Garantisti disorientati di Claudio Cerasa Il Foglio., 14 maggio 2019 Sono tempi difficili e complicati per i garantisti. Facili in realtà non lo sono mai stati, la difesa delle garanzie personali e dei princìpi della civiltà giuridica racchiusa in un comma dell’articolo 27 della Costituzione è sempre stata roba per pochi intimi. Però su questo tema si aveva una certezza: quando su una questione i garantisti non avevano punti di riferimento, dovevano leggere Carlo Nordio. L’elemento di complicazione è che anche l’ex magistrato pare avviato verso uno scivolamento che subordina un principio costituzionale alla simpatia/antipatia politica o personale. In un editoriale sul Messaggero, Nordio se la prende giustamente con l’elemosiniere del Papa, il cardinale Krajewski, che in maniera deliberata e consapevole ha attaccato la corrente elettrica in uno stabile abusivo e moroso minando “la certezza del diritto e la credibilità dello stato”. Su questo punto niente da dire. Ciò che non torna è il fatto che Nordio inserisca il gesto del cardinale “in quel pericoloso indirizzo, di anteporre alle norme vigenti i propri convincimenti morali, che ha ispirato il sindaco di Riace”. Ecco, così non va. Nessuno ha stabilito che il sindaco di Riace abbia violato le leggi. Quella è un’ipotesi dei pm. Mimmo Lucano è stato ingiustamente arrestato sulla base di 14 capi di imputazione, 12 dei quali sono già caduti e i restanti due per cui è a processo sono già stati in parte demoliti dalla Cassazione nella sentenza che ha annullato il divieto di dimora. E’ pertanto scorretto dire, come fa Nordio, che gli “argini di legalità” sono “stati minati dal buonismo dei sindaci” come Lucano. Perché, anche se possono non piacere le sue idee e le sue azioni, la presunzione di innocenza vale anche per il sindaco di Riace. Sorprende che una condanna preventiva, sulla base di un semplice rinvio a giudizio, provenga da un garantista come Nordio che invece sul caso Diciotti aveva difeso Matteo Salvini in nome della ragion politica: anche in quel caso Salvini, come il cardinale elemosiniere Krajewski, ha anteposto i propri convincimenti politici e morali alle norme vigenti. In carcere chi oppone resistenza di Francesco Cerisano Italia Oggi., 14 maggio 2019 Giro di vite sui reati contro le forze dell’ordine. Rischierà il carcere fino a tre anni chi durante una manifestazione si opponga a un pubblico ufficiale utilizzando scudi o altri oggetti di protezione oppure materiali imbrattanti, anche senza commettere violenza, minaccia, resistenza e oltraggio. Quest’ultime condotte, inoltre, non potranno mai essere considerate di particolare tenuità (e quindi non punibili) se commesse nei confronti di pubblici ufficiali nell’esercizio delle proprie funzioni. E saranno aggravate (al pari del reato di devastazione e saccheggio) se i fatti sono compiuti nel corso di manifestazioni in luogo pubblico. Per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale la reclusione massima sale da tre a quattro anni. La bozza del decreto sicurezza bis su cui il ministero dell’interno è al lavoro (ma che sembra per il momento destinata a essere messa in stand by in attesa delle elezioni europee) ha fatto parlare di sé nei giorni scorsi per la norma che punirebbe con la multa da 3.500 euro a 5.000 euro a migrante chi salva persone in mare. Il ministero dell’interno ieri ha smentito che la ratio della norma incriminata (l’art.1 della bozza di decreto legge che modifica il Testo unico sull’immigrazione, dlgs n.286/1998) sia quella di punire con una sanzione pecuniaria chi salva vite umane in mare. Il Viminale ha chiarito che la sanzione colpisce chi, nello svolgimento di operazioni di soccorso in acque internazionali, non rispetta gli obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali e le istruzioni operative emanate dalle autorità responsabili dell’area in cui ha luogo l’operazione di soccorso, ovvero le indicazioni delle rispettive autorità dello Stato di bandiera. “Non sono messi in discussione il dovere e la necessità di salvare vite in mare”, ha precisato il Viminale. “Le sanzioni sono necessarie anche per contrastare comportamenti che finiscono per alimentare gli affari dei trafficanti di uomini”. Oltre alle norme sull’immigrazione, come detto, il provvedimento contiene numerose disposizioni in materia di ordine pubblico, il cui leit motiv è il rafforzamento delle tutele nei confronti delle forze dell’ordine e l’inasprimento delle condotte commesse durante manifestazioni in luogo pubblico. Per il reato di danneggiamento, ad esempio, viene prevista una forma aggravata (con reclusione da uno a cinque anni invece che da sei mesi a tre anni) se i fatti sono compiuti nel corso di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico. Mentre rischierà fi no a quattro anni di carcere chi nel corso di manifestazioni lanci o utilizzi illegittimamente razzi, bengala, fuochi di artificio, petardi, gas urticanti, bastoni mazze o oggetti contundenti. Se la giustizia fai da te prevale sulla tutela statale di Antonio Bevere* rassegna.it., 14 maggio 2019 La nuove norme sulla legittima difesa danno il via alla privatizzazione dell’ordine in favore dei potenti e dei cittadini abbienti, che suppliscono la protezione delle pubbliche istituzioni in una particolare versione violenta del populismo. Con l’approvazione della legge sulla legittima difesa, che entrerà in vigore dal prossimo 18 maggio, la maggioranza parlamentare apparentemente mostra di concedere fiducia alla giustizia “democratica”, o meglio al potere immediatamente punitivo della vittima di un reato. La giustizia fai da te, rientra in una corrente di pensiero che nega allo Stato il monopolio della violenza legittima a tutela dei beni fondamentali del singolo: quando le pubbliche istituzioni non sono in grado di intervenire in maniera immediata ed efficace, è al cittadino che viene riconosciuto un vero e proprio diritto all’autodifesa, non come eccezione, ma come ordinaria difesa di tutti i propri diritti fondamentali. È la naturale privatizzazione dell’ordine, in favore degli abbienti e dei potenti, che disdegnano, rifiutano, suppliscono la protezione dello Stato in una particolare versione violenta del populismo. Ai giorni nostri, questo pensiero viene sostenuto dall’area politica più penalmente compromessa e più consapevole dell’irrinunciabilità della grande trasgressione quale strumento di sopravvivenza e di sopraffazione. Questo partito trasversale tenta quindi di sottrarsi all’attenzione della pubblica opinione con un trasparente diversivo: l’autotutela dei cittadini abbienti dalla piccola delinquenza. Non è sicuramente casuale che i governi di centro-destra nel 2006 e nel 2019 abbiano ripetutamente posto nella loro strategia politica il rafforzamento della causa scriminante della legittima difesa. Lo Stato fornisce “un’arma legittima” al cittadino per la difesa e per l’offesa, ammettendo la propria incapacità di intervenire tempestivamente ed efficacemente a tutela dell’ordine giuridico. La scriminante è nata nel codice Rocco con un preciso scopo: utilizzare la legittima difesa come strumento per difendere la società da soggetti pericolosi, soprattutto per delitti contro la proprietà. Il regime fascista “risolve” il “conflitto di classe” tra i proprietari e i non abbienti che ricorrono al furto, dando la prevalenza all’autotutela dei primi. L’autotutela dalla miseria non merita alcuna giustificazione. Con il crollo della dittatura, nell’Italia democratica rimane ed è addirittura aggravato l’istituto