatto: “ma i presupposti della non punibilità, nell’un caso, e della non procedibilità dell’azione penale, nell’altro, non sono pienamente sovrapponibili, ma segnano la differenza tra i due istituti”. Lo scostamento di disciplina, maggiormente significativo, prosegue la decisione, risiede nella particolare valutazione che il giudice di pace è chiamato a fare per operare un bilanciamento tra il pregiudizio per l’imputato e l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento. Nel complesso, osserva la Consulta, “la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 ha uno spettro più ampio dell’offesa di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen., tant’è che incide più radicalmente sull’esercizio dell’azione penale e non già solo sulla punibilità”. E infatti la pronuncia del giudice “non è iscritta nel casellario giudiziario, a differenza della sentenza che dichiara la non punibilità exart. 131-bis cod. pen.; né, a differenza di quest’ultima, la pronuncia di improcedibilità ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 è idonea a formare alcun giudicato sull’illiceità penale della condotta, come nella fattispecie dell’art. 651-bis cod. proc. pen.; neppure, per la stessa ragione, tale pronuncia è impugnabile dall’imputato, a differenza della sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.”. In conclusione, per la Suprema corte “non viola i principi di eguaglianza e di ragionevolezza la non applicabilità, ritenuta dalla giurisprudenza, della causa di non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa di cui all’art. 131-bis cod. pen. in caso di reati di competenza del giudice di pace, per i quali opera invece la causa di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000”. Firenze: respira il gas del fornello per sballarsi, muore in cella detenuto di 24 anni La Nazione, 17 maggio 2019 Vittima della sballo killer: un giovane di 24 anni, detenuto nel carcere di Sollicciano, è morto nella sua cella mentre inalava il gas del fornello da cucina. Salvo il compagno, che ha dato l’allarme alle guardie del penitenziario. È accaduto mercoledì sera, poco dopo la chiusura delle porte dopo il momento di socialità durante il quale i detenuti hanno libero accesso alle celle altrui. Quando più nessuno poteva circolare, secondo quanto ricostruito, i due detenuti avrebbero aperto la valvola della bombola ed inalato il gas, secondo una pratica diffusa per “stordirsi”. Ma il gas ha finito per avvelenare il 24enne, un empolese che stava scontando una misura cautelare dopo una condanna in primo grado per furto. Stamattina, verrà eseguita l’autopsia. Il garante per i detenuti, Franco Corleone, chiede che il regolamento carcerario proibisca l’introduzione nelle celle dei fornelli, usato per scaldarsi i cibi: al loro posto, suggerisce Corleone, delle piastre elettriche. Firenze: detenuto morto a Sollicciano, Garante regionale chiede misure preventive gonews.it, 17 maggio 2019 Ferma presa di posizione del Garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, dopo l’ennesima morte in carcere avvenuta a Sollicciano dove la scorsa notte un detenuto è deceduto nella sua cella dopo aver inalato gas dal fornello in dotazione. La situazione è definita ormai insostenibile da Corleone e dimostra a suo parere quanto l’illusione punitiva e terapeutica sia fallita. Il Garante prova a lanciare una prima misura preventiva: dotare la struttura di piastre elettriche. Poche carceri in Italia le usano ma per Corleone potrebbe essere un passo e una risposta alle difficoltà della popolazione carceraria composta, ricorda il garante, per oltre il 50 per cento da spacciatori e tossicodipendenti. Un secondo step Corleone lo individua nell’organizzazione delle sezioni interne alle carceri: ripensare la distribuzione delle celle e la suddivisione degli spazi potrebbe agevolare il controllo. In ogni caso, quanto già affrontato lo scorso febbraio nel convegno organizzato sul pensiero di Alessandro Margara e sulla necessità di ripartire dalla Costituzione, per Corleone è quanto mai attuale oggi, dopo questa ennesima tragedia. Cambiare la politica del carcere e il senso che questo ha assunto nel tempo, restano, a detta del Garante, il vero nodo da sciogliere. Ogni altra misura, conclude Corleone, sarebbe un palliativo e lascerebbe spazio solo ad esiti drammatici. Belluno: il caso detenuti psichiatrici, l’Uls “vero, spazi inadeguati” Il Gazzettino, 17 maggio 2019 Non sarà certo la parola fine. Ma per la sezione Tutela Salute Mentale del carcere di Belluno pare esserci un passo in avanti. L’Usl fa sapere che “recentemente è stata programmata un’ulteriore implementazione e integrazione dei servizi assistenziali in modo da rendere la copertura sanitaria omogenea nelle 24 ore”. Una novità che viene comunicata all’indomani del sit-in di protesta degli agenti di polizia penitenziaria, che mercoledì scorso avevano incontrato il prefetto per chiedere la chiusura della sezione Asm (articolazione salute mentale) della casa circondariale di Baldenich. La questione era scoppiata in tutta la sua veemenza qualche settimana fa, quando due agenti erano stati aggrediti da un detenuto ricoverato proprio nella sezione psichiatrica. L’ultima aggressione di una lunga serie, secondo le ricostruzioni dei sindacati e dei rappresentanti della polizia penitenziaria. Complici anche le condizioni igienico-sanitarie molto precarie della struttura. “Nel protocollo operativo in materia di rapporti e organizzazione dei servizi sanitari interni alla Casa Circondariale di Belluno Usl/Direzione del Carcere, l’articolo 1 cita testualmente: “Sono posti a carico dell’Amministrazione Penitenziaria:... il servizio di pulizia secondo gli standard previsti dalla normativa vigente”, fa sapere la direzione dell’Usl tramite una nota stampa. Si sottolinea che l’Usl ha già dal 2017 segnalato più volte l’inadeguatezza logistica della sezione mancando peraltro uno spazio dedicato ai professionisti sanitari”. Al di là della struttura, c’è comunque il servizio. “Durante il 2018 sono state garantite all’interno del carcere di Belluno 8.211 visite mediche e 1.396 visite specialistiche - sottolinea la nota dell’Usl. L’assistenza infermieristica è garantita per 14 ore al giorno, 7 giorni su 7, di cui 5 ore dedicate ai pazienti detenuti nella sezione. L’infermiere in servizio rimane comunque