“Ragazzi, la violenza non è l’unico destino” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019 Intervista a Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria. “Arrivano da noi rassegnati e senza speranza. Cerchiamo di convincerli che la prigione non è una tappa obbligata della loro vita, anche allontanandoli dalla famiglia d’origine e dal loro territorio”. “Quelle di Antonio Piccirillo, anche se non conosco direttamente la vicenda, sono state parole forti. Emozionanti. Credo che la sua esternazione sia legata al dolore di aver vissuto in quel contesto, di essere stato privato, da quella cultura, del padre. Dimostrano che la cultura mafiosa provoca una profonda sofferenza anche all’interno delle famiglie”. Sofferenza che Roberto Di Bella, 55 anni, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria dal 2011, conosce bene. L’ha vista sui volti dei tanti, troppi ragazzi che sono passati dalle mani della giustizia. “Negli ultimi venticinque anni”, racconta il magistrato, “il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha trattato più di cento procedimenti per reati di criminalità organizzata, più di cinquanta per omicidio e tentato omicidio. Il più clamoroso fu quello dei due carabinieri Fava e Garofalo, vicenda per la quale un minorenne, ora divenuto collaboratore di giustizia, è stato condannato a trent’anni di reclusione. Reati contestati a ragazzi appartenenti alle storiche famiglie di ‘ndrangheta del territorio. E che, divenuti maggiorenni, nella maggioranza dei casi sono ora sottoposti a regime penitenziario duro, del 41 bis, o sono stati uccisi nel corso delle faide locali o sono latitanti”. Per cosa soffrono questi ragazzi? “Innanzitutto si vedono privati dei punti di riferimento affettivi. Il mafioso, spesso, è uno che ha ucciso e va in carcere e questo provoca, nei minori, dei gravi vuoti affettivi: queste assenze sono incolmabili. Ci stiamo accorgendo che le prime vittime della ‘ndrangheta sono questi ragazzi che respirano una cultura dell’odio, della sopraffazione, della violenza fin dalla nascita. I report psicologici dei ragazzi di cui ci siamo occupati sono drammatici: quasi tutti i giovani sono rassegnati a una vita già segnata che è di morte o di carcerazione, provano un forte senso di angoscia per loro e per i loro familiari, i loro sogni sono connotati da scene di guerra, di irruzione notturna dei carabinieri che vengono ad arrestare il padre, da situazioni di pericolo in cui il minore deve attivarsi per salvare sé stesso o un prossimo parente da un killer. Il nostro obiettivo, con i nostri provvedimenti, è quello di assicurare a questi sfortunati ragazzi delle adeguate tutele per una adeguata crescita psicofisica. Vogliamo sottrarli a un destino che, il più delle volte, è ineluttabile. Ed è un destino di morte, di carcerazione, di sofferenza”. Sono provvedimenti di allontanamento dal territorio? “Dal 2012 abbiamo deciso di mutare orientamento giurisprudenziale e di provare a censurare il modello educativo mafioso, nei casi in cui mette concretamente a rischio l’integrità emotiva e il regolare sviluppo psicofisico dei minorenni, nello stesso modo in cui interveniamo a tutela dei ragazzi vittime di genitori maltrattanti, alcolisti o tossicodipendenti. Con l’obiettivo di assicurare adeguate tutele ai minori per interrompere questa spirale perversa che è culturale, prima che criminale, stiamo adottando provvedimenti civili di decadenza o di limitazione della responsabilità genitoriale. In casi estremi queste misure hanno comportato anche l’allontanamento dei ragazzi dalla Calabria e il loro inserimento in strutture comunitarie, case famiglia e, da ultimo, anche in famiglie di volontari. Da un lato cerchiamo di tutelare la crescita psicofisica dei ragazzi, dall’altro anche di sottrarli a rischi di pregiudizi all’integrità fisica nei contesti di faida. Vogliamo far vedere loro che esiste un mondo diverso, dare gli strumenti culturali necessari per renderli liberi di scegliere il loro destino. Si tratta, in sostanza, di una sorta di progetto Erasmus della legalità”. In concreto? “Con l’ausilio di assistenti sociali, educatori, famiglie affidatarie, volontari antimafia e anche con esponenti della Chiesa cattolica facciamo conoscere ai minori un mondo dove la violenza e l’omicidio non sono gli strumenti ordinari di risoluzione delle controversie personali, dove c’è parità di diritti tra uomo e donna, dove le scelte, anche quelle più intime come i matrimoni e i fidanzamenti sono dettate dai sentimenti e non dalle famiglie per suggellare sodalizi criminali. Cerchiamo di far capire a questi ragazzi che il carcere non è, come molti pensano, una tappa di vita obbligatoria, un attestato di professionalità da appuntarsi sul petto e da esibire ai capi delle organizzazioni criminali, ma è luogo di sofferenze, da evitare a tutti i costi”. Con che risultati? “Incoraggianti. Quasi tutti hanno ripreso la frequenza scolastica interrotta, hanno svolto o svolgono attività socialmente utili, percorsi di educazione alla legalità, grazie ai volontari antimafia come quelli di Libera e, ultimamente, anche dell’Unicef. Raggiunta la maggiore età, molti di loro ci hanno chiesto aiuto per restare nella diversa località dove li abbiamo collocati. Un sostegno che possiamo offrire grazie al protocollo firmato con Libera, con la Procura nazionale antimafia e finanziato in parte dalla Cei con i fondi dell’8 per mille”. Le mamme quale ruolo hanno in questi percorsi e come reagiscono alle vostre iniziative? “A volte sono loro stesse, in lacrime, che ci chiedono di allontanare i loro figli per salvarli. Siamo entrati nel cuore di queste famiglie in modo più semplice di quanto pensassimo e, per molti ragazzi, per molte donne, ma anche per alcuni detenuti, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria non è più un’istituzione nemica, ma l’ultima spiaggia nel mare dell’illegalità, per sottrarre i loro figli alla morte, alla sofferenza, alla carcerazione. Alcune mamme vengono da noi per i loro figli, ma, in fondo, anche per loro stesse, per coltivare una speranza di riscatto”. La grande fragilità della nostra democrazia di Mauro Magatti Corriere della Sera, 16 maggio 2019 In diversi Paesi come l’Italia il problema legato all’insoddisfazione nasce da una generale inefficienza delle istituzioni e dal malcostume diffuso nel ceto politico. Siamo in un momento storico in cui la democrazia non gode di buona salute. A dirlo - confermando i dati di altre ricerche - è un recente rapporto pubblicato dall’autorevole istituto americano Pew Research Center, che ha indagato gli orientamenti della popolazione in 27 Paesi di tutto il mondo. Dall’analisi emergono tre questioni che riguardano da vicino anche il nostro Paese. La prima è che a incidere sul giudizio nei confronti della democrazia è soprattutto la capacità delle istituzioni di ottenere risultati in termini di bene comune. In sostanza, al governo si chiede di organizzare, in modo onesto e trasparente, ciò che è necessario per il buon funzionamento della società. La ricerca dice che, in media, il 52% degli intervistati non è soddisfatto di come vanno le cose nel proprio Paese. Ma questo dato medio nasconde differenze assai rilevanti. Opinioni in maggioranza positive si hanno, per esempio, nei Paesi del nord Europa (Svezia e Olanda sono al 65%, la Germania è al 56%), mentre nel sud Europa la Grecia è al 16%, la Spagna al 20% e l’Italia al 29%. Ovunque si è peraltro convinti che ben poco cambia al variare di chi vince le elezioni. Al di là di destra e sinistra, le performance istituzionali risentono di un background culturale che costituisce il vero snodo di ogni democrazia. Nel caso dell’Italia - e degli altri Paesi del sud Europa - il vero terreno su cui occorre misurarsi per rilanciare l’ordine democratico è proprio la cronica e diffusa inefficienza istituzionale. Il secondo aspetto riguarda il nesso tra insoddisfazione verso la democrazia e condizione economica. A conferma di quanto già sappiamo - e cioè che la democrazia prospera dove c’è sviluppo economico - la ricerca appena pubblicata fornisce alcuni dati preoccupanti. Qui le differenze significative non sono solo tra Paesi, ma anche tra gruppi sociali. In Italia, in particolare, tra coloro che pensano di trovarsi in una situazione economica positiva la soddisfazione verso la democrazia raggiunge il 77%, mentre scende al 33% tra coloro che ritengono di essere svantaggiati. Si tratta di un divario molto ampio su cui si dovrebbe riflettere con attenzione. Il rischio è che coloro che si definiscono “democratici” siano, in realtà, i vincenti della fase storica che stiamo vivendo. Mentre sentimenti antidemocratici si vanno diffondendo tra i gruppi che sopportano le conseguenze più pesanti del declino del Paese. Una deriva molto pericolosa: come insegna la storia, quando le differenze di classe non riescono più a trovare espressione e soddisfazione all’interno dei circuiti istituzionali, la democrazia corre pericoli seri. Rischio che diventa ancora più alto nel momento in cui è possibile scaricare su bersagli esterni il risentimento crescente. Esattamente quello che sta succedendo in questi anni con l’Unione europea e gli immigrati. Due fenomeni che, come la stessa ricerca in oggetto mostra, sono considerati i due “veri” problemi da risolvere. Il cortocircuito è così evidente: la democrazia non funziona; l’insoddisfazione cresce; la compattezza popolare si riconquista combattendo contro un nemico esterno invece che risolvendo i problemi interni. La terza questione riguarda la corruzione e la scarsa fiducia nei confronti del ceto politico e più in generale delle istituzioni. I dati per quanto riguarda l’Italia sono anche qui piuttosto negativi: il 70% degli intervistati ritiene che i politici siano tutti corrotti, con livelli paragonabili a quelli registrati nei Paesi africani (in Nigeria siamo al 72%) o asiatici (in Corea del sud al 65%), e doppi rispetto ad altri Paesi europei (la Germania, per esempio, è al 33%). Abbiamo dati sconfortanti anche per quanto riguarda la percezione di poter esprimere liberamente il proprio pensiero (43%), l’aspettativa di ricevere un trattamento equo quando si ha a che fare con la giustizia (23%), di disporre di realistiche possibilità di miglioramento della propria condizione di vita (28%). Insomma, una larga fetta di popolazione non solo pensa di doversela cavare da sola, ma anche di essere danneggiata dal fatto di vivere in una democrazia. Dalla ricerca esce dunque un quadro piuttosto fosco. Lo stato della democrazia oggi è fragile. Un po’ dappertutto. Le difficoltà si sono accentuate negli ultimi anni, dato che l’economia non riesce più a garantire un benessere diffuso. Solo la capacità delle istituzioni di dare risposta ai problemi quotidiani delle persone attenua l’insoddisfazione. Dove questo non succede, la sfiducia raggiunge indici allarmanti. In Paesi come l’Italia, più che l’alternanza destra sinistra, il problema nasce da una generale inefficienza delle istituzioni e dal malcostume diffuso nel ceto politico: due elementi che nel corso dei decenni hanno scavato un solco profondo tra cittadini e istituzioni. E che 10 anni di crisi hanno reso ancora più profondo. Se si vuole essere realisti, occorre riconoscere che non siamo lontani dal punto di non ritorno. Qui non ci sono maggioranza e opposizione. Tutti coloro che tengono alla democrazia in Italia dovrebbero prendere atto che è dalla sua legittimazione che bisogna, tutti insieme, ricominciare. Prima che sia troppo tardi. Riforma del processo penale. Resa dei conti nel governo dopo il caso Siri di Emilio Pucci Il Messaggero, 16 maggio 2019 Superate le elezioni, la Lega vuole ripartire da un testo a cui lavora la Bongiorno: più garanzie per la difesa e via l’abuso d’ufficio. Ira di Bonafede: il ministro sono io. “La proposta del ministro Bonafede sulla riforma della giustizia è irricevibile. La bloccheremo. Dopo le Europee conteranno i nostri voti. Se si vuole riformare la giustizia lo si farà nella nostra direzione”. Ai piani alti della Lega è scattato l’allarme. Il Guardasigilli sta portando avanti dei tavoli con avvocati e magistrati, senza scoprire le carte. Ma la proposta è stata visionata da ministri e big del Carroccio. E così, dopo il 26 maggio sarà proprio questo il primo nodo da affrontare in Cdm. “Il Movimento 5Stelle vuole una riforma punitiva, totalmente spostata sulle procure. O cambiano rotta o rischiano di andare a sbattere e di provocare la crisi”, dicono chiaro e tondo negli ambienti di governo leghisti. Il sospetto nella Lega è che Bonafede e Di Maio, portando un pacchetto che comprenda sia la riforma della giustizia penale che quella civile, vogliano imporre i numeri in Cdm. Così come successo sul caso Siri, che è ormai ritenuto un punto di non ritorno sui temi della giustizia. Non è un caso che Salvini stia ragionando in queste ore su un ddl leghista per cancellare il reato di abuso d’ufficio. E che ieri abbia detto che “la riforma della giustizia sarà lo snodo centrale” per capire se l’esecutivo potrà andare avanti. Di Maio si lamenta perché la Lega si sottrae al confronto: “Ci doveva essere una riunione con la Lega per dirimere le cose su cui non erano d’accordo ma è saltata già due volte”, ha sottolineato. Le due posizioni non sono affatto convergenti. “Se la Lega ha delle proposte, se Salvini oltre che occuparsi di sicurezza ha delle proposte sulla giustizia, ben venga, ma non c’è un altro pacchetto: la riforma della giustizia la porta avanti il ministro della Giustizia”, replica evidentemente preoccupato Bonafede, “Prendo atto dell’attenzione che la Lega vuole riportare sulla giustizia, e sono contento del fatto che dopo le elezioni potremo