della legittima difesa quale strumento per difendere la proprietà da chi non ce l’ha. Le maggioranze a prevalenza reazionaria e disumana, puntano a voler “risolvere” il problema del discredito sociale drammatizzando la questione criminale e avvalendosi dell’emotività collettiva orchestrata dagli organi mediatici di fiducia. Di qui l’introduzione, con la legge del 2006 della cosiddetta “legittima difesa domiciliare”, con la previsione di una presunzione assoluta di proporzionalità tra difesa e offesa nell’ipotesi di reazione armata contro chi invada il sacro suolo della proprietà, del domicilio e dei territori annessi. La chiave interpretativa della magistratura fedele alla Costituzione ha negato l’esimente, nel senso che ha escluso che possa essere leso un bene di primaria importanza, quale l’incolumità fisica, per difendere, anche con la violenza armata, un altro bene di secondo ordine, quale la proprietà e il domicilio: nel raffronto qualitativo e relativistico di beni in conflitto, il requisito della proporzione è escluso “quando la consistenza dell’interesse leso, quale la vita e l’incolumità della persona, sia enormemente più rilevante sul piano della gerarchia dei valori costituzionali e di quelli penalmente protetti, dell’interesse patrimoniale difeso, e il male inflitto abbia un’intensità di gran lunga superiore a quella del male minacciato”. In polemica con questa interpretazione restrittiva della difesa armata della proprietà, è stata ulteriormente limitata la valutazione giudiziaria delle risultanze processuali, è stato cioè posto ulteriore freno al libero convincimento del giudice con l’approvazione della legge 28 marzo 2019, promulgata il successivo 26 aprile, rafforzando formalmente la presunta proporzione tra pericolo incombente sul bene patrimoniale e lesione del bene della vita. È stata rafforzata cioè una simbolica contrapposizione classista tra “persone per bene” armate e persone non abbienti: questi ultimi, per presunzione assoluta, sono destinati a diventarne legittimo bersaglio. Con terminologia bellica - ritenuta necessaria rispetto al trasgressore nemico - l’attuale maggioranza mostra di aver perso ogni ambizione di prevenzione, la cui plausibilità logica ancor prima che politica si fonda su un apparato di welfare munito di mezzi economici e di volontà politica diretti a realizzare l’integrazione degli strati emarginati. Il rinnovato sistema penale privilegia la neutralizzazione di massa degli emarginati dal mondo degli abbienti, fino a non disdegnare la loro esclusione dal mondo dei vivi. È oggettivamente documentato che manca una base di dati statistici legittimante la smania della caccia al ladro, della difesa armata dell’abitazione e della bottega, dello stabilimento. I sostenitori dell’autotutela armata non credono nella tutela statale, ma non mostrano un coerente impegno per il recupero della sua efficienza con investimenti diretti al rafforzamento numerico e logistico delle forze dell’ordine. La conferma di questa austerità contabile, correlata all’ampollosa e martellante istigazione all’autotutela privata, porta a un’allarmante conclusione sulle reali finalità della riforma, inquadrata nella politica della maggioranza. Da questa emerge infatti la costruzione di una micidiale macchina produttiva di consenso, le cui componenti sono: la premeditata chiamata alle armi di commercianti, industriali, cittadini qualunque, fatta in campagna elettorale e protratta nel corso della legislatura, promettendo un’improbabile impunità; la cinica strumentalizzazione dell’ansia dell’uomo massa di apparire eroe armato contro la criminalità e di essere oggetto dell’ammirazione dei consociati e dell’elogio del popolare ministro della polizia, pronto a visite in carcere e a promesse di clemenza; la chiusura dei confini marini e l’ampliamento della battigia su cui far pericolosamente stazionare gli indesiderati e pericolosi stranieri, in quanto presunti criminali. Dopo la primavera giudiziaria, del riconoscimento della legittimità dell’autotutela delle classi subalterne, nella prospettiva dell’uguaglianza formale e sostanziale, dovrebbe oggi seguire una giurisprudenza che - in continuativa fedeltà alla Costituzione - affermi l’illegittimità di uno strumento di autotutela proiettato a un incrudelimento delle disuguaglianze e a un restringimento dell’autonomia del potere giudiziario. È ragionevolmente positiva la prognosi di una legittima difesa giudiziaria della legalità costituzionale, guidata anche dall’indirizzo interpretativo indicato dal presidente della Repubblica nel suo messaggio rivolto alle Camere in occasione della promulgazione della legge. *Direttore di “Critica del diritto”, già consigliere di Cassazione Femminicidi, ancora troppi i nodi irrisolti di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore., 14 maggio 2019 La violenza contro le donne “è una questione critica e cronica del nostro Paese. Le donne che denunciano vanno ascoltate subito per evitare le cifre che la cronaca ci consegna: un femminicidio ogni tre giorni”. Parola del sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi (M5S), intervenuto ieri a Milano, nella sede del Sole 24 Ore, alla presentazione dell’ebook #hodettono, realizzato da Alley0op, il portale del Sole dedicato alla diversity, con il patrocinio del Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio, rappresentato dalla direttrice generale Laura Menicucd e dell’Ordine degli avvocati di Roma. Un’occasione per fare il punto sulle ultime novità legislative, come il decreto sul Codice rosso, all’esame del Senato in seconda lettura. Ma anche una panoramica a 360 gradi sui nodi irrisolti, fuori e dentro le aule dei tribunali, per un contrasto realmente efficace alla violenza di genere. Inevitabile il dibattito sul Ddl Pillon di riforma dell’affido condiviso, di cui molti esperti e associazioni chiedono il ritiro. “Da parte mia non ci sarà nessuna approvazione di provvedimenti che possono vedere in alcun modo minori e donne danneggiati in questi delicatissimi procedimenti” ha garantito Ferraresi. Mentre la senatrice Pd Valeria Valente, presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio, ha attaccato: “Il Ddl è culturalmente da respingere: insegue una rivalsa per i padri che si sono sentiti abbandonati ma lo fa ai danni delle donne, riaprendo un conflitto di cui non si sentiva il bisogno e utilizzando i minori”. Sul fatto che la battaglia sia innanzitutto culturale convergono tutti, dagli operatori del settore (come i centri antiviolenza, presenti con la rete Dire presieduta da Lella Palladino) ai magistrati, fino a sportivi e influencer. “C’è ancora troppa poca specializzazione nei tribunali”, ha riconosciuto la giudice del foro di Milano Elisabetta Canevini, sicura che “bisogna capire quali delle nostre convinzioni sono pregiudizi e snidarli innanzitutto dentro di noi”. “Sulla violenza contro le donne le aziende devono prendere posizione”, ha sostenuto Gianfilippo Mancini, ad di Sorgenia, partner dell’evento. “La nostra missione è la sostenibilità, che none solo ambientale ma anche sodale. Ne va del futuro dell’intera società”. Giustizia, continuano il mese di scioperi: si fermano i magistrati onorari scrivolibero.it., 14 maggio 2019 Continuano gli scioperi previsti per il mese di maggio di avvocati penalisti, giudici di pace, vice procuratori onorari e giudici onorari di tribunale. Dopo lo “stop” delle camere penali, è ora iniziato lo sciopero dei magistrati onorari aderenti che si fermeranno fino al prossimo 17 