a disposizione nel resto delle ore e in caso di chiamata da parte degli agenti raggiunge tempestivamente la sezione. La sezione accoglie pazienti detenuti con infermità psichica sopravvenuta nel corso della detenzione e detenuti a pena diminuita per vizio parziale di mente. Ciò significa che, per la legge italiana, tali detenuti hanno la capacità di autodeterminarsi dunque non è possibile obbligarli ad assumere la terapia contro il loro volere”. Alba (Cn): il ministro Bonafede rassicura sui lavori nel carcere cuneodice.it, 17 maggio 2019 “Inclusi nel programma di edilizia penitenziaria”. Il Ministro della Giustizia ha risposto a una missiva del Sindaco sulle ristrutturazioni necessarie al “Giuseppe Montalto”. Negli ultimi mesi, il Sindaco di Alba ha scritto due volte al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, per chiedere delucidazioni sui lavori di ristrutturazione nella casa di reclusione “Giuseppe Montalto”, annunciati diverso tempo fa e mai partiti. La prima lettera portava la data del 22 gennaio 2019 e la seconda, dopo non aver ricevuto alcuna risposta, quella del 3 maggio scorso. Nelle comunicazioni il primo cittadino ricordava l’impegno per uno sblocco della situazione formulato dal Ministro durante un incontro avvenuto ad Alba il 17 novembre 2018 e palesava preoccupazione per la previsione in materia di edilizia penitenziaria, contenuta nel decreto legge 135/2018, di un “nuovo programma da eseguire, nonché di un nuovo ordine di priorità” degli interventi. Ciò faceva temere un altro stop a lavori già decisi e che si ritenevano di imminente esecuzione. Alle due lettere, il ministro della Giustizia ha ora risposto in data 15 maggio scrivendo: “La informo d’aver provveduto ad interessare della questione l’articolazione ministeriale competente. All’esito di tale verifica, mi pregio confermarLe gli impegni assunti in occasione della visita del 17 novembre scorso e rassicurarla che gli interventi relativi alla Casa circondariale “Giuseppe Montalto” sono stati inclusi nel programma di edilizia penitenziaria per l’anno 2019”. Castelfranco Emilia (Mo): riparte l’azienda agricola della Casa di reclusione di Marco Belli gnewsonline.it, 17 maggio 2019 L’ampliamento delle produzioni agroalimentari e del settore zootecnico, la vendita dei prodotti all’esterno con l’apertura di uno spazio fisso e continuativo, l’allargamento delle possibilità lavorative offerte ai detenuti e l’attivazione di contatti con enti e organizzazioni imprenditoriali del territorio. Il rilancio dell’azienda agricola della casa di reclusione di Castelfranco Emilia parte dalla determinazione del nuovo direttore dell’istituto penitenziario, Maria Martone, che ha intuito l’importanza di valorizzare le tante potenzialità presenti in un’azienda che si estende per 22 ettari di terreno e per la quale l’unica strada percorribile sembra quella di conferirle una dimensione imprenditoriale. Per questo la dirigente penitenziaria ha iniziato a tessere con certosina pazienza la rete di contatti utili allo scopo, partendo proprio dal coinvolgimento delle realtà pubbliche e private presenti sul territorio. Nel frattempo, in attesa del salto di qualità, non è rimasta con le mani in mano e ha avviato tutta una serie di iniziative per il potenziamento dell’azienda agricola. Innanzitutto la vendita dei prodotti non è più limitata all’interno dell’istituto a beneficio del personale, ma si rivolge direttamente all’esterno. Per far conoscere la sua capacità produttiva è stata chiesta e ottenuta l’ammissione al mercato bio-solidale del Comune di Castelfranco: a partire da metà maggio, ogni sabato pomeriggio la piazza comunale ospiterà il gazebo dell’azienda agricola della casa di reclusione, destinato alla vendita di diversi prodotti e del miele. Ci si dedicheranno tre internati, già inseriti fra i lavoranti dell’azienda, che cureranno direttamente la vendita al pubblico. Anche l’offerta lavorativa destinata ai detenuti è stata ampliata: dalle 8 unità presenti fino a qualche tempo fa, si è passati a 20 persone, per lo più internati, la cui attività è ora continuativa e quasi sempre accompagnata dalla presenza di un agronomo. A breve sarà anche indetto un interpello per l’assunzione di altri 10 detenuti per dare ancora maggiore impulso alla produttività. È stato inoltre di gran lunga allargato il ventaglio della produzione degli ortaggi di stagione, che da quest’anno prevede anche fragole e more e in futuro spazierà anche ad altri tipi di frutta. Novità anche dal settore zootecnico, che ora vede l’allevamento di suini e di galline ovaiole e che si sta pensando di arricchire con quello delle lumache. A tutte queste iniziative avviate per aumentare la produttività dell’azienda seguono necessariamente altre che puntano ad allargare la platea dei potenziali clienti. In questo senso sono già in corso contatti con rappresentanti di alcune catene della grande distribuzione, per l’inserimento nei loro supermercati di banchi dedicati alla vendita dei prodotti del carcere. Presto, infine, il direttore dell’istituto incontrerà i responsabili di Confagricoltura di Modena e della Regione Emilia Romagna. Lauro (Av): concluso il progetto per le madri detenute all’Icam ottopagine.it, 17 maggio 2019 Ciambriello: bisogna implementare il circuito di attività a supporto della struttura. Si è concluso oggi presso l’Icam (Istituto di custodia attenuata per madri e minori accompagnati) di Lauro il progetto “Il dentro ed il fuori per un modello innovativo di Istituto Penitenziario” bandito dal Garante Campano dei detenuti e realizzato dalla associazione senza scopo di lucro Onlus Nuovo Avvenire. L’iniziativa finale del progetto ha visto la partecipazione del Garante della regione Campania Samuele Ciambriello, del Presidente di “Nuovo Avvenire” Stefano Pisaniello e del Direttore dell’Istituto Paolo Pastena, nonché delle operatrici sociali, psicologhe ed educatrici che hanno seguito l’attività progettuale sin dal suo inizio. “Questa struttura, nel suo complesso, non dà l’idea di un carcere, ma di una comunità alloggio ‘allargata’”, ha sottolineato il Presidente della associazione Pisaniello. “Abbiamo svolto settimanalmente come associazione incontri di ascolto, una sorta di segretariato sociale, una “antenna” della solidarietà. Continueremo in questo percorso virtuoso avviato in sinergia con