tornare a confrontarci serenamente”. Del resto il responsabile del Viminale, durante la presentazione del libro di Carlo Nordio a palazzo Madama - moderatore il direttore del Messaggero Virman Cusenza - è stato tranchant: “O parte la riforma complessiva del processo penale, di cui la prescrizione potrà essere una minima parte del complesso, oppure non esistono processi all’infinito che vanno a sovrapporsi in una struttura come quella di oggi che è barbara”. Ed ancora: “Vogliamo fare una riforma della giustizia non contro qualcuno ma coinvolgendo tutte le parti in causa, per non dare alibi a nessuno viste le esperienze del passato che sia fatta contro i magistrati, contro i pm, contro gli avvocati. La parola la mantengo, conto che lo stesso impegno valga per tutti”. Per Salvini però “non si può certo pensare di diminuire i tempi dei processi togliendo pezzi di processi e margini di garanzia”. Il ministro dell’Interno ha sottolineato inoltre come ora i sindaci abbiano paura di sottoscrivere qualsiasi atto amministrativo. “Bisogna invertire il processo. Deve valere il silenzio-assenso. Se non mi rispondi entro trenta giorni do per scontato che tu mi dia ragione e io comincio il mio iter amministrativo”, ha osservato. Ma l’assunto principale è che in questo momento “imprenditori e politici vengono considerati dei presunti colpevoli”, deve valere invece il principio opposto, bisogna dimostrare la colpevolezza. È il ministro Bongiorno che sta preparando una controproposta organica. Si parte dal fatto che non bisogna togliere tutele all’indagato, semmai anzi rafforzarle, perché “deve avere la possibilità di difendersi”, spiegano dalla Lega. In ogni caso serve avere processi più snelli, diminuendo per esempio i tempi delle notifiche e, di fondo, capire nel più breve tempo “se si è criminali o non colpevoli”. I paletti arriveranno quando Bonafede presenterà il testo. “Lo valuteremo e lo emenderemo”, promette Salvini. “Non si possono tenere aperti i processi per anni”, ribadisce il sottosegretario alla Giustizia, Morrone. Non c’è ancora una road map della Lega ma lo scontro andato in scena con M5S sulla riforma della prescrizione si riproporrà. Con la Lega che è tornata a chiedere il termine degli emendamenti sulla separazione delle carriere (l’azzurro Costa ha costituito un inter-gruppo ad hoc), mentre a giugno è calendarizzata in Aula la legge sulla responsabilità dei magistrati in presenza di un’ingiusta detenzione. Se la corruzione è un freno per le riforme di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 maggio 2019 Le notizie milanesi di nuove indagini e di sviluppi di procedimenti penali già in corso che riguardano episodi di scorrettezze nella gestione della cosa pubblica, variamente qualificabili sul piano penale, di differente gravità, in stadi processuali diversi e probabilmente destinati a non eguali esiti giudiziari, non consentono per ora commenti che diano per accertata o probabile la natura di reati e la responsabilità delle persone implicate. E ciò nemmeno ricorrendo al talora ipocrita aggettivo “presunto”, che dovrebbe riflettere l’omaggio al principio di non colpevolezza fino a una condanna definitiva. Ma induce a preoccupazione la vastità dell’area di persone e affari in cui si muove una Procura della Repubblica solitamente non avventata. Intanto perché si tratta della piazza più importante d’Italia per quanto riguarda la vita economica del Paese e poi perché è la città che vuol fregiarsi del titolo di “capitale morale”, contrapposta all’altra capitale, indicata con l’epiteto di “Roma ladrona”. Già si è vissuta la stagione di “mani pulite” che ha riguardato molti fatti di corruzione e finanziamento illecito di partiti politici verificatisi anche nel milanese. Naturalmente non stupisce che dove circolano molti denari sia forte la tentazione di fare affari comunque e con qualunque mezzo. Non solo, ma una certa spregiudicatezza nelle forme amministrative può essere motivata dall’ansia di risolvere problemi, tagliando lacci e lacciuoli. Nella massa di possibili illeciti occorre quindi distinguere ciò che in largo senso attiene a forme di corruzione, da ciò che si riduce a violazione delle procedure di legge. Non per approvare queste ultime, ma per tener distinte vicende illecite che sono diverse. Oggi dunque, con riferimento alle nuove vicende che fanno capo a Milano, è giusto andar cauti. Ma vi sono aspetti riguardanti il tema della corruzione in Italia che possono già ora essere commentati. Il primo è quello della presunzione d’innocenza, che ha un risvolto processuale sull’onere della prova che incombe al pubblico ministero, così che non è l’imputato che deve fornire la prova dell’innocenza. Ma non è escluso che nel processo siano prese misure a carico dell’indagato prima della condanna (fino alla custodia in carcere). Da tempo, quando un personaggio di rilievo sia oggetto di un procedimento penale, anche a fronte di gravi sospetti o addirittura di certezze di comportanti illegali o variamente scorretti, si levano subito voci che pretendono che nulla si faccia su piani diversi da quello penale, in particolare con misure a tutela della cosa pubblica. Questa acuta sensibilità per le garanzie si manifesta quando di tratta di personaggi che si muovono a vario titolo dell’area del potere politico o economico. Quando invece vengono alla ribalta i possibili responsabili di reati comuni, quella sensibilità viene travolta da invettive che, un minuto dopo il fatto, augurano all’accusato di “marcire in carcere”. È così lecito mettere in discussione la buona fede di coloro che vogliono presentarsi come paladini delle garanzie individuali. Ne deriva comunque un grave impedimento a misure di protezione dell’affidabilità di chi opera nell’amministrazione pubblica o nella politica nazionale o locale. A parte la discriminazione evidente, a vantaggio di chi è in qualche modo potente e in danno di chi non lo è, si verifica un grave indebolimento della protezione della cosa pubblica, non giustificato dal significato e scopo della presunzione di innocenza nel processo penale. Vi è poi altro motivo di preoccupazione. Recentemente dal governo sono venute modifiche al codice degli appalti pubblici. Se ne è data giustificazione per la necessità di rendere meno pesanti gli adempimenti amministrativi che frenerebbero l’attività e lo sviluppo economici. Il capo dell’Autorità anticorruzione, Cantone, ne ha indicato la pericolosità per la facilitazione che ne deriva a pratiche illecite. Non pare che Cantone abbia udienza là dove si decide ed è un peccato. È chiaro che il rallentamento che deriva dalle procedure complesse e dai controlli è dannoso. Tuttavia il prezzo dello sveltimento è l’aumento del pericolo di corruzione nel rapporto tra imprese e amministrazione pubblica. La corruzione diffusa, in un Paese come il nostro in cui essa non è soltanto “percepita”, tra i tanti danni che procura vi è anche quello di impedire di adottare semplificazioni, che sarebbero benvenute in presenza di rigore morale e affidabilità da parte di tutti i protagonisti della vita pubblica e dell’attività di impresa. Quei sindacalisti nemici della mafia di Silvia Giovanniello La Repubblica, 16 maggio 2019 Il Secondo Dopoguerra, in Italia, è stato il momento della difficile ricostruzione di un tessuto sociale, oltre che economico, lacerato da un conflitto armato e da venti anni di dittatura. Dopo aver combattuto contro il fascismo, la fame e la morte, i civili si sono ritrovati a contrastare un nemico altrettanto feroce e sicuramente più subdolo: la mafia. Senza ancora il riconoscimento di una legge che prevedesse il reato di associazionismo mafioso - e neppure si voleva capire bene cosa fosse la “mafia” - i lavoratori hanno combattuto la criminalità organizzata solo con le proprie forze, pagando spesso con la vita il loro impegno per cambiare la società. Solo in Sicilia si contano almeno 60 vittime di mafia tra i sindacalisti, bersaglio facile per la criminalità organizzata in un contesto assai arretrato fino agli anni Cinquanta. Prima ancora della conclusione del conflitto mondiale, però, si ipotizzava quella che sarebbe diventata qualche anno dopo la famosa “legge Gullo”, dal nome dell’allora Ministro dell’agricoltura del governo Badoglio, che avrebbe concesso sulla carta ai contadini riuniti in cooperative le terre incolte o mal coltivate degli agrari. Un provvedimento che, se per i contadini poveri e senza terre rappresentava quasi una rivoluzione, risultava certamente scomodo per i grandi proprietari terrieri, che vedevano così minati i propri possedimenti. Le cooperative contadine avviavano così le procedure per ottenere fondi incolti o mal coltivati, che restavano però prive di risposta dalle Commissioni preposte a esaminare le richieste. Il padronato agrario, fascista e mafioso, non si limitava a negare i diritti dei contadini ostacolando il processo di acquisizione dei terreni; il 13 febbraio 1947 furono due i sindacalisti a cadere sotto i colpi della criminalità organizzata. Vincenzo Sansone, da tutti conosciuti come Nunzio, insegnante di Lettere e militante comunista, era il fondatore e segretario della Camera del Lavoro di Villabate, in provincia di Palermo. Impegnato nella lotta per la riforma agraria, nel tentativo di riscattare i braccianti dalla miseria, con la sua attività riscuoteva consenso tra le masse: un affronto che la mafia non poteva certo tollerare. Il 13 febbraio 1947 Nunzio viene ucciso a colpi di fucile nella sua città, per aver “pestato i piedi” a qualche proprietario terriero. Lo stesso giorno, a Partinico, sempre nel palermitano, un’altra vittima si aggiunge al lungo elenco dei sindacalisti uccisi dalla mafia. Leonardo Salvia, come Nunzio, combatteva in prima fila per i diritti dei contadini e si batteva attivamente per la redistribuzione delle terre. Come Sansone, un personaggio scomodo, e perciò eliminato da una criminalità organizzata che voleva salvaguardare gli interessi del baronato agrario. Sansone e Salvia, come molti altri prima e dopo di loro, erano lavoratori “che non si facevano i fatti propri”, che hanno pagato un prezzo troppo alto per la loro onestà e il loro coraggio. Eppure, proprio al sacrificio di questi uomini si devono conquiste importanti, come la scomparsa del latifondo, un contributo fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata che molti decenni dopo ha portato alla legge sul sequestro delle ricchezze mafiose. Quelle di Nunzio Sansone, di Leonardo Salvia e di tutti gli altri sindacalisti uccisi dalla mafia nel tentativo di cambiare la società sono storie troppo spesso dimenticate, rimaste sepolte negli archivi giudiziari o perdute nel proseguo del tempo, senza il giusto riconoscimento. Sparò e uccise il ladro, chiesta di archiviazione per Fredy Pacini di Laura Montanari La Repubblica, 16 maggio 2019 “Non riprenderei una pistola. E sconsiglio di farlo: è un vivere nel terrore”. La vittima Mircea Vitalie, 29 anni, moldavo fece irruzione nel capannone la notte del 28 novembre scorso. I complici non sono mai stati rintracciati. La procura di Arezzo ha depositato stamani la richiesta di archiviazione per Fredy Pacini, il gommista di 57 anni di Monte San Savino (Arezzo) che il 28 novembre sparò alcuni colpi di fucile uccidendo Mircea Vitalie, 29 anni, moldavo, che assieme a un complice aveva fatto irruzione nella sua rivendita di gomme e biciclette probabilmente per rubare. Il pubblico ministero Andrea Claudiani ha firmato la richiesta di archiviazione per legittima difesa putativa. Fredy Pacini aveva raccontato di aver subito decine di furti, l’ultimo nel 2014 lo aveva convinto a costruirsi una stanza e a vivere dentro la sua azienda per difenderla dalle incursioni notturne dei ladri. Quella notte Mircea Vitalie spacco il vetro di una finestra con un piccone e con una pila entrò nel capannone, il gommista che era sul soppalco, si svegliò di soprassalto, prese la pistola (regolarmente detenuta) e sparò cinque colpi in basso. Due raggiunsero Vitalie uccidendolo. Ora il pm chiede l’archiviazione del caso per legittima difesa putativa. “Non è ancora finita, siamo a un pezzo della strada” dice con la voce emozionata Pacini dalla sua officina accanto al suo avvocato Alessandra Cheli che lo ha seguito in questi mesi. “Da quando è successa quella rapina - riprende il gommista ricordando la notte del novembre scorso - non dormo più nel capannone, non ce la potrei fare con tutto quello che è accaduto. Adesso dormo nella mia casa con mia moglie”. Se potesse tornare indietro riprenderebbe ancora la pistola? “No, non riprenderei in mano una pistola anzi, se dovessi dare un consiglio dopo la mia esperienza, direi a tutti di non prendere le armi perché è un vivere nel terrore”. La richiesta di archiviazione da parte della procura si è basata non sulla nuova legge sulla legittima difesa, ma sul vecchio impianto normativo. Fredy Pacini era stato indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Ora in base alle indagini, secondo il pm, il gommista quando sparò riteneva di essere in una situazione di effettivo pericolo. Negli anni precedenti il gommista aveva più volte anche in interviste ai giornali e in tv protestato chiedendo più sicurezza e lamentando continui furti. Raccontava di averne subiti 38 tra quelli andati a segno e quelli soltanto tentati da quando aveva ereditato l’attività. Per lui si mossero e sfilarono in una fiaccolata in suo favore, duemila persone a Monte San Savino, lo stesso ministro dell’Interno Matteo Salvini lo chiamò al telefono esprimendogli solidarietà. Cosa che ha rifatto oggi per poi twittare: “Ogni tanto una bella notizia. Ho appena chiamato Fredy Pacini per felicitarmi e per ribadirgli che eravamo e