maggio. Sullo sciopero previsto, che interessa anche i giudici di Agrigento, si è registrato l’intervento di Roberto Gambina, coordinatore circondariale della Federmot: “Anche i magistrati del tribunale di Agrigento - ha affermato - aderiscono in quasi totalità, soprattutto nel settore penale, alla proclamata astensione dalle attività loro delegate, insistendo sui motivi di inerzia da parte dello Stato che continua a tenere tutti questi magistrati in una situazione di precarietà non più sostenibile tenendo in vita la precedente riforma Orlando che ha solo penalizzato tutti i magistrati in servizio per lo Stato ormai da più di venti anni”. La resa di Cutolo: “Meglio morto che vedere mia figlia da un vetro” di Paolo Berizzi La Repubblica., 14 maggio 2019 “O’ professore”, l’ex boss di camorra mai pentito, dopo 56 anni in carcere è un uomo irriconoscibile e rassegnato. Il suo unico pensiero è Denise: “Tra pochi mesi non potrò più abbracciarla, preferisco un’iniezione letale”. In fondo al tunnel c’è un uomo che aspetta. Mezz’ora dopo, sotto lo sguardo di un agente che sorveglia dietro un vetro, dirà così: “Meglio la pena di morte. Preferisco un’iniezione letale che stare come sto: tumulato vivo”. Carcere di Parma, sabato 4 maggio. Raffaele Cutolo è un settantottenne ormai simile a un automa. Come un relitto del Male, dopo mezzo secolo e sei anni di carcere - di cui 39 in totale isolamento, in cella solo, ora d’aria solo, come tutti i 41bis A.R., acronimo di area riservata - “o’ professore”, per dirla con l’oleografia camorristica, è uscito dall’icona criminale. È un corpo svuotato: quasi calvo, tremolante, maglione marrone, camicia a quadri, il mento appoggiato al palmo della mano. La sala dove incontra uno dei suoi legali storici, Gaetano Aufiero, è nel ventre della palazzina che ospita il reparto dei 41 bis: un’ottantina di detenuti, carcere duro, c’è il “cecato” Massimo Carminati, c’era Totò Riina. Un satellite, questo girone dantesco dei mafiosi. Intorno, il carcere normale, gli altri. Per arrivarci si percorre un tunnel, poi c’è una pensilina. Cutolo scende da un’auto. Una porta di ferro conduce alla sala colloqui: scrivania, due sedie, dietro la parete il mezzanino protetto da una parete di cristallo. Lì è seduta la guardia carceraria: tipo acquario. Come gli anziani che ricordano le vite precedenti pescando tra dettagli minori, Cutolo fa: “Avvocato, si ricorda come la chiamava quello? ‘O principe...”. Chi è Cutolo, oggi, 56 anni dopo il primo arresto? Il mai pentito e pluriergastolano ex boss della Nuova camorra organizzata. Il protagonista della prima trattativa Stato- mafia (decisiva per la liberazione dell’assessore Dc Ciro Cirillo). Un padrino rassegnato ma ancora preceduto dall’eco sinistra di un nome che non sbiadisce col tempo. Lui che forse avrebbe potuto portare alla liberazione di Aldo Moro perché ribadisce che sapeva - come ha rivelato Repubblica nel 2015 - dove lo tenevano i brigatisti: quel commando che “lo ha rapito con le armi della ‘ndrangheta”. Gli occhiali con le lenti rettangolari appoggiati sul tavolo. “Tra qualche mese verrà meno l’unico motivo per cui vivo”, dice Cutolo al suo avvocato. “In vent’anni è la prima volta che ha mostrato segni di emozione” - giura Gaetano Aufiero. Il vecchio capo camorrista è un generale senza più esercito né galloni: non ha più nemmeno le sembianze di quel titolo, “Il camorrista”, film-cult di Giuseppe Tornatore che cristallizzò il mito malvagio. La “resa” di Raffele Cutolo è una bambina che fa danza: si chiama Denise, figlia sua e del 41bis, nata con inseminazione artificiale, partorita 11 anni fa dalla moglie bianca dell’ex boss, Immacolata Iacone, 55 anni, ventitré meno di “don Raffaè”. E qui è Fabrizio De Andrè. Quando Faber cantava Cutolo quest’ultimo sposava all’Asinara una ragazza di 17 anni: lei, Immacolata, da Ottaviano, il paese dove tutto è nato e dove ancora vivono madre e figlia. Racconta Cutolo: “Quando tra pochi mesi Denise compirà 12 anni, per il regolamento carcerario non potrò più avere un contatto fisico con lei. La vedrò solo attraverso il vetro. Io vivo solo per abbracciare mia figlia una volta ogni due mesi. La accarezzo, le faccio il solletico. Se non posso più farlo, preferisco che lo Stato mi faccia un’iniezione”. Cutolo è uno per cui è impossibile provare pena: è vero, ha il record italiano di lungo-detenzione carceraria. Ma ha sulle spalle decine di omicidi, con la sua Nco fu capace di scatenare una faida che negli anni della camorra pre-Scampia produsse un bollettino di morte da guerra civile. Soprattutto, Cutolo non si è mai pentito. Passati quasi sessant’anni dai suoi esordi criminali ha detto di provare rimorso solo dentro se stesso, anzi, “davanti a Dio”. Il che vale per quel che vale. La non-vita di Cutolo è il contrappasso per le vite tolte ai suoi nemici. Caso beffardo: il rivale storico, Mario Fabbrocino, “‘o Gravunaro”, boss della Nuova famiglia che spodestò la Nco cutoliana e ordinò l’omicidio di Roberto Cutolo, l’unico figlio maschio, è morto il 23 aprile scorso a pochi metri da Cutolo. Qui a Parma, stesso reparto. È l’unica notizia che è arrivata all’uomo che un tempo dietro le sbarre dettava legge in vestaglia di seta e con un cenno della testa muoveva i suoi boia (Pasquale Barra fu il più feroce). Per il resto, zero. “Ero abbonato a quattro quotidiani e due settimanali. Da anni non mi portano più i giornali. Nemmeno il libro di poesie che ho appena scritto e che ho dedicato a mia figlia”. La poesia. L’illusione della catarsi sul filo dell’autocelebrazione (“il messaggio che voglio lasciare a Denise è che suo padre è anche poesia”). “Hanno detto che sto malissimo. Non è vero - spiega Cutolo al suo avvocato -. Ma, a questo punto, la pena di morte è meglio”. Che fine farebbero i segreti italiani di cui è depositario? “L’ho detto due volte che potevo salvare Moro ma che lo Stato mi ha fermato. Mi ha fermato Gava, e Cossiga non ha voluto incontrarmi”. I ricordi di “don Raffaè” finiscono nei verbali di due interrogatori: uno a settembre 2015 (Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro), e uno nel 2016 (Dda di Napoli, pm Ida Teresi e Giuseppe Borrelli). Le memorie hanno l’imprimatur, tra gli altri, del giudice Carlo Alemi, ex presidente del tribunale di Napoli: “Cutolo dice la verità, poteva trovare Moro”. Ma questa è una storia infinita, o forse si è chiusa quando Franco Roberti, era marzo 2015 ed era procuratore nazionale antimafia, sulle colonne di questo giornale replicò all’uscita un po’ iperbolica dell’ex boss (“Se esco e parlo crolla il Parlamento”): “Cutolo parli. Dica quello che sa e sarà valutato”. Per la serie: basta ammuine, collabori con lo Stato e poi ne parliamo. Ogni due anni dal ‘92 il 41 bis di Cutolo viene rinnovato. “A luglio lo impugnerò”, dice il suo legale. “È giusto che paghi le sue pene fino in fondo. Ma dopo 56 anni di carcere forse una riflessione su una modalità di detenzione diversa è ipotizzabile”. Cinque fotografie. Sono gli unici orpelli della cella del “professore” sceso dalla cattedra della camorra. Due Papi - Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - la madre, la moglie con la figlia, lui con la figlia. “Hanno appena finito di montare un cortometraggio su Denise e la figura del padre”, racconta Immacolata Iacone. Figli di boss. Figli di una padre sbagliato. Come il 23enne Antonio Piccirillo, che in piazza Nazionale a Napoli, dove è stata ferita Noemi, 4 anni, ha rinnegato il padre Rosario: “Amate sempre i vostri padri ma dissociatevi dal loro stile