il Garante Ciambriello affinché il ruolo sociale che svolgiamo risulti sempre più efficace”. “Abbiamo bisogno - ha sottolineato il Prof. Ciambriello - di implementare il circuito esterno a questa struttura, attraverso comunità alloggio alternative per detenute madri che, una volta in permesso, all’esterno non trovano strutture sociali alternative adeguate ad accoglierle. Dietro le sbarre ci sono bambini, con gravi conseguenze per il loro sviluppo psico-fisico e relazionale. Per certi versi sono anche in condizioni che aggravano i loro diritti: educativi, scolastici, affettivi. È successo da poco, inoltre, che ai minori di tre anni non è stata data più la possibilità di frequentare l’asilo paritario, per una questione di carenza di trasporto pubblico. Abbiamo bisogno di implementare percorsi di avvicinamento di strutture esterne al carcere. Così come vi è bisogno di corsi di aggiornamento da destinare agli agenti, visto che non operano in una struttura “tradizionale” e di aumentare la presenza di figure sociali (assistenti sociali, educatori, osa, etc..) che fungano da pinte con l’esterno (asilo, scuole, asl)”. “L’Icam non dà l’idea di un istituto penitenziario - ha chiosato il Direttore Paolo Pastena - Gli agenti non sono in divisa, non portano con sé armi e finanche i sistemi di videosorveglianza non sono visibili ai bambini, il tutto a tutela della serenità degli stessi. In questo carcere, che ospita 14 detenute madri e 15 bambini, di cui 6 di età inferiore ai 6 anni, conta 34 agenti di cui solo 8 donne. Un numero troppo esiguo quest’ultimo da implementare assolutamente. Ringrazio personalmente il Garante Campano Samuele Ciambriello per le progettualità sinora avviate in questo istituto e mi auguro che anche le associazioni del territorio possano fare rete per mettere in campo progetti a supporto delle detenute e dei loro bambini”. Al termine dell’incontro si è tenuto un pranzo conviviale offerto dal Garante che ha previsto il seguente menù: prosciutto e mozzarella, fritturine in pastella, spaghetti vongole e lupini, frittura di pesce, hamburger e patate fritte, insalata, bibite e dolci. Gli avvocati Milazzo e Romano, poi, hanno donato ai bambini vestiti nuovi. Larino (Cb): lettere dal carcere, concluso il progetto termolionline.it, 17 maggio 2019 Si è concluso ieri con la vista presso il carcere di Larino il progetto (Lettere dal carcere) realizzato con l’istituto superiore di Serracapriola, un progetto che ha visto coinvolti studenti, docenti e detenuti in una corrispondenza epistolare. Oggi i ragazzi hanno potuto conoscere il detenuto con il quale si sono scambiati la corrispondenza. Momento di forte emozione e di crescita. Progetto realizzato dall’associazione Ilmuroinvisibile onlus. Il progetto è iniziato il 28 novembre con una conferenza che ha visto come relatori,il direttore del carcere Rosa la Ginestra, il cappello Don Marco Colonna, l’educatrice Brigida Finelli il preside dell’istituto Tommaso Leccisotti, il prof. La Medica, l’assessore ai servizi sociali di Serracapriola Annarosa de Iudicibus, il sindaco d’Onofrio e la testimonianza di Francesco Luigi Frasca detenuto. La conferenze aveva come titolo “giustizia, legalità e mondo giovanile”. Dopo questa conferenza che ha aperto un nuovo mondo ai ragazzi è nata l’idea del progetto “lettere dal carcere” questa corrispondenza tra alunni e detenuti che si sono scambiati una corrispondenza epistolare senza mai vedersi. Durante l’anno alcuni volontari hanno continuato a tenere incontri sul mondo carcerario all’interno dell’istituto superiore di Serracapriola. Oggi il progetto si è conclusa facendo incontrare i detenuti e gli alunni che in questi mesi si sono scambiati la corrispondenza. È stato un momento forte di conoscenza, scambio di idee e crescita. Carinola (Ce): “Gli ultimi saranno. Conforto dell’arte, vicinanza delle Istituzioni” Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2019 Il giorno 20 maggio alle ore 10,30 presso la Casa di Reclusione di Carinola ospiterà un evento culturale che ha già fatto tappa in più Istituti Penitenziari. L’iniziativa si compone di una serie di incontri nelle carceri, nelle comunità, negli ospedali e nelle scuole per coinvolgere gli allievi e gli operatori dei laboratori creativi ed utilizzare l’arte come strumento di riavvicinamento tra le persone. In particolare, il progetto si rivolge agli ultimi, coloro i quali nella società moderna sono spesso relegati ai margini, mentre dovrebbero essere i primi in quanto, loro malgrado, sono testimoni di esperienze che la maggior parte delle persone non vivrà mai. L’iniziativa promossa dall’onorevole Raffaele Bruno è tesa ad avvicinare e sensibilizzare le istituzioni con il mondo dell’arte affinché si possano costruire processi virtuosi di riabilitazione dei detenuti. Lo spettacolo sarà costruito insieme ad altri volontari che sono già presenti in Istituto e che organizzano laboratori teatrali in una interessante sinergia tra varie realtà. È gradita la presenza della stampa e si rammenta che i giornalisti devono presentarsi con il tesserino di iscrizione all’ordine. La Direzione Milano: la prima “trasferta” dei ragazzi del Beccaria di Massimiliano Castellani Avvenire, 17 maggio 2019 Mister Achini e la “Forti Dentro”: la squadra di calcio del carcere minorile, ieri in visita speciale all’Inter. “Allora ragazzi, oggi si esce: si va in trasferta... Ad Appiano Gentile! L’Inter ci sta aspettando”. Nello spogliatoio del Carcere minorile Beccaria di Milano, l’annuncio, “a sorpresa” del “mister” Massimo Achini, ai suoi undici, “quasi tutti italiani figli di stranieri”, i ragazzi della “Forti Dentro”, è accolto con lo stesso boato di San Siro dopo un gol di Mauro Icardi. Il tempo di fare entrare nel piazzale dell’istituto penitenziario il pullman che li trasporterà alla Pinetina, che la squadra incomincia a sognare ad occhi aperti. Non sta nella pelle Renato (“juventino, il bomber, quando vuole...”, dice mister Achini) peruviano, il più grande del gruppo con i suoi 19 anni, siede in fondo al bus assieme ai compagni. Sorrisi raggianti, il sole splende sotto i cappellini da rapper, come quello dell’ecuadoriano Alex, che con Carlos, salvadoregno, e Renato, formano il “tridente dei lavoratori”. “Qua dentro, oltre a trovare una squadra di calcio, ho imparato un mestiere, faccio quadri elettrici”, dice