saremo sempre al suo fianco, sempre dalla parte del diritto alla legittima difesa”. “Fredy è conosciuto come una brava persona, un gran lavoratore - spiega l’avvocata Alessandra Cheli - sono contenta che dopo un’indagine attenta e scrupolosa, la procura sia arrivata a chiedere l’archiviazione. È un passo importante, non ancora la fine della storia. La perizia affidata ai tecnici ha dimostrato che Fredy ha sparato nel buio verso il basso. Cinque colpi, due hanno raggiunto l’uomo che era entrato nel capannone”. I periti hanno anche spiegato perché una delle pallottole ha centrato Vitalie dal basso verso l’alto: “Probabilmente è caduto o è scivolato e il colpo di Fredy è rimbalzato per terra” riprende l’avvocata che sottolinea come sia stato il colpo del 2014 che ammontava a 110 mila euro a segnare una svolta: “Fredy era preoccupato per la sua attività e pensò di ritagliare nel capannone una stanza soppalcata. All’inizio non pensava di restarci a dormire, infatti non mise subito un letto ma soltanto un divano. Piano piano però un po’ per le incursioni dei ladri, un po’ perché a volte la mattina cominciava presto il lavoro e la sera finiva tardi, rimaneva a dormire. Per non lasciarlo solo anche la moglie restava lì”. La notte del 28 novembre la moglie però era in ospedale ad assistere un familiare. Le indagini hanno appurato che Vitalie non era solo a tentare il colpo ma con un complice fuori dal capannone e forse altri due in una macchina. Nessuno di questi è stato mai rintracciato. Vitalie aveva sui documenti il cognome della moglie e quindi all’inizio pareva incensurato, ma quando è stato identificato è emerso che aveva una lista di precedenti di polizia per furti e rapine. Ultima nota di cronaca, nel gennaio scorso Fredy Pacini ha subito un altro tentativo di furto. Scatta la prescrizione se sulla recidiva manca la valutazione dei precedenti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2019 Effetto recidiva sterilizzato per la prescrizione. Ogni volta che il giudice valorizza i precedenti penali dell’imputato per negargli le attenuanti generiche questo non ha come conseguenza automatica anche il riconoscimento dell’aggravante della recidiva, con il successivo aumento di pena da valutare anche ai fini del maturare della prescrizione. Lo chiariscono le Sezioni unite con la sentenza n. 20808 depositata ieri. Per le Sezioni unite infatti è fondato su “premesse non condivisibili” il ragionamento opposto perché impoverisce il giudizio sulla recidiva, finendo per ridurlo alla constatazione dell’esistenza di precedenti penali “che, accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa fare velo all’assenza di una reale indagine al riguardo”. Perché quest’ultima è invece, sottolinea la pronuncia, necessaria. Il giudizio in materia di recidiva e il peso da dare ai precedenti penali è infatti diverso rispetto a quanto previsto in materia di riconoscimento delle attenuanti: può accadere allora che i diversi giudizi, quello sul (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello (positivo) sul riconoscimento della recidiva, non abbiano una base di fatto coincidente. I precedenti, nella valutazione sulla recidiva, hanno un perimetro più limitato. Le Sezioni unite ricordano che costituiscono precedenti penali valutabili per la recidiva solamente le condanne definitive e solo quelle che sono diventate tali prima della commissione del nuovo reato; nel giudizio sulle attenuanti, il rilievo dato ai precedenti serve invece al giudice per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena. Del resto, afferma ancora la sentenza, la irriducibilità della recidiva alla presenza di precedenti penali rappresenta uno degli elementi della giurisprudenza costituzionale successiva all’entrata in vigore della legge ex Cirielli (la n. 251 del 20025, con interventi, tra l’altro, su recidiva appunto e prescrizione). La Consulta cioè ha sottolineato più volte la necessità che il giudice, prima di affermare la recidiva, ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale costituito dalla condanna precedente, ma anche quello sostanziale rappresentato dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere. Nel caso approdato davanti alle Sezioni unite, l’esistenza di precedenti aveva avuto come effetto il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, ma nulla era stato specificamente detto in materia di recidiva. Infatti di questa non c’era traccia nella determinazione della pena inflitta, che, infatti, non era stata aumentata. Le Sezioni unite, allora, non possono che annullare senza rinvio per il maturare della prescrizione dei reati contestati. I professionisti: più garanzie nei controlli antiriciclaggio di Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2019 Antiriciclaggio “5.0” più a misura di addetto ai lavori. Diritto all’assistenza di un professionista durante tutte le fasi dell’ispezione e del controllo. Consultazione gratuita sia del sistema pubblico per la prevenzione del furto di identità nell’espletamento dell’adeguata verifica sia delle liste di persone politicamente esposte da parte dei soggetti tenuti agli obblighi antiriciclaggio. Identificazione del titolare effettivo con riferimento alle partecipazioni nella società di ultima istanza. Inversione dell’obbligo di comunicazione di incongruenze al registro delle imprese. Eliminazione della necessità per gli organi di autoregolamentazione di comunicare al Comitato di sicurezza finanziaria numero e tipologia dei decreti sanzionatori adottati dalle autorità competenti nei confronti degli iscritti, perché si tratta di informazioni non conosciute né conoscibili dagli Ordini. Sono i correttivi proposti dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti (Cndcec) e dal Consiglio nazionale forense (Cnf) allo schema di decreto legislativo che recepisce la quinta direttiva comunitaria antiriciclaggio (2018/843/Ue). Commercialisti e avvocati hanno partecipato alla consultazione pubblica indetta dal Mef e chiusa lo scorso 20 aprile. Nel documento diffuso ieri con le proposte di modifica, i due Consigli nazionali preliminarmente propongono per il futuro “una diversa procedura per le consultazioni degli organismi di autoregolamentazione”. Nel caso specifico “un’interlocuzione diretta con il Cnf e il Cndcec, prima della redazione della bozza dello schema, avrebbe rappresentato a livello istituzionale un riconoscimento più corrispondente al reale compito istituzionale assegnato a detti organismi e, a livello redazionale, un effettivo e diretto valore aggiunto al testo dello schema del decreto”. Andando al merito delle osservazioni, si fa notare come la nuova previsione in base alla quale la Guardia di Finanza potrà acquisire “anche attraverso ispezioni e controlli” presso i soggetti obbligati debba essere accompagnata - in ossequio a quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - dal diritto a essere assistito da un professionista, avvocato o commercialista. Anche sull’adeguata verifica della clientela, Cndcec e Cnf sottolineano che il rispetto degli obblighi in questione “non può in alcun modo avvenire a titolo oneroso”. Da questa considerazione, deriva la richiesta che per i soggetti obbligati la consultazione del sistema pubblico per la prevenzione del furto di identità sia “gratuita”. Nella stessa direzione va l’auspicio che si arrivi all’obbligo di pubblicazione e aggiornamento periodico di liste di persone politicamente esposte (Ppe) nazionali e internazionali che siano gratuitamente accessibili da parte dei destinatari degli obblighi antiriciclaggio. Sul titolare effettivo commercialisti e avvocati chiedono di precisare ulteriormente nella modifica all’articolo 20 del Dlgs 231/2007 che, qualora gli altri criteri non consentano un’identificazione univoca, l’individuazione venga fatta in riferimento alla società di ultima istanza come “centro decisionale accentrato delle scelte nel contesto del gruppo di società cui la controllata italiana appartiene”. Guida in stato di ebbrezza anche quando si soffia poco nell’etilometro. Ma non sempre di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2019 Per invalidare l’alcoltest non basta che l’etilometro segnali che l’aria soffiata dal guidatore ha “volume insufficiente”: il risultato della misurazione si considera comunque valido, come ha ribadito la Cassazione con la sentenza 20814 depositata ieri. Il principio è lo stesso affermato già dal 1995, ma non è valido sempre. E molto dipende dal fatto che la scritta “volume insufficiente” - con la quale l’apparecchio segnala che la quantità d’aria soffiata e analizzata è bassa rispetto agli standard previsti dal fabbricante ma non tale da impedire del tutto la rilevazione - compaia per uno solo dei due test obbligatori per legge (articolo 379, comma 2, del Regolamento di esecuzione del Codice della strada) oppure su entrambi. Nel caso deciso con la sentenza 20814, il problema riguardava solo uno dei due test. Ciò è bastato alla Quarta sezione penale della Cassazione per richiamare la sua sentenza 20545/2016, con la quale aveva stabilito che - ai fini dell’accertamento della guida in stato di ebbrezza nei casi in cui costituisce reato (tasso alcolemico da 0,81 grammi/litro in su) - è sufficiente che una sola delle due misurazioni rientri nella fascia che ha rilevanza penale, “se corroborata da elementi sintomatici desumibili dagli atti” (e in effetti nel verbale degli agenti della Polizia stradale si segnalava il forte alito vinoso). In un altro caso analogo (sentenza 19161/2016), la Quarta sezione aveva ribadito il principio. Aggiungendo che, quando l’aria esaminata dall’etilometro è poca, l’imputato sarebbe comunque favorito perché anche il tasso alcolemico misurato risulterebbe inferiore a quello effettivo. Inoltre, spetta all’imputato dimostrare che c’è un malfunzionamento dell’etilometro: la scritta “volume insufficiente” non indica di per sé un errore. Anche questo è un principio consolidato (la sentenza depositata ieri richiama la 6636 e la 22604 del 2017). Ma che cosa accade quando per entrambi i test l’etilometro segnala che la quantità d’aria soffiata è insufficiente in entrambi i test effettuati? Una risposta la fornisce la sentenza 23520/2016, che ha esaminato i due orientamenti contrapposti evidenziati precedentemente dalla giurisprudenza della Cassazione (sempre della Quarta sezione) in casi di questo genere. Il primo orientamento (sentenza 35303/2013), più garantista, riteneva contraddittorio che l’etilometro da un lato segnalasse “volume insufficienze” e dall’altro, nonostante l’esiguità dell’aria analizzata, fornisse comunque il risultato quantitativo della misurazione. Di fronte a questa “incompatibilità logica” tra i dati rilevati e il “corretto funzionamento della macchina”, il giudice dovrebbe prendere atto che non ci sono i presupposti per una condanna penale, nemmeno quando il verbale evidenzia sintomi di ebbrezza del conducente. Il secondo orientamento (sentenze 1878/2013 e 22239/2014), invece, mette in relazione il volume insufficiente con la volontà dell’interessato di opporsi al test. Per questo il conducente va ritenuto responsabile di guida in stato di ebbrezza - articolo 186, comma 2, lettera b) oppure c) del Codice della strada - o di rifiuto di sottoporsi al test (articolo 186, comma 7). Descritti i due orientamenti, la sentenza 23520/2016 se ne distacca, facendo notare che nessuno dei due tiene conto di parametri scientifici. Il giudice deve quindi analizzare caso per caso se il valore numerico che appare come risultato della misurazione sia attendibile nonostante venga riportato dall’etilometro assieme al “volume insufficiente”. Non solo: per dimostrare la colpevolezza dell’imputato non si potrà fare riferimento ai sintomi di ebbrezza eventualmente riportati dagli agenti nel verbale, salvo che questi ultimi siano in grado di attestare “oltre ogni ragionevole dubbio” il superamento della soglia di rilevanza penale (0,8 g/l). Lombardia: così l’ex Opg è diventato una mega Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2019 La struttura di Castiglione delle Stiviere trasformata in 8 comunità con 160 posti. La regione Lombardia, invece di aprire nelle diverse province le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ha deciso di dividere l’ex Ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere in 8 comunità, per un totale di 160 posti letto. Il problema è stato segnalato martedì scorso, durante un convegno organizzato a Milano dal Forum della salute mentale della Lombardia presso l’Auditorium Fondazione Casa della Carità. In mancanza delle Rems che - secondo legge - devono essere piccole comunità, l’ex Opg è stato riconvertito in “Sistema polimodulare di Rems provvisorie”. Quindi, di fatto, è un’unica mega Rems che ospita un totale di 160 posti letto. Tutti, per altro, già occupati. “È un tradimento dello spirito delle norme che hanno portato alla chiusura degli Opg - spiega Luigi Benevelli, presidente del Forum della salute mentale della Lombardia -, perché il senso delle Rems dovrebbe essere che i pazienti psichiatrici che hanno commesso reati continuino ad essere seguiti dai servizi psichiatrici del proprio territorio, invece tutti i lombardi vengono mandati a Castiglione e di fatto vengono seguiti poco e male, salvo alcune eccezioni, dai dipartimenti di salute mentale della loro città d’origine”. Senza parlare della presenza presso gli istituti di pena di internati in attesa di un posto presso le Rems. È, infatti, nota la problematica della insufficienza di posti presso le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza di diversi ambiti territoriali. In taluni casi, la penosità dello stato di detenzione per le persone in