di vita. Perché la camorra ha sempre fatto schifo”. Mentre Antonio lanciava il suo appello, in una petizione on line su Change.org 100mila napoletani chiedevano il trasferimento di Cutolo ai domiciliari. Un’assurdità. Forse anche per il padre di Denise, che dice: “La camorra oggi è una guerra impazzita senza più regole di ingaggio. Io voglio pagare fino in fondo per il male che ho fatto. Non chiederò mai sconti. Ma lasciatemi abbracciare mia figlia”. Sentenza nulla se la pena è ridotta con il patteggiamento per un reato escluso dal rito premiale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore., 14 maggio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 13 maggio 2019 n. 20483. Anche dopo la riforma del Codice di rito penale è ammesso il ricorso del pubblica accusa contro la sentenza di patteggiamento, se il reato contestato rientra tra quelli per i quali è escluso il patteggiamento allargato. Per effetto della non dovuta riduzione, la pena applicati, è, infatti, illegale. La Corte di cassazione, con la sentenza 20483, accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la sentenza con la quale, in virtù del patteggiamento, era stata ridotta a due anni e due mesi di reclusione, sospesi con la condizionale, la pena per il reato di violenza sessuale aggravata. Il tribunale aveva, infatti, riconosciuto, le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti. Contro questa sentenza aveva fatto ricorso il Pm, per violazione di legge, in relazione all’articolo 444, comma 1-bis del Codice di rito penale, perché la violenza sessuale aggravata rientra nel catalogo dei reati per i quali è escluso il patteggiamento allargato. Per la Suprema corte il ricorso è fondato. I giudici ricordano che il patteggiamento allargato - previsto quando la pena applicata su accordo delle parti è superiore ai due anni, soli o uniti alla pena pecuniaria, e inferiore a cinque - è precluso per una serie di delitti espressamente indicati dalla norma, tra i quali c’è anche la violenza sessuale, oltre che per determinate tipologie delinquenziali come il recidivo reiterato. La Suprema corte sottolinea che sul principio non ha influito la riforma del codice di procedura penale, messa in atto con la legge 103/2017, che ha introdotto l’articolo 448, comma 2 bis. Una norma, applicabile al caso esaminato, in base alla quale il Pm e l’imputato possono proporre ricorso in Cassazione, “solo contro la sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del Codice di procedura penale, solo per motivi attinenti l’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”. E, nello specifico, scatta proprio l’ipotesi della pena illegale, visto lo sbarramento posto dall’articolo 444 comma 1-bis in base la quale l’imputato non poteva essere ammesso al rito premiale. In pendenza del giudizio penale, alla Pa la facoltà di sospendere il procedimento disciplinare di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore., 14 maggio 2019 Corte di Cassazione - Sezione Lavoro - Sentenza 13 maggio 2019 n. 12662. In materia di impiego pubblico contrattualizzato la sospensione del procedimento disciplinare lavorativo in pendenza del procedimento penale rappresenta una facoltà discrezionale attribuita alla Pa. E questa può esercitarla qualora per la complessità degli accertamenti o per altre cause, non disponga degli elementi necessari per la definizione del procedimento. Ne deriva che il datore di lavoro pubblico è legittimato a riprendere il procedimento disciplinare, senza attendere che quello penale venga definito con sentenza irrevocabile, quando ritiene, pur dopo aver disposto la sospensione, che gli elementi successivamente acquisiti consentano la decisione. Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 12662/2019, depositata ieri. La Cassazione ha ricordato che nel pubblico impiego l’articolo 55-ter introdotto dal Dlgs 150/2009 e il principio di tendenziale autonomia del procedimento disciplinare da quello penale che esso esprime, rispondono evidentemente all’esigenza di evitare che la Pa sia costretta a lasciare impunite le violazioni disciplinari, per un tempo anche lungo. Altro aspetto interessante analizzato dai Supremi giudici consiste nel fatto che il dipendente non subisce pregiudizi dalla sospensione del procedimento disciplinare in quanto egli può medio tempore continuare a percepire la retribuzione piena. Il quadro giuridico si definisce dunque nel senso che la possibilità di sospendere il procedimento disciplinare in presenza di fatti di maggiore gravità e nella ricorrenza di situazioni più complesse si denota come una facoltà della Pa, nell’interesse del buon andamento di essa e in canone di prudenza. Sequestri di mafia facili. Al blocco dei beni bastano legami presunti di Debora Alberici Italia Oggi., 14 maggio 2019 D’ora in poi sarà più facile bloccare i beni e le attività degli imprenditori sospettati di avere qualche contatto con associazioni criminali. Possono essere infatti sequestrati gli immobili e le quote aziendali a chi viene considerato socialmente pericoloso per i presunti legami con la mafia a prescindere dal fatto che sia stato assolto dal concorso di reato con il clan. Il giro di vite è stato segnato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 20571 del 13 maggio 2019, ha preso atto delle considerazione fatte dalla Consulta nella decisione 24 di quest’anno. Gli Ermellini hanno dunque respinto il ricorso di un manager presentato contro il sequestro di immobili e quote aziendali in quanto i proventi dichiarati non erano in linea con il suo giro d’affari ma soprattutto erano risultati da alcune intercettazioni contatti con la mafia. Inutile per la difesa dell’uomo “sventolare” al Palazzaccio l’assoluzione dal reato di collusione con la mafia. A questa obiezione la sesta sezione penale ha risposto che al riguardo va rammentato quanto puntualizzato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 24 del 2019, nella quale, nel definire l’ambito di compatibilità della disciplina delle misure di prevenzione personali e patrimoniali con i principi della Carta fondamentale e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si è chiarito che “oltre alla verifica della riconducibilità del soggetto a una delle categorie oggi elencate nell’art. 4 del dlgs n. 159 del 2011, presupposto comune dell’applicazione della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, è la pericolosità del soggetto medesimo per la sicurezza pubblica. Al riscontro probatorio delle sue passate attività criminose, deve dunque affiancarsi una ulteriore verifica processuale circa la sua pericolosità, in termini - cioè - di rilevante probabilità di commissione, nel futuro, di ulteriori attività criminose. Il requisito della pericolosità per la sicurezza pubblica del destinatario delle misure di prevenzione personali accomuna le stesse alle misure di sicurezza disciplinate dal codice penale, dalle quali tuttavia le prime si differenziano in quanto non presuppongono l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto. L’onere di motivare il diniego della causa di non punibilità per tenuità del fatto Il Sole 24 Ore., 14 maggio 2019 Reato - Tenuità del fatto - Causa di non punibilità - Riconoscimento da parte del giudice - Valutazione - Criteri - Motivazione. Nell’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotta dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, il giudice di merito chiamato a pronunciarsi è tenuto a fornire adeguata motivazione del suo convincimento, frutto di una valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, facendo ricorso ai criteri previsti dall’art. 133, comma 1, cod. pen. (modalità della condotta, gravità del danno o del pericolo, intensità del dolo o grado della colpa) e, specificamente, indicando quelli ritenuti all’uopo rilevanti. In caso di diniego della causa di non punibilità l’onere motivazionale deve intendersi peraltro soddisfatto anche qualora il giudice, pur non dedicando espresse considerazioni, abbia comunque qualificato la condotta dell’agente in termini tali da escludere impliciter che il fatto possa essere ritenuto particolarmente tenue. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 6 maggio 2019 n. 18884. Sentenza - Requisiti - Motivazione - In genere - Applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Assenza dei presupposti - Motivazione implicita - Sufficienza. L’assenza dei presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo all’assenza di motivazione in ordine alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., ravvisando nel passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 1, cod. pen., che l’appellante chiedeva di escludere, un’implicita esclusione della particolare tenuità del fatto). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 18 maggio 2017 n. 24780. Giudizio sulla tenuità del fatto - Presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità - Valutazione della modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo - Assenza dei presupposti - Motivazione implicita - Sufficienza. Il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa, che ha a oggetto le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., richiedendosi una equilibrata considerazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta e non solo di quelle che attengono all’entità dell’aggressione del bene giuridico protetto. Inoltre, l’assenza dei presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. può essere rilevata anche con motivazione implicita). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 16 novembre 2016 n. 48317. Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Elementi di valutazione - Indicazione. Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 6 aprile 2016 n. 13681. Napoli: l’allarme del Garante nazionale dei detenuti “ancora in troppi a Poggioreale” Il Mattino., 14 maggio 2019 È ancora sovraffollamento nel carcere di Poggioreale. L’intero collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha compiuto una visita di quattro giorni, come sempre non annunciata, nel penitenziario di Napoli e ha riscontrato la presenza di 848 detenuti in più rispetto ai posti disponibili: 2363 persone a fronte di una capienza effettiva di 1515 posti. Particolarmente critica la situazione in alcuni reparti: la sezione circondariale a custodia aperta con 1.220 persone ristrette in 738 posti; la sezione circondariale ordinaria con 588 persone in 327 posti; la sezione protetti-riprovazione sociale a custodia aperta con 101 persone in 53 posti. Il Garante “apprezza lo sforzo” di migliorare le condizioni materiali dei reparti, tuttavia a fianco a quelli ristrutturati, alcuni sono invece “appena accettabili e altri del tutto inaccettabili”. Così come “permangono inammissibili le condizioni di lavoro, in particolare di chi opera nell’ufficio della matricola posto sotto il livello terra in un ambiente buio e insalubre, situazione che l’Amministrazione penitenziaria da tempo si è impegnata a risolvere”. Rispetto ad alcune “criticità molto forti che hanno segnato il passato dell’Istituto, per le quali, è in corso a Napoli un processo per episodi di maltrattamento”, il Garante nazionale ha avuto modo di verificare come nell’Istituto si stia instaurando “un clima diverso, teso a interrompere ogni uso di violenza e qualsiasi comportamento non rispettoso della dignità e del diritti delle persone private della libertà”. Il percorso di cambiamento “è certamente avviato, tuttavia, occorre continuare su tale strada, senza sottovalutare possibili rischi di un ritorno al passato, mantenendo sempre alto il livello di attenzione”. La possibilità per gli operatori di segnalare e denunciare eventuali maltrattamenti senza incorrere in ritorsioni “deve essere riaffermato in concreto, anche alla luce di recenti episodi”. Inoltre, il Garante nazionale “ha incontrato più volte una persona detenuta, andando appositamente a verificare le sue condizioni nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere dove era stato trasferito in coincidenza con l’inizio della visita. La sua situazione, che successivamente è stata resa nota alla stampa dalla famiglia, è stata oggetto di approfondimento da parte del Garante, al punto da tornare nuovamente a verificare le sue condizioni tre giorni dopo la conclusione della visita, incontrandolo e avendo con lui un ulteriore lungo colloquio. Il Garante ha quindi presentato un esposto alla Procura della Repubblica”. Nel corso della visita a Poggioreale, sono state riscontrate anche “gravi criticità e una certa difficoltà” da parte dell’area sanitaria a raggiungere tutte le persone e a rispondere ai bisogni di una popolazione che spesso viene dalle fasce più marginali e quindi già deprivate anche sotto il profilo della salute. A ciò si aggiungono le condizioni materiali che coinvolgono anche le strutture sanitarie: il Servizio di assistenza intensificata (Sai) posto nel padiglione San Paolo ha bisogno di interventi di adeguamento, così come l’ambulatorio di primo soccorso. “Il degrado dell’ambiente non deve spingere ad abbassare l’attenzione nei confronti dei pazienti”, sottolinea ancora il Garante ricordando che “proprio i medici rappresentano in carcere un importante presidio per la prevenzione del rischio di maltrattamenti”. Alba (Cn): carcere con 109 celle inagibili, è record del sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio., 14 maggio 2019 Sono ben 3.704 le stanze non disponibili per i detenuti negli istituti penitenziari. Grazie all’aggiornamento, in nome della trasparenza voluta dal guardasigilli Bonafede, delle schede sul sito del ministero della Giustizia relative ad ogni istituto penitenziario, si è potuto costatare che il sovraffollamento è di gran lunga maggiore da come si evince nelle statistiche generali. A scoprirlo è Rita Bernardini del Partito Radicale che ha avuto modo di analizzare, scheda per scheda, le celle non disponibili di ogni carcere italiano. Un lavoro, quello dell’esponente radicale, molto approfondito che ha fatto emergere un sovraffollamento reale di gran lunga superiore da quello che emerge sulla carta. In alcuni casi il sovraffollamento risulta più del doppio rispetto a quello che viene riportato nelle statistiche generali. Non può, ad esempio, non balzare agli occhi il carcere calabrese di Palmi “Filippo Sansone” dove al livello teorico ci sarebbero 138 posti regolamentari, mentre nella realtà non sono disponibili 71 celle con il risultato di avere un sovraffollamento che passa dal 51 per cento (sulla carta) al 106 percento. Così come il carcere di Gorizia con 57 posti regolamentari, mentre nella realtà ci sono 33 celle non disponibili e quindi risulta avere un sovraffollamento reale che passa dal 40 percento al 96 percento. Ma il carcere che supera il guinness dei primati sul sovraffollamento reale è quello di Alba, in Piemonte: sempre sulla carta, la capienza regolamentare risulta di 142 posti, mentre nella realtà ben 109 celle non sono disponibili e quindi dal 32 percento si passa al 139 percento di sovraffollamento reale. Ricordiamo che parliamo dei dati aggiornati al 30 aprile dove emerge che su una capienza regolamentare di 50. 