Renato. Alex è un giardiniere e attore teatrale, ha da poco recitato al Piccolo. Carlos invece lavora come panettiere all’interno del forno del carcere e da due anni a questa parte “è maturato tanto”, dicono gli educatori, “è diventato papà”. Un ragazzo padre di 18 anni, che tratta con fare paterno, come un po’ tutti, la mascotte della squadra, il piccolo Omar. “Un numero “10” naturale: fuori, giocava nell’Accademia del Como”. Ed è dalle scorribande del lago, che Omar - madre italiana e padre tunisino - fisico esile alla Giovinco (“era denutrito il giorno che ce l’hanno portato”) è finito qui. Arrestato, “da un blitz dei Carabinieri, per qualcosa che è meglio non dire” sussurra - assieme a Maykel, stanco e assonnato “perché è la prima volta che esco” e Bilal che con la maglia dell’Inter ricorda tanto il giovane Adriano, l’”Imperatore”: “Vero? Me lo dicono tutti che gli somiglio”. In fondo al pullman si intonano, ognuno per conto proprio, le canzoni dei rapper latinoamericani, e Alex “il cantante”, su un foglio butta giù di getto un testo. È la lettera da consegnare “all’altro “mister”, Luciano Spalletti”. È un viaggio lampo, così è stata anche la loro infanzia, bruciata in fretta, come l’ultima cicca fumata durante l’ora d’aria. È ossigeno puro questa giornata di libertà vigilata, una gita speciale che gli educatori come Donatella Maggi, da trent’anni al servizio dei minori a rischio, definiscono “un’impresa”. Ed è grazie all’impegno del nuovo direttore del Beccaria, Cosima Buccoliero, è stato possibile compiere l’impresa. “Ci sono voluti sei mesi per convincere una decina di magistrati di sorveglianza, uno per ogni ragazzo, a sensibilizzarli sull’importanza di questa trasferta e soprattutto del valore umano e educativo che ha assunto la nostra squadra”, spiega mister Achini che, fiero, indossa sopra alla camicia la t-shirt dei “Forti Dentro”. È un debutto esterno assoluto per la formazione, “nata due anni fa”. Una squadra di calcio a 5 creata all’interno del Progetto Carceri del Csi (Centro sportivo italiano, di cui Achini è anche il presidente della sezione di Milano). Innocenti evasioni, finalmente, per una nuova sfida. Una sfida quotidiana che comincia dai 41 ragazzi condannati per reati, “spesso pesanti”, che passa per gli educatori e arriva fino agli agenti della Polizia penitenziaria (una sessantina in servizio). Ragazzi anche loro, sono “l’altra squadra”, gli agenti in borghese, a cui sovrintende il comandante Marco Casella. Il comandante, a bordo dell’Alfa della Polizia, scorta questa carovana scanzonata che per un giorno mette da parte le paure e i traumi di vite sempre al margine, le macchie dei piccoli e grandi crimini che hanno sporcato la fedina penale ma soprattutto la coscienza di chi ha un disperato bisogno di rimettersi in gioco. Sulla tribuna azzurra di Appiano Gentile, i “Forti Dentro” e gli agenti siedono fianco a fianco. Non è la classica asfissiante marcatura a uomo, ma un semplice “controllo umano”, come il dialogo che si instaura tutti i giorni nei corridoi del carcere, dietro le sbarre, e che oggi sconfina sul campo dei loro idoli della domenica. Di rigore oggi non ci sono le celle, qualcuno di loro è rimasto in isolamento, qualcun altro è stato trasferito nelle carceri degli adulti, altri “purtroppo entreranno” e magari anche nella squadra, “perché da noi succede come a voi al calciomercato”, scrivono a Spalletti. C’è anche chi esce ma per entrare nella comunità di recupero, alla Kairos di don Claudio Burgio, nume tutelare del Beccaria, come lo storico cappellano don Gino Rigoldi che alla domenica nel carcere officia la Santa Messa alla quale i ragazzi della squadra accorrono puntuali, come fanno agli allenamenti, ogni venerdì pomeriggio. E in religioso silenzio assistono all’allenamento dei ragazzi di Spalletti. Rubano, ma solo con gli occhi, gli schemi e i movimenti di Ranocchia “grande amico, viene a trovarci spesso”, le giocate rapide di Perisic e Lautaro Martinez, le “legnate” da fuori area e la collezione di tatuaggi di Nainggolan e Icardi. Tutti i i nerazzurri alla fine della partitella passano a salutare e autografare maglie e gagliardetti ai ragazzi del Beccaria. E mister Spalletti impartisce la tattica per il futuro. “Le avete viste le ultime semifinali di Champions? Hanno confermato una cosa, che non bisogna mai perdere la speranza, nemmeno quando tutto sembra compromesso. Il vostro è un gol preso nei primi minuti... c’è ancora tutto il tempo per ribaltare il risultato e vincere la partita della vostra vita!”. Lezione recepita e ricambiata con la lettera all’Inter in cui hanno scritto: “Abbiamo capito quanto bisogna impegnarsi per realizzare i propri sogni, sogni che ognuno di noi ha, solo che deve imparare a capire, e a ha bisogno di capire come coltivarli”. Genova: “Vivicittà”, oltre 70 detenuti alla corsa che apre le porte del carcere di Andrea Carotenuto Il Secolo XIX, 17 maggio 2019 Oltre 70 detenuti hanno partecipato all’ottava edizione della corsa Vivicittà - Porte aperte” che apre letteralmente i portoni di accesso al carcere di Marassi per consentire l’ingresso e l’uscita della competizione sportiva che vede correre insieme atleti delle associazioni sportive Uisp genovesi e gli “atleti interni”, come sono stati ribattezzati gli sportivi detenuti nell’istituto penitenziario. Una manifestazione sportiva che si ripete quest’anno in ben 23 carceri italiane e che rappresenta un “ponte” ideale tra sportivi di ogni nazionalità e condizione. Anche quest’anno sul tracciato di 3 chilometri, sia all’interno che all’esterno delle mura della casa circondariale genovese, si sono affrontati con determinazione e gran voglia di vincere i partecipanti, suddivisi in due gruppi. I migliori piazzamenti delle due batterie si sono poi contesi la vittoria finale con un ulteriore doppio giro delle mura del carcere di Marassi. Un’uscita al di fuori della cinta muraria, sotto la scrupolosa supervisione del personale di sorveglianza, che è “simbolica” per detenuti che hanno la possibilità di oltrepassare quei muri e quei portoni blindati che da tempo sbarrano la strada. L’occasione anche per un incontro inaspettato come è successo per Carlos, detenuto di origini sudamericane, che ha trovato ad attenderlo fuori dal portone principale il figlioletto di appena due anni che gli correva incontro gridando “forza