Il fascismo 2.0 e il governo della paura di Ezio Mauro La Repubblica, 15 maggio 2019 Incredibilmente, non basta ancora quel che sta succedendo. La discussione sul fascismo 2.0 sta imboccando una tangenziale che la porta lontano dal cuore del problema, come se la questione oggi fosse un ritorno della forma dittatoriale che ha deformato l’Italia per vent’anni. E poiché quel ritorno è impossibile, si salta immediatamente alla conclusione assolutoria: tutto questo allarme attorno al pericolo fascista è inutile, sproporzionato, ideologico. Meglio parlar d’altro e far finta di niente, e ancora una volta non vedere, non sentire, rifiutandosi di capire. La novità dell’Italia di oggi, invece, è questo emergere di una cosa che chiama se stessa fascista, rivendica quell’identità e agisce di conseguenza, con incursioni e intimidazioni. Il problema dunque, per chiunque eserciti una responsabilità istituzionale, ma anche soltanto politica e intellettuale, è domandarsi dove nasca questo fenomeno, come mai torni a manifestarsi proprio oggi, e perché ritrovi forma, spazio e consenso. Vorrei aggiungere un punto che a me pare decisivo: non è il problema di una parte, e cioè esclusivamente della sinistra italiana. È un problema della democrazia e della cultura, e negarlo non è soltanto un’ambiguità, ma qualcosa di più: una manifestazione di corrività. L’altro elemento di svalutazione di questo neo-post-fascismo è l’area circoscritta in cui si manifesta, e il suo peso politico ridotto: tanto rumore - dicono i nuovi negazionisti - ancora una volta per nulla. La risposta a questa obiezione è semplice. Perché le manifestazioni di segno fascista si sono moltiplicate nell’ultimo anno, le organizzazioni che si richiamano a quell’impronta crescono e complessivamente questa espressione di irriducibilità più testimoniale che nostalgica ha preso un suo spazio abituale e addirittura un suo ruolo consolidato nel paesaggio politico febbricitante del nostro Paese. Fino a trasformare il 25 aprile in un elemento di contrasto identitario al vertice dell’esecutivo, con una divisione polemica tra grillini e leghisti. Col risultato che non sappiamo più qual è oggi il pensiero sul fascismo del governo della Repubblica nata dalla Resistenza. Naturalmente le differenze dal passato sono molto forti: e ci mancherebbe altro, visto che viviamo in una democrazia, in mezzo all’Europa, nel 2019. Queste differenze non vanno sottaciute, ma al contrario evidenziate per capire la natura e la portata del fenomeno. Che nasce non in continuità, ma prescindendo dal tragitto del regime, dal suo progetto di sopraffazione, dalla sua conclusione: in una parola, dalla tragedia nazionale che ha determinato. Ciò che oggi si definisce fascismo è fuori dalla storia, perché solo così può rivendicare un’identità senza farsi carico del peso di un’eredità, al riparo dal giudizio del secolo. Si tratta di una presenza situazionista, che nasce e si spegne nell’azione, con il gesto che torna a riassumere una politica, come estrema semplificazione del populismo. Ma nello stesso tempo questa presenza-spot che appare e scompare, senza più una teoria perché tutto si riassume, si giustifica e si consuma nella violenza della prassi, trova un radicamento nel sociale, pescando nel disagio e ancor più nell’emarginazione, entrando di periferia in periferia nei territori abbandonati dalla politica tradizionale, perché considerati perduti. Qui si impianta un welfare nero alla rovescia, all’insegna dell’egoismo invece che della solidarietà, dell’esclusiva invece che della condivisione, separando gli “italiani” (o addirittura “i romani”, direbbe Di Maio) dagli altri, dai maledetti. Tutto questo, com’è evidente, nasce da un vuoto di radicalità della proposta politica abituale di fronte alle aree estreme del Paese, alla loro richiesta di una rappresentanza che è già immediatamente una protesta, forse una domanda di vendetta sociale, comunque una denuncia di abbandono, in ogni caso una proiezione di antagonismo. Emarginazione, disagio, vendetta, confisca privatistica del welfare, ribellismo: se ci aggiungiamo l’ideologismo fascista, di per sé alternativo a tutto il sentimento repubblicano (istituzioni, Costituzione, tradizione democratica), dobbiamo prendere atto che la miscela è pronta, e c’è da stupirsi che non esploda. Cosa c’entra, a questo punto, ripetere che il fascismo non tornerà? È sicuramente vero. Ma è altrettanto vero che è già tornato, in quest’altra forma disadorna e spuria, che dovrebbe bastare per domandarci dove abbiamo sbagliato, qual è la falla della nostra democrazia da cui questo fenomeno è riuscito a transitare ricoagulandosi, ritrovando voce, forza, legittimazione. Ecco, questo è il punto. Preoccupati di non vedere questa risorgenza che pure si riferisce ostinatamente al fascismo, di non sopravvalutarla, di non chiamarla per nome per non riprendere una pratica e una cultura antifascista, noi stiamo legittimando questa espressione estemporanea ma ormai sistemica, episodica ma sempre meno casuale, di destra estrema ideologicamente connotata. La lunga e insistita banalizzazione che negli ultimi vent’anni è stata fatta del fascismo storico, unita a una costante svalutazione dell’antifascismo, si è tradotta in uno sdoganamento delle forme spontanee e irrituali in cui quel segno politico torna in tutt’altre dimensioni e con tutt’altre ambizioni a manifestarsi: dicendoci tuttavia che c’è uno spazio fascista, orgogliosamente fascista, nell’Italia di oggi. La questione dovrebbe preoccupare in primo luogo la destra cosiddetta moderata, se vuole esistere e se pensa di farlo con quella cultura. Perché rischia di essere non solo sfidata dal radicalismo fascista, ma contagiata, macchiata, mutilata e infine impedita. Dovrebbe inquietare i liberali, impegnati almeno in teoria nella manutenzione della democrazia italiana, e dei suoi capisaldi: cosa direbbero, cosa avrebbero già detto, se a sinistra riemergesse uno stalinismo organizzato e ramificato, capace di negare il gulag o di giustificarlo, prescindendo dal giudizio della storia, o ignorandolo? Infine, la questione interpella Salvini, al punto che non può più evitarla. Ha strisciato la suggestione fascista, l’ha evocata ritraendosi e ritornando ad alludere, ha richiamato dalle tenebre il tabù nazionale e lo ha lasciato a mezz’aria, come un incantatore di serpenti dilettante. Da vicepresidente del Consiglio dovrebbe chiarire il suo pensiero sul fascismo storico, da ministro dell’Interno dovrebbe giudicare e valutare la sua ultima e attuale reincarnazione. Non penso a misure di polizia: ma a un giudizio politico, che finora è mancato. Col sospetto e il risultato che alla ferocia xenofoba e alla fobia securitaria di questo governo il fascismo 2.0 serva come retroterra, retrogusto, retro-pensiero: una cornice nera per condizionare il Paese, giustificando il governo della paura. La “moderazione” di Di Maio sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 maggio 2019 Perché è eversivo dire che le procure “appurano comportamenti illeciti”. Per molto tempo abbiamo riso dell’ignoranza di Luigi Di Maio, ma ci sono casi in cui c’è poco da stare allegri. Se il capo politico del M5S sbaglia un congiuntivo, sappiamo che non potrà cambiare la grammatica; se dice “presidente Ping” non cambierà il nome del presidente cinese; se mette Pinochet in Venezuela non cambierà i libri di storia o di geografia. Se invece il vicepremier non capisce cos’è e come funziona lo spread oppure ignora i princìpi costituzionali e della civiltà giuridica, allora diventa un problema perché le sue errate convinzioni o lacune culturali possono avere un impatto negativo sui conti pubblici o sull’ordinamento giuridico del paese. Quindi c’è poco da ridere e molto da allarmarsi. È questo il caso dell’intervista rilasciata a Repubblica - non nel punto in cui si definisce “moderato”, quella è la parte divertente - ma quando risponde alla domanda sulle ong definite “taxi del mare”: “Diverse procure hanno appurato il comportamento illecito di alcune ong”. Che, anche dopo che gli viene fatto notare che le inchieste non hanno portato a niente, ribadisce il concetto: “Se le forze dell’ordine hanno sequestrato alcune navi, è perché secondo i giudici ci sono delle evidenze”. Senza entrare nel merito della vicenda, visto che le navi sono state dissequestrate dai giudici e le accuse più gravi tutte cadute, è preoccupante che un vicepresidente del Consiglio sputacchi in questo modo sull’articolo 27 della Costituzione, quello che parla della presunzione di innocenza. Ma è soprattutto eversivo dire che le procure “appurano comportamenti illeciti”. Quello è un compito che spetta ai giudici, dopo un giusto processo svolto in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale (articolo 111). Anche perché se fosse come dice Di Maio, cioè che le procure appurano comportamenti illeciti, allora i pm avrebbero già appurato che: Chiara Appendino è colpevole di disastro, lesioni e omicidio colposi; Filippo Nogarin di omicidio colposo plurimo e falso in bilancio; Virginia Raggi di falso ideologico e abuso d’ufficio. Nemmeno ai grillini conviene vivere in un mondo governato dai loro princìpi giuridici. Carcere fino a 22 anni per il voto di scambio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2019 Sanzioni più severe, punibilità estesa, allargata la condotta penalmente rilevante. Il Senato ha approvato definitivamente ieri sera la legge di riforma dell’articolo 416 ter del Codice penale sul reato di scambio elettorale politico-mafioso. Una tentazione ricorrente, a dire il vero, quella di modificare la norma, visto che l’ultima riscrittura strutturale era stata fatta nel corso della passata legislatura con la legge 62 del 2014. Nel dettaglio, dal punto di vista soggettivo, rispetto alla disciplina attuale viene estesa la punibilità anche ai casi in cui la condotta incriminata di accettazione della promessa di procurare voti sia stata realizzata non solo personalmente ma anche attraverso l’intervento di intermediari. Allargata poi la condotta penalmente rilevante, aggiungendo alla promessa di procurare voti con le modalità mafiose, la promessa che proviene da soggetti appartenenti alle associazioni mafiose. Sul punto, la legge lascia nell’indeterminatezza quando l’interlocutore del politico può essere considerato come appartenente all’associazione mafiosa. Potrebbe allora essere necessaria una condanna definitiva per l’adesione ad associazione mafiosa (416 bis), oppure essere ritenuta sufficiente l’applicazione di una misura di prevenzione in base al Codice antimafia. L’oggetto della controprestazione di chi ottiene la promessa di voti, si estende anch’esso, sino a comprendere non solo il denaro e ogni altra utilità, ma anche “la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze della associazione mafiosa”. A venire inasprita è la pena, che passa dalla reclusione da sei a 12 anni alla reclusione da 10 a 15 anni. Con la medesima sanzione è punita la condotta del soggetto che promette, direttamente o attraverso intermediari di procurare i voti. Spazio poi a una sorta di aggravante di evento; se, infatti, chi ha concluso l’accordo con il mafioso viene eletto, la pena prevista per lo scambio elettorale politico mafioso è aumentata della metà. Con riferimento al profilo sanzionatorio, l’applicazione dell’aggravante potrebbe così comportare pene più elevate nei confronti del patto elettorale politico-mafioso rispetto sia al concorso esterno, sia alla partecipazione associativa e alla direzione associativa (punita con la reclusione da 12 a 18 anni). Infine, scatterà la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici in caso di condanna per il reato in questione. Perplessità sul complessivo impatto sanzionatorio, soprattutto per l’applicazione dell’aggravante, è stata espressa dall’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, oggi senatore di Leu, che ha fatto notare come i colpevoli del patto potrebbero essere puniti in maniera addirittura più severa dei capi dell’organizzazione criminale: “Sarebbe stato a mio avviso più opportuno un riferimento all’aumento di pena previsto dalle aggravanti comuni ovvero fino a un terzo. Ciò avrebbe lasciato al giudice una più ampia discrezionalità in sede applicativa che, a mio parere, è sempre utile mantenere”. La promessa di Bonafede: presto l’estensione del gratuito patrocinio di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2019 Una riforma del processo civile più vicina alle istanze degli avvocati. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, assicura “semplificazione”, con unico procedimento “monocratico identico anche per il Giudice di pace” e con “un unico atto introduttivo”, perché il “sistema attuale non sta in piedi”. È uno degli aspetti emersi nel corso della Giornata dell’orgoglio dell’avvocatura e tutela dei diritti, un evento organizzato a Roma dall’Organismo congressuale forense, cui ha preso parte il Guardasigilli. Obiettivo dell’incontro è stato quello di trovare, con tutte le componenti della società civile e della politica, punti di convergenza sul ruolo centrale della giurisdizione e dell’avvocatura per la compiuta realizzazione dei diritti dei cittadini e per la regolazione dei rapporti economici e sociali. In un confronto incalzante con l’avvocato Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Organismo, si è discusso di riforma della giustizia, “da tenere fuori dalla polemica politica - ha detto Bonafede -. A volte la politica ha tempi che vanno fuori dalle previsioni: speravo di portare un mese fa la legge delega in Consiglio dei ministri poi è mancato il confronto con l’altra parte politica (la Lega, ndr) e ora siamo in attesa di poterci confrontare”. Il Guardasigilli ha precisato che “entro il 2019 sarà approvata la riforma del processo penale e la riforma della prescrizione avrà effetti processuali non prima del 2022”. In pre-consiglio dei ministri, invece, andranno le proposte di riforma sul patrocinio a spese dello Stato. “Una novità - ha detto il ministro - riguarderà la possibilità di accedervi anche per le negoziazioni assistite con esito favorevole”. In generale si è fatto riferimento a una giustizia più vicina alle istanze degli avvocati. “Abbiamo consegnato al ministro il manifesto approvato il 5 aprile dal Congresso nazionale forense - ha detto l’avvocato Malinconico: la giurisdizione non è un servizio ma una funzione primaria, serve a permettere la realizzazione dei diritti, attraverso cui si attuano i principi di equità sociale”. Per questo l’obiettivo dell’avvocatura è di accendere un faro sul “problema dell’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti”, ha spiegato Malinconico, che ha aggiunto: “Ci sono costi di accesso alla giurisdizione che interferiscono con il mercato”. Aspetti che sono stati illustrati al Guardasigilli con il manifesto, in cui è ricordato come l’avvocato è “garante della tutela giurisdizionale dei diritti”. Nel documento, infatti, si legge che la “giurisdizione sta subendo da molti anni un lento ma progressivo deterioramento, sia riguardo alla sua capacità di offrire tempestiva e concreta tutela ai diritti violati, sia riguardo alla perdita di credibilità e legittimazione che ha ricevuto nei confronti della società civile italiana”. Per questo si chiede, tra le altre cose, che siano investite “risorse materiali e umane”, che il processo si svolga davanti a un “giudice sempre terzo, imparziale e professionale entro una durata concretamente ragionevole” e che siano assicurate “garanzia e indipendenza dell’avvocato e di tutti i soggetti che concorrono all’esercizio della giurisdizione”. Il rifugiato colpevole di reati gravi non va espulso se rischia nel suo Paese di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2019 Cgue - Sentenza cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17. Gli Stati membri non possono procedere all’espulsione di uno straniero, condannato per un reato di particolare gravità o pericoloso per la sicurezza dello Stato, se esistono seri e comprovati motivi di ritenere che nel Paese di destinazione corra il rischio di tortura o di trattamenti disumani o degradanti. Una protezione ad ampio raggio per il rifugiato, quindi, che prescinde dal suo comportamento. È la Corte di giustizia dell’Unione europea a garantirlo con la sentenza depositata ieri nelle cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17. Una pronuncia che allarga il perimetro di tutela dei rifugiati anche rispetto alla Convenzione di Ginevra del 1951, stabilendo così, un rafforzamento della loro protezione nello spazio Ue. Le tre domande pregiudiziali d’interpretazione e di validità, sollevate dal Consiglio per il contenzioso sugli stranieri del Belgio e dalla Corte amministrativa suprema della Repubblica ceca, hanno al centro la direttiva 2011/95 sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione, recepita in Italia con Dlgs 18/2014. L’articolo 14 della direttiva - osserva Lussemburgo - ammette la possibilità di revoca, cessazione o mancato rinnovo dello status di rifugiato se una persona è un pericolo per la sicurezza dello Stato, se condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità o se è un pericolo per la comunità dello Stato. Tuttavia, per la Corte Ue, questa norma va interpretata nel senso che se c’è il rischio di una lesione dei diritti fondamentali dell’interessato le autorità nazionali non possono procedere all’espulsione. Questo perché, in queste situazioni, è possibile la revoca dello status, ma senza che le decisioni adottate in questa direzione dalle autorità nazionali di uno Stato membro incidano e compromettano la qualità di rifugiato. Una conclusione che porta all’applicazione di una protezione internazionale dei rifugiati più ampia nel diritto dell’Unione europea rispetto alla Convenzione di Ginevra del 1951. Per Lussemburgo, infatti, anche se sono presenti i motivi che in base alla direttiva giustificherebbero la revoca, non vengono meno i requisiti materiali “da cui dipende la qualità di rifugiato, relativi all’esistenza di un fondato timore di persecuzioni nel suo Paese di origine”. È vero che un cittadino di un Paese terzo in questa situazione perde i benefici associati allo status di rifugiato ma - scrive la Corte - ha diritto a mantenere il godimento di tutti i diritti collegati dalla Convenzione di Ginevra alla qualità di rifugiato. D’altra parte, la direttiva non può essere interpretata nel senso di incitare gli Stati membri “a sottrarsi agli obblighi internazionali a loro incombenti, quali derivanti dalla Convenzione di Ginevra”, limitando i diritti che gli interessati hanno in base al Trattato. Non solo. Per la Corte Ue, gli Stati sono anche tenuti a rispettare le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, quindi, ad assicurare il diritto al rispetto della vita privata e familiare, il diritto al lavoro, alla previdenza e all’assistenza sociale, nonché il diritto alla protezione della salute. Ricorso del Pm se nel patteggiamento non si valuta l’espulsione per reati di droga di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 14 maggio 2014. La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti che non dispone o non valuta, l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per un reato previsto dal testo unico degli stupefacenti, può essere impugnata dal Pubblico ministero con un ricorso in Cassazione. Il chiarimento arriva dalla Suprema corte che, con la sentenza 20781, sgombra il campo dall’equivoco che alla soluzione indicata possa essere di ostacolo la norma del nuovo codice di rito, che individua le ipotesi tassative per proporre impugnazione. Tra queste c’è l’illegalità della misura di sicurezza, che deve ritersi sussistente quando il giudice del patteggiamento non ha fatto nessuna analisi sulle condizioni o meno per la sua applicabilità. Per la Cassazione, un’interpretazione diversa dell’articolo 448, comma 2 bis del codice di rito penale sulla possibilità del Pm di proporre appello, sarebbe palesemente incostituzionale perché chiuderebbe la strada del ricorso in sede di legittimità, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione, alle decisioni sulla libertà personale. La Cassazione detta il principio di diritto consapevole di una divergenza di orientamenti dopo la riforma messa in atto con la legge 103/2017 che ha introdotto l’articolo 448, comma 2 bis del Codice di procedura penale. Secondo un primo orientamento infatti il ricorso del Pm sarebbe precluso. Secondo la tesi restrittiva, infatti, la misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero, anche se non disposta nel patteggiamento, e in assenza di assoluta motivazione, sulla pericolosità sociale, non rientra nell’ipotesi di possibile ricorso in cassazione, come previsto dall’articolo 448, comma 2-bis, del codice di rito penale. Non c’è violenza privata se per proteggere la casa con la telecamera si controlla la strada di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2019 Esclusa la violenza privata per chi installa le telecamere nel muro perimetrale della sua casa, anche se le usa pure per sorvegliare gli abitanti e denunciarli se parcheggiano male l’auto o non raccolgono le deiezioni dei cani. E non importa se la sensazione di essere costantemente sotto l’occhio del “Grande fratello” induce gli abitanti della zona a modificare le abitudini scegliendo anche percorsi alternativi per rientrare dribblando le telecamere. L’uso strumentale dei sistemi di sorveglianza, anche con il sonoro, che era bastato ai giudici di merito, in primo grado e in appello, a condannare i ricorrenti per violenza privata, non è sufficiente per la Cassazione (20527) per contestare il reato. Per la Suprema corte, infatti, la videosorveglianza, debitamente segnalata, è lecita perché finalizzata a proteggere i propri beni e l’incolumità personale e della famiglia. E anche se il monitoraggio costante può condizionare i movimenti del cittadino, consentendogli comunque di selezionare i comportamenti da tenere, questo va considerato come il risultato di un equilibrio e di un compromesso tra libertà individuali ed esigenze di sicurezza sociale. I giudici accolgono dunque il ricorso degli imputati, malgrado fosse dimostrato che gli abitanti della zona, alcuni dei quali si erano costituiti parti civili, erano costantemente controllati nelle loro attività lavorative e nei loro movimenti. Controlli che si traducevano, a volte, in esposti per comportamenti irregolari o presunti tali : dalle esalazioni provenienti dai laboratori della zona, agli schiamazzi, dai “bisogni” dei cani non raccolti, alla macchina in doppia fila. La Corte d’appello, confermando la condanna di primo grado, aveva sottolineato che l’uso strumentale delle telecamere, aveva finito per condizionare le azioni di alcune persone. Ma, ad avviso della Suprema corte, non si può parlare di violenza privata. Un reato che scatta solo con l’uso di qualunque mezzo sia utile “a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere, anche in una violenza “impropria” che si attua attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione”. La Cassazione ricorda che per il reato, non è necessaria una violenza verbale o esplicita ma basta qualunque comportamento o atteggiamento “idoneo a incutere timore o a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o omettere qualcosa”. Per i giudici di legittimità non è questo il caso. L’uso delle telecamere era lecito e i condizionamenti - come l’”accortezza” di cambiare strada per sottrarsi alle riprese - erano minimi “tali da non potersi considerare espressivi di una significativa costrizione della libertà di autodeterminazione”. Per quanto riguarda l’intenzione, manifestata, di sporgere denuncia per i fatti illeciti catturati con le riprese, potrebbe integrare i reati di minaccia, molestia o ingiuria. Ma non la violenza privata. Lombardia: il Forum Salute Mentale denuncia “tradimento sulla chiusura dell’Opg” superabile.it, 15 maggio 2019 Le otto Rems sono state tutte ricavate all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Benevelli, presidente del Forum: “Tutti i pazienti lombardi vengono mandati lì e di fatto vengono seguiti poco e male dai servizi psichiatrici della loro città d’origine”. La Lombardia si distingue anche per come ha scelto finora di gestire la chiusura dell’unico ospedale psichiatrico della Lombardia, quello di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova. Invece di aprire nelle diverse province le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ha deciso di dividere l’ex Opg in 8 comunità, per un totale di 160 posti letto. “È un tradimento dello spirito delle norme che hanno portato alla chiusura degli Opg”, spiega Luigi Benevelli, presidente del Forum della salute mentale della Lombardia. “Il senso delle Rems dovrebbe essere che i pazienti psichiatrici che hanno commesso reati continuino ad essere seguiti dai servizi psichiatrici del proprio territorio - aggiunge -. Invece tutti i lombardi vengono mandati a Castiglione e di fatto vengono seguiti poco e male, salvo alcune eccezioni, dai dipartimenti di salute mentale della loro città d’origine”. Nei progetti della Regione c’è ora quello di aprire due rems a Passirana di Rho. Ma è un’ipotesi ancora sulla carta. “Anche i fondi per le Rems non sono stati spesi”, aggiunge Benevelli. Della singolare situazione lombarda si discuterà a Milano martedì 14 maggio alla Casa della Carità (dalle ore 14 alle 18, via Brambilla 10) con il convegno “Carcere e salute mentale. Rems, presa in cura e reinserimento sociale nel territorio”. Oltre a Benevelli, interverranno don Virginio Colmegna, presidente della Campagna per la salute mentale, Benedetto Saraceno, segretario generale del Lisbon Institute for Global Mental Health, Silvia Landra, psichiatra nelle carceri di Bollate e San Vittore, Franco Maisto, presidente tribunale di sorveglianza di Bologna, Angelo Fioritti, dipartimento salute mentale Ausl Bologna, Antonella Calcaterra, avvocato foro