561 posti, sono presenti 60. 529 detenuti. Ma, grazie all’attenta analisi dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, si è potuto costatare che ben 3.704 celle risultano non agibili e quindi vanno sottratte al numero della capienza regolamentare. Altro elemento che emerge è che nelle statistiche generali, sicuramente per distrazione, non è stato inserito il carcere femminile di San Vittore, a Milano, dove c’è una capienza regolamentare di 50 posti con la presenza di 90 detenute e quindi con il risultato di avere un sovraffollamento del 180 percento. Come già riportato da Il Dubbio, l’aggiornamento delle schede informative per ogni carcere è stata una promessa che il ministro Bonafede ha fatto, e mantenuta, a Rita Bernardini in occasione del secondo incontro del 19 marzo scorso. La delegazione del Partito Radicale e dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi gli aveva chiesto, infatti, tra le altre cose di aggiornare e implementare le schede online riguardanti i singoli istituti penitenziari, per renderli sempre più “trasparenti” al cittadino. Detto, fatto. Però non basta. Rita Bernardini ha trasmesso al capo del Dap Francesco Basentini alcuni piccoli suggerimenti per implementare le schede. Alla voce stanze detentive, mancano le informazioni sul riscaldamento, l’acqua calda in cella e i servizi igienici con o senza aerazione. Alla voce personale mancano i mediatori culturali. Mentre nella voce “Sanità” occorrerebbe aggiungere se c’è il Sert interno al carcere, la sezione di articolazione psichiatrica, il Centro Diagnostico Terapeutico o Sai (come si chiama oggi) e se c’è il Reparto detentivo presso l’Ospedale cittadino (come il Pertini a Roma o Belcolle a Viterbo). Di tutto il personale sanitario, Rita Bernardini suggerisce che sarebbe interessante sapere quanti sono medici, psichiatri, psicologi, infermieri, specialisti e loro turnazioni (questo, per responsabilizzare le Asl). Un’altra cosa che l’esponente del Partito Radicale suggerisce è di aggiungere il prezzario interno per il sopravvitto, questo perché, spiega sempre Rita Bernardini, “sta molto a cuore ai detenuti che sovente si lamentano dell’esosità dei prezzi e scongiura abusi da parte delle ditte fornitrici”. Siena: detenuti al lavoro per la collettività askanews.it., 14 maggio 2019 Firmata intesa “Mi riscatto per Siena” tra Dap e sindaco De Mossi. Incrementare le opportunità di lavoro e formazione lavorativa di detenuti e internati, stimolare l’avvio di progetti che coinvolgano la popolazione ristretta nella corretta gestione dei rifiuti e nella raccolta differenziata all’interno delle carceri, favorire le attività di protezione civile, compreso il piano neve, e promuovere criteri omogenei di applicazione della tassa sui rifiuti agli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale. Sono queste le finalità del protocollo d’intesa “Mi riscatto per Siena”, firmato oggi nel Municipio della città toscana dal sindaco Luigi De Mossi, dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini e dal magistrato di sorveglianza di Siena Maria Pia Savino. L’accordo prevede la promozione e l’attuazione di un programma sperimentale per lo svolgimento di attività lavorative a favore della collettività, svolte gratuitamente da detenuti selezionati per caratteristiche personali e culturali, nonché per tipologia di reato commesso, e appositamente formati allo svolgimento di tali attività. Queste si svolgeranno fuori dalle mura del carcere e riguarderanno la protezione ambientale e il recupero del decoro di spazi pubblici ed aree verdi della città, nonché gli interventi connessi alla raccolta dei rifiuti e alla protezione civile. Inoltre saranno promossi modelli locali di gestione dei rifiuti nelle comunità penitenziarie territoriali ispirati al principio della cosiddetta “gerarchia dei rifiuti”, prevista da una apposita direttiva del Parlamento Europeo del 2008. Il monitoraggio dell’andamento dell’operatività del protocollo sarà cura di una Unità paritetica di gestione costituita da Comune di Siena e Dap, che si occuperà di fornire anche supporto e linee guida per l’attuazione delle attività previste dall’intesa. L’intesa, che avrà la durata di tre anni e potrà essere tacitamente rinnovata, nasce come ennesima applicazione del modello di lavoro di pubblica utilità “Mi riscatto per?”, varato per la prima volta a Roma nell’agosto dello scorso anno e che presto sarà esportato in Messico sotto l’egida delle Nazioni Unite. Bollate (Mi): detenute a lezione di IT con UniCredit e Cisco aziendabanca.it., 14 maggio 2019 Una classe di informatica per le detenute del penitenziario di Bollate. Con il sostegno di UniCredit, prosegue il programma Cisco Networking Academy. Obiettivo: il reinserimento delle carcerate nel mondo del lavoro. Sostenuta dal progetto Social Impact Banking di UniCredit, la Cisco Networking Academy è un programma di formazione rivolto agli studenti di tutto il mondo, per ottenere certificazioni informatiche e operare sui sistemi Ict Cisco. Tra gli studenti ci sono anche i detenuti di diverse realtà carcerarie italiane, tra cui quelli della sezione maschile del carcere di Bollate. E sono appena arrivati altri 16 PC per una nuova classe presso la sezione femminile. “Social Impact Banking è l’impegno di UniCredit nel contribuire allo sviluppo di una società più equa e inclusiva - dichiara Fabrizio Saccomanni, Presidente di UniCredit. Per questo abbiamo aderito al progetto di Cisco, attraverso un accordo condiviso, con l’obiettivo di offrire a detenuti, ex detenuti e alle persone in esecuzione penale esterna una concreta opportunità di formazione e successiva riabilitazione nella società attraverso il lavoro”. “Stiamo cambiando i percorsi di vita delle persone che si impegnano per conseguire le competenze necessarie per beneficiare dell’economia digitale - aggiunge Chuck Robbins, Chairman e Ceo di Cisco. Siamo grati di collaborare con UniCredit per portare per la prima volta la formazione tecnologica alle detenute e creare un nuovo percorso di successo per i detenuti italiani in generale”. “La collaborazione pluridecennale con la Cisco Academy ha permesso a diverse persone detenute di ampliare le loro prospettive future e di acquisire competenze da impiegare all’esterno - conclude Cosima Buccoliero, Direttrice del Carcere di Bollate. La partecipazione di UniCredit, che ringrazio, consente di ampliare questi successi consolidati ed evidenzia l’importanza del coinvolgimento della comunità esterna nel percorso di reinserimento sociale delle persone condannate”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): l’arte bianca arriva in carcere anteprima24.it., 14 maggio 2019 In questi giorni la Casa di Reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi offre l’opportunità a giovani studenti di misurarsi con una realtà particolare, grazie all’Istituto Alberghiero Giuseppe De Gruttola di Ariano Irpino ed alla sua sede succursale di Vallesaccarda, che hanno voluto sperimentare una diversa alternanza scuola-lavoro che coinvolgesse gli studenti in un’esperienza particolare, quella della Casa di Reclusione, confrontandosi con i docenti che si applicano alle stesse materie “oltre il muro”, proprio per abbattere muri e pregiudizi. Così ancora una volta il penitenziario santangiolese si conferma realtà all’avanguardia nel percorrere nuove strade di inclusione e trasparenza per un mondo, quello penitenziario, che