Papà” e che ha finito per strappare un imprevisto abbraccio sotto lo sguardo attento ma garbato degli agenti di sorveglianza. Un piccolo gesto che ha strappato qualche lacrima alle persone presenti prima che l’atleta riprendesse la sua corsa. Contemporaneamente, sul campo interno, si è disputato un torneo di calcio fra i detenuti partecipanti alle attività dei progetti di “Sportpertutti”, una rappresentativa esterna e una squadra della Polizia Penitenziaria. L’obiettivo della manifestazione è stato creare “un collegamento” tra l’interno e l’esterno delle mura, così come avviene da anni nell’ambito delle azioni del progetto “Ponte”, realizzato con il contributo della Regione Liguria Vivicittà è la “corsa più grande del mondo” che l’Unione Italiana Sport Per tutti organizza da ben trentacinque anni in decine di città italiane e nel mondo, capace di unire lo sport ad importanti temi di solidarietà e promozione di diritti. Radio Radicale, uno spiraglio nel tunnel dei tagli di Vincenzo Vita Il Manifesto, 17 maggio 2019 Ottima iniziativa quella tenutasi ieri a Roma presso la Federazione della stampa su “Diritto all’informazione plurale e diffusa, al servizio dei cittadini”, organizzata dal sindacato dei lavoratori della comunicazione (Slc) della Cgil (alla presidenza Flavia Greco e ospite-ospitante Nino Baseotto della segreteria di corso d’Italia). Protagoniste la Web radio della confederazione “Articolo 1” e Radio radicale. Hanno introdotto il dibattito i direttori Altero Frigerio e Alessio Falconio. Fino alle conclusioni di Giovanna Reanda. Intervenuta la storica leader Emma Bonino. Il convegno non è stato rituale, perché, rispetto a pur importanti scadenze omologhe di questi giorni, ha messo in scena un’unità non scontata tra emittenti diverse e soggetti nel tempo talvolta distanti. Hanno preso la parola, finalmente, anche coloro che non stanno ai microfoni o in video, bensì in regia o nella delicata cura dei microfoni, o nella tenuta del formidabile archivio della stazione radicale. lavoro vivo, che rischia di vedersi compromesso dalla scelta gravissima del governo di chiudere la convenzione originata da una gara del 1994 e stabilizzata dalla legge 224 del 1998. Hanno preso la parola esponenti dei sindacati delle emittenti, raccontando il clima di angoscia che cresce ad ogni esternazione del sottosegretario Crimi. E così ha raccontato Matteo Bartocci de II manifesto - in maglietta arancione della campagna “io rompo”- che pure diverse testate su cui pesa il taglio del “fondo per il pluralismo” potrebbero avviarsi ad un tragico finale di partita. Senza il genio teatrale di Beckett, ma con la grigia attitudine censoria dell’attuale maggioranza. Ha denunciato lo stato delle cose il segretario della Fnsi Raffaele Lorusso, seguito da Vittorio Di Trapani dell’UsigRai (il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico). E ha ribadito la critica il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna. Mentre Silvia Garambois di “Giulia” (Giornaliste unite, libere e unite) ha stigmatizzato il ruolo spesso marginale delle donne, nonché la ritrovata fortuna del “panino” nei telegiornali: governo-opposizione-maggioranza in un eterno “due a uno”. Tuttavia, un raggio di sole si è appalesato. la Lega ha depositato un emendamento al decreto sulla crescita alla camera dei deputati per la proroga della convenzione, mentre dalle varie forze politiche si sono levate altrettante pronunce formali: per radio radicale (105.000 adesioni all’appello, in costante aumento) e per una moratoria del taglio dell’editoria. Quest’ultima ipotesi è stata ribadita da Lorusso e dall’Alleanza delle cooperative cui si riferiscono le testate cooperative e di opinione coinvolte. Voci “di dentro”, arrivate nella serata, segnalano qualche novità dal versante della disponibilità del Movimento 5 Stelle. Clamoroso? Del resto, ora o mai più. Morti e feriti non possono discutere. Nel frattempo il digiuno di Maurizio Bolognetti è all’ottantesimo giorno. Cui si aggiungono il sacrificio di Rita Bernardini e in queste ore lo sciopero della sete di Robero Giachetti. Se non passano gli emendamenti un intero mondo è pronto scendere in lotta, senza benevolenze. Chiudete il porto di Genova alla nave delle armi Corriere della Sera, 17 maggio 2019 La Bahri Yanbu, che batte bandiera saudita, dovrebbe arrivare in Liguria sabato. La rivolta di sindacati portuali, politici e associazioni umanitari. Una nave dovrebbe arrivare nel porto di Genova sabato, al massimo domenica. Ma un nutrito “cartello” composto da diverse associazioni umanitarie (su tutte Amnesty International), da esponenti politici e sindacati dei portuali si sta mobilitando per impedirne l’accesso. La nave in questione batte bandiera saudita, si chiama Bahri Yanbua, ed è invisa perché porterebbe con sé un grosso carico di armi. Amnesty denuncia: “La nave saudita sta cercando di attraccare nei porti europei per caricare armamenti destinati alle forze armate della monarchia assoluta saudita”. E si chiede: “Porti aperti alle navi che trasportano bombe?”. La presa di posizione dell’associazione no n governativa che chiede ai Governi di Francia, Spagna e Italia di chiudere i propri porti ai sauditi, è sostenuta anche da sindacati, esponenti della politica italiana e dell’associazionismo. Non è ancora chiaro se e dove attraccherà la nave (secondo indiscrezioni al terminal Gmt di Sampierdarena) e se lo scalo è solo tecnico ma le reazioni per ora sono state nette. Cgil e Filt (nazionale locale) assieme alla Camera del lavoro si dicono pronti al boicottaggio. Annuncia iniziative anche il collettivo autonomo dei lavoratori portuali. Favorevoli alla chiusura del porto alla nave anche i presidenti nazionali e locali dell’Arci, Francesca Chiavacci e Stefano Kovac: “Alla nave cargo con armi da guerra va vietato l’attracco, così come previsto dai trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese in tema di diritti umani e contro i conflitti armati. Si chiuda il porto alle armi, non solo ai disperati. Si impedisca che si utilizzino i nostri porti per alimentare guerre”. Bahri Yanbua avrebbe superato da poco lo stretto di Gibilterra. La nave è partita dagli Stati Uniti ad aprile. Passando per il Canada è arrivata in Europa. Il quattro maggio ha attraccato nel porto di Anversa dove, secondo la stampa belga, avrebbe caricato