questione, sottolineate nelle stesse relative relazioni psichiatriche redatte dagli specialisti, ha indotto Carlo Lio, il Garante regionale dei detenuti della Lombardia, a sollecitare l’individuazione con la massima urgenza di adeguate soluzioni, chiedendo il ricovero tempestivo presso le strutture Rems competenti per territorio regionale di appartenenza. L’asserita incompatibilità del quadro psicopatologico del paziente con il regime detentivo ha condotto anche a ravvisare l’opportunità - in armonia con il criterio normativamente sancito della territorializzazione delle misure di sicurezza psichiatriche - di un avvicinamento del paziente alla rete familiare degli affetti, rilevando altresì che tale soluzione avrebbe contribuito a lenire lo stato di “eretismo” psichico esacerbato dalla lontananza dai luoghi e dai legami affettivi familiari. In altri casi il Garante è intervenuto per sollecitare il reperimento di adeguate comunità psichiatriche, eventualmente anche ricorrendo alle eccezionali ipotesi di residenzialità psichiatrica extra contratto ed extra regione, come previsto dalle disposizioni regionali in materia (Dgr. 2989/ 2014). L’individuazione di un’idonea struttura sanitaria psichiatrica ad alta protezione e assistenza, di frequente comporta infatti notevole difficoltà per i competenti Centri psicosociali (Cps). Detta difficoltà, in concomitanza con l’indisponibilità immediata di posti presso le Rems lombarde, ha condotto a tempi di permanenza troppo lunghi dei pazienti negli Istituti di pena, aggravandone il quadro di disorientamento e non agevolando certo il percorso terapeutico, non escludendo talvolta addirittura il peggioramento del quadro clinico. Abruzzo: non c’è il Garante dei detenuti, Di Carlo (Radicali) in sciopero della fame ilpescara.it, 16 maggio 2019 Il segretario dei Radicali Abruzzo ha scelto una data simbolica per avviare la sua protesta: sabato 18 maggio, data di ricorrenza della morte di Enzo Tortora: “Rispetto per la dignità dei detenuti”. Alessio Di Carlo, segretario dei Radicali Abruzzo, minaccia uno sciopero della fame per sensibilizzare la comunità alla nomina del garante dei detenuti, che manca da 8 anni: “Nonostante l’approvazione della legge e le sollecitazioni che come Radicali le abbiamo rivolto incessantemente, la Regione non provvede alla nomina del garante dei detenuti - afferma Di Carlo - Recentemente perfino una richiesta di incontro con il presidente del consiglio Lorenzo Sospiri, finalizzata a dare il nostro contributo all’uscita da questa situazione di impasse, è rimasta senza riscontro”. Di Carlo ha scelto una data simbolica per avviare la sua protesta: sabato 18 maggio, data di ricorrenza della morte di Enzo Tortora. “Entrerò in sciopero della fame - spiega - per il ripristino della legalità, per il rispetto della dignità dei detenuti, per lo Stato di diritto, in memoria di Enzo Tortora e in sostegno di Radio Radicale. Un’iniziativa di dialogo verso le istituzioni regionali che si protrarrà fino a quando la nomina del garante non verrà quantomeno calendarizzata dal consiglio regionale abruzzese”. Belluno: gli agenti chiedono aiuto al prefetto “la Sezione Salute mentale va chiusa” amicodelpopolo.it, 16 maggio 2019 Nella mattinata di ieri, mercoledì 15 maggio, la Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Belluno è partita in corteo da Baldenich per arrivare in piazza Duomo, davanti alla Prefettura, dove si sono tenuti un sit-in e un incontro con Esposito. “Chiediamo la tutela del personale e rivendichiamo il diritto a lavorare in sicurezza”. Nella mattinata di oggi, mercoledì 15 maggio, gli agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di Belluno sono partiti in corteo da Baldenich per arrivare in piazza Duomo, davanti alla Prefettura, dove si è tenuto un sit-in. Oltre all’incontro con il prefetto Francesco Esposito, richiesto dai poliziotti e dai rappresentanti sindacali di Cisl Fns, Cgil Fp, Sappe, Fsa Cnpp, Osapp e Uilpa. Tema: la situazione in cui versa la sezione Articolazione Salute Mentale della casa circondariale di Baldenich. “Il prefetto ci ha ascoltato, ha accolto le nostre denunce e ha assicurato che redigerà un documento, che poi provvederà a inviare al ministero della Giustizia”, dice Robert Da Re della segreteria territoriale Cisl Fns. “Nel 2016, con l’apertura della sezione Articolazione per la tutela della salute mentale nell’ex sezione femminile del carcere bellunese, è iniziato un calvario per poliziotti e operatori penitenziari, ma anche per gli stessi detenuti. L’inadeguatezza ha generato un susseguirsi di eventi critici, anche molto gravi, dove talvolta l’incolumità dei poliziotti penitenziari è stata lesa, costringendoli a cure mediche, anche di lunga durata. La sezione deve essere chiusa, senza più aspettare”. In tre anni, ricorda Da Re, sono stati più di 200 gli eventi critici registrati. Ultimo in ordine temporale quello che si è verificato una settimana fa, mercoledì 8 maggio, quando un detenuto ricoverato nella sezione psichiatrica si è scagliato senza motivo contro i due agenti che erano lì in servizio, colpendoli più volte, in tutto il corpo, ma soprattutto al volto. Lo sfogo del detenuto si è placato solamente all’arrivo di altro personale della Polizia Penitenziaria accorso in aiuto. “La situazione è insostenibile e drammatica”, continua Da Re, “e si somma ad altre problematiche. Pensiamo solo che il carcere di Baldenich patisce una carenza di organico del 30%; del 50% per il personale amministrativo. Chiediamo sicurezza per i lavoratori, ma anche maggiore assistenza agli psichiatrici, che nella casa circondariale non hanno cure e assistenza adeguate”. Attualmente la sezione Atsm conta sei detenuti. “I locali in cui sono ospitati sono fatiscenti, piccoli e inadeguati e i detenuti soffrono di gravi patologie psichiatriche che necessitano di assistenza h24, cosa che la struttura non riesce assolutamente a garantire”, sottolinea il segretario Fsa Cnpp Lavinia Roldo, vice ispettore di Polizia Penitenziaria. “La sezione a Belluno, come in altre realtà, è stata aperta dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma la conseguenza è che ci è trovati di fronte a situazioni improponibili, come sta accadendo a Baldenich. La Polizia Penitenziaria non è in grado di far fronte alle problematiche di persone con gravi problemi psichiatrici e, per le strutture con meno di 300 detenuti, non è prevista la presenza del medico h24”. Accade così che, a Belluno, per i detenuti dell’Atsm ci siano uno psichiatria e uno psicologo presenti soltanto 6 ore a settimana ciascuno. “Non si può andare avanti così”, ribadisce il segretario provinciale Cgil Fp Luisa Baschiera, assistente capo coordinatore. “Queste persone erano abituate a spazi ampi e in cui venivano organizzate attività e si trovano ora in locali inadeguati, in cui sono presenti oggetti con cui possono fare del male a sé stessi e agli altri. Pensiamo solo ai vetri delle finestre. A marzo 2018 sono stati distrutti mobili e termosifoni. La somministrazione dei farmaci è un problema e il personale vive con la paura di aggressioni, che sono tra l’altro imprevedibili”. I sindacati denunciano anche una condizione igienico-sanitaria molto precaria nella sezione psichiatrica, soprattutto per quanto riguarda alcuni pazienti e in particolare per un caso definito “al limite della dignità umana”. “Tutte queste problematiche sono state segnalate anche al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria di Padova”, fa presente Da Re. “Ci è stato assicurato che la sezione psichiatrica verrà chiusa e trasferita a Padova, ma intanto la sicurezza di chi ci lavora è ancora a rischio”. Napoli: reinserimento dei detenuti, da Scampia l’appello per una seconda chance di Ciro Iacone informa-press.it, 16 maggio 2019 L’Osservatorio Anticamorra e per la legalità di Scampia lancia un SOS alle Istituzioni: investire sul reinserimento detenuti. Maggio inizia con una forte richiesta da parte di Giovandomenico Lepore, ex procuratore capo di Napoli e attuale presidente dell’Osservatorio. Tale processo aiuterebbe la riqualificazione sociale dell’area nord di Napoli e non solo. (Leggi anche: pizza Giancarlo Siani Coop, il progetto che unisce gusto e legalità). L’organo dell’VIII Municipalità ha ospitato, durante una riunione, un detenuto del carcere di Arienzo diretto da Annalaura De Fusco. L’uomo, su autorizzazione del magistrato di sorveglianza Oriana Iuliano, ha testimoniato, al comitato per la riqualificazione del territorio, la sua partecipazione al corso di legalità tenutosi a cura della giornalista-volontaria Emanuela Belcuore. Non è l’unico, precisa l’Osservatorio, che per l’occasione aveva chiesto di far intervenire almeno cinque partecipanti del percorso. “Bisogna fare di più e investire per il reinserimento sociale degli ex detenuti”, afferma Lepore. Trovandosi emarginati dalla società una volta liberi, “questi ultimi ricascano immediatamente in cattive tentazioni”. Presente all’incontro anche il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, il quale ha confermato che la Regione stanzia poco per gli ex detenuti. Appena 3 milioni di euro per percorsi di reinserimento e i comuni non partecipano ai progetti. L’occupazione, anche lavorativa, produce salute mentale. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, nelle carceri italiane sono oltre 10.000 i detenuti impegnati in diverse mansioni. Svolgere un’attività, durante la reclusione, limita il disturbo anti-sociale che ha portato l’individuo a compiere il reato per cui è stato condannato. Ma, una volta fuori, come si comporteranno quando ritornano nell’ambiente in cui vivono il disagio e l’emarginazione? Verte su questa domanda la riflessione dell’Osservatorio. Per questo motivo è importante che, anche negli istituti penitenziari, venga offerta la possibilità di professionalizzarsi. Studiare, imparare un mestiere, avere un lavoro retribuito, sviluppa la fiducia in sé stessi, negli altri e nelle istituzioni. Vale per tutti e soprattutto per chi commette illeciti perché convinto di non avere alternative valide. Se le persone non hanno in primis autostima, come possono avere fiducia negli altri? Catania: le carceri della provincia “scoppiano” ma è bloccata la nuova struttura di Bicocca di Desire Miranda Quotidiano di Sicilia, 16 maggio 2019 “Le carceri siciliane sono le peggiori d’Italia perché caratterizzate da un sovraffollamento del 200% e da una carenza organica talmente marcata da mettere a rischio la sicurezza dei colleghi e quella dei detenuti. Le condizioni sono poco dignitose perché le strutture sono fatiscenti e con il nuovo sistema carcerario che pone al centro la vigilanza dinamica, ossia ‘tutti aperti’, i detenuti che hanno più forza fisica, economica e mentale riescono a sopraffare gli altri detenuti evitando che venga messo in moto il processo educativo del carcere”. È questa la denuncia di Aldo Di Giacomo, segretario generale Sindacato polizia penitenziaria S.PP. Anche le statistiche pubblicate sul sito del ministero della Giustizia fotografano una situazione da sempre delicata nelle carceri siciliane. Ci sono sempre stati alti e bassi, ma in generale il sovraffollamento la fa da padrone. Secondo i dati aggiornati al 30 aprile scorso, in Sicilia ci sono 23 carceri con una capienza regolamentare di 6.480 posti, ma con 6.509 detenuti. Guardando i dati relativi a Catania, nelle carceri di Caltagirone, Bicocca, Piazza Lanza e Giarre si contano 1067 detenuti a fronte di una capienza totale di 1004. Solo Caltagirone ha un numero di internati inferiore rispetto al limite, gli altri lo superano e lo hanno sempre superato. Piazza Lanza, inoltre, è l’unica casa circondariale che ha anche un settore femminile. Sono 46 le donne detenute. Spesso si è invocata la costruzione di nuove carceri, ma, sebbene nel 2013 si sia deciso di concretizzare un nuovo progetto per 450 detenuti a Bicocca, accanto la struttura esistente, e all’uopo siano stati stanziati 27 milioni di euro, tutto è bloccato. “Uno scandalo di proporzioni bibliche perché ci sono 27 milioni di euro accantonati e il ministro e il mondo della politica non vogliono farsene carico”, denuncia ancora Di Giacomo. “Nonostante abbiano perso tutti i gradi di giudizio - continua - hanno detto che non verrà costruito. Sono disposti a pagare milioni di euro di penale pur di non realizzarlo sebbene per l’economia penitenziaria di Catania e della Regione sarebbe molto importante”. Di Giacomo, inoltre, sottolinea il paradosso che accompagna questa scelta. Il progetto infatti, prevede un nuovo tipo di carcere, con ampia autonomia dei carcerati e pochi uomini di polizia a controllarli. Una scelta che penalizza il ruolo riabilitante del carcere, secondo il segretario generale del sindacato della polizia penitenziaria, “perché vengono sopraffatti da chi non vuole essere rieducato, oltre a mettere a rischio sia la tutela di chi ci lavora”. A completare il quadro, poi, la mancanza di posti sufficienti in Sicilia che pregiudica uno dei diritti del detenuto colpevole di reati comuni: la possibilità di scontare la propria pena non troppo lontano dai propri affetti. “Si lede inoltre un diritto importante che è stato l’attuale governo a volere: giustamente dicono la pena va scontata dove hai gli affetti, ma i dati ci dicono che il 20% dei detenuti comuni sono da altre parti d’Italia. Allora delle due una: l’amministrazione e il ministro non sanno da che parte andare, conclude Di Giacomo. Benevento: essere madre dietro le sbarre, tra speranze ed emergenze ottopagine.it, 16 maggio 2019 Il progetto rivolto alle detenute del Carcere di Benevento. È emergenza sovraffollamento e sanità. Sui lori volti la soddisfazione di aver compiuto quei passi