troppo spesso appare chiuso e distante dalla società civile. La sfida non poteva non coinvolgere la reclusione altirpina, struttura a vocazione agro alimentare, di produzione e trasformazione di prodotti eno-gastronomici del territorio e della tradizione, che utilizza manodopera dei detenuti che attraverso questo tipo di lavoro sperimentano una valida alternativa alla devianza. Non a caso nel penitenziario è presente anche l’istituto alberghiero “Vanvitelli” di Lioni, che partecipa attivamente alla formazione dei detenuti ed a tramandare le tipicità e le tradizioni del territorio. Così, grazie all’impegno della prof.ssa Francesca Arcidiacono, supportata dai prof. Antonio Branca, Connie Goglia e Gerardo Pergamo dell’istituto alberghiero “De Gruttola”, e del prof. Pasqualino Lapenna supportato dai docenti di laboratorio della sede carceraria dell’istituto alberghiero “Vanvitelli”, è stato possibile realizzare il progetto “Arte bianca”, che ha portato gli alunni dell’istituto alberghiero a seguire direttamente presso la Casa di Reclusione il workshop sulle materie prime del territorio e la meravigliosa arte dell’impasto e della panificazione. Maestro d’eccezione è stato Carmine Mollo dell’Accademia Arte Bianca di Avellino. Un elogio va anche alla Direzione della Casa di Reclusione santangiolese, in persona della dott.ssa Giulia Magliulo e di tutto il suo staff di collaboratori, che da subito ha creduto nella bontà ed utilità del progetto, mettendo a disposizione gli spazi necessari e consentendo l’interazione tra l’interno e l’esterno, continuando sulla strada dell’apertura al territorio. In ultimo un merito ai negozi, tra cui il Conad di Lioni, che si sono resi disponibili a fornire alcuni prodotti tipici, utilizzati dagli studenti per le loro creazioni durante il workshop. Benevento: “Genitori dentro”, nasce lo sportello nel carcere ottopagine.it., 14 maggio 2019 Promosso dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Si terrà mercoledì prossimo alle 11, presso la sezione femminile del carcere di Capodimonte a Benevento, il report dello dell’iniziativa “Genitori Dentro”, promosso dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello e realizzato dalla cooperativa Il Melograno. Il Progetto, iniziato nel mese di gennaio 2019 e conclusosi in questi giorni, ha riscosso grande successo nelle partecipanti, ovvero un gruppo di donne madri detenute, appartenenti sia alla sezione protette sia alla sezione comune. Lo stesso si è posto l’obiettivo di rilevare le problematiche di carattere socio-assistenziale delle detenute afferenti alla Casa Circondariale di Capodimonte. All’incontro parteciperanno il garante Samuele Ciambriello, il direttore del carcere, Gianfranco Marcello, il presidente della cooperativa il Melograno Angelo Moretti e il direttore della Caritas di Benevento don Nicola De Blasio. Il Melograno è una cooperativa sociale che, sul territorio di Benevento e provincia (e su alcune province del comune di Avellino), ha una storia di impegno sociale: si propone di accogliere, integrare, ospitare, generare valore per il territorio, con la supervisione ed il sostegno etico della Caritas Diocesana di Benevento. Nella realtà gestita dalla Cooperativa afferiscono e lavorano persone fragili, migranti, soggetti in misura alternativa alla detenzione, detenuti ed ex detenuti. Milano: studenti della Bicocca tutor dei detenuti iscritti all’università di Massimiliano Melley milanotoday.it., 14 maggio 2019 L’iniziativa “adotta un detenuto” rivolta agli studenti della Bicocca. Non tutti lo sanno, ma tra le attività disponibili per i carcerati milanesi c’è anche un servizio di tutoraggio per i detenuti iscritti in università, che giocoforza studiano in solitudine e non “vivono” l’ambiente d’ateneo. E’ dal 2013 che l’Università Bicocca “entra” in carcere attraverso i suoi studenti, con un progetto denominato “adotta un detenuto per studiare insieme”. Il servizio si rivolge alle case di reclusione di Opera e Bollate e si configura come “accompagnamento allo studio” per i detenuti iscritti alla Bicocca, fornito da studenti selezionati ogni anno con un apposito bando. Nel blog della Bicocca è apparsa una intervista a una delle studentesse e degli studenti impegnati in questo progetto, Ylenia Cavallo, al terzo anno di Giurisprudenza. “Un’ottima opportunità - afferma - per conoscere una nuova realtà, quella carceraria, che molto spesso è trascurata da chi non la vive in prima persona”. Cavallo si reca a Bollate almeno una volta alla settimana, ma anche di più. I tutoraggi sono svolti in aule apposite, all’interno della struttura penitenziaria, adibite a questo. “Sono un intermediario tra lo studente/detenuto e l’università. Principalmente fornisco loro il materiale didattico e gestisco la prenotazione degli esami. Ma fornisco anche loro un sostegno di studio, perché ad alcuni non è concesso di avere un confronto diretto col professore”, spiega Cavallo. Gli incontri durano da una a due ore. E l’iniziativa si trasforma in qualcosa di vantaggioso anche per lo studente: “Mi ha dato l’opportunità - chiarisce Cavallo - di accrescere le mie conoscenze sul diritto penale, la procedura penale e il diritto penitenziario. E a livello umano mi ha permesso di approfondire la conoscenza dello studente/detenuto al di là della ragione per la quale si trova all’interno delle mura carcerarie”. Una esperienza che lascia il segno, perché la speranza della studentessa è di continuare a occuparsi dei detenuti anche più avanti, nel percorso professionale e personale. Cagliari: mercoledì 15 il dibattito pubblico sul carcere e sui diritti dei detenuti sardegnareporter.it., 14 maggio 2019 Il dibattito si svolgerà il Centro d’Arte e Cultura Lazzaretto alle ore 18. Mercoledì 15 Maggio a Cagliari alle ore 18.00, presso il Centro d’Arte e Cultura Lazzaretto, si terrà un dibattito pubblico sul carcere e sui diritti dei detenuti, un iniziativa promossa da Antigone e dall’associazione 4CaniperStrada all’interno della mostra fotografica Luci oltre le sbarre di Fabian Volti, in esposizione presso la sala d’archi del Centro d’Arte e Cultura Lazzaretto fino al 19 maggio. Nel corso dell’incontro Roberto Loddo e la redazione di Radio Onde Corte incontreranno Daniele Pulino, referente regionale dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone e Fabian Volti, autore del progetto fotografico. Durante la serata verranno presentati i dati dell’ultimo Rapporto sulle condizioni della detenzione, che Antigone redige ogni anno grazie alle visite degli osservatori in tutte le carceri italiane, comprese quelle sarde, fornendo uno strumento di conoscenza per chiunque si avvicini alla realtà carceraria. Accanto all’analisi della situazione attuale del carcere in Italia e in Sardegna, si parlerà del linguaggio delle immagini e dei modi rappresentare le marginalità nella fotografia e nell’arte. Alla diretta radiofonica parteciperà anche il presidente di Asce Sardegna, Antonello Pabis. La mostra Luci Oltre le Sbarre. 