sei container di munizioni. L’arrivo a Gedda è fissato per il 25 maggio. Due deputate del Pd (Paita e Quartapelle) tirano in ballo Salvini. “Tra un comizio e l’altro potrebbe per una volta chiudere un porto e avere il nostro consenso”. È stato un sito francese, Disclose, a dare notizia del carico di armi presente sulla nave. Una volta scoppiato il caso la mobilitazione di diverse associazioni umanitarie francesi ha impedito che la nave facesse scalo a Le Havre, dove pare avrebbe dovuto caricare otto cannoni semoventi Caesar. La tappa genovese, dicono fonti interne alla guardia di finanza interpellate dal quotidiano IL Secolo XIX, servirebbe solo come scalo tecnico logistico. Il cargo saudita non dovrebbe caricare altre armi. Ma per Amnesty International “esiste il fondato pericolo che i porti italiani accolgano gli operatori marittimi che trasferiscono sistemi di armi e munizioni destinati a paesi in conflitto. Bombe che alimentano le guerre che a loro volta alimentano le migrazioni che, a parole, tutti vorrebbero prevenire aiutando le popolazioni “a casa loro”. Dalla capitaneria di porto tuttavia fanno sapere che la Bahri Yanbu è già stata altre volte a Genova “e nessuno ha detto nulla”. Amnesty ricorda che assieme ad altre associazioni ha “ripetutamente chiesto ai precedenti Governi e all’attuale Governo Conte di sospendere l’invio di sistemi militari all’Arabia Saudita ed in particolare le forniture di bombe aeree MK80 prodotte dalla Rwm Italia che vengono sicuramente utilizzate dall’aeronautica saudita nei bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile in Yemen”. Esportazioni “in aperta violazione della legge 185/1990 e del Trattato internazionale sul commercio delle armi ratificato dal nostro Paese”. Quella nave saudita che fa shopping di armi nei porti europei di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 maggio 2019 Partita all’inizio di aprile dal porto di Corpus Christi, Usa, per poi arrivare a Sunny Point, il più grande terminal militare del mondo, all’inizio di maggio il cargo “Bahri Yanbu” (nella foto di Pasaje Seguro) è entrato nei mari europei. La “Bahri Yanbu” appartiene alla maggiore compagnia di shipping saudita, la Bahri, già nota come National Shipping Company of Saudi Arabia, società controllata dal governo saudita, e dal 2014 gestisce in monopolio la logistica militare del regno. Il porto di destinazione è Gedda, sul mar Rosso. Ovviamente, Arabia Saudita. Il 4 maggio la “Bahri Yanbu” ha attraccato nel porto belga di Anversa, dove ha caricato - secondo alcune organizzazioni della società civile locale - sei container di munizioni. L’8 maggio avrebbe dovuto entrare nel porto francese di Le Havre per caricare otto cannoni semoventi Caesar da 155 mm prodotti da Nexter, ma ha dovuto rinunciarvi per la mobilitazione dei gruppi locali per i diritti umani. Dopo uno scalo tecnico nel porto spagnolo di Sandander, la “Bahri Yanbu” ha fatto rotta verso Genova, con arrivo previsto domenica o, più probabilmente, lunedì mattina (secondo notizie non confermate di ieri sera, potrebbe esserci anche uno scalo a Cagliari). Qui l’attendono i “camalli”, i portuali genovesi, con la Camera del Lavoro e la Filt Cgil di Genova, che hanno raccolto l’appello di Amnesty International Italia, Comitato per la riconversione RWM e il lavoro sostenibile, Fondazione Finanza Etica, Movimento dei Focolari Italia, Oxfam Italia, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo e Save the Children Italia: quella nave va bloccata. La richiesta fa parte di quella più generale che le associazioni stanno facendo da tre anni alle istituzioni italiane: cessare di inviare armi all’Arabia Saudita. Nonostante il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, lo scorso 28 dicembre abbia affermato che “il governo italiano è contrario alla vendita di armi all’Arabia Saudita per il ruolo che sta svolgendo nella guerra in Yemen”, nessuna sospensione è stata ancora definita e le forniture di bombe e sistemi militari sono continuate anche in questi mesi ammontando a un controvalore di 108 milioni di euro nel solo 2018 (come risultante dai dati ufficiali governativi elaborati dall’Osservatorio Opal di Brescia). Sospendere l’invio di sistemi militari all’Arabia Saudita e in particolare le forniture di bombe aeree MK80 prodotte dalla RWM Italia, che vengono sicuramente utilizzate dall’aeronautica saudita nei bombardamenti indiscriminati contro la popolazione civile dello Yemen, è l’unico modo per rispettare la legge 185/1990 e il Trattato internazionale sul commercio delle armi, ratificato dall’Italia. Il Trattato impone a tutti i paesi coinvolti nel trasferimento di attrezzature militari (cioè anche nel transito e nel trasbordo) verso paesi coinvolti in conflitti armati di verificare (art. 6.3) se le armi trasferite possano essere impiegate per commettere crimini di guerra o violazioni dei diritti umani e di conseguenza di sospendere le forniture (art. 7). Migranti. Decreto sicurezza bis, il prezzo (variabile) della vita di Michela Marzano La Repubblica, 17 maggio 2019 Prevista una multa per le navi che salvano i migranti: come se l’uomo fosse ancora merce. La vita umana ha un prezzo? La si può misurare, pesare, quantificare e valutare come qualunque altra merce, un “tanto al chilo” sulla base di un certo numero di parametri? Secondo quanto emerge dall’ultima bozza del “decreto sicurezza bis” voluto da Matteo Salvini - e che, nonostante i continui litigi tra Lega e M5S, dovrebbe essere discusso lunedì prossimo in Consiglio dei ministri - sembrerebbe proprio di sì. Visto che tra le nuove misure presenti nel decreto sono comparse anche salate multe per chi soccorre in mare i migranti: una somma forfettaria compresa tra i 20mila e i 50mila euro per ogni “carico umano”, come se si stesse discutendo, appunto, di merci. Dimenticando così che coloro che vengono tratti in salvo sono persone, che la tutela delle persone in mare è un dovere, che il sistema di “ricerca e salvataggio” (“search and rescue”) è codificato nel diritto internazionale sulla base di un’antica consuetudine, e che questa consuetudine si fonda (e si giustifica) sul riconoscimento del valore intrinseco di ogni essere umano. Ma a Matteo Salvini, a quanto pare, tutto ciò non interessa. Per motivi puramente elettorali, e indipendentemente dall’efficacia delle norme, a lui