di Milano, Giovanni Rossi, psichiatra, Franco Milano, dirigente della struttura salute mentale della Regione e Valeria Negrini, portavoce del Forum terzo settore della Lombardia. Lauro (Av): bimbi in cella, il triste record irpino Quotidiano del Sud, 15 maggio 2019 Tredici bambini insieme ad altrettante madri detenute nel penitenziario. Il triste primato di bimbi in cella spetta al carcere di Lauro dove sono presenti 13 donne con 13 figli. La casa circondariale irpina, infatti, fa parte dei cinque Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) creati nel 2007. In Italia, oltre all’Icam di Lauro, sono già attivi quello di Milano (che ha svolto il ruolo di apripista), Venezia, Senorbì (in provincia di Cagliari) e Torino. In altri istituti, invece, come quello di Rebibbia a Roma, sono previsti solamente asili nido all’interno delle sezioni femminili. Sulla questione, il segretario generale del Sindacato Polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo ha scritto una lettera al Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per denunciare la situazione. “Durante la mia visita alle carceri di Catania ho riscontrato la presenza nella sezione femminile di una madre detenuta con il suo bambino - spiega Di Giacomo. Vedere di persona un bambino in cella, mi ha riportato alla mente le promesse del Ministro della Giustizia e quelle del mondo della politica “mai più bambini in carcere”, fatte dopo il caso del settembre scorso della madre detenuta nell’istituto di Roma Rebibbia che ha gettato i suoi due figli dalle scale, che ha profondamente sconvolto l’opinione pubblica. Verifico, invece, che secondo i dati del suo stesso Ministero, al 30 aprile scorso, sono 55 i bimbi, con 51 mamme, attualmente presenti nei penitenziari italiani - dichiara il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria. È una situazione vergognoosa ed intollerabile che non può protrarsi ulteriormente e che richiede interventi immediati. In attesa di nuove normative di regolamentazione della detenzione di madri con bambini piccoli - sostiene Di Giacomo - si deve assolutamente evitare che i bimbi restino in cella per tutta la giornata limitando la loro presenza nelle ore notturne e consentendo loro di partecipare ad attività ricreative e formative fuori dal carcere”. Il segretario del sindacato ha chiesto, pertanto, un incontro urgente al ministro per verificare “quali azioni immediate intende mettere in campo” informandolo che “in caso di mancato accoglimento e di conseguenza in assenza di iniziative specifiche, la nostra organizzazione sindacale promuoverà iniziative diffuse di mobilitazione e protesta. “Anche il Garante dei detenuti è intervenuto sulla condizione delle madri nelle carceri, ricordandone in una relazione al Parlamento le principali criticità, come l’assenza di lavoro e progetti, a volte ridotti a stereotipi femminili passati, come per esempio il lavoro all’uncinetto. Per le visite ginecologiche in alcuni carceri si deve poi ricorrere a visite esterne perché tra gli specialisti non è previsto il ginecologo. Ed è assente poi la prevenzione dei tumori femminili”, conclude Di Giacomo. Roma: guerra di successione sull’eredità di Pignatone in Procura di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 15 maggio 2019 Sette anni fa Giuseppe Pignatone si era presentato ai 90 magistrati della Procura di Roma senza proclami. Con la stessa sobrietà li ha salutati dieci giorni fa: nessuna cerimonia pomposa, cena ospitata dai carabinieri lontano dalla mondanità capitolina. Poche parole e una foto di gruppo da “compagni di scuola”. Ma dopo il brindisi, tra i pubblici ministeri le conversazioni hanno mutato tenore, volando dall’amarcord all’incerto futuro. Non senza timori. Ieri la commissione incarichi del Consiglio superiore della magistratura ha avviato l’esame dei candidati alla successione. Scelta destinata a segnare il destino non solo dell’ufficio giudiziario più importante del Paese (con inchieste aperte che toccano il Campidoglio, il governo, partiti di destra e sinistra, corpi militari e organi giudiziari per non parlare delle mafie), ma di tutta la magistratura. A cascata, il Csm si misurerà con più di 100 nomine di vertice, tra cui 11 presidenze di sezioni di Cassazione e 14 Procure. In primis Torino. E Perugia e Brescia, ambite in quanto competenti a indagare sui magistrati di Roma e Milano. Nomine paralizzate (Torino è senza capo da sei mesi, senza che si sia mosso nulla) in attesa di capire che cosa accadrà nella Capitale. In partenza i candidati per il dopo Pignatone erano tredici, ma ieri s’è capito che tre si contendono realmente il posto. Franco Lo Voi, attuale procuratore di Palermo, pareva in pole position. Per diverse ragioni: anzianità, curriculum (è stato anche al Csm e alla Procura europea) e appartenenza a Magistratura Indipendente, corrente uscita vincitrice dalle elezioni interne del 2018 e più dialogica con il governo gialloverde. Ma successivamente la sua posizione si è indebolita. Prima l’improvvida partecipazione alla cena di gala romana con tanto di simpatetica stretta di mano a Matteo Salvini. Poi il malumore di diversi esponenti della sua stessa corrente per lo scarso attivismo nella ricerca di consensi per la nomina. Infine, e soprattutto, il peso della continuità con Pignatone. I pm a lui più legati, non è un mistero anche in assenza di pronunciamenti pubblici, considerano Lo Voi (a prescindere dalle casacche “politiche”) il candidato che con più coerenza e determinazione proseguirebbe il lavoro. Al di là dei giochi di corrente, particolarmente acrobatici in una magistratura balcanizzata e in un Csm anomalo e fragile, la questione di fondo è diventata questa. La garanzia di continuità, che rafforzava Lo Voi, pare ora (anche all’interessato) un boomerang, con l’emersione di voci, interne ed esterne alla magistratura e per le ragioni più diverse, che sul “metodo Pignatone” hanno da ridire al punto di consideralo una parentesi da chiudere al più presto. Metodo portato da Palermo a Reggio Calabria e infine a Roma, emancipandola dalla leggenda infausta di “porto delle nebbie”: chiaro e unitario indirizzo investigativo, condivisione delle informazioni, fermo coordinamento della polizia giudiziaria, lettura non frammentata dei fenomeni criminali, uso non automatico dell’iscrizione nel registro degli indagati, rigoroso filtro probatorio all’azione penale. Metodo che si ritrova nelle inchieste sulle mafie (da “Mondo di mezzo” a quelle autoctone stile “Suburra”). E che non ha risparmiato i poteri pubblici più diversi: i tre ultimi sindaci, esponenti dei governi e dei principali partiti, carabinieri, magistrati ordinari e amministrativi. Elemento decisivo il ruolo della squadra di magistrati che più lo hanno condiviso e attuato, a cominciare dai procuratori aggiunti Michele Prestipino (antimafia, braccio destro di Pignatone anche a Reggio), Rodolfo Sabelli (reati economici) e Paolo Ielo, che ha coordinato le più delicate inchieste di corruzione (tra cui ora quella sul’ex sottosegretario Siri), additato dalla fronda anti Pignatone a simbolo della necessità di discontinuità. In nome della quale sono salite (dentro e fuori Magistratura Indipendente, Procura e Csm) le quotazioni di Marcello Viola. Siciliano come Pignatone e Lo Voi (ma non palermitano), generalmente stimato ma con profilo diverso. Più asettico, meno interventista. Pm antimafia e giudice, poi capo a Trapani (che però non è Procura antimafia), dal 2016 procuratore generale a Firenze. Dove, alla cerimonia d’insediamento e all’inaugurazione dell’anno giudiziario, a salutarlo c’era Cosimo Maria Ferri, già leader della sua corrente e allora sottosegretario, oggi senatore Pd. Giuseppe Creazzo (terzo per anzianità ma secondo per curriculum dietro Lo Voi) ha lavorato a contatto con Pignatone in Calabria. Pm del delitto Fortugno, dopo un passaggio fuori ruolo al ministero ha guidato la Procura di Palmi. Dal 2014 è a Firenze (dove ha chiesto e ottenuto l’arresto dei genitori di Renzi). Le sue possibilità dipendono dall’intensità del sostegno della sua corrente, la centrista Unicost, e dall’esito del duello Lo Voi-Viola. In caso di impasse, può essere la terza via. Belluno: sezione “psichiatrica” in carcere, agenti in corteo per chiuderla Il Gazzettino, 15 maggio 2019 Oggi sit-in della Polizia penitenziaria davanti la prefettura dopo i ripetuti ferimenti di agenti da parte di detenuti malati. La Polizia penitenziaria di Belluno oggi scende in piazza nella manifestazione di protesta organizzata dalle segreterie provinciale di Cisl-Fns, Cgil-Fp, Sappe, Fsa-Cnpp, Osapp e Uilpa. Chiedono la chiusura della sezione Articolazione Salute Mentale riservata ai detenuti con malattie psichiatriche. Troppi i casi di aggressioni e ferimenti degli agenti, a fronte di una non adeguata assistenza dei detenuti. Parlano di una situazione di degrado e insicurezza che pesa su tutti, dietro e fuori le sbarre. Il corteo partirà alle 9 dal carcere di Baldenich per raggiungere piazza Duomo dove ci sarà un sit-in davanti alla prefettura. La delegazione sarà poi ricevuta dal prefetto, alle 11, al quale saranno avanzate cinque richieste: chiusura della sezione Asm; revisione e contestuale integrazione degli organici del personale della Polizia penitenziaria e amministrativa; diritto alla sicurezza; tutela del personale; locali e cure adeguate per i detenuti rinchiusi nella sezione contestata. Le già difficili condizioni di lavoro nel carcere, ripetutamente denunciate dai sindacati, sono state aggravate dall’istituzione della sezione psichiatrica che ospita soggetti spesso complicati da gestire, non solo sotto il profilo medico ma anche del rapporto con gli agenti. Airola (Bn): ceramica e musica per trasformare la vita dei minori a rischio napolitoday.it, 15 maggio 2019 Sono state presentate in Consiglio regionale le attività ed i laboratori per i minori a rischio. Si è tenuta al Consiglio Regionale della Campania (isola F13 al 21esimo piano) la conferenza stampa per la presentazione del progetto di ceramica realizzato presso il carcere minorile di Airola. Il progetto è stato promosso dal Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello e realizzato dall’ Associazione alla promozione sociale “Tarita”. La conferenza stampa è stata introdotta con le parole del Garante: “Queste iniziative, promosse dal mio ufficio grazie ai contributi dell’assessorato regionale alle politiche sociali, per questi adolescenti fungono da zattera. Sono una educazione alla speranza che non è lenitivo che addormenta il dolore e la solitudine, ma è una forza che impregna il loro presente e li motiva a trasformare la loro vita. Questo è solo l’inizio, a breve partiranno dei corsi di formazione, con qualifica professionale, promossi dalla Regione. Nelle prossime settimane inizierà anche un corso di musica sempre nel carcere minorile di Airola, attraverso il sostegno di un gruppo di volontari, per far sì che questi giovani scoprano ciò che non hanno mai vissuto: la cultura, la bellezza, l’affetto, le relazioni “. A far capo a questo evento una forte emozione, come ha mostrato la Presidente dell’Associazione “Tarita”, Carmela Grimaldi, che ha raccontato dell’incontro con i ragazzi e ha affermato: “ Questa esperienza mi ha segnato tanto, volevamo trovare la chiave giusta per aiutare questi ragazzi reclusi e scoraggiati. Alla fine di questo percorso, durato tre mesi, posso dire che non smetteremo mai di ringraziare ognuno di loro, per avermi, anzi averci, lasciato tanto. Ci hanno completato”. Tanti i partecipanti a questo evento, tra i quali il Consigliere Regionale Carlo Iannace, delegato della Presidente del Consiglio Regionale Rosa D’Amelio che a fine conferenza ha dichiarato: “Ci impegneremo a fare sempre meglio, ringrazio la presidente D’Amelio per avermi concesso questa possibilità, per me è veramente un orgoglio. Sono folgorato da tutto questo. Siete veramente speciali.” Ai ringraziamenti si è associata anche la Dirigente del centro Giustizia Minorile e Comunità della Campania Maria Gemmabella, che non ha esitato ad elogiare il Garante per aver permesso tutto questo e per la costanza e la dedizione con cui svolge il suo lavoro. Non è mancato poi un cenno di gratitudine per la polizia penitenziaria. Toccanti sono state le parole della Direttrice dell’ Istituto Minorile di Airola Marianna Adanti, che ha sottolineato: “Non siete abbandonati e mai lo sarete, non pensate neppure una cosa del genere. Noi abbiamo un compito difficile ma lo facciamo con forza e motivazione. Questa iniziativa è bellissima, perché nel volontariato c’è tanta empatia e sensibilità. Io e i tanti collaboratori, ci impegniamo e impegneremo a fare sempre meglio affinché voi diventiate degli uomini liberi e giusti”. Presenti, eccezionalmente, alcuni giovani ristretti in permesso, che hanno partecipato al progetto e durante la conferenza hanno omaggiato i partecipanti con dei lavori speciali da loro realizzati. Parma: l’incontro “Università e carcere. Il castello