avanti che significano crescita e arricchimento. Hanno preso parte anche le detenute al report finale del progetto “Genitori dentro” che si è svolto nella sezione femminile del carcere di Capodimonte a Benevento, promosso dal Garante dei Detenuti campano, Samuele Ciambriello, e realizzato dalla cooperativa Il Melograno. Da un lato i problemi da “genitore recluso”, dall’altro le azioni che la società deve mettere in campo per integrare la comunità del carcere, questi i binari dell’iniziativa in programma da gennaio ad aprile e rivolta ad un gruppo di donne madri. “Si tratta di progetti fondamentali perché i detenuti torneranno a far parte della società e dovranno essere riaccolti. Prima comincia questo percorso, meglio è”. Così il direttore della casa circondariale Gianfranco Marcello che non ha mancato di evidenziare le carenze che si registrano nell’istituto di pena: “Sovraffollamento e mancanza di personale soprattutto nel reparto femminile, in quanto non è possibile attuare sinergia con il personale maschile” ma anche il “problema sanitario”. L’assenza di un reparto sanitario detentivo presso l’ospedale Rummo di Benevento è stata rilevata dal Garante dei detenuti campani Samuele Ciambriello. E a riguardo Marcello ha proseguito: “Ho cercato più volte di contattare il dirigente dell’ospedale ma attendo ancora una risposta. Faccio appello alla doverosa collaborazione istituzionale perché se è chiaro che si tratta di un problema di non rapida soluzione è pur vero che occorre cominciare”. “Il lavoro svolto dalla cooperativa - spiega invece il Garante Ciambriello - mi ha permesso di conoscere le problematiche delle detenute. Fare il punto su questo è giù un aiuto anche rispetto ai ritardi del tribunale di sorveglianza, sull’assistenza sanitaria e per l’incremento di figure sociali di supporto”. Un quadro impietoso che Ciambriello descrive attraverso i dati: “Su 7mila400 detenuti in Campania operano solo 400 educatore e 15 psicologi. Le figure di assistenza sociale sono esigue. È per questo che sono necessari progetti come quello messo in campo qui”. “Dai singoli colloqui alle attività laboratoriali” a raccontare il percorso di “Genitori Dentro” la psicologa de Il Melograno Adele Caporaso che ha evidenziato la “bella solidarietà” attivata dal lavoro svolto. “Nonostante difficoltà legate al sovraffollamento (siamo ben oltre la capienza massima di 85 detenute) e la carenza di personale, quello femminile è il reparto che funziona meglio” ha messo invece in evidenza il comandante Linda De Maio. “Un risultato ottenuto non solo grazie al lavoro della polizia penitenziaria ma anche grazie alla buona risposta delle detenute”. E poi il direttore della Caritas Diocesana Don Nicola De Blasio: “Quando abbiamo cominciato il carcere era una parte chiusa ed esterna rispetto alla città. Adesso, invece, è scattato un bellissimo scambio. Ci sono state occasioni in cui le detenute hanno prestato il loro supporto regalando quella risposta di solidarietà che è il senso stesso dei progetti attivati”. Bari: in Consiglio regionale la mostra “Spazi Liberi - L’arte nel sociale” trmtv.it, 16 maggio 2019 L’arte e la bellezza, la danza e la musica, entrano in luoghi poco accessibili, come carceri, Centri di accoglienza e Rems, con il progetto promosso dal coreografo brindisino Vito Alfarano e la sua compagnia AlphaZTL. Un progetto che ha dato vita alla mostra “Spazi Liberi - L’arte nel sociale”, inaugurata nella sede del Consiglio regionale della Puglia, che offre a tutti i visitatori l’opportunità di potersi affacciare oltre quelle alte mura invalicabili, recinzioni e sbarre, e scoprire così un pezzetto di mondo nascosto, dove spesso la bellezza riesce a fare breccia. Nell’occasione, sono stati anche presentati i risultati del progetto Zip - Azioni di cerniera, promosso da Arci Bari, la cui edizione pilota volge ormai al termine. È stata infatti presentata l’edizione 2.0 del progetto di mediazione culturale e orientamento legale destinato ai detenuti stranieri del carcere di Bari. Tra gli obiettivi, supportare i migranti in carcere che troppo spesso vivono una condizione di emarginazione totale, non riuscendo a comunicare nemmeno i bisogni quotidiani, come il tipo di alimentazione o una terapia medica da seguire. 93 gli interventi realizzati che hanno coinvolto circa una sessantina di detenuti, toccando ambiti differenti, da quello sanitario a quello legale. Obiettivi della seconda edizione saranno il miglioramento del contesto, il potenziamento delle competenze interne all’istituto e la creazione di percorsi di integrazione per detenuti stranieri. Roma: “Braccio 5, segnali radio da Regina Coeli”, i detenuti raccontano il carcere Left, 16 maggio 2019 Non c’è stato bisogno di lenzuola annodate e nemmeno di lime. Ma non è stata comunque un’impresa facile fare uscire dal carcere di Regina Coeli le parole registrate dai detenuti nel corso del primo laboratorio radiofonico realizzato all’interno del penitenziario romano. Durante i tre mesi di workshop, ogni volta che si premeva il tasto rec, si doveva poi attendere il via libera delle guardie penitenziarie, che provvedevano a riascoltare tutti gli audio consegnati per poi decidere cosa potesse uscire e cosa no. È accaduto così che alcune parole e intere frasi siano dovute restare dentro. Parole come fil di ferro, (che nel gergo carcerario equivale a manganello) o come rivolta. Oppure frasi come: “Avevo capito come funzionavano le cose …..e così ho detto che ero caduto dalla branda”. Tutto quello che resta lo potete ora ascoltare in “Braccio 5, segnali radio dal carcere di Regina Coeli”, un racconto corale, realizzato da un gruppo di detenuti, su cosa sia il dentro e il fuori della vita carceraria. Il lavoro, dopo esser stato diffuso su Radio Tre Rai e su una serie di emittenti comunitarie tra cui Radio Popolare a Milano, Radio Ciroma a Cosenza e Radio Beckwith a Pinerolo, verrà presentato per la prima volta, il 21 e 22 maggio, al Macro Asilo di Roma. In questa occasione, l’esperienza proposta sarà quella di un ascolto collettivo: un’immersione sonora in un mondo che viene raccontato evitando le trappole della retorica e del vittimismo. Il fulcro della narrazione, mixata in un montaggio che a volte suona come un rap, è un percorso audio all’interno del più antico penitenziario della capitale: l’ingresso, la cella, la sala dei colloqui, i corridoi, l’uscita. A fare da guida sono detenuti che hanno tutti nomi rigorosamente inventati. Ognuno ha la sua storia e la sua ricetta da proporre. Ognuno ha la sua voce e una conoscenza da voler condividere. La loro principale abilità sta nell’usare i suoni e le parole come strumenti per scavalcare muri e avvicinarsi ad una società da cui sono tagliati fuori. È il potere della radio, come direbbe Orson Welles, mezzo in grado di produrre immagini più potenti di qualsiasi schermo ad alta definizione, grazie alla possibilità di stimolare l’immaginazione di chi ascolta. All’interno del percorso, frutto di un progetto realizzato della cooperativa PID e da Ilde Sonora, è difficile perdersi. Su sentieri sonori ben tracciati, Max, Dottor Gin, Brecciolino, El Cubano, Candy Candy e gli altri protagonisti di Braccio 5 escono dal Regina Coeli per smontare la retorica giustizialista, quella del sbattiamoli dentro e buttiamo la chiave, e per riportare al centro dell’attenzione le persone e l’universo carcere, di cui si sa sempre troppo poco. #braccio 5, segnali radio da Regina Coeli, 21 e 22 maggio Macro Asilo, via Nizza 138. Per info e prenotazioni ildesonora@gmail.com. Roma: premio “Sulle ali della libertà” ad un detenuto di Rossano Calabro di Davide Dionisi vaticannews.va, 16 maggio 2019 Francesco Argentieri ha vinto la seconda edizione con la tesi di sociologia: “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale”. A Roma la cerimonia di consegna dell’onorificenza. L’iniziativa è promossa dall’Associazione “Isola Solidale”. Si chiama Francesco Argentieri ed attualmente è ospite della Casa circondariale di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Conseguendo una laurea in sociologia con la tesi su “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale” ha vinto la seconda edizione del premio nazionale “Sulle ali della libertà”, l’iniziativa promossa e ideata dall’Associazione Isola Solidale, che a Roma da oltre 50 anni aiuta i detenuti in difficoltà. Tredici in tutto gli elaborati arrivati da diversi istituti di pena, valutati da una commissione presieduta da Mons. Paolo Lojudice, neo Arcivescovo di Siena-Colle Val d’Elsa-Montalcino e da Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio. Alla cerimonia il vincitore non ha preso parte ma ha fatto sapere che il premio (un buono di mille euro) lo utilizzerà per acquistare testi universitari e volumi che andranno ad arricchire la sua biblioteca. “Le mie letture preferite sono i romanzi, perché oltre ad essere un sognatore, questi libri mi permettono di evadere mentalmente” ha commentato Francesco Argentieri. “L’istruzione in carcere può essere l’inizio di una nuova avventura che può migliorare il reo, facendolo confrontare con nuove realtà e nuove prospettive didattiche” ha aggiunto. Chi si trova in carcere, pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai. All’umana esigenza di raggiungere un equilibrio interiore anche in questa situazione difficile può recare un aiuto determinante la lettura e la scrittura. “L’anno scorso” ha detto Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale “il vincitore della prima edizione ricevendo il premio ha sottolineato che la cultura rende liberi. È per questo che abbiamo scelto di proseguire con questa nostra iniziativa e intendiamo farlo ancora per tanti anni. Se i detenuti potessero trascorrere il tempo del carcere a formarsi e a studiare per prendere un titolo di studio, sicuramente uscirebbero più facilmente da quei circuiti che li hanno portati a delinquere” ha aggiunto. “Sulle ali della libertà” ha confermato che l’approccio con la cultura in carcere agevola e favorisce qualsiasi progetto di rieducazione, recupero e reinserimento. Reinserimento che deve cominciare da prima che il detenuto esca dal carcere. Una volta uscito, poi, le istituzioni, il volontariato, ma anche le Regioni e gli enti locali devono cooperare affinché il percorso riabilitativo in carcere non sia vanificato dal nulla che si trova fuori. Mons. Lojudice si è detto convinto che la cultura, quando varca le porte del carcere, aiuta a riflettere su se stessi e sulla propria vita. Una sorta di “ponte” tra l’esterno e l’interno che permette ai cittadini che stanno fuori di capire cosa succede all’interno del carcere. Obiettivo dev’essere quello di un istituto a misura d’uomo”. Pozzuoli (Na): detenute-modelle per un pomeriggio, tra make up e abiti da sposa di Francesca Scognamiglio Il Mattino, 16 maggio 2019 Moda, spettacolo e solidarietà nel carcere femminile di Pozzuoli per l’evento “È Moda per il sociale” in programma questo pomeriggio presso la casa circondariale di via Pergolesi, dove, a partire dalle ore 15, si svolgerà un vero e proprio fashion show dalle finalità sociali e culturali che vedrà come protagoniste le detenute che, per l’occasione, diventeranno modelle per un giorno. L’evento, organizzato dalla P&P Academy e promosso dalla Fitel Campania e dall’associazione Nirvana, si terrà nel teatro dell’istituto dove le detenute sfileranno su tacco 12 e con abiti di alta sartoria dinanzi una platea composta da autorità istituzionali, guardie penitenziarie e da molte altre donne ospiti della struttura. “Recluse ma non escluse” è questo Io slogan della sfilata, il cui obiettivo è quello di offrire a venti speciali top model un momento di svago e di aggregazione, e fornire loro strumenti utili per un eventuale futuro occupazionale nel settore della moda. L’iniziativa è nata infatti con Io scopo nobile di portare l’espressione artistica della moda in un luogo dove la femminilità rischia di essere annullata e dare una speranza per il domani, fuori dalle mura del penitenziario, a tutte coloro che nei mesi scorsi hanno preso parte ai laboratori didattici che si sono svolti all’interno del carcere. Con la soddisfazione della direttrice del penitenziario, Carlotta Giaquinto, molte delle donne che vivono dietro le sbarre, ogni giorno svolgono attività come la scuola di portamento e di galateo, che da diversi anni cura la docente Anna Paparone, e che culmineranno nella messa in scena di oggi. La stessa Paparone sarà coordinatrice della manifestazione e condurrà lo spettacolo pomeridiano insieme al presentatore televisivo e speaker radiofonico Gaetano Gaudiero. Dopo l’esperienza delle scorse edizioni, si ripete dunque un appuntamento molto atteso da queste donne dal vissuto difficile che indosseranno, oggi, in passerella, abiti realizzati da stilisti d’eccezione. Le indossatrici di Pozzuoli, truccate come vere star da professionisti del make-up quali Nicola Acella e Antonio Riccardo e pettinate da Ciro Paciolla, vestiranno in palcoscenico gli abiti di alta moda firmati Luciano Fiore Couture e le creazioni da sposa di Anna Ferrillo. Sarà poi la volta delle collezioni messe a punto dai giovani studenti dell’Istituto Superiore Marconi e dell’Istituto Don Geremia Piscopo che porteranno in passerella, insieme agli abiti, anche messaggi sociali contro la violenza di genere e contro l’inquinamento ambientale attraverso la presentazione di una linea di vestiti realizzati con materiale da riciclo. Saranno presenti, tra gli altri, alla kermesse: la direttrice della casa circondariale Giaquinto, l’assessore alle pari opportunità della regione Campania Chiara Marciani e diversi sindaci dei comuni dell’area flegrea. Una vera e propria catena di