basta fare propaganda alimentando la paura della gente (anche se gli sbarchi sono molto diminuiti), prendendosela con gli “scafisti” (anche se le navi che trasportano migranti sono delle Ong), e designando gli stranieri come nemici della patria (indipendentemente dalla violenza simbolica delle parole utilizzate). Ci pensa mai, il nostro vicepremier, a cosa significhi suggerire l’idea che si possa forfettariamente prezzare un “carico umano”? Ha riflettuto anche solo un istante al fatto che, nel passato, è proprio sulle navi che sono stati stipati e trasportati milioni di esseri umani prima di essere messi all’asta? “Stavano così stretti che al minimo movimento si urtavano a vicenda”, scrive Alex Haley nel libro Radici - che consiglio a Matteo Salvini di rileggere. “Kunta ascoltò le grida e i lamenti che gli risuonavano intorno” si legge qualche riga dopo. “Dovevano esserci molti uomini con lui nell’oscurità: alcuni vicini, altri un po’ più lontani, ma tutti in un’unica stanza, se era una stanza”. Sono le prime parole che mi sono venute in mente dopo aver appreso delle somme forfettarie previste per questi “carichi umani”. Durante le rotte dei cargo negrieri, molti schiavi si ammalavano e morivano, molti si suicidavano buttandosi in mare, molti arrivavano esausti e il loro “prezzo” variava in base alle condizioni di salute, valutati, appunto, in ragione di un valore puramente strumentale, e mai intrinseco. Ci sono voluti secoli prima che lo statuto di ogni persona venisse considerato come assolutamente non comparabile a quello delle cose, e prima che si vietasse di attribuire un prezzo agli esseri umani, proprio perché, a differenza delle cose che hanno un prezzo, le persone hanno sempre e solo una dignità. Ci si può, oggi, anche solo permettere di suggerire il contrario? Libia. Conte preme sul generale Haftar per un cessate il fuoco di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2019 Il premier mette in guardia contro i rischi dell’offensiva militare. L’opzione militare è un grande rischio soprattutto per le forze della Cirenaica guidate da Khalifa Haftar. Un fallimento dell’assedio di Tripoli potrebbe segnare, per il generale di Bengasi, la replica della bruciante sconfitta in Ciad dell’87 e segnare anche la sua fine come leader politico. In sintesi è proprio questo l’avvertimento che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte si è sentito di lanciare all’uomo forte della Cirenaica in un incontro durato due ore ieri a Palazzo Chigi. In una guerra di posizione come quella che si sta consumando da settimane alle porte di Tripoli con forze che sostanzialmente si equivalgono c’è infatti il rischio, avrebbe detto Conte in un colloquio a quattr’occhi con Haftar, che chi ha sostenuto finora le forze di Bengasi per ripulire Tripoli da terroristi e milizie filo-islamiste (Stati Uniti, Arabia saudita, Emirati) possa ora ritirare il suo sostegno visti i limitati risultati sul terreno dell’esercito Lna. Ecco perché, secondo Conte, “è necessario addivenire quanto prima a un cessate il fuoco per evitare l’insorgere di una crisi umanitaria nel Paese a tutela delle difficili condizioni del popolo libico”. A un Haftar ostinato nelle sue ambizioni Conte ha spiegato che l’Italia conosce bene la complessità di quel Paese e resta coerente nel suo messaggio che lunedì scorso è diventato anche il messaggio di tutta l’Unione europea che per la prima volta, a livello di ministri degli Esteri, ha condannato l’aggressione di Haftar ed esortato a un cessate il fuoco. Posizione mutata rispetto a una precedente equidistanza della Ue tra Tripoli e Bengasi che si spiega soprattutto con un cambiamento di posizione dei francesi che hanno capito come sia sempre più rischioso puntare su un solo cavallo avvicinandosi sempre di più non solo alle posizioni italiane ma a quelle tedesche (che non hanno mai voluto incontrare Haftar o degli inglesi, degli olandesi e degli spagnoli). Nello stesso tempo Conte ha segnalato ad Haftar le preoccupazioni dei Paesi limitrofi come Egitto e Tunisia che rischiano di subire i gravi contraccolpi della crisi in termini di sfollati (una nuova Siria o Yemen) non essendo nell’interesse di nessuno creare una grave crisi umanitaria con un bilancio di morti tra i civili sempre più intollerabile per la comunità internazionale. Per questo Conte ha suggerito ad Haftar un “percorso politico condiviso” per giungere ad una stabilizzazione del Paese in linea con quanto già espresso con diversi interlocutori internazionali”. Non trova invece conferma la notizia che dopo Roma Haftar si sarebbe diretto a Parigi per un incontro con il presidente Emmanuel Macron. Incontro che potrebbe tenere tra qualche giorno. Secondo il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian Macron, vuole incontrare Haftar per rilanciare il processo politico in Libia. “La situazione in Libia - ha detto Le Drian - è molto preoccupante perché la road map proposta dalle Nazioni Unite, che non aveva trovato uno sbocco positivo ad Abu Dhabi, ha fallito sia per un’iniziativa del maresciallo Haftar sia da un’iniziativa, o non-iniziativa, del primo ministro Sarraj”. “Per questo motivo, il presidente della Repubblica vorrebbe incontrare l’uno d’altro - ha continuato Le Drian - per appoggiare l’iniziativa delle Nazioni Unite”. Libia. Haftar gela Conte: “Non fermerò l’attacco su Tripoli” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 17 maggio 2019 “Ogni mediazione per ora è congelata, bisogna rendersene conto e studiare qualcosa di diverso”. La visita del generale libico Khalifa Haftar ieri a Roma ha aperto gli occhi a qualcuno nel governo italiano. Il premier Giuseppe Conte si è trovato di fronte un capo militare che quasi con ossessione insiste nel ripetere che lui vuole arrivare a Tripoli per liberarla manu militari dai “terroristi”. Conte, che ancora una volta con cortesia ma anche con caparbietà gli ha chiesto di fermare l’attacco militare, a questo punto sente di dover trovare nuove strade, anche se non è chiaro cosa sarà possibile costruire. Una fonte vicina al governo aggiunge che “a questo punto le pressioni di Tripoli si fanno molto più efficaci: hanno accusato l’Italia di sostenere a parole il governo di Fayez Serraj, hanno chiesto maggiore aiuto politico. Non hanno ragione, ma di fronte alla caparbietà di Haftar la posizione di Tripoli