dei destini incrociati” di Martina Santi parmateneo.it, 15 maggio 2019 Il 13 maggio si è tenuto l’incontro “Università e carcere. Il castello dei destini incrociati”, presso il carcere di parma. studenti detenuti e non hanno messo in scena una rappresentazione teatrale, a cui è seguito un momento di dibattito sul futuro della funzione rieducativa della pena detentiva. Lunedì 13 maggio alcuni studenti dell’Università di Parma hanno incontrato i detenuti degli Istituti Penitenziari di Parma, in occasione dell’incontro Università e carcere. Il castello dei destini incrociati. Erano presenti Vincenza Pellegrino, docente di Sociologia dell’Università di Parma e delegata del Rettore per le attività universitarie negli Istituti Penitenziari di Parma, Paolo Andrei, rettore dell’Università, Vincenzo Picone, regista e sceneggiatore teatrale, Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e Franco Prina, presidente della Conferenza nazionale dei delegati dei Rettori per i PUP (Cnupp). L’iniziativa è la prima dei quattro appuntamenti organizzati in occasione della tre giorni (13-15 maggio) dedicata alla relazione Università-carcere. L’obiettivo di questi incontri è avvicinare le due istituzioni, affinché la didattica e la ricerca universitaria pongano maggiore attenzione sul senso che ha il produrre e consumare cultura in un istituto penitenziario. Durante l’incontro, i detenuti presenti hanno messo in scena una piccola produzione incentrata sull’opera ‘Il Castello dei destini incrociati’ di Italo Calvino. Il romanzo racconta l’arrivo di alcuni viandanti in una taverna, dove trovano ristoro e cominciano a banchettare. Il momento si interrompe, però, quando i viandanti scoprono di aver perso la facoltà di parola. Interviene allora l’oste che, poggiando un mazzo di tarocchi sul tavolo, permette a ciascuno di raccontare la propria storia attraverso quelle carte. Si tratta di storie distanti, ma intrecciate. Allo stesso modo, i neo attori si sono persi nel “bosco della vita” per poi ritrovarsi, insieme, in un luogo afono dove la loro storia trova voce grazie ai tarocchi, o ‘invarianti narrativi’, come li chiama la Pellegrino. Alle voci dei reclusi si alternano quelle dei tutor: studenti universitari che seguono all’interno del carcere alcuni detenuti nel loro percorso scolastico e che hanno partecipato al laboratorio teatrale. Insieme a loro, i ragazzi hanno recitato Calvino e dato rilievo alla storia dei propri studenti. Il rapporto confidenziale e di reciproco insegnamento creatosi durante questa esperienza, è apparso evidente, tanto che, per parlare della propria esperienza da tutor, una studentessa ha deciso di leggere alcune righe della tesi di laurea del suo ‘alunno’. Alcuni detenuti si destreggiano con confidenza sul palco. Altri inciampano nelle parole. Ciò che non manca, tuttavia, è la determinazione a raccontarsi e a mettere in scena della cultura. “Noi abbiamo un sapere limitato, incarcerato”, confida il detenuto X, ma la speranza è che progetti come questo laboratorio costituiscano solo un primo passo nel processo di rieducazione che spetta ad ogni detenuto. Rieducazione non intesa, però, come ‘correzione’, ma come un augurabile ‘possibilità di’. Secondo Vincenza Pellegrino, infatti, è essenziale che ciò che è ‘possibile’ smentisca la propria componente utopica e riesca ad istituzionalizzarsi. È in quest’ottica che Università e carcere di Parma stanno collaborando per la nascita del PUP (Polo Universitario Penitenziario). Che valore ha, però, una laurea conseguita in carcere? Secondo il garante nazionale Mauro Palma non è sufficiente ridurre la barriera fisica, sociale e culturale tra chi sta ‘fuori’ e chi sta ‘dentro’. È tempo di riconsiderare la concezione stessa del carcere. Lo Stato, sostiene Palma, non deve muoversi affinché il detenuto stia nel miglior modo possibile all’interno della cella, ma affinché ci stia il meno possibile. “Si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti”. In altre parole, è importante che il detenuto non inizi un percorso di studi per ‘passare il tempo’, ma nell’ottica di un arricchimento personale e di un’auspicabile vita futura fuori dall’istituto. Al binomio università-carcere andrebbe dunque aggiunto il fattore ‘città’. Questa deve affrontare la questione del ‘dopo’ e rivedere il proprio ruolo nel processo di integrazione del detenuto. Oggi, sostiene Palma, il carcere è considerato un posto di esclusione, ed è destinato ad esserlo fino a quando non passerà dall’essere ‘non luogo’ a luogo di conoscenza. All’anno 2018-2019 sono circa 800 gli studenti detenuti iscritti all’Università: circa l’1,3% della popolazione detenuta. Un numero irrisorio. Invece, la recidiva è al 70% e il sovraffollamento al 129,3%. Quest’ultimo dato, tuttavia, non è dovuto all’aumento degli ingressi, ma al calo delle uscite. Questo tema è stato anche al centro della conferenza ‘Marcire in carcere’ al Salone internazionale del Libro di Torino 2019. Al dibattito ha preso parte Emilia Rossi, membro del Collegio del Garante nazionale dei detenuti. “Marcire in carcere - sostiene la Rossi - è un’espressione vecchia creata da una volontà politica, ma in aperto contrasto con il dettato culturale. Oggi serve una riflessione seria su una alternativa alla pena detentiva”. Padova:: i Vescovi del Nordest incontrano i Cappellani delle carceri difesapopolo.it, 15 maggio 2019 I Vescovi della Conferenza Episcopale Triveneto si sono riuniti oggi a Padova, presso la sede della Facoltà Teologica del Triveneto, ed hanno incontrato, in mattinata, una delegazione - guidata dal coordinatore don Antonio Biancotto - dei cappellani impegnati nelle carceri del Nordest. Nel loro racconto sono così emersi i tratti principali, le attenzioni ed anche le preoccupazioni e le fatiche che caratterizzano e accompagnano il servizio quotidiano svolto da cappellani, religiosi, religiose e volontari impegnati nella quindicina di istituti carcerari presenti in quest’area con tutte le persone coinvolte nel “mondo della detenzione” per “soccorrerle nel corpo e nello spirito” attraverso una serie di azioni ed iniziative: i momenti di ascolto e dialogo personale, la celebrazione dei sacramenti (eucaristia e riconciliazione in particolare), gli incontri di preghiera e catechesi, i gruppi biblici, le diverse occasioni di formazione umana e cristiana ma anche l’aiuto economico, l’approvvigionamento di indumenti o materiale per l’igiene personale delle persone detenute, il contatto con le famiglie, l’attenzione pastorale a favore degli operatori penitenziari ecc. “Nelle periferie più degradate, quale spesso è il carcere - hanno spiegato -, si percepisce maggiormente la potenza di guarigione e di salvezza del Vangelo. Il bisogno di Dio, anche se talora inespresso, si avverte in modo forte. Come cappellani siamo poi consapevoli di essere stati inviati a sostenere e a consolare non solo i detenuti ma anche le loro famiglie, il personale penitenziario e di riflesso i loro congiunti”. L’incontro ha permesso, quindi, di fotografare la recente evoluzione della situazione carceraria nel Nordest: le carceri stanno progressivamente tornando al sovraffollamento di parecchi anni fa, con realtà già quasi sature di presenze; aumentano le presenze di cittadini stranieri (ultimamente, soprattutto, di asiatici) che in taluni istituti raggiungono anche il 60/70%; si aggrava la situazione e l’assistenza dei detenuti con problematiche psichiatriche; crescono inoltre, contemporaneamente, le presenze in carcere sia di giovani (perlopiù stranieri) che di anziani (oltre i 60 anni); l’affermarsi ormai di un evidente pluralismo religioso (in media oggi le presenze in carcere sono per il 60% di cristiani, metà cattolici e metà ortodossi, e di oltre un 30% di musulmani, con ulteriori e più piccole quote di altre realtà religiose). “L’esperienza maturata - hanno proseguito - permette ai cappellani delle carceri di poter poi donare alle comunità cristiane maggiori elementi di conoscenza sulla realtà per aprirle di più all’accoglienza ed abbattere i pregiudizi, per sensibilizzarle alle problematiche di chi ha sbagliato, senza ghettizzare. Purtroppo abbiamo notato un aumento del clima di chiusura anche in alcune comunità cristiane. Avvertiamo l’urgenza di stimolare le istituzioni a riscoprire lo spirito autentico della Costituzione, puntando meno sulla propaganda e dedicando più attenzione alla rieducazione; ancora oggi, infatti, la pena risulta spesso solo punitiva e non rieducativa. E sentiamo l’esigenza di curare e potenziare maggiormente tutte le forme di reinserimento dei detenuti nella società. I dati evidenziano, tra l’altro, la forte diminuzione dei casi di reiterazione del reato laddove si utilizzano le pene alternative”. Durante il dialogo i Vescovi hanno riaffermato l’importanza e il valore prezioso di tali esperienze che rappresentano un concreto e visibile segno di presenza e vicinanza della Chiesa in questo delicato contesto, soprattutto nell’odierno clima politico, culturale e sociale; riconosciuta anche l’opportunità di puntare molto su un’opera di formazione e sensibilizzazione delle comunità, a partire dai sacerdoti e dai seminaristi. I cappellani hanno poi chiesto e proposto ai pastori delle Chiese diocesane di intensificare i contatti con tali realtà, ad esempio con visite più prolungate agli istituti di pena (una sorta di “giornata in carcere”) che permettano loro anche visite a singole sezioni, contatti personali con detenuti, personale penitenziario e volontari. Crotone: percorsi di legalità, gli studenti dell’Ipssar-Iis in visita al carcere laprovinciakr.it, 15 maggio 2019 “Giovedì 9 maggio - informa una nota - un gruppo di studenti dell’Ipssar-Iis Polo di Cutro ha fatto visita ai detenuti del carcere di Crotone. Un’esperienza di umanità dai risvolti sorprendenti. Una volta si diceva che per ogni scuola che apre un carcere chiude; ciò per evocare una grande verità: il futuro di un popolo è garantito dall’avere una buona scuola e un sistema formativo efficace. Alla luce dell’esperienza fatta dai nostri studenti, si potrebbe modificare quell’antico adagio dicendo: affinché un carcere chiuda o quanto meno vi siano meno detenuti in un paese, sarebbe sufficiente, più che aprire nuove scuole, che in quelle già esistenti lo studio si trasformasse in un’esperienza significativa, capace di incidere nel ragazzo, di farlo crescere umanamente. L’iniziativa ha preso spunto dal progetto “Percorsi di legalità in carcere” proposto dall’Autorità Garante dei detenuti del Comune di Crotone, Federico Ferraro, ed è stata organizzata in occasione della Festa dell’Europa, che cade proprio il 9 maggio, per sottolineare l’importanza di conoscere la nostra appartenenza e l’importanza di ciò che la Commissione Europea indica come ruolo chiave per il futuro dell’Uomo, ossia, l’istruzione e la formazione per l’Uomo del nuovo secolo, che oggi, più che mai, deve misurarsi e confrontarsi in una società sempre più complessa, interattiva, multietnica, multirazziale e multiculturale”. Monza: “Sanquirico-Matera”, quattro giorni di cultura nella Casa circondariale mbnews.it, 15 maggio 2019 “Chiunque veda Matera non può non restarne colpito tanto è espressiva e toccante la sua dolente bellezza”. Carlo Levi, nel suo “Cristo si è fermato a Eboli” la descrive così. Un piccolo gioiello scavato nelle montagne. Un progetto della Casa circondariale Sanquirico unisce Monza alla Capitale europea della cultura 2019, fin dal titolo: “Sanquirico - Matera”. Su indicazione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e in collaborazione con l’associazione Zeroconfini Onlus, la redazione di “Oltre i confini - Beyond Borders”, il giornale della Casa circondariale monzese, ha pensato a quattro giorni di eventi per raccontare Matera: fotografie, note e parole dal 20 al 23 maggio. Secondo il Sindaco “Sanquirico - Matera” è, prima di tutto, un ‘ponte’ tra il carcere e la realtà che c’è ‘fuori’. La sfida che i detenuti ci lanciano con questo progetto è chiara: dobbiamo superare barriere e pregiudizi. La cultura è lo strumento per farlo. E il sindaco indica la parola chiave: fiducia. Da qui, secondo il Primo Cittadino, bisogna partire per promuovere, nei fatti, il reinserimento sociale dei detenuti e per far parlare i due mondi. “La realizzazione dell’iniziativa, voluta dall’Amministrazione Penitenziaria - spiga il Direttore della Casa Circondariale Maria Pitaniello - è l’evidente frutto di consolidata integrazione e di forte collaborazione tra la Casa Circondariale di Monza e il territorio cui l’Istituto appartiene. Con questo progetto si è voluto raccogliere la sfida lanciata dalla città di Matera, Capitale Europea della Cultura 2019, che - grazie all’impegno dei giovani lucani - ha recuperato la bellezza, la poesia e la vitalità dei suoi luoghi. Abbiamo voluto condividere questa stessa sfida, perché comuni gli obiettivi di crescita culturale e di riscatto”. “Voltaire diceva che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. In queste