solidarietà dunque tra istituzioni, scuole di portamento e associazioni del territorio per far sentire la propria vicinanza a coloro che scontano una pena, affinché non si sentano abbandonate. Non mancheranno, nel corso della serata, anche dei momenti di spettacolo. Dopo il fashion show, la manifestazione “È Moda” proseguirà con le esibizioni live musicali di Mr. Hyde ovvero Ludo Brusco e Rudy Brass e Ivan Granatino. Al termine della sfilata inoltre, lo chef stellato Pasquale Palamaro preparerà per tutte le ospiti deliziose pietanze. Il M5S non molla su Radio Radicale, che però è insostituibile. L’ipotesi Rai di Enrico Cicchetti Il Foglio, 16 maggio 2019 Dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, lo stanno sigillando dietro un vetro oscurato. La conferma è arrivata ieri mattina in commissione Vigilanza Rai: il 21 maggio scadrà e non verrà rinnovata la convenzione con Radio Radicale, che dal 1994 consente di ascoltare senza filtri ciò che viene detto in Parlamento, in Corte costituzionale, nei processi più importanti. Il grillino Vito Crimi, ponziopilatesco, scarica la responsabilità sul collega a cinque stelle Luigi Di Maio: “Non è di competenza del mio dipartimento ma del Mise”, ha spiegato il sottosegretario con delega all’Editoria. “Ricordo che c’è già un canale istituzionale della Rai, Gr Parlamento, che trasmette le sedute parlamentari. È una duplicazione dell’oggetto della convenzione”. “Non esiste un doppione di Radio Radicale”, dice al Foglio Francesco Merlo, editorialista di Repubblica, che è stato anche consulente Rai per il piano di riforma del sistema news del servizio pubblico. “Nessun altro canale trasmette le sedute per intero, né i processi: nessuno fa quel servizio. Tanto che nel M5s hanno immaginato una gara per appaltarlo e lo stesso Crimi riconosce che l’archivio della radio è unico”. Secondo Merlo, i due canali sono “imparagonabili”. Di Radio Radicale, che non può trasmettere pubblicità, si sa quanto costa allo stato ed è regolamentata da un contratto preciso. Gr Parlamento è regolato da tre righe del contratto di servizio, non esiste un bilancio pubblico e non è prevista nessuna forma di controllo né di rendicontazione. “La Rai ha costi altissimi”, aggiunge Merlo. “Qualche trasferta per seguire le Olimpiadi basta a coprire il costo annuo di Radio Radicale”, che a oggi ha due fonti di finanziamento, entrambe messe a rischio da interventi del governo: i 10 milioni di euro annui della convenzione e il fondo per l’editoria, con cui l’emittente riceve ogni anno circa 4 milioni di euro (più o meno quelli che spende per la sola gestione tecnica della rete nazionale). “In totale sono poco più di 20 centesimi a italiano all’anno”, ricorda anche Mattia Feltri, editorialista della Stampa. “Ma farne un discorso economico, un’analisi costi- benefici è totale cecità politica. Quella di Crimi è una questione di bandiera, per mostrare che il M5s è contro la casta”. Ma il sottosegretario grillino è categorico: “Nel governo non c’è intenzione di rinnovare la convenzione” con l’emittente. Eppure, se il M5s si mostra compatto, il Carroccio si mette di traverso. Con un emendamento al decreto Crescita a prima firma Massimiliano Capitanio, la Lega ha proposto ieri sera alla Camera una proroga di sei mesi, con una copertura di circa 3,5 milioni. “Non vogliamo passare per quelli che chiudono le radio a causa di decisioni discutibili del passato. Ma bisogna rivedere la gestione delle risorse e l’affidamento dei servizi. Questa è una proposta-ponte, di traghettamento. L’auspicio è di coinvolgere la Rai ed eventualmente soggetti privati, come Radio Radicale, ma con tecnologie in grado di contenere i costi”, ha spiegato Capitanio. E alla domanda se l’emendamento sia condiviso con il M5s ha replicato: “Per ora è nostro”. Un’eventualità sarebbe la fusione con Viale Mazzini, un’intesa tra servizi pubblici. Paolo Chiarelli, amministratore delegato di Radio Radicale, dice al Foglio che per ora “la questione con la Rai è in alto mare e in ogni caso approvare un’intesa in una settimana, avendo avuto a disposizione 25 anni, è a forte rischio errori per entrambe le parti”. Nel caso peggiore, aggiunge, si stanno testando altre strade, come cercare il sostegno di alcune fondazioni. “L’obiettivo è mantenere e valorizzare il nostro modello di servizio pubblico, riconosciuto anche dall’Agcom nella segnalazione fatta al governo”, senza diluirlo nel minestrone Rai. “Alcune importanti attività svolte da Radio Radicale non sono oggetto della convenzione, legata esclusivamente alla trasmissione delle sedute parlamentari”, ha detto ieri Crimi. “Delle due l’una: o abbiamo pagato troppo una convenzione, o Radio Radicale ha svolto delle attività non in convenzione utilizzandone i fondi”. Proprio così, risponde Chiarelli: “Abbiamo usato fino all’ultimo centesimo per fare servizio pubblico, per seguire ciò che non segue nessun altro, conservarlo e renderlo pubblico”. “Radio Radicale nasce proprio con l’idea di stare fuori dal mercato”, dice Feltri: “Il mercato non ha interesse per il processo d’appello sulla Trattativa, per le voci dal carcere, per la presentazione del carteggio tra Croce e Gentile, ma la democrazia ne ha bisogno. Altrimenti, seguendo quella logica, non bisognerebbe finanziare la ricerca farmaceutica sulle malattie rare. Radio Radicale serve per la completezza della democrazia. Portarla sotto un direttore Rai significa demolire un’idea di informazione che oggi è minoritaria e quindi ancora più preziosa”. Radio Radicale, la Lega contro Crimi: presentato un emendamento ad hoc di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 maggio 2019 Il sottosegretario in commissione Vigilanza: “Il governo non rinnoverà la convenzione”. In Aula, con i cartelli, la protesta dei senatori Pd. A salvare Radio Radicale potrebbe essere il governo, lo stesso che ha deciso la sua eliminazione. Grazie ad una campagna elettorale che rasenta il surrealismo e sul filo di lana della scadenza della convenzione con il Mise (il 21 maggio), per l’ennesima volta l’esecutivo mette in scena l’evergreen gioco delle parti. Ieri infatti mentre il sottosegretario all’Editoria, Vito Crimi, in audizione in Commissione Vigilanza Rai, confermava che “nel governo non c’è alcuna volontà di prorogare la convenzione”, la Lega ha depositato alla Camera un emendamento al Decreto crescita che proroga di sei mesi il contratto con Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari, in attesa di rinnovare la gara per l’affidamento del servizio pubblico mai più bandita dal 1994, coinvolgendo questa volta anche Gr Parlamento. La spesa per la proroga stimata nell’emendamento leghista a prima firma del segretario della commissione Vigilanza, Massimiliano Capitanio, è di 3,5 milioni di euro. Poche ore prima, mentre i senatori del Pd protestavano in Aula, durante la discussione sul decreto Agricoltura, innalzando cartelli contro la mannaia del governo, Matteo Salvini ribadiva: “Io difendo la libertà di parola di tutti, anche di Radio Radicale, che è un peccato cancellare con un tratto di penna. Spazi di recupero economico ce ne sono sulla tv pubblica, con cui si pagherebbero metà delle radio italiane”. Ma se quello “maggiore” si esercita in provini di democrazia, il “gerarca minore”, come lo aveva etichettato il sempre più compianto Massimo Bordin, in commissione Vigilanza ha prima tentato inutilmente di evitare la discussione sul tema - “la questione non è di competenza del mio Dipartimento ma del Mise” - poi ha spiegato i motivi per i quali la sua parte politica ha deciso di tagliare le gambe all’”organo della lista Marco Pannella”. “A dicembre abbiamo fatto una proposta di proroga di un anno a 5 milioni di euro. Perché 5 anziché 10? Perché le tecnologie consentono di ridurre i costi. Non solo, voi stessi avete ribadito l’importanza di attività di Radio Radicale che non sono oggetto di convenzione. Vuol dire che l’emittente ha svolto altre attività non in convenzione utilizzando fondi della convenzione”. In sostanza, sembra di capire, se Radio Radicale non avesse voluto strafare nella trasparenza - in applicazione della massima einaudiana “conoscere per deliberare” - aggiungendo al minimo sindacale richiesto anche le registrazioni dei lavori in commissione, dei convegni, dei congressi dei partiti, dei processi, delle sedute del Csm e via dicendo, non ci sarebbe stato alcun problema. Il Sottosegretario all’Editoria ricorda poi che “la convenzione con Radio Radicale è frutto di un bando di gara nel ‘94, in forza di un decreto legge non convertito, ma rinnovato identico subito dopo e ancora dopo. In tutto, per 17 volte, cioè 34 mesi. Se oggi uno provasse a fare una cosa del genere, ci sarebbe la sollevazione dei costituzionalisti”. Motivo sufficiente, immaginiamo, per castigare chi allora vinse la gara. Quanto all’archivio di Radio Radicale, continua Crimi, “un ragionamento si può fare: alcuni colleghi hanno proposto di proseguire la digitalizzazione della parte vecchia. Questo lavoro è però oggetto di una convenzione diversa e ribadisco la massima attenzione a preservarlo. Questo archivio, però, è stato realizzato con soldi pubblici e anche la valorizzazione economica deve tener conto di questo aspetto”. “So che la Rai ha fatto dei passaggi con Radio Radicale riguardo gli asset di interesse pubblico - conclude il pentastellato - ma è un’attività che svolge l’azienda. Credo che in queste scelte la politica non debba entrare per garantire la libertà del servizio pubblico”. A Crimi risponde con una nota il Cdr di Radio Radicale: “Il sottosegretario ha descritto una realtà che non corrisponde ai dati oggettivi eludendo le due questioni principali su cui il governo continua a non rispondere: perché porre fine ad un servizio pubblico di interesse generale riconosciuto dall’Agcom e dalla gran parte del mondo politico, accademico, della cultura, dell’informazione e dalla società civile; quale sarà il destino degli oltre cento giornalisti, tecnici, archivisti, amministrativi, dipendenti delle società esterne che perderanno il posto di lavoro”. Ma il Sottosegretario non riesce a dare risposte convincenti. Nemmeno al vicepresidente della commissione Cultura del Senato, il dem Francesco Verducci, che gli chiede anche conto dell’azzeramento del fondo per il pluralismo che assesta “un colpo micidiale all’informazione no profit, tra cui testate storiche del valore di Avvenire e il manifesto”. “Azzerare questo fondo darà più forza agli oligopoli e toglierà ai cittadini il diritto ad essere informati. Il governo - denuncia il senatore Pd - vuole costringere al silenzio voci fondamentali per la nostra democrazia”. “Prete in carcere. Di cella in cella sognando il cielo”. Un diario di viaggio della speranza Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019 Don Eliseo Lilliu, classe 1941, è un prete poliedrico e grande appassionato di storia e arte. Ha ideato e realizzato la Pinacoteca Eliseo di Terralba dopo aver diretto il Museo storico di Sanluri. Per venticinque anni ha svolto anche la mansione di predicatore tra i Frati Cappuccini, dove è entrato quando aveva 25 anni. Oggi fa parte della diocesi di Ales-Terralba, vicino Oristano, e guida la parrocchia Sant’Antonio di Santadi in Arbus (Cagliari). Autore prolifico, ha all’attivo oltre trenta opere che vanno dalla poesia alla narrativa, dalla satira alla commedia. Questo libro, intitolato significativamente “Prete in carcere. Di cella in cella sognando il cielo” (Edizioni Il Pittore d’Oro) è una sorta di diario di viaggio, a metà tra il memoir e l’autobiografia, nel quale don Eliseo racconta la sua decennale esperienza come cappellano nelle carceri della Sardegna. Un’esperienza cominciata quasi per caso, dopo che il direttore di un penitenziario bussò alla porta del suo convento e gli chiese di sostituire il cappellano che era andato via. Il volume raccoglie numerose testimonianze d’incontri con i detenuti, il magistero di Papa Francesco che ai carcerati dedica grande attenzione e vicinanza e varie discussioni sul sistema giudiziario italiano che l’Autore ha intrattenuto nel corso degli anni con vari operatori del mondo della giustizia. Emerge il profilo di un pastore accogliente e disponibile a seguire, senza giudicare, le vicissitudini spesso drammatiche di tanti uomini e donne reclusi ma con la speranza di ricominciare a vivere. “L’indifferenza sembra perbene. Ma uccide proprio come l’odio” di Guido Caldiron Il Manifesto, 16 maggio 2019 Parla Philippe Claudel, autore di “L’arcipelago del cane” (Ponte alle Grazie) che richiama le tragedie dei migranti nel Mediterraneo e indaga, lungo le piste narrative del polar, il confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e “prendere parte”. Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile. Tre cadaveri di sconosciuti trovati sulla spiaggia e la vita nell’isola sembra destinata a mutare per sempre. Richiamando più o meno esplicitamente le tragedie dei migranti nel Mediterraneo, Philippe Claudel indaga in L’Arcipelago del cane (Ponte alle Grazie, pp. 204, euro 16,00) i sentimenti tristi di questi anni di ricorrenti crisi umanitarie, muri che crescono e barbarie che si diffonde. Fedele al percorso già intrapreso, tra gli altri suoi romanzi, con La nipote del signor Linh, Le anime grigie e Il Rapporto, lo scrittore e regista francese membro dell’Académie Goncourt - che è stato tra gli ospiti del recente Salone di Torino - indaga, lungo le piste narrative del confine a volte tragicamente banale tra il bene e il male, l’indifferenza e la capacità di indignarsi e “prendere parte”. Una voce preziosa e raffinata al servizio di una nuova narrativa civile. Questo romanzo sembra tradurre un’urgenza: la necessità di agire di fronte al silenzio che spesso circonda la sorte di chi attraversa il Mediterraneo in cerca di una vita migliore... Il Mediterraneo si è trasformato dal nostro “mare comune” in una sorta di gigantesca frontiera d’acqua. I media raccontano ogni giorno le storie di persone che muoiono in mezzo al mare, senza che però questo provochi spesso delle reazioni che vanno al di là dell’emozione del momento, senza che le persone sentano di dover chiedere ai loro governanti di cambiare politica e di trovare delle soluzioni umane e efficaci. Perciò mi sono detto che ciò che non riescono a fare giornali e tv, vale a dire ad incidere davvero sull’opinione degli individui, forse la letteratura può contribuire a farlo. Facendo sì che attraverso un romanzo le persone si pongano almeno delle domande in più, inizino a riflettere… Al pari di quanto avviene nelle sue opere precedenti, anche ne “L’arcipelago del cane” lei sembra giocare con i codici del noir per indurre nel lettore la voglia di indagare, di scoprire quanto sta accadendo. Un meccanismo che spinge chi legge anche ad interrogarsi su se stesso? Quando si vuole spingere chi legge a compiere una riflessione complessa che lo può porre in una posizione scomoda, c’è bisogno che il percorso che lo condurrà fin lì risulti il più possibile intrigante, che giochi con le corde della seduzione narrativa. E in questa prospettiva nulla funziona meglio del polar, della metrica dell’indagine poliziesca con la tensione in cui precipita il lettore. Non si tratta però solo di catturare la sua attenzione con questo strumento, ma anche di coinvolgerlo, di far sì che si trasformi a un svolta in “detective”, che svolga la propria indagine personale e che, nel caso di questo romanzo, dopo essersi chiesto chi siano le persone trovate morte sulla spiaggia e chi li abbia uccisi cominci a domandarsi: “Io come avrei reagito, cosa avrei fatto di fronte a tutto questo?”. Non a caso si cita spesso il noir come la nuova letteratura sociale: ponendoci tutte queste domande finiamo per interrogarci su come funzioni il nostro mondo e, magari, su come vorremmo cambiarlo. In questo caso il noir si misura anche con il mito, addirittura con l’eredità della tragedia greca e le sue metafore… In effetti ho cercato di costruire una sorta di favola, di “mito moderno” se mi passate il termine, una storia che evoca apertamente le strutture mitologiche e la loro capacità di illustrare le contraddizioni e gli abissi dell’animo umano. Così, i personaggi del libro - il sindaco, il parroco, il dottore o la maestra - sono in realtà degli archetipi, proprio come quelli che incontriamo nella mitologia o nella tragedia greche. Non a caso non hanno nome, perché sono chiamati a incarnare forze, figure e idee che vanno ben al di là della loro persona. Ciò detto, in ogni mio romanzo cerco di non lavorare solo sulla storia, ma anche sulla forma stessa della struttura narrativa, cercando di adattarla il più possibile allo spirito dei tempi. Evocare il mito, in questo caso rimanda al tentativo di rintracciare un’architettura essenziale del reale, quasi lo scheletro della società contemporanea attraverso figure che esprimono caratteri e sentimenti universali. Il mondo in cui viviamo appare immerso nell’odio, eppure il suo romanzo sembra dirci che la viltà e l’indifferenza a volte possono produrre esiti anche peggiori... In realtà credo che viltà e indifferenza siano solo delle forme più “educate” di odio, più presentabili in società ma che conducono irreparabilmente ai medesimi risultati. Ho l’impressione che il vero motore del mondo sia l’egoismo, che ciascuno di noi è davvero troppo preso da se stesso e le sue faccende per occuparsi di qualcosa o qualcun altro. La figura dell’”altro” ci ispira vuoi indifferenza vuoi odio, il che vuol dire in qualche modo le diverse tonalità di qualcosa che si traduce nel rifiuto se non nel rigetto vero e proprio. Nella storia umana questa presenza è stata spesso vissuta come un arricchimento - qualcuno che arrivava da luoghi a noi fino ad allora sconosciuti e che portava con sé beni o conoscenze che ci erano ignote -, ma oggi è ridotta ad essere vissuta solo come un pericolo. E l’esito di tutto ciò è che stiamo costruendo per gli altri, ma anche per noi stessi, un mondo inumano. “L’arcipelago del cane” è da questo punto di vista una sorta di “luogo dell’anima”, ma ricorda in modo sinistro anche la vecchia Europa. Abbiamo perso la capacità di indignarci? È vero, ho costruito un paesaggio immaginario che però assomiglia molto all’Europa, come al resto dell’Occidente che passo dopo passo, attraverso questa chiusura verso l’esterno, sta perdendo se stesso e la sua civiltà. Il vero problema è che delle voci come quelle della maestra del romanzo, che vuole provare un’altra via, che non ha paura del cambiamento e dell’incontro, sono ridotte al silenzio, minacciate e ostracizzate. L’importante è che però, proprio come fa lei, non si perda mai la voglia di indignarsi e di reagire. Solo così avremo tutti un futuro. In quel tombino l’elemosiniere del Papa ha trovato uno Stato impotente di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 16 maggio 2019 Il gesto del Cardinale Krajewski ha portato alla luce una situazione di illegalità, ma soprattutto la mancata tutela dei diritti dei cittadini. Lo Stato è un’organizzazione politica che esercita la sua sovranità sui soggetti che risiedono sul suo territorio. Sovranità che esplica tutelando i loro diritti e vigilando sui doveri ai quali devono adempire in ossequio alle leggi vigenti. A nessun’altra autorità - men meno a singoli individui - è permesso surrogare i poteri dello Stato tra i quali vi sono quelli inerenti la salvaguardia della dignità della persona e delle sue libertà morali, culturali, materiali. È questa una nozione antica che è andata affinandosi nel corso dei secoli, ma mai venuta meno al principio ispiratore sul quale si è modellata. Possiamo dire che lo Stato è la sola costruzione immateriale visibile e tangibile organicamente predisposta al fine di dare un ordine alla comunità che in essa si riconosce. Rientra o meno nei compiti di uno Stato garantire a tutti i soggetti un decente livello di vita fino a quando questi in esso si riconoscono e soltanto per causa di forza maggiore si trovano nella deprecabile situazione di non poter rispettare alcune delle leggi fondamentali, come quella dell’inviolabilità della proprietà (privata o pubblica, non importa) che viene comunque dopo il primario ed insopprimibile bisogno di assicurarsi il diritto all’esistenza, sia pur appropriandosi di qualcosa che giuridicamente non gli appartiene, ma che abbandonato a se stesso, a cominciare dagli organismi riconducibili allo Stato, può fruire da riparo per chi di nulla dispone? Dopo sei anni di occupazione abusiva di un edificio pubblico romano abbandonato da parte di donne, bambini e uomini impossibilitati ad avere un alloggio purchessia, una società di gestione pubblica, dunque lati sensu statale, si accorge che quegli esseri umani dimenticati da sempre, o almeno da quando hanno preso possesso dello stabile, non hanno mai pagato - immaginiamo per l’impossibilità di farlo - la fornitura dell’energia elettrica. Improvvisamente ed immaginiamo sempre senza alcuna sollecitazione ai singoli ritenuti “fantasmi” per le istituzioni ad adempiere all’obbligo viene staccata dagli erogatori la corrente. Quel che ne consegue è prossimo ad un film dell’orrore, ma per i malcapitati non è un film purtroppo. Il disagio diventa un dramma; gli ammalati si aggravano; i bambini s’impauriscono; gli adulti sono disperati; è complicato perfino preparare qualcosa da mangiare. Nessuno ha la percezione tra coloro che sono sopraffatti da un evento che ritenevano impossibile che se vivono nell’illegalità, altrettanto illegale è il comportamento dello Stato che per sei anni è venuto meno a quel principio ricordato all’inizio e che è frutto della civiltà di un mondo nel quale perfino la miseria più estrema è stata combattuta in ogni tempo, non sempre malauguratamente con successo. Non avrebbe dovuto lo Stato provvedere allo sgombro dell’edificio, ma soltanto dopo aver dato una sistemazione decorosa a chi disperatamente in quelle mura cadenti e maleodoranti si era asserragliato crescendovi i propri figli e coltivando le proprie malinconie? Non sarebbe stato meglio per tutti che fin dall’insorgere del problema le istituzioni pubbliche avessero cercato la soluzione più congrua affinché sei anni dopo il bubbone non scoppiasse? Ed è scoppiato soltanto perché un cardinale di Santa Romana Chiesa, sostituendosi alle autorità preposte e riconosciute, ma inadempienti, personalmente si è calato in un fetido tombino e, rischiando la vita, ha riallacciato la corrente elettrica. Il solo modo - un modo estremo, ne conveniamo - per far conoscere al mondo la condizione di una comunità di disperati, soggetti sul territorio di uno Stato libero, indipendente, prospero, e sedicente “solidale” che agonizzava nell’indifferenza generale. Certo, il porporato - per l’occasione ovviamente non vestiva la porpora cardinalizia - ha probabilmente commesso un reato. Si difenderà con il Vangelo, presumibilmente, piuttosto che con i Codici. Noi laici potremmo invocare la moralità di Socrate e quella disobbedienza civile di David Thoreau che tanto ci è cara quando di fronte ad uno Stato che tradisce se stesso altre armi non abbiamo e non vorremmo mai usarne, men che meno quelle per farci giustizia da soli - come la vulgata recente in merito sembra suggerire - mettendo fuori gioco lo Stato stesso ed il principio che ne sostiene l’azione legittimandolo a garantire la convivenza nella legalità. Ma dal fondo di quel tombino, dalle scale sudice o approssimativamente pulite di quello stabile occupato a trecento metri dalla cattedrale di Roma, la sede del vicario del Papa, viene un grido che assomiglia tanto a quello di un morente. Il grido dello Stato che ammette la sua impotenza, arreso davanti alla macchina dell’ignavia che lo stritola. Quello Stato che non ha saputo provvedere ai bisogni elementari dei suoi cittadini, che ha tollerato l’illegalità “necessaria” senza fornire uno sbocco a qualche centinaia di disperati, che ha negato la luce elettrica a vecchi e a bambini. Ma ancora non si domanda che cosa ne farà di quel fatiscente falansterio. Si mormora che il progetto era, almeno fino a sei anni fa, di abbatterlo per costruire sull’area un albergo. Non sappiamo a quante stelle, ma senza dubbio meno luminose delle povere lampadine riaccese da un temerario cardinale polacco. Migranti. Open Arms, la procura di Zuccaro ci ripensa e archivia l’inchiesta di Adriana Pollice Il Manifesto, 16 maggio 2019 Il gip di Catania accoglie la richiesta della Procura, non ci sono prove contro il comandante Marc Reig Creus e il capo missione Ana Isabel Montes Mier della nave della ong spagnola. Il gip del tribunale di Catania, accogliendo la richiesta della procura, ha archiviato la posizione del comandante Marc Reig Creus e del capo missione Ana Isabel Montes Mier dell’Ong spagnola Proactiva Open Arms. Erano indagati per associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina per lo sbarco a Pozzallo, in provincia di Ragusa, il 17 marzo 2018 di 216 migranti soccorsi al largo della Libia. Dal 2017 la procura retta da Carmelo Zuccaro aveva iniziato a lavorare sull’ipotesi che le organizzazioni non governative si comportasse come “taxi del mare”, l’accusa all’Open Arms aveva rilanciato la tesi. Il vicepremier 5S Luigi Di Maio, ancora lunedì scorso, aveva spiegato su Repubblica: “Diverse procure hanno appurato il comportamento illecito di alcune Ong”. Ma per ora le inchieste si stanno tutte risolvendo in nulla. A marzo i pm avevano disposto il sequestro della Open Arms: “L’obiettivo primario era salvare migranti e portarli in Italia, senza rispettare le norme, anzi violandole scientemente”. Veniva contestato “il rifiuto di consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica” e che, “nonostante la vicinanza con Malta”, la nave abbia proseguito verso l’Italia “come era sua prima intenzione”. L’Ong si è sempre difesa sostenendo di avere agito “in stato di necessità per salvare vite umane”. Lo sviluppo delle indagini non ha dato riscontri per un eventuale processo penale. Cadute le accuse a Catania, resta da affrontare il filone rimasto aperto a Ragusa, dove a Marc Reig Creus e Ana Isabel Montes Mier vengono contestati i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza privata. La violenza privata, scrivono il procuratore Fabio D’Anna e il sostituto Santo Fornasier, sarebbe stata commessa nei confronti del Viminale, attraverso il capo del dipartimento delle Libertà civili e dell’immigrazione, che, secondo l’accusa, “sarebbe stato costretto a concedere l’approdo in un porto italiano dopo la mancata richiesta alle autorità maltesi, come era stato indicato dallo stato di bandiera”. Da Proactiva Open Arms replicano: “Dice Salvini che i porti sono chiusi, ma non è così, la legge parla chiaro e di solito dà ragione a chi la rispetta o a chi non si nasconde dietro l’immunità parlamentare”. Spese militari, sfida tra superpotenze di Danilo Taino Corriere della Sera, 16 maggio 2019 I cinque Paesi che più spendono sono Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, India e Francia, che assieme arrivano al 60% del totale. Washington ha aumentato la spesa militare per la prima volta dal 2010 (4,6%) ed è arrivata a 649 miliardi. Le spese militari globali sono aumentate, nel 2018, per il secondo anno consecutivo. E la crescita percentuale maggiore è stata registrata negli Stati Uniti e in Cina. I dati - pubblicati dal Sipri, lo Stockholm International Peace Research