acquista forza sempre maggiore”. Le risposte di Haftar a Conte hanno lasciato il presidente del Consiglio interdetto. “Haftar è convinto che le sue operazioni militari avranno successo, che Tripoli sia infestata da bande criminali o di terroristi. Noi gli abbiamo risposto che non è così, che continuare con le operazioni militari non farà che peggiorare la situazione, che l’unica soluzione è tornare al dialogo politico, nonostante oggi sia molto più difficile che in passato”, dicono fonti del governo italiano. Haftar per ora è rientrato a Bengasi, poi volerà anche a Parigi. Iran. Il Piano Lewis e la costruzione del nemico di Alberto Negri Il Manifesto, 17 maggio 2019 Come si costruisce un nemico? La narrativa che si vuole fa passare è che Teheran è una minaccia e gli Stati Uniti, con i loro alleati, Israele e Arabia Saudita, difendono, oltre al petrolio, il mondo libero. Come ai tempi in cui gli Usa montarono l’Operazione Aiace, il colpo di stato in Iran del 1953. Come si costruisce un nemico? La narrativa che si vuole fa passare è che Teheran è una minaccia e gli Stati Uniti, con i loro alleati, Israele e Arabia Saudita, difendono, oltre al petrolio, il mondo libero. Come ai tempi in cui gli Usa montarono l’Operazione Aiace, il colpo di stato in Iran del 1953 contro Mossadeq. Ma da dove prendono le idee Pompeo, Bolton, Pence, gli uomini di Trump? Vennero forgiate più di 40 anni fa, prima della caduta dello Shah nel 1979. Pompeo dichiara di rifarsi a Bernard Lewis, lo studioso di islam, ex agente dei Servizi britannici al Cairo negli anni 40, l’ispiratore dell’attacco all’Iraq nel 2003 per mano di Bush junior e di Dick Cheney. Uno degli aspetti forse più interessanti della vicenda è ricostruire cosa accadde allora a Washington e come il copione si replica ora. Quando alla fine del 1978 si capì che era probabile a Teheran l’ascesa del fronte clericale, il presidente Carter nominò il diplomatico George Ball capo di un task force incaricata di elaborare un rapporto sull’Iran. George Ball, in realtà, ricalcò uno studio sul fondamentalismo islamico di Bernard Lewis, professore emerito all’Università di Princeton. Il piano di Lewis, reso noto nell’incontro del Bilderberg Group nell’aprile del 1979 in Austria ma elaborato mesi prima della rivoluzione, appoggiava i movimenti radicali islamici dei Fratelli Musulmani e di Khomeini per promuovere la balcanizzazione dell’intero Medio Oriente lungo linee tribali e religiose. Un piano già auspicato anche da Ben Gurion. Per Lewis l’Occidente doveva incoraggiare gruppi indipendentisti come curdi, armeni, maroniti libanesi, copti etiopi, turchi dell’Azerbaijan: il disordine sarebbe sfociato in un “Arco di Crisi”, per poi diffondersi nelle repubbliche musulmane dell’Urss. L’espressione “arco della crisi” ebbe enorme fortuna, fu ripresa da Brzezinski con la teoria di utilizzare l’islam in funzione antisovietica e si diffuse sui media. E fu lo stesso Lewis a parlare di “scontro di civiltà”, ancora prima di Samuel Huntington. L’Iran si rivelò un problema più per gli Usa che per Mosca ma l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa nel dicembre 1979 diede un impulso straordinario alla teoria di Lewis: gli Usa con l’appoggio militare del Pakistan e quello finanziario dell’Arabia Saudita armarono migliaia di mujaheddin che inchiodarono i russi nel Jihad, una “guerra santa” devastante che nell’89 costrinse i sovietici a ritirarsi. Con la fine dell’Urss, Washington abbandonò l’islam radicale al suo destino, fino all’11 settembre 2001. Ma lo riprese come strumento di politica estera con la guerra in Siria del 2011 per abbattere Bashar Assad con l’avanzata di jihadisti e Isis sotto la direzione della Turchia e con gli stessi soldi delle monarchie del Golfo. Era il “caos creativo” che piaceva a Hillary Clinton. Vent’anni dopo la rivoluzione iraniana, Bernard Lewis è stato l’intellettuale più influente nella decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003. Bush jr. circolava con i suoi saggi sottolineati dai collaboratori. Nel 1978 Lewis pensava di usare gli islamici in funzione anti-sovietica, poi fu il più strenuo sostenitore della necessità di rovesciare Saddam Hussein: lo definì “un passo decisivo per una spinta modernizzatrice a tutto il Medio Oriente”. Tutti i neo-con andarono a lezione da lui e nel 2007, all’American Enterprise Institute, Lewis, ormai novantenne, fu accolto da una standing ovation guidata dal vicepresidente Cheney. “Se avremo successo nell’abbattere il regime iracheno e iraniano - aveva scritto Lewis nel 2002 - vedremo a Baghdad e Teheran scene di giubilo maggiori di quelle seguite alla liberazione di Kabul”. Ma né a Kabul né a Baghdad ci furono le scene gioiose immaginate dal professore. Le cose sono andate diversamente. Ma oggi Pompeo e Bolton tornano al “Piano Lewis” per sostenere operazioni coperte in Iran, accompagnate da sanzioni giugulatorie, per disgregare il Paese dall’interno, puntando sulle divisioni etniche e settarie, sui Mujaheddin Khalk (3mila ospitati in Albania) e sugli esiliati all’estero. L’obiettivo è convincere - e auto-convincersi - che “in Iran nessuno uomo o donna moderna sostiene gli ayatollah” e che se ci sarà un intervento militare gli americani verranno accolti con mazzi di fori. Naturalmente non c’è nessun esperto che avalli questa visione e Putin lo ha reso chiaro a Pompeo due giorni fa. Ma non importa. La cerchia di Washington ha in mano una sfera di cristallo che guarda il mondo attraverso il prisma degli evangelici e della Grande Israele. Ecco in che mani siamo. Egitto. Al Sisi concede la grazia a 560 detenuti, tanti gli attivisti politici Nova, 17 maggio 2019 Il presidente dell’Egitto, Abdel Fatah al Sisi, ha concesso la grazia a 560 detenuti, in buona parte attivisti politici finiti in carcere tra il 2013 e il 2017. Lo si apprende dalla Gazzetta ufficiale. Il detenuto più noto a essere rilasciato sarà il giornalista Abdel-Halim Qandil, ex direttore del quotidiano “Sawt al Omma”. La maggior parte dei prigionieri graziati erano stati condannati sulla base di una controversa legge sulla regolamentazione delle manifestazioni pubbliche e per altri reati correlati alla situazione politica. Tra i detenuti che verranno rilasciati vi sono anche attivisti che sono stati processati dai tribunali militari, in particolare nell’Alto Egitto.