città nelle città - spiega Antonetta Carrabs - la parola, la poesia, la narrazione e il loro esercizio possono avere valore auto-educativo e terapeutico e consentire una sorta di emancipazione anche in una situazione difficile come questa. Da qui è nata l’idea, sostenuta dal direttore Maria Pitaniello, di dare vita a un giornale: “Oltre i confini- Beyond Borders”, questo il nome della testata che una redazione formata da cinque detenuti pubblica, ogni due mesi e che rappresenta il collegamento tra la società reclusa a quella libera”. Il “viaggio” nella città dei sassi comincia lunedì 20 maggio alle ore 10.30 con “Matera, la Gerusalemme del Sud”, un racconto per immagini di Pixcube, network di workshops e reportage fotografici, a cura di Francesca Ripamonti. Nata a Lecco nel 1972, diplomata all’Accademia di Belle Arti Brera Milano, Francesca Ripamonti è stata assistente di Maurizio Galimberti e ha lavorato alla Fondazione Industria con Fabrizio Ferri. Ha esposto a Siena, a Castel Sant’Angelo e al Mac (Museo Arte Contemporanea) di Lissone. Ogni fotografia è accompagnata da un testo della redazione di Oltre i confini - Beyond Borders. La colonna sonora della mostra è affidata alle note jazz del duo Giovanni Hoffer e Davide Brillante. Già membro stabile dell’orchestra del Teatro alla Scala, Giovanni Hoffer è considerato un pioniere ed un punto di riferimento per il corno francese. Protagonista di importanti festival come Umbria Jazz e Roma Jazz Festival, ha collaborato con alcuni big della musica internazionale: da Vasco Rossi a Quincy Jones passando per Paolo Fresu. Davide Brillante, chitarrista e compositore, ha lavorato a New York, Londra e Dublino con artisti jazz del calibro di Joe Cohn, Quincy Davis, Kengo Nakamura, Gordon Lane e Ali Jackson. Secondo appuntamento martedì 21 maggio alle ore 10 con l’incontro con lo scrittore lucano Giuseppe Lupo. Docente di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia, ha esordito nella narrativa con il romanzo “L’americano di Celenne” con cui nel 2001 ha vinto il Premio Giuseppe Berto e il Premio Mondello. Con gli studenti della scuola del Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Monza e con i detenuti, ‘guidati’ dalla moderatrice Elena Rausa, parlerà di Matera attraverso le pagine dei sui libri, “L’ultima sposa di Palmira” (Premio Selezione Campiello nel 2011) e la raccolta di scritti “Atlante immaginario”. L’incontro è promosso in collaborazione con l’associazione “La biblioteca è una bella storia” che gestisce la biblioteca del carcere. Al termine saranno presentati i lavori dedicati a Matera svolti dai detenuti durante il corso di arte-terapia. Mercoledì 22 maggio alle ore 10.30 andranno in scena le Musiche da Oscar, le più belle colonne sonore dei film. Sul ‘palco’ il soprano Elena D’Angelo, il pianista Andrea Albertini e il baritono Matteo Mazzoli. Si chiude giovedì 23 maggio con la magia della pizzica, la musica tradizionale salentina: “Suoni di festa dal Sud”. Il gruppo pugliese Ascanti metterà in scena canti e danze della tradizione popolare, pizziche del basso e dell’alto Salento, stornelli, serenate e canti narrativi, fusi con altri linguaggi musicali. Uno spettacolo interattivo che farà ballare tutti a ritmo di pizzica. Genova: corsa e calcio, oggi al carcere di Marassi porte aperte per Vivicittà genova24.it, 15 maggio 2019 Anche quest’anno correranno insieme ai podisti delle associazioni e società sportive Uisp lungo un tracciato di 3 chilometri, sia all’interno che all’esterno delle mura. Nell’ambito dei progetti che Uisp porta avanti da anni all’interno degli Istituti penitenziari regionali, Genova, per l’ottavo anno consecutivo, sarà protagonista della speciale manifestazione nazionale “Vivicittà - Porte Aperte”, grazie alla collaborazione ormai consolidata tra il Comitato Territoriale Uisp di Genova e la direzione della Casa Circondariale di Marassi. “Vivicittà - Porte Aperte”, nel 2019 si svolgerà mercoledì 15 maggio, con inizio alle ore 14.45, rappresentando uno degli eventi centrali della famosa Vivicittà, la “corsa più grande del mondo” che l’Unione Italiana Sport Per tutti organizza da ben trentacinque anni in decine di città italiane e nel mondo, capace di unire lo sport ad importanti temi di solidarietà e promozione di diritti. Oltre 70 detenuti saranno protagonisti di un pomeriggio di sport per tutti, nel segno della corsa e del calcio. Anche quest’anno correranno insieme ai podisti delle associazioni e società sportive Uisp lungo un tracciato di 3 chilometri, sia all’interno che all’esterno delle mura dell’Istituto penitenziario genovese. Contemporaneamente, sul campo interno, si disputerà un torneo di calcio fra i detenuti partecipanti alle attività dei progetti di sport per tutti, una rappresentativa esterna e una squadra della Polizia Penitenziaria. L’obiettivo della manifestazione, realizzata con la collaborazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, è creare sempre di più “un ponte” tra l’interno e l’esterno delle mura, così come avviene da anni nell’ambito delle azioni del progetto “Ponte”, inserito all’interno dell’ATS Regionale La Rete che Unisce, con il contributo della Regione Liguria. Al termine delle attività, si svolgerà il momento delle Premiazioni. Alle ore 14 è fissato il ritrovo per gli atleti “esterni”. In caso di maltempo la manifestazione si svolgerà domani, giovedì 16 maggio, secondo le stesse modalità. “Vivicittà - Porte Aperte” si svolge, in questi mesi, complessivamente in 23 istituti penitenziari in Italia. Genova: con “La Favola bella” i detenuti raccontano la metafora dell’esistenza Il Secolo XIX, 15 maggio 2019 La compagnia “Voci Erranti” in scena sabato a Marassi. Si chiama La Favola Bella lo spettacolo dei detenuti di Saluzzo che si terrà sabato alle 20.30 quale ultimo appuntamento della rassegna “Voci dall’Arca”, al Teatro dell’Arca, allestito nella casa circondariale di piazzale Marassi 2. Messo in scena dalla compagnia “Voci Erranti”, composta da attori detenuti del carcere di Saluzzo, lo spettacolo, spiega la presidente di Teatro Necessario Mirella Cannata, presenta un bosco da attraversare ed un lupo da affrontare. Ma chi è quella bambina così ingenua da attraversare il bosco da sola? Che male c’è se sono un lupo sempre affamato? Che senso ha la morale se la storia è sempre la stessa, sono alcuni dei quesiti. “Nove detenuti partecipanti al Laboratorio Teatrale del carcere di Saluzzo - sottolinea Cannata - leggono e rivisitano la fiaba di Cappuccetto Rosso, vista attraverso gli occhi del lupo”. Si tratta di un punto di osservazione che consente ai detenuti attori la possibilità di riconoscersi all’interno di quella che è la fiaba più nota e rappresentata dai tempi di Perrault a quella dei fratelli Grimm. Lo spettacolo, precisa Mirella Cannata, è il risultato finale di quanto il gruppo “ha vissuto mettendosi in gioco durante l’attività di laboratorio e delle riflessioni personali raccolte e condivise lungo il percorso”. Attraverso lo spettacolo, sono state rielaborate emozioni anche di paura: “Quando prende il sopravvento - hanno scrittoi i detenuti - allora capisci l’importanza che ha la storia, quando la solitudine è l’unica compagna, allora anche i lupi diventano amici, quando l’apatia ti diventa quotidiana allora la tristezza si aggiunge alla rabbia e così... si crea la comitiva... e poi lo sappiamo tutti come va a finire”. Il bosco diventa così metafora di vita: “Mi sono perso nel bosco... - è ancora il testo - per favore non mi cercare sai quante strade mi hanno cresciuto proprio come una madre ed è forse per questo che non riesco a mostrare le lacrime neanche più a me stesso...”. L’esperienza teatrale di Voci Erranti nel carcere di Saluzzo conta ormai diciotto anni di attività e comprende due laboratori permanenti per detenuti di media e di alta sicurezza, un corso di formazione per Tecnico Audio-Luci, un progetto di Educazione alla libertà per studenti esterni e la possibilità di uscire per replicare, mensilmente, con gli attori- detenuti gli spettacoli. “La favola bella” è scritto e diretto da Grazia Isoardi, coreografie di Marco Mucaria, luci di Cristian Perria, produzione Voci Erranti. Prenotazione obbligatoria entro venerdì alle 10 link teatronecessariogenova.org. “Detenuto libero”, di Antonio Giammarino. In un libro la voglia di mondo dei carcerati abr24.it, 15 maggio 2019 “Lasciarsi guardare dalla Bellezza sembra la sfida più difficile di chi vive in carcere”. Con queste parole Papa Francesco in una lettera ringrazia Antonio Giammarino, studioso e fotografo professionista, di avergli donato il libro “Detenuto libero” (Edizioni Tracce). Nel volume, Giammarino, uno dei più grandi collezionisti di macchine fotografiche d’epoca, racconta la propria esperienza di insegnante di fotografia nei penitenziari abruzzesi. La nuova edizione, arricchita e revisionata, sarà presentata giovedì prossimo al carcere di Chieti. L’incontro sarà moderato dal criminologo Gianmarco Cifaldi. A breve uscirà anche una versione in inglese del libro, a cura della prof. Marilena Saracino, docente dell’Università d’Annunzio. Nel volume l’autore fa rivivere le giornate dei detenuti e la loro “voglia di mondo” che si concretizza nelle più svariate maniere: “c’era chi voleva un interlocutore con il quale creare un dialogo di scambio e arricchimento reciproco, altri invece volevano semplicemente un amico la cui visita avrebbe in qualche modo alleggerito per quei pochi attimi la monotonia della reclusione; altri ancora, forse, speravano di ingannare la realtà fingendo di vivere una vita normale, in cui si ricevono visite di amici e si svolgono attività di svago come poteva essere, in quel contesto, il corso di fotografia”. “Il Papa - dice Giammarino - nella lettera evidenzia l’impegno nel “cercare di mettere in comunicazione, attraverso la fotografia, ciò che le persone detenute vivono dentro la loro esperienza di reclusione, con il mondo esterno”. Ora più che mai - aggiunge l’autore del libro - sono consapevole di quanto possa essere importante e, per molti versi, necessario un riscontro del proprio lavoro, un plauso che non può che fungere da ulteriore incoraggiamento per proseguire la via intrapresa. Credo sia questo ciò che i detenuti provino durante il processo di detenzione e riabilitazione: recuperare la consapevolezza che il lavoro duro che li attende durante la reclusione è finalizzato ad una rinascita umana, sociale e spirituale e che la società che li osserva e li giudica è la stessa che li incita e sostiene attraverso le Istituzioni preposte. Come afferma il Santo Padre ‘creare opere d’arte che portino, proprio attraverso il linguaggio della bellezza, un segno, una scintilla di speranza e di fiducia lì dove le persone sembrano arrendersi all’indifferenza e alla bruttezza, è un gesto importante che può far brillare la bellezza soprattutto dove l’oscurità o il grigiore sembrano dominare la quotidianità’”. Così gli Stati criminalizzano i volontari delle Ong: “Sono nemici del popolo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2019 La procura di Agrigento non ha convalidato il sequestro preventivo per la nave Mar Ionio dell’organizzazione non governativa Mediterranea, eseguito venerdì scorso a Lampedusa dalla Guardia di Finanza. La nave della Ong nella settimana appena passata aveva salvato 30 migranti in pericolo nelle acque libiche. Ora, però, tutto l’equipaggio è indagato e sarà sempre la Procura di Agrigento a decidere su come agire anche nei confronti dei membri dell’equipaggio. Indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina Beppe Caccia, l’armatore veneziano della nave Mare Jonio. Ne ha dato notizia lui stesso via Twitter, con una foto di Alima, la bimba del Sud Sudan che era sul gommone con il papà e la mamma incinta di 7 mesi: “Sono indagato con la sola colpa di aver salvato 30 vite umane e di essermi rifiutato di consegnarle ai loro aguzzini. Ciao Alima, lo rifarei mille altre volte. Buona fortuna in questa nostra Europa, a te e a tutti gli altri”. Ma cosa sta accadendo nei confronti delle Ong in Italia, ma anche nel mondo intero? In Italia tutto è cominciato con il sospetto, “suggerito” dal Movimento 5 Stelle, che alcune Organizzazioni non governative - quelle che operavano salvataggi nel mare - fossero in combutta con gli scafisti. I famosi “taxi del mare”, terminologia che via via veniva ripresa dagli utenti dei vari social network fino ad amplificarsi nei mass media. Fu in quel periodo, con il governo precedente, che l’allora ministro degli interni Marco Minniti elaborò un codice etico per le Ong impegnate nel salvataggio dei migranti. Gli è poi succeduto Matteo Salvini con la pratica dei porti chiusi, che in realtà - di fatto - chiusi non erano. Oppure, notizia di questi giorni, secondo la bozza del decreto bis sulla sicurezza si prevedrà addirittura una multa salata per ogni immigrato che viene soccorso secondo infrazioni non meglio definite. Non è mancata la via giudiziaria intrapresa dal procuratore