Institute - non raccontano ovviamente la complessità del mondo in questa fase di disordine internazionale; qualcosa però dicono: ad esempio che i governi non danno per scontata la pace e che la potenza dominante e quella emergente ormai si misurano anche sul terreno degli investimenti nella Difesa. Nel 2018, le spese militari sono salite del 2,6% rispetto al 2017 e hanno toccato i 1.822 miliardi di dollari. È il livello più alto dal 1988, anno in cui la raccolta completa delle statistiche è iniziata e anno ancora di Guerra Fredda. Si tratta del 2,1% del Pil globale (239 dollari a persona), una percentuale superiore a quella che la maggior parte dei Paesi europei della Nato destinano al settore. I cinque Paesi che più spendono sono Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, India e Francia, che assieme arrivano al 60% del totale. Washington ha aumentato la spesa militare per la prima volta dal 2010 (4,6%) ed è arrivata a 649 miliardi. La Cina incrementa invece il suo budget nel settore consecutivamente da 24 anni: l’anno scorso è cresciuto del 5% e ha toccato i 250 miliardi (nel 1994 era dieci volte inferiore). La differenza di risorse impiegate per attività militari da Washington e Pechino è ancora notevolissima. L’incremento degli Usa, però, è il segno più concreto della preoccupazione delle autorità americane per la crescita della Cina anche in fatto di armamenti, soprattutto sui mari, sviluppo letto dagli analisti dell’Amministrazione Trump come un salto strategico dell’Impero di Mezzo da potenza prevalentemente di terra a potenza che si proietta sui mari con scopi espansionistici e di sfida all’egemonia americana. La competizione tra i due giganti, in altri termini, è economica, commerciale, tecnologica, politica ma sta sempre più assumendo anche caratteri militari. In questo quadro, un Paese che per ora non ha ambizioni globali ma ha mire regionali e soprattutto è preoccupato della sempre maggiore assertività cinese, l’India, ha accresciuto la spesa del 3,1%, a 66,5 miliardi di dollari. E un altro che appartiene a una zona geografica calda, l’Arabia Saudita, ha diminuito le spese ma continua a investire nel settore l’8,8% del Pil. Francia. Nuovo record del numero di detenuti Liberation, 16 maggio 2019 71.828. Questo è il numero di persone in carcere al 1 aprile, secondo le statistiche mensili dell’amministrazione penitenziaria pubblicate martedì dal ministero della Giustizia. Un nuovo record per il mese di marzo del numero di detenuti nelle prigioni francesi. Con una capienza di 61.010 posti la densità carceraria si stabilisce al 117,7 %, sensibilmente in aumento rispetto al mese precedente (116,7%9. In 7 stabilimenti penitenziari essa è superiore o uguale al 200% mentre in altri 44, su un totale di 188, supera il 150%. Il precedente record era stato stabilito a dicembre, con 71.061 prigionieri. All’1 aprile il numero dei detenuti è in aumento del 2,1% in un anno. Il numero dei materassi a terra è di 1.636 in marzo, un dato stabile rispetto al marzo 2018. La parte degli imputati, cioè i detenuti che non sono ancora stati giudicati è sempre uguale ad un terzo dei detenuti (29%). La percentuale di donne (3,8% della popolazione carceraria totale) e quella dei minori)1%) restano ugualmente stabili. Più alternative previste fuori dal carcere - Tra le 83.887 persone in totale nell’elenco dei detenuti, 12.059 sono oggetto di sorveglianza elettronica o di collocamento all’esterno; questo secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria, resi pubblici per l’ultima volta mensilmente. “Le statistiche della popolazione detenuta e collocate all’esterno saranno pubblicate a cadenza trimestrale”, ha fatto sapere il ministero della Giustizia, precisando che “le prossime statistiche dettagliate saranno quelle del 1 luglio 2019”. Secondo la Direzione dell’amministrazione penitenziaria dovrebbero essere rese pubbliche entro la fine di luglio. “Disporre di un’analisi statistica con una distribuzione su più mesi permetterà una migliore lettura dell’evoluzione della popolazione carceraria”, ha giustificato il ministero. Al fine di lottare contro la sovrappopolazione cronica, il governo ha previsto nella sua riforma della Giustizia promulgata il 23 marzo di moltiplicare le alternative fuori dal carcere, così come la creazione di 7.000 posti letto entro la fine del quinquennio. La legge ridefinisce anche la scala delle pene, cancellando la prigione per le pene molto brevi, garantendo l’applicazione delle pene detentive di più di un anno. Queste nuove disposizioni saranno applicabili da marzo 2020. Francia. Difensore dei diritti umani rischia fino a cinque anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 maggio 2019 Inizia oggi presso il tribunale di Boulogne-sur-Mer il processo ai danni di Tom Ciotkowski, un cittadino britannico che nel luglio 2018 aveva documentato le violenze della polizia francese a Calais contro i migranti e i rifugiati e i volontari che distribuivano loro il cibo. La scorsa estate Ciotkowski si trovava a Calais, insieme a tanti altri volontari impegnati in azioni di solidarietà. Alla fine di luglio assistette all’identificazione di coloro che stavano distribuendo cibo ai migranti e ai rifugiati. Col suo smartphone riprese un poliziotto mentre prendeva a calci e pugni un volontario. Quando si permise di protestare contro il comportamento della polizia, per tutta risposta un agente colpì con una manganellata una volontaria. Ciotkowski continuò a protestare chiedendo al violento poliziotto di mostrare i suoi codici identificativi. Arrivò un altro poliziotto che lo spinse contro una barriera di cemento. Per poco un camion che transitava in quel momento non lo mise sotto. Trattenuto in custodia di polizia per 36 ore, Ciotkowski venne denunciato per oltraggio e violenza. Nel maggio 2019 Ciotkowski ha presentato una denuncia contro il poliziotto e un suo collega che aveva dichiarato il falso. Ma intanto le indagini nei suoi confronti sono andate avanti, fino ad arrivare al processo: se giudicato colpevole, rischia fino a cinque anni di carcere e una multa fino a 7500 euro. La persecuzione giudiziaria di Ciotkowski è l’esempio del clima di violenza e intimidazione creato dalla polizia francese a Calais. Come in Francia, così in altri stati europei, tra cui l’Italia, purtroppo la criminalizzazione della solidarietà è un dato di fatto. Cina. Silenzio sugli Uiguri ristretti nei “campi di rieducazione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 maggio 2019 In nome del trattato economico, si può soprassedere sul rispetto dei diritti umani. La scorsa settimana, infatti, gli Stati Uniti hanno deciso di non procedere con sanzioni contro la Cina per gli Uiguri e altre minoranze musulmane. Secondo quanto riportato dal New York Times, diversi funzionari del Dipartimento di Stato e del Consiglio alla Sicurezza Nazionale si sarebbero espressi a favore delle sanzioni. Ma l’iniziativa si è fermata al Dipartimento del Tesoro, dove si è deciso di temporeggiare e di evitare di sollevare il nodo in questo particolare momento, nel quale Stati Uniti e Cina stanno tentando faticosamente di portare avanti una difficile trattativa commerciale. Insomma sicuramente il tema dei diritti umani è fuori dal tavolo dall’amministrazione Trump. Un tema spinoso per il quale la Casa Bianca non ha voluto usare la leva delle sanzioni economiche per spingere la Cina a rivedere le sue politiche sugli Uiguri. Ma chi sono quest’ultimi e perché vengono imprigionati nei “campi di rieducazione”? Sono un’etnia turcofona e oggi di fede prevalentemente musulmana, la cui presenza nella regione dello Xinjiang è testimoniata già a partire dal II secolo a. C. in opposizione al primo impero Han che andava proprio allora costituendosi. È solo dagli anni Novanta, inauguratisi con la disgregazione dell’Urss, che si è assistito al nascere di nuove sfide in Asia centrale, sia economiche sia etnico-religiose. Rilevante, a questo proposito, è l’affermarsi di nuove repubbliche indipendenti a maggioranza musulmana, di cui molte confinanti con lo Xinjiang. Stati Uniti. Alabama choc: l’aborto è reato da ergastolo di Marina Catucci Il Manifesto, 16 maggio 2019 Criminalizzato anche per stupro e incesto, carcere per i medici che lo praticano: è la legge più oscurantista di sempre negli Stati uniti. Associazioni e donne sul piede di guerra: la legge potrebbe finire alla Corte suprema. Lo Stato dell’Alabama ha passato quella che è, ad oggi, la legge sull’aborto più restrittiva del Paese. Grazie al voto positivo del Senato locale, è stato approvato con 25 voti a favore e 6 contrari, un provvedimento che punisce con l’ergastolo i medici che praticano aborti, nessuna eccezione ammessa, nemmeno per i casi di incesto e stupro. Unico caso contemplato per interrompere una gravidanza è se questa espone la vita della madre a un serio pericolo. I repubblicani dello Stato hanno spinto l’approvazione della legge con l’obiettivo esplicito di rovesciare Roe v. Wade, la causa della Corte suprema che dal 1973 legalizza l’aborto a livello federale, e si uniscono ai loro compagni di partito di altri Stati che si sono mossi con lo stesso fine. Come nel caso della legge sul battito cardiaco fetale della Georgia, secondo cui l’aborto è vietato quando è possibile rilevare il cosiddetto “battito cardiaco” del feto, vale a dire dopo le sei settimane, periodo entro il quale molte donne non sono neppure consapevoli di essere incinte. Anche sull’espressione stessa “battito cardiaco fetale” si è accesa una polemica tra i difensori dei diritti riproduttivi delle donne e i repubblicani, in quanto considerata dai primi tecnicamente impropria e strumentale, visto che a sei settimane è più corretto dire che l’embrione pulsa, perché non è ancora dotato di un vero organo cardiaco. Nell’ultimo anno ben 21 nuove leggi sono passate in 16 dei 50 Stati Usa per introdurre nuove misure che limitano il diritto all’aborto. Da quando Trump è entrato alla Casa bianca, nel 2017, queste restrizioni riguardano 28 Stati, più della metà; in 15 le restrizioni limitano le interruzioni di gravidanza alle prime 6 settimane. Dopo il voto del Senato, l’associazione per la difesa dei diritti civili (Aclu) dell’Alabama, sostenuta dalla Aclu nazionale, ha annunciato su Twitter che intenterà una causa per fermare la legge. La causa verrà probabilmente vinta ma ciò non fermerà i repubblicani che, tra ricorsi e contro-ricorsi nelle corti minori, mirano a portare il caso davanti alla Corte suprema, dove siedono ben due giudici ultra conservatori nominati da Trump e ampiamente contestati da democratici e società civile, Neil Gorsuch e il controverso Brett Kavanaugh, accusato di molestie da quattro donne e integralista cattolico. La governatrice dell’Alabama, Kay Ivey, repubblicana, non ha ancora preso pubblicamente posizione riguardo la legge, ma le sue idee contro l’aborto sono ben note. Ivey ha sei giorni per firmare il disegno di legge: quando questa legge passerà sarà grazie alla firma finale di una donna. Staci Fox, presidente della rete di consultori Planned Parenthood del sud est del Paese, intervistato dalla Cnn prima del voto della Camera, ha detto: “Anche gli autori di questo disegno di legge sanno che è palesemente incostituzionale e non passerà in tribunale. In Alabama abbiamo visto anno dopo anno gli sforzi per cancellare il diritto all’aborto diventare sempre più audaci. Penso che con questo presidente alla Casa bianca e ora Kavanaugh alla Corte suprema, la politica conservatrice in Alabama si senta incoraggiata a fare questo atto eclatante contro l’assistenza sanitaria per le donne”. Per arrivare fino alla Corte suprema, però, fanno notare molti esperti di legge Usa, il caso o i casi avranno bisogno di qualche anno. E se ciò avverrà si spera che accada sotto un’altra presidenza e con un clima politico diverso da quello oscurantista introdotto da Trump e dal vice presidente Pence. Contemporaneamente si sono registrati i primi fenomeni di separatismo, il cui avvio è stato segnato il 5 aprile 1990, a Baren, piccola cittadina nella zona sud- orientale del Xinjiang, quando circa 200 militanti uiguri armati, guidati da Zeydin Yusup, leader del Partito islamico del Turkestan orientale, insorsero attaccando le forze dell’ordine cinesi e chiedendo che l’immigrazione Han verso la regione fosse fermata. Ma i guerriglieri separatisti Uiguri sono poche centinaia, ma tanto è bastato alle autorità cinesi di usare la scusa della lotta al terrorismo per sradicare la loro cultura religiosa. Ciò è avvenuto con una sorta di silenzio- assenso sul piano internazionale, favorito anche dalle conseguenze agli attentati che ebbero luogo negli Stati Uniti l’ 11 settembre 2001, che diedero avvio a nuove azioni di repressione contro realtà connesse in vario modo al mondo islamico. È infatti in quel periodo che la Cina, appoggiando gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, durante un incontro con il presidente americano Bush e il presidente russo Putin, raggiunse un tacito accordo sul suo modo di gestire le sue azioni anti- separatiste, semplicemente etichettandole come lotta al terrorismo interno. Il risultato è che migliaia di uiguri, dopo il censimento, vengono detenuti in campi formalmente denominati “scuole per l’educazione professionale” o “scuole di addestramento contro l’estremismo”, dove non è permesso l’accesso ad avvocati e si è costretti quotidianamente a manipolazioni e deprivazioni. Gli Uiguri, ricordiamo, vivono nella regione cinese dello Xinjiang. Sì, esattamente un luogo di risorse energetiche strategiche e che ha assunto un ruolo importante per la cosiddetta Via della seta, l’accordo commerciale recentemente ratificato anche con l’Italia.