Carmelo Zuccaro, secondo cui potevano esserci dei collegamenti tra le organizzazioni non governative e i trafficanti di uomini. Ma nessuno dei provvedimenti avviati è mai arrivato a processo. L’ultimo fascicolo aperto era sulla nave Aquarius, l’accusa sosteneva che tutti i capimissione di Medici senza frontiere alla guida degli equipaggi “avrebbero avuto la consapevolezza della pericolosità degli indumenti indossati dai migranti in quanto fonte di trasmissione di virus o agenti patogeni contratti durante il viaggio”. Da parte sua Medici senza frontiere ha sempre respinto ogni addebito, affermando di aver seguito le procedure standard. “Dopo due anni di indagini giudiziarie, ostacoli burocratici, infamanti e mai confermate accuse di collusione con i trafficanti di uomini”, aveva detto all’epoca a novembre 2018 Karline Klejer, responsabile Msf per le emergenze, “ora veniamo accusati di far parte di un’organizzazione criminale finalizzata al traffico di rifiuti. È l’estremo, inquietante e strumentale tentativo di fermare a qualunque costo la nostra attività di ricerca e soccorso in mare”. Il Tribunale del Riesame, il 15 gennaio scorso, ha restituito all’agenzia marittima coinvolta nell’inchiesta 200 mila euro che erano stati bloccati dalla procura, autorizzandola a riprendere regolarmente le sue attività e ha accolto integralmente il ricorso del principale indagato, l’agente marittimo accusato di aver smaltito illegalmente rifiuti pericolosi provenienti in prevalenza dalla nave. Le Ong e i loro obiettivi. Ma cosa sono le organizzazioni non governative? Come dice la parola stessa, l’Ong è indipendente dagli Stati e non ne riceve quindi i fondi. Le Ong perseguono diversi obiettivi di utilità sociale, cause politiche o di cooperazione allo sviluppo. Gli ambiti di intervento sono vari: tutela dell’ambiente e del territorio, protezione delle minoranze, difesa dei diritti umani, ambiti di sviluppo e protezione specifici per alcune categorie di persone. In seguito alla chiusura di Mare Nostrum, il 31 ottobre 2013, operazione italiana militare e umanitaria iniziata dopo il tragico naufragio di Lampedusa del 3 ottobre, quando ci furono 366 morti accertati, alcune Ong hanno deciso di intervenire direttamente con navi private nel Mediterraneo per le attività di ricerca e salvataggio, in coordinamento con la Guardia Costiera italiana. Un’altra caratteristica è che le Ong sono senza scopo di lucro. La maggior parte di loro sono gestite da volontari, ma non tutte. Sono infatti le piccole Ong e Onlus locali che si avvalgono di volontari per gestire le loro attività. Le grandi Ong internazionali invece sono formate da personale retribuito poiché necessitano di competenze specifiche per portare avanti il loro lavoro in maniera efficace ed efficiente. Le Ong internazionali presenti e più conosciute in Italia sono fra le altre ActionAid, Medici Senza Frontiere, Amnesty International, il WWF Italia, Save the Children Italia. In conclusione, le Ong hanno l’obiettivo di tutelare i diritti, che siano diritti umani o la protezione e la salvaguardia del nostro pianeta. Assalto globale alle Ong - In tutto il mondo si stanno intensificando gli attacchi contro le Ong. A documentare quest’assalto globale è stato il recente report di Amnesty International “Obiettivo: silenzio. La repressione globale contro le organizzazioni della società civile”. In base ai dati raccolti sono 50 gli stati che in questi mesi hanno adottato o stanno per adottare leggi anti- Ong. Nell’ottobre 2019 il ministero dell’Interno del Pakistan ha respinto 18 domande di registrazione e i relativi ricorsi da parte di 18 Ong internazionali senza fornire spiegazioni. In Bielorussia le Ong sono sottoposte a una rigorosa supervisione dello stato. Lavorare per le Ong la cui domanda di registrazione è stata - spesso arbitrariamente - respinta è un reato penale. In Arabia Saudita il governo può negare la registrazione alle nuove Ong o smantellarle se sono ritenute “dannose per l’unità nazionale”. A subire le conseguenze di questa legislazione repressiva i gruppi per i diritti umani, compresi quelli per i diritti delle donne, che non sono in grado di registrarsi e operare liberamente all’interno del paese. Anche gli uffici di alcune sezioni di Amnesty sono finiti sotto attacco: dall’India all’Ungheria, nell’ambito di un giro di vite sulle organizzazioni locali, le autorità se la sono presa con le strutture, congelando beni patrimoniali e compiendo raid negli uffici. Senza parlare della Russia e Cina. In quest’ultima, la nuova legge controlla strettamente le attività delle Ong, dalla formulazione della domanda di registrazione alla reportistica in materia di movimenti bancari, assunzioni e raccolta fondi. In Russia, invece, le Ong che ricevono fondi dall’estero sono state etichettate dal governo come “agenti stranieri”, un termine che è sinonimo di “spie”, “traditori” e “nemici dello stato”. In Ungheria diverse Ong sono state costrette a definirsi “finanziate dall’estero” e il governo cerca di screditare il loro lavoro e scatenare l’opinione pubblica contro di loro. L’obiettivo, in generale, da parte degli Stati del mondo è colpire le Ong che riguardano specificamente i gruppi che si occupano di diritti delle comunità marginalizzate. Eppure, a New York nel dicembre 2018, in occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione Onu sui difensori dei diritti umani, i leader del mondo avevano ribadito il loro impegno a creare un ambiente sicuro per i difensori dei diritti umani. Tutto ciò, di fatto, non sta avvenendo. Decreto Salvini bis, una cinica fake news costruita ad arte di Massimo Villone Il Manifesto, 15 maggio 2019 L’ultima di Salvini è il decreto sicurezza bis. È un’altra mano nel poker pre-elettorale con M5S. A sentir lui, il decreto legge è già praticamente in Gazzetta ufficiale. Invece, Conte dovrebbe rifiutarsi di mettere la proposta in odg, e il capo dello Stato dovrebbe negare l’emanazione. Una prima ragione. Il testo comparso sulla stampa è viziato da manifesta incostituzionalità. Indirizzandosi essenzialmente a ong, migranti e ordine pubblico, non ha i requisiti di necessità e di urgenza. Le vere emergenze sono altre, come ha testimoniato a Napoli il grave ferimento di una bambina innocente in un agguato di camorra. Invece, proprio a Napoli la norma assegna 500 unità delle forze armate per le Universiadi, e vale solo per la durata delle stesse. Poi, norme odiose prevedono - tra l’altro in violazione di norme internazionali che ci vincolano - multe per il salvataggio in mare. Ancora, una stretta sul dissenso inutilmente aggrava, in chiave di repressione e in misura che giunge alla irragionevolezza, normative che già esistono sulla tutela dei pubblici ufficiali e sulle manifestazioni. Poi, com’è tipico negli stati autoritari, si concentrano competenze sul Viminale, segnatamente sottraendole al ministero delle infrastrutture, e violando l’art. 97 della Costituzione sulla PA. Basta già questo a dire che il decreto bis è lontano dalla Costituzione. Ma si aggiunge un commissario istituito su proposta del ministro dell’interno per l’arretrato sui procedimenti di esecuzione delle sentenze di condanna divenute definitive. Significa una longa manus del ministro di polizia sulla libertà, che la Costituzione riserva al magistrato. Oggi è competente il pubblico ministero, secondo l’art. 656 cpp. Allo stesso ministro della giustizia spetta solo “l’organizzazione e il funzionamento dei servizi” (art. 110 Cost.). Il ministro dell’interno non è affatto contemplato, e a nulla vale richiamare lo “scopo di assicurare migliori condizioni generali della sicurezza pubblica”. Perché allora non dargli una compartecipazione su tutta la giustizia penale? Basterebbe invece assegnare direttamente alle strutture giudiziarie le 800 assunzioni straordinarie a tempo determinato previste dal decreto. Una seconda ragione. Per il dpcm 10.11.1993 (regolamento interno cdm) il ministro che vuole un provvedimento nell’odg ne fa richiesta al presidente, dopo aver acquisito concerti e intese. La bozza di decreto attesta il concerto dei ministri della giustizia e delle infrastrutture. È un concerto già acquisito, solo richiesto, o presunto? Per quali considerazioni Toninelli l’avrebbe dato? E che dire di Bonafede, che si preoccupa giustamente dei rimpatri, ma non sembra cogliere il problema che ha in casa con il commissario? Inoltre, nella specie “è comunque necessario il concerto… del Ministro per la funzione pubblica”, che invece a quanto pare manca, insieme a quello della difesa per le 500 unità delle forze armate. Il presidente del consiglio è avvertito. Prima o poi dovrà pure smetterla di fuggire all’estero, e decidere un odg. Nemmeno gli anni bui del terrorismo ci danno esempi di altrettanto manifesta incostituzionalità. Non a caso, il decreto interviene, aggravandola, anche sulla legge 152/1975 (cd legge Reale). M5S, che si è già macchiato di colpe gravi sulla libertà di stampa - con l’offensiva contro alcuni giornali precisamente individuati, tra cui questo - e Radio Radicale, deve chiudere la porta senza se e senza ma, se vuole mantenere un qualche legame con l’opinione pubblica progressista che pure esiste nel paese. Dal consiglio dei ministri nemmeno una presa d’atto, una condivisione di obiettivi, o altro. E se M5S sbagliasse per attaccamento alle poltrone, Mattarella non dovrebbe emanare il decreto nella stesura fin qui nota. Non basterebbe una lettera censoria di accompagnamento. Salvini sa che la strada è probabilmente senza uscita. Ma per lui è persino meglio poter dire che altri hanno messo i bastoni tra le ruote. Conta lo spot, da magnificare attraverso la sua personale macchina di propaganda, potente anche dopo la chiusura di pagine truffaldine da parte di Facebook. Una fake news cinicamente costruita ad arte. Il paese di Salvini non lo vogliamo. Abbiamo applaudito il cardinale Krajewski che ha riattaccato la luce. Se il decreto bis andrà avanti, dovremo sperare che il popolo sovrano la stacchi a Palazzo Chigi, o almeno al Viminale. Gino Strada: “La vera insicurezza è incitare all’odio contro chi sta peggio” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 maggio 2019 Intervista a Gino Strada: “La realtà di oggi preoccupa, c’è chi soffia sull’odio, chi inneggia alla violenza: siamo già dentro un nuovo fascismo. In Italia nessuno chiede perché, con milioni di poveri, abbiamo una spesa militare di miliardi”. “Com’è possibile aver fatto negli ultimi 200 anni delle scoperte incredibili, realizzato cose impensabili in tutti i campi, nella medicina, la chimica, le nanotecnologie, ma non essere stati capaci di progredire sul piano etico? Capire che ammazzarsi tra noi è un non senso, è contro natura”. Gino Strada la guerra la conosce bene. La conosce bene Emergency, l’associazione che fondò nel 1994 per offrire cure mediche gratuite alle vittime dei conflitti. In Africa, in Iraq, in Afghanistan e, a breve, in Yemen. Dei 25 anni di Emergency abbiamo parlato con Gino Strada, in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica Zakhem di Giulio Piscitelli. Il sottotitolo della mostra è “La guerra a casa”. Perché? Le foto di quei pazienti indicano chiaramente che sono dei civili anche se per lo più indossano i vestiti bianchi degli ospedali. È nei villaggi, le città, le case che si combatte la guerra e le vittime sono chi ci abita. Credo che sia una bella mostra: Giulio ha fatto un ottimo lavoro fotografando i pezzi di metallo, schegge, proiettili che i chirurghi toglievano in sala operatoria. C’è la foto del paziente e di cosa lo ha conciato così. È una delle tante iniziative che stiamo mettendo in cantiere. Può tracciare un bilancio di 25 anni di attività di Emergency? Sono stati 25 anni utili. Utili a tantissime persone perché ne abbiamo curate più di 10 milioni nel mondo. Però sono stati utili anche a noi: abbiamo imparato tanto. Non solo cose di medicina e chirurgia ma anche cose sulla guerra e sul mondo, su noi stessi. Tra i paesi in cui siete oggi attivi c’è lo Yemen, che più di altri oggi rappresenta il nuovo “modello” bellico: guerra a dei civili, guerra dimentica, guerra per procura, guerra internazionale attraverso la vendita di armi. Come leggete il vostro impegno lì? Non siamo ancora operativi, è tutto pronto ma stiamo aspettando le ultime autorizzazioni dal punto di vista della sicurezza. Saremo ad Hajjah. È difficile fare previsioni su cosa ci troveremo di fronte. Lo Yemen è il paese con il peggior disastro umanitario a livello mondiale, regolarmente ignorato da quattro anni. Faremo un ospedale per feriti di guerra con i soliti nostri criteri: i feriti sono i feriti, senza ulteriori specifiche su come la pensano o da che parte stanno. Faremo il nostro lavoro professionale. C’è da fare poi un discorso sulla nostra politica che continua a tollerare la vendita di armi prodotte in Italia da una ditta tedesca all’Arabia saudita che le usa in Yemen. Nessuno può nascondersi dietro un dito: ci sono accordi commerciali. Ma a essere assolutamente prioritario è il diritto della popolazione yemenita a restare viva e non essere bombardata. L’Italia in Yemen è presente con le bombe fabbricate a Domusnovas dalla Rwm in violazione della legge 185/1990. Emergency in passato è stata promotrice della campagna per la messa al bando delle mine antiuomo. La vostra presenza in Yemen, oggi, potrà darvi una voce più forte? Penso che le due cose siano assolutamente legate: un’organizzazione che va in Yemen per cercare di salvare vite umane non può essere d’accordo con il buttare bombe e con chi le fornisce. A parte differenze sostanziali per cui stavolta abbiamo di fronte una fabbrica tedesca e non italiana, ci sono condizioni analoghe al caso delle mine antiuomo: il governo dice un sacco di bugie. Quello che potrebbe fare subito è una moratoria. Cominciamo a dire che anche in assenza di una legge questa cosa non si fa più e che dall’Italia non esce più neanche un serramanico diretto a un paese in guerra. Penso che un decreto di moratoria possa essere portato in parlamento in 10 giorni. Guerra e casa sono termini dissonanti, soprattutto per un’Europa che dichiara con orgoglio di essere priva di conflitti dal 1945, dimenticando spesso i Balcani. Ma questa assenza è relativa esclusivamente al proprio territorio: l’Europa è parte attiva nei conflitti che si consumano in altri paesi, con vendita di armi, prese di posizioni diplomatiche, partecipazione a campagne militari e, non da ultimo, indifferenza... Bisognerebbe ricominciare a studiare com’era l’Europa alla fine della guerra. Me lo immagino un ambiente lugubre e spettrale, attraversato da milioni di persone in cerca di qualcosa da mangiare, con cui coprirsi. Questa era l’Europa del primo dopoguerra. Dovrebbe chiarire le idee ad alcuni che hanno la scappatoia della guerra come soluzione dei problemi. Rischiamo di ricadere nella stessa retorica, nella stessa spirale: siamo già dentro questa situazione, la macchina gira di nuovo. Anche a livello internazionale i dati sono questi: non si sta andando verso un mondo più pacificato, ma verso un mondo che sta preparando e in parte attuando forme di guerra. La questione della guerra è etica ma che ha anche un impatto politico enorme: nel paese non c’è un partito che intenda costruire un percorso per uscire dalla guerra come prospettiva storica e che chieda cosa facciamo in un’alleanza militare, perché dobbiamo spendere miliardi in armi quando abbiamo milioni di poveri. Se oggi si fanno queste domande alla classe politica la risposta è trasversale: “la guerra è brutta però”, “non va fatta ma”. Gli scienziati atomici lo dicono da anni: per il rischio guerra e per come stiamo trattando questo pianeta, non abbiamo una prospettiva rosea se non interveniamo immediatamente e drasticamente. Emergency da anni combatte la guerra e i suoi effetti, la fame, le malattie, migliora le condizioni di vita delle persone. Attività umanitarie ma che hanno un valore politico: la vostra presenza in determinati contesti “politicizza” la narrazione dei conflitti, perché ne svela le ragioni. È tornato il tempo, a sinistra, di approcciarsi ai conflitti, militari o sociali, da un punto di vista politico e non solo umanitario? Penso che ci si debba approcciare al tema guerra con un pensiero profondo e nuovo che è quello esortato nel manifesto di Russell-Einstein del 1955. Un pensiero nuovo che deriva dal fatto che viviamo nel periodo atomico, la più grande discriminante tra il nostro periodo e quello precedente. Si deve andare verso l’abolizione della guerra come suggeriva Einstein prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. E invece si aumentano le spese militari: l’anno in cui le spese militari italiane sono aumentate di più è stato sotto il governo Renzi. C’è, se non unanimità di vedute, almeno di comportamenti. Tra le guerre che l’Europa oggi combatte c’è quella alle persone: si moltiplicano i muri fisici e quelli politici e simbolici che hanno effetti devastanti sia su chi tenta di arrivare qui sia sulle società europee, incattivite e vittime di un annientamento della solidarietà sociale. Come legge oggi la natura delle società europee? Non ho grande fiducia nell’onestà delle generalizzazioni o dei sondaggi. Vedo che c’è chi soffia sull’odio, chi ha voglia di vedere l’odio spandersi a macchia d’olio, chi inneggia di nuovo alla violenza. È triste perché ti dice non ci siamo sviluppati molto. Quanto ci mettiamo a fare dei passi avanti dal punto di vista etico? Se avessimo una popolazione più attenta e istruita, si potrebbe chiedere conto ai politici che si candidano a rappresentarci. Non sono idee generali, ma cose specifiche semplici: la guerra non si può fare, non solo perché c’è un decreto che la vieta ma perché nel mondo atomico, con le armi che abbiamo sviluppato, non possiamo più permetterci la guerra. Abbiamo creato la possibilità della nostra autodistruzione. Il fare a meno della guerra diventa obbligatorio, non una mera scelta etica, ma un meccanismo di sopravvivenza. Veniamo all’Italia, recentemente ha detto che Salvini porta con sé l’elemento caratteristico del fascismo: il razzismo. Che pericolo corriamo? Credo sia sbagliato parlare di pericolo: questa è una realtà. Quando i ministri cominciano a non fare i ministri, ma vanno in giro a dire la qualunque, sempre più circondati da un alone di militarismo, la cosa preoccupa molto. E mi preoccupa l’assoluta mancanza di umanità. Non dovrebbe essere prendersi cura dei cittadini il lavoro di chi deve garantire la sicurezza? Mi pare invece sia un lavoro orientato a ignorare i cittadini e spingerli a puntare il dito contro chi sta più in basso. Non si punta mai il dito in alto: perché ci sono milioni di poveri in Italia, non si dice mai. Il ministro dell’Interno parla in questi giorni di un decreto sicurezza bis che prevedrebbe multe a chi salva vite umane in mare. Si sta superando un’altra linea rossa? La criminalizzazione della solidarietà avrà effetti duraturi sul nostro paese? Questa proposta è allucinante. È frutto di questo clima: siamo già dentro questa nuova forma di fascismo, che non si presenterà negli stessi termini della volta precedente ma non sarà meno dannosa. Avere sempre come nemico chi sta peggio e impostare questa contraddizione sulla paura dell’altro è un modo di pensare, prima che di comportarsi, che speravo sparito nella mentalità degli europei. Invece no. Negli intermezzi tra le tragedie non riusciamo mai a trovare il bandolo della matassa. La Dichiarazione universale dei diritti umani a distanza di 90 anni non è stata integralmente applicata da nessun paese firmatario. Erano i principi che dovevano orientare la politica dei governi, ma nessuno è andato in quella direzione. In fuga da bombe e siccità, la carestia in tempo di guerra di Marinella Correggia Il Manifesto, 15 maggio 2019 Rapporto Fao. Dall’Afghanistan allo Yemen dal Congo ad Haiti, le crisi alimentari sono minate dal circolo vizioso dei confitti armati e dei cambiamenti climatici. Al grido di “pace, pane, terra” i contadini e i soldati russi determinarono l’uscita unilaterale della Russia dal macello della Prima guerra mondiale. Fu il primo atto della rivoluzione d’Ottobre. Cento anni dopo, il flagello della guerra continua a incidere fortemente sulla sicurezza alimentare nei suoi due fattori condizionanti: produzione e accesso al cibo, ostacolati anche da frequenti circoli viziosi fra guerra ed eventi climatici estremi, perché le disgrazie non vengono mai sole, a giudicare dal rapporto Monitoring food security in countries with conflict situations, presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite a fine gennaio dalla Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura) e dal World Food Programme (Wfp) sull’insicurezza alimentare in 16 paesi: Afghanistan, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Libano per quanto riguarda i rifugiati siriani, Liberia, Mali, Somalia, Sud Sudan, Sudan, Siria, Ucraina e Yemen, oltre all’area transfrontaliera del Bacino del Lago Ciad. Nazioni che hanno un denominatore comune: un conflitto in corso. Una delle poche notizie relativamente buone viene dalla Siria, grazie al ridimensionamento delle aree ancora in conflitto, anche se “la base socioeconomica e la produzione agricola continuano a essere difficili, oltretutto combinate con l’irregolarità delle piogge. Sono 5,5 milioni i siriani che hanno tuttora bisogno di assistenza alimentare e non solo”. Alcuni sistemi di irrigazione sono stati ricostruiti o riparati. Ma le infrastrutture di trasformazione non sono riabilitate che in parte. E nel 2018 ci si è messa la stagione secca. Ad Hasakeh, dove si coltiva metà del grano del paese, il raccolto è fallito…I prezzi degli alimenti sono un po’ diminuiti ma sono comunque sette volte più alti rispetto a prima del conflitto. Molte persone sono ritornate ai luoghi d’origine, magari per trovarvi - è il caso di Raqqa - terre incoltivabili a causa delle mine sempre in agguato. In un altro paese minato (letteralmente) da un conflitto lunghissimo, l’Afghanistan, il 2018 è stato sia l’anno più letale in termini di vittime civili (operatori umanitari compresi) da quando nel 2009 la missione di assistenza Onu nel paese, Unama, ha iniziato a documentarle. Intanto la maggior parte delle famiglie rurali si trova nella peggiore emergenza dal 2011 a causa della siccità. Nell’aprile 2018 il governo ha dichiarato emergenza siccità in almeno 20 province. La capacità di popoli pur spartani di far fronte a questa difficoltà atmosferica (acuita dai cambiamenti climatici) è messa a dura prova da decenni di conflitti; perfino gli aiuti alimentari hanno difficoltà ad arrivare quando gli scontri infuriano. Molte famiglie hanno dovuto ripiegare su comportamenti di emergenza come: migrare in città, vendere il bestiame, consumare le sementi e ridurre le aree coltivate. Oltre il 90% dei contadini non ha semi per la stagione successiva. Gli allevatori lamentano pascoli aridi e morie di animali. Fra il 2012 e il 2018 sono tornati a casa quasi due milioni di afghani, fra sfollati interni e rifugiati, ma l’acuirsi del conflitto ne ha fatti spostare oltre 270mila e altrettanto ha fatto la siccità. Secondo una recente inchiesta, quasi il 40% della popolazione afgana lascerebbe il paese, se potesse. Ma, precisa il rapporto, “non hanno dove andare visto che l’ambiente in Europa e Iran è sempre più ostile”. Anche per gli yemeniti è molto difficile migrare, eppure in Yemen il 60% della popolazione si trova in situazione di emergenza alimentare. Il World Food Programme ormai deve raggiungere 12 milioni di yemeniti, fra i quali i bambini di meno di due anni, trattati con cibi a base di pasta di arachidi arricchita, e complessi di cereali per le donne incinte o che allattano. Si intrecciano vari elementi: il conflitto e le condizioni ambientali avverse, lo scarso accesso ai servizi sanitari, aumento delle malattie a causa anche delle diete povere di nutrienti. Sul fronte della produzione, dipendente fra l’altro dalla pluviometria, mancano semi, fertilizzanti, strumenti per servizi veterinari, compreso il combustibile delle pompe. In Yemen, prima della guerra, anche nelle circostanze più favorevoli solo il 20-25% del cibo era di produzione locale. Ora poi i salari e le pensioni dei dipendenti pubblici non vengono pagati e questo, insieme all’aumento dei prezzi dei beni importati, decurta il potere d’acquisto. Nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), i conflitti in atto nel Nord e Sud Kivu, Tanganika, Kasai e Ituri (Kivu e Tanganika) hanno ridotto in particolare le colture di cassava, mais e riso, malgrado condizioni atmosferiche favorevoli. L’attività agricola è resa ardua da tanti fattori: insicurezza, penuria di input, assenza di organizzazioni di agricoltori, cattivo stato delle strade rurali e delle infrastrutture necessarie alla conservazione dei raccolti. In totale il 23% delle popolazioni rurali si trova in una situazione di emergenza. Il periodo di penuria post raccolto è iniziato prima, nel 2018, perché due stagioni consecutive di raccolti insufficienti hanno esaurito gli stock. Per fortuna almeno i prezzi della cassava sono rimasti stabili o si sono ridotti. Un altro fardello pesante per le comunità ospitanti, già scarse di risorse naturali ed economiche, sono i massicci spostamenti di popolazione: 4,5 milioni di sfollati interni. E anche chi torna a casa, si trova senza semi né attrezzi, i pochi beni saccheggiati. Il paese deve anche ospitare ben 540.000 rifugiati e richiedenti asilo soprattutto dal Ruanda, Repubblica centrafricana, Sud Sudan. E 350.000 rifugiati congolesi in Angola, espulsi, sono tornati in patria. Molti nel frattempo avevano perso tutti i beni produttivi. Ciliegina sulla torta: il virus Ebola e il colera. Francia. Mai così tanti detenuti nelle carceri lemonde.fr, 15 maggio 2019 Non ci sono mai state così tante persone nelle prigioni francesi. Il numero di detenuti ha raggiunto un nuovo record, con 71.828 persone imprigionate al 1 aprile, secondo le statistiche mensili dell’amministrazione del carcere pubblicate martedì 14 maggio dal Ministero della Giustizia. Con 71.828 detenuti per 61.010 posti operativi, la densità carceraria si è attestata al 117,7%, in netto aumento rispetto al mese precedente (116,7%). È addirittura maggiore o uguale al 200% in sette istituti penitenziari e supera il 150% in 44 (su 188 in totale). La percentuale di imputati, cioè di coloro che non sono ancora stati processati, rappresenta ancora quasi un terzo dei detenuti (29%). Anche la percentuale di donne (3,8% della popolazione carceraria totale) e quella dei minori (1%) rimane stabile. Oltre ai 71.828 detenuti, 12.059 persone sono poste sotto sorveglianza elettronica o collocamento fuori casa, secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria. Burkina Faso. Un grande orto per le donne del carcere di Ouagadougou targatocn.it, 15 maggio 2019 Il vecchio carcere della capitale del Burkina Faso ospita molti bambini anche piccoli, rinchiusi insieme alle loro mamme. Le precarie condizioni igieniche, insieme all’alimentazione scadente, sono spesso causa di malattie. Lo ha raccontato giovedì scorso a Fossano il direttore del carcere, Claude Ouedraogo Nogmanegre, nei giorni scorsi in Piemonte insieme a padre François Adre Kientega, cappellano penitenziario, in occasione di un incontro di presentazione del progetto “Coltivare il futuro nelle carceri del Burkina Faso” promosso da Progettomondo.Mlal e dall’associazione “Noi con voi” di Savigliano rappresentate, rispettivamente, dalla vice-presidente nazionale Ivana Borsotto e dalla presidente Gabriella Piano. Si tratta della realizzazione di un grande orto irriguo attorno alle mura del vecchio carcere che dia l’opportunità alle donne detenute di lavorare e di produrre ortaggi che consentano di migliorare la qualità della mensa. È prevista la consulenza di un agronomo e corsi di alfabetizzazione per facilitare il reinserimento scolastico post-detenzione. Il progetto è cofinanziato dalla Regione Piemonte e dal Comune di Fossano ed ha come partner la municipalità di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, e il sistema penitenziario italiano e quello burkinabè. Durante l’incontro di giovedì scorso si è parlato anche del terrorismo islamico che sta insanguinando il Paese, tradizionalmente noto per la sua tolleranza religiosa, e che proprio domenica 12 maggio ha fatto nuove vittime: un sacerdote cattolico, incaricato del dialogo interreligioso nella sua diocesi, e cinque fedeli nel corso della funzione festiva. Terroristi che il 29 aprile avevano assaltato un’altra chiesa e ucciso un pastore protestante e cinque suoi parrocchiani. Per Claude Ouedraogo Nogmanegre e padre François si tratta di azioni mirate a destabilizzare il Paese seminando il panico tra la popolazione e a indebolire l’attuale Governo, impegnato nella lotta al terrorismo. Filippine. Duterte stravince le elezioni, ora ripristinerà la pena di morte di Valerio Sofia Il Dubbio, 15 maggio 2019 Il presidente ha i numeri per cambiare la costituzione. Il controverso presidente filippino Rodrigo Duterte ha superato la prova delle elezioni di midterm e ora se i risultati saranno confermati punta a incrementare la sua durissima lotta alla criminalità introducendo la pena di morte. I risultati ufficiali del voto che si è tenuto lunedì saranno comunicati solo domani, ma quanto si è visto finora - con il 94% dei voti contati, i candidati di Duterte si sarebbero aggiudicati nove dei dodici seggi in palio al Senato (su 24 complessivi). Nel complesso delle elezioni anche amministrative si profila una netta vittoria per Duterte e i suoi alleati. Ottenere la maggioranza al Senato, come sembra, permetterebbe al presidente di avere una strada semplificata verso le riforme che ha in mente, compresa quella della Costituzione, con la quale intende trasformare le Filippine in una Repubblica federale, cosa che, secondo gli osservatori, servirebbe a consentirgli di restare al potere, sia pure indirettamente, ben oltre la fine del suo mandato. E poi vuole intervenire sui temi a lui più cari, quelli della sicurezza imposta con il pugno più duro: Duterte intende abbassare da 15 a 12 anni l’età della responsabilità penale, e vuole ripristinare la pena di morte per i reati di droga, accelerando ulteriormente la sua guerra personale al narcotraffico. Tra i neosenatori alleati di Duterte c’è anche l’ex capo della polizia Ronald de la Rosa, che ha diretto la sanguinosa “guerra alla droga” lanciata dal leader di Manila, e che secondo le organizzazioni per i diritti umani ha causato migliaia di morti in esecuzioni sommarie. Duterte inoltre ha più volte evocato la prospettiva di una legge marziale e la possibilità della rimozione del limite di mandati consecutivi (il suo scade tra tre anni). Ma proprio questa linea dura, spesso spietata, che si contrappone non solo ai trafficanti e ai guerriglieri, ma anche alla Chiesa e alle organizzazioni umanitarie, e che non si pone limiti nell’utilizzare un linguaggio molto duro e spesso anche volgare persino nei confronti dei maggiori leader stranieri, sembra piacere ai filippini: i sondaggi danno il gradimento di Duterte all’ 80 per cento, e il voto che da molti è stato visto come un referendum su di lui ha confermato questa tendenza positiva. Sono stati ben 61 i milioni di cittadini che si sono registrati per andare a votare per rinnovare metà del Senato, la Camera bassa e diverse amministrazioni locali. L’opposizione e diversi difensori dei diritti umani sono meno entusiasti di Duterte, e denunciano leggi e misure troppo severe, uccisioni e arresti arbitrari che non risparmiano i minori, e il rischio di una svolta sempre più autoritaria del governo di Manila. Sri Lanka. È caccia al musulmano, l’isola sotto coprifuoco di Emanuele Giordana Il Manifesto, 15 maggio 2019 Dopo gli attentati di Pasqua che uccisero 250 cristiani, scatenati i gruppi identitari buddisti e i razzisti, anche contro i profughi. Appello congiunto del cardinale Malcolm Ranjith e del venerabile monaco Ittapane Dhammalankara: “Fermiamo la mano politica invisibile che sta dietro le violenze”. Kiniyama, Chilaw, Kuliyapitiya, Hettipola, Minuwangoda. Sono i nomi delle cittadine srilankesi che lunedi hanno visto un’ondata di violenze anti musulmane senza precedenti che ha costretto ieri il governo a imporre nuovamente il coprifuoco. Lunedi la misura escludeva altre aree del Paese ma da ieri sera coinvolge tutta l’isola e non solo il Nord Ovest, la provincia centro occidentale a Nord di Colombo al centro dei pogrom anti islamici di inizio settimana. Questa volta non si è trattato di una fiammata estemporanea o di qualche reazione emotiva troppo violenta come in altri episodi recenti quando un banale incidente - come accaduto una settimana fa a Negombo - aveva dato la stura a una sorta di caccia al musulmano. Il coprifuoco ha orari diversi nelle varie province. Nel Nord Ovest è il più lungo: dalle sei di sera alle sei del mattino, in sostanza dal calar del sole all’alba. La violenza scatta lunedì un po’ in tutta la provincia e a Kurunegala - specifica un quotidiano locale - un uomo di 42 anni resta vittima di uno dei tanti pogrom. Lo portano in ospedale ma Mohammed Ameer Mohammed Sally non ce la fa. Aveva ferite d’arma da fuoco. Il resto si fa con bastoni, coltelli e taniche di benzina. Fuoco alle moschee, ai testi sacri, ai negozi dei musulmani. La lista è lunga: a Kiniyama, centinaia di persone prendono d’assalto una moschea, distruggendo porte e finestre e dando alle fiamme il Corano. A Chilaw, negozi e moschee di proprietà musulmana vengono attaccati dopo una disputa via Facebook. Incidenti a Hettipola. L’incendio di un pastifico a Minuwangoda senza che, dice il proprietario, la polizia intervenga. Ce n’è anche per i rifugiati: Sadaf, un dodicenne afghano, deve cercare rifugio dalla polizia, racconta Deutsche Welle. Gli era già successo dopo la Pasqua di sangue quando attentatori suicidi hanno ucciso oltre 250 cattolici. Lui e altri 150 ospiti di un campo profughi avevano cercato riparo in un commissariato. Gli arresti sono oltre una settantina e i social vengono di nuovo bloccati. Tra gli ammanettati ci sono leader di organizzazioni come Namal Kumara dell’Anti-Corruption Force Operations o Amith Weerasinghe di Mahasohon Balakaya, un gruppo suprematista già visto in azione nel marzo scorso quando - alleato a gruppi di buddisti estremisti del Bodu Bala Sena - organizzava un pogrom anti musulmano a Kandy, Sri Lanka centrale. In manette anche Suresh Priyasad a capo di Nawa Sinhala, altro gruppo estremista singalese. La Chiesa cattolica locale cerca di gettare acqua sul fuoco anche perché in alcune cittadine, Chilaw ad esempio, la maggioranza dei residenti è cattolica. Lo fa con una conferenza stampa congiunta dove accanto all’arcivescovo di Colombo, cardinal Malcolm Ranjith, siede anche il venerabile Ittapane Dhammalankara, uno dei leader religiosi anziani col titolo di Mahanayaka thera, monaci che hanno il compito di regolare il clero buddista nella tradizione Theravada dello Sri Lanka. C’è una “mano invisibile con motivazioni politiche dietro alle violenze”, dice il venerabile che aggiunge: “Le persone hanno agito con moderazione dopo le esplosioni delle bombe nella domenica di Pasqua. Sono rimasti calmi per circa due settimane dopo l’incidente del 21 aprile. L’improvvisa eruzione della violenza - conclude - rende chiaro che c’è una mano invisibile che inganna la gente”. Il cardinale ha puntato l’indice sui quei leader politici che hanno fomentato le violenze e distribuito liquori per surriscaldare gli animi. Entrambi hanno accusato gli apparati di sicurezza di non aver dato loro retta quando avevano chiesto una maggior attenzione preventiva nelle aree a rischio. Sudan. I paramilitari non vogliono la pace di Massimo A. Alberizzi Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2019 Gli ex “janjaweed” sostenitori di Bashir seminano il terrore, alta tensione fra dimostranti e ufficiali al potere. Almeno sette dimostranti, che partecipavano in piazza a Khartoum al sit-in contro i militari, e un ufficiale dell’esercito, sono stati ammazzati domenica a tarda notte a sangue freddo, poche ore dopo l’annuncio di un accordo per nominare un governo di transizione misto. Diversi militanti sono stati feriti assieme a due soldati. Non è ancora ben chiaro a chi appartenga la mano omicida. I manifestanti accusano le autorità, i soldati hanno addossato la colpa a elementi estranei “infiltrati nella protesta”. Sembra proprio però che l’attacco al cuore della piazza miri a fare deragliare il processo di pace, il cui obbiettivo è quello di varare un governo di transizione a partecipazione comune, civili-militari, per arrivare a elezioni democratiche e a una nuova leadership. Lo stringer del Fatto Quotidiano, sentito al telefono a Khartoum, non ha avuto dubbi: “Responsabili del massacro sono i paramilitari della Rapid Support Forces, gli ex janjaweed, i diavoli a cavallo che negli anni scorsi terrorizzavano le popolazioni del Darfur. Attaccavano i villaggi indifesi, massacravano gli uomini, violentavano le donne, rapivano i bambini e bruciavano le capanne. Sono paramilitari che sostengono il presidente Omar Al Bashir, cacciato un mese fa dalle proteste di piazza e ricercato dal Tribunale Penale Internazionale, proprio per quei crimini contro l’umanità perpetrati delle province occidentali del Paese”. Insomma milizie formate da criminali, cui il governo sudanese ha affidato il controllo delle frontiere settentrionali per bloccare il passaggio dei migranti, un compito finanziato - ufficialmente, con forniture logistiche, camionette, fuori strada, carburante e attrezzature diverse, ma non con denaro - dall’Unione Europea, con il concorso dell’Italia, ai tempi dell’amministrazione Gentiloni. Certamente i gravi episodi di ieri avvalorano la tesi che una parte dell’élite militare del Paese non intende lasciare il potere. La piazza ha dato segni in insofferenza quando pochi giorni fa portavoce dell’amministrazione transitoria dei militari è stato nominato il generale Shams al-Din Kabashi. Trent’anni fa, 30 giugno 1989, quando Omar Al Bashirprese il potere e comparve in televisione per annunciare il successo del suo colpo di Stato, alle sue spalle c’era proprio Kabashi. Ovvio il nervosismo della folla che protesta da118 dicembre dello scorso anno e in questi mesi ha sempre chiesto la rimozione di tutti gli ufficiali compromessi con il regime di Al Bashir. Per altro Kabashi, in una conferenza stampa tenuta nella notte, ha tenuto a dichiarare che i soldati hanno l’ordine di non sparare sui civili e “mai spareranno”. L’attacco di ieri segue di qualche ora l’annuncio del procuratore generale secondo cui l’ex presidente è stato incriminato per gli omicidi di manifestanti l’11 aprile scorso. Una notizia accolta con tripudio e giubilo dai dimostranti accampati da mesi davanti al quartier generale delle forze armate a Khartoum.