30 Scatti sarà visitabile fino al 19 maggio e rappresenta la prima parte di un progetto fotografico e di documentazione dei luoghi della detenzione in disuso in Sardegna, partendo dall’importante ex carcere di San Sebastiano a Sassari. All’interno dell’ex struttura detentiva il fotografo Fabian Volti ricerca spiragli di luce utilizzando i due registri fotografici del colore e del bianconero, in una delicata ricostruzione della memoria che riscopre le tracce di vita rimaste all’interno, subito dopo che il carcere fu posto in disuso: adesivi attaccati alla mobilia, disegni e scritte sui muri, suppellettili improvvisate che non sono solamente oggetti ma rappresentano simbolicamente quella capacità di sopravvivere che gli esseri umani riescono a trovare nelle situazioni di totale privazione della libertà. L’esposizione ospiterà la sezione Nelle Viscere degli Inferi, a cura del collettivo s’Idea Libera di Sassari: pannelli che contengono stralci di lettere tratti dalla corrispondenza portata avanti con prigionieri delle carceri sarde, che aprono un mondo non solo sul sistema penitenziario, ma anche su ciò che siamo noi, la società fuori spesso distante e il vissuto personale del detenuto, un progetto nato con la Biblioteca dell’Evasione e l’obiettivo di creare un rapporto di scambio con i detenuti rompendo l’isolamento che la società crea nei confronti del carcere e dei carcerati. Il progetto è a cura dell’associazione culturale 4CaniperStrada e il Centro d’arte e cultura Lazzaretto, con il patrocinio del Comune di Cagliari, del Comune di Sassari - Assessorato alla Cultura, la collaborazione di Antigone associazione nazionale, Ogros Fotografi Associati, il collettivo S’Idea Libera, e le stampe fotografiche curate da Artech Nuoro, le grafiche di Diego Ganga. Gli orari di apertura del Lazzaretto sono: dal martedì alla domenica 9:00 -13:00, 16:00 - 20:00. Avellino: “La pena oltre le mura del carcere” convegno alla Casa circondariale irpinianews.it., 14 maggio 2019 “La pena oltre le mura del carcere: le misure di comunità alla luce della riforma dell’ordinamento penitenziario”. E’ il titolo del convegno che andrà in scena venerdì 17 maggio alle ore 9:00 presso la Casa Circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino. L’iniziativa fortemente voluta dall’avvocato Giovanna Perna, responsabile regionale dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi nonché collaboratrice del Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale della Provincia di Avellino, ha come scopo quello di richiamare l’attenzione di tutti gli operatori sulle criticità del mondo carcerario ed in particolare degli Istituti Penitenziari di Avellino. Il Convegno vedrà, infatti, la partecipazione delle più alte cariche del mondo dell’amministrazione penitenziaria, dal Capo del Dipartimento, dott. Basentini, al direttore ufficio detenuti e trattamento del Prap, dott. Domenico Schiattone. Per la prima volta il tema “le misure di comunità” sarà discusso all’interno di un carcere, luogo naturale, deputato alla trattazione di una tematica così importante per le persone private della libertà personale. Torino: studenti di ospiti all’istituto penale per minorenni “Ferrante Aporti” diregiovani.it., 14 maggio 2019 Presenti anche rappresentati della Camera e ministero della Giustizia. Solo quando si varca la soglia di un carcere e si chiudono le porte si capisce davvero che cosa significhi privazione della libertà. È quello che emerge dal racconto degli studenti degli istituti d’istruzione superiore ‘Avogadro’, ‘Maxwell’ e ‘Regina Margherita’ di Torino che hanno avuto la possibilità di incontrare i ragazzi dell’istituto penale per i minorenni di Torino ‘Ferrante Aporti’. Gli studenti torinesi hanno raccontato a diregiovani.it quello che hanno visto e vissuto in quelle ore, di come abbiano colto immediatamente la restrizione degli spazi tra le mura, le grate, le celle, il refettorio, la palestra, la biblioteca, le aule e il cortile. Limitazioni a cui si aggiunge, per alcuni ragazzi detenuti, la distanza dalle famiglie che vivono in altre città e una mancanza di punti di riferimento affettivi. Hanno raccontato di essere stati colpiti dalle restrizioni su ciò che le famiglie possono portare ai giovani detenuti. Hanno raccontato di come gli agenti durante la loro permanenza in visita siano stati presenti in numero elevato e di come il loro controllo sui detenuti fosse evidenziato da una vicinanza fisica marcata. Un aspetto che li ha colpiti è stato proprio quello legato al tempo, a come in assenza di riferimenti temporali come orologi e telefoni o di una rigida scansione delle ore di lezione, il tempo sembrasse un po’ sospeso e dilatato. Un modo di sperimentare una privazione della libertà che ha impressionato molto gli studenti. “La conoscenza reciproca è stata immediata e mi ha stupito il valore che loro attribuiscono alle piccole cose che apprezzano più di noi che ne possiamo disporre costantemente”, ha raccontato uno degli alunni presenti all’incontro. “Rispetto alle aspettative- ha aggiunto un compagno- ho avuto un’impressione opposta, mi ha stupito la disponibilità a fare conoscenza e ad incontrarci”. Ed è proprio l’aspetto umano che è emerso dall’incontro: “Quando vediamo al telegiornale servizi su atti criminali ci sembra giusto che si sconti una pena, invece, vedendo i ragazzi davanti a noi, mi è dispiaciuto che loro non abbiano la libertà e le possibilità che abbiamo noi”, ha concluso un altro studente. L’iniziativa rientra nelle attività previste dal protocollo d’intesa sottoscritto in data 25 settembre 2018 dalla Camera dei deputati, dal ministero della Giustizia e dal MIUR, con lo scopo di ‘diffondere i valori e i principi della democrazia rappresentativa e della Costituzione attraverso la realizzazione di un piano di incontri delle scuole negli istituti penitenziari minorili”. Durante la mattinata i ragazzi hanno poi avuto la possibilità di dialogare e intervistare i rappresentanti delle istituzioni presenti. “Hanno dialogato con i ragazzi in modo cordiale e con un linguaggio semplice- ha raccontato la direttrice del carcere minorile Gabriella Picco- Gli studenti mi sono sembrati molto soddisfatti di aver conosciuto una nuova realtà e aver potuto interagire con i ragazzi del Ferrante Aporti. È stato un momento piacevole e costruttivo. Un’esperienza che, credo, li accompagnerà a lungo”. Della stessa opinione la professoressa Citarda dell’IIS Maxwell: “Si parla tanto di calo di empatia in questa generazione, ma vi assicuro che questi undici ragazzi hanno manifestato un grado di empatia inimmaginabile. Lucidi ed essenziali con i politici, corretti ed adeguati nel rivolgersi alla direttrice del carcere e agli operatori dello stesso, curiosi ma mai invadenti e inopportuni. Dai ragazzi reclusi sono giunti insistentemente messaggi di sollecitazione allo studio, al trovare lavoro e ad apprezzare le piccole cose di tutti i giorni a cui si pensa solo quando le si perde”. All’incontro erano presenti, oltre ai dirigenti e ai docenti referenti, l’onorevole Francesca Businarolo, presidente II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati; l’onorevole Vittorio Ferraresi, sottosegretario di stato al ministero della Giustizia; Giacomo Ebner, magistrato addetto, delegato del capo del dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità; Gabriella Picco, direttrice dell’IPM di Torino; il commissario capo Contu, comandante dell’IPM di Torino; i delegati del Sindaco, del Prefetto di Torino e dell’USR del Piemonte; Anna Maria Baldelli, capo della procura dei minori di Torino e Monica Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà e il garante regionale Bruno Mellano. Milano: progetto della Rete Europea Risorse Umane per vincere la partita… in carcere di Mario Agostino Città Nuova., 14 maggio 2019 Un progetto educativo, sportivo e di inclusione sociale promosso da Rerum (Rete Europea Risorse Umane) all’interno della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate. Andare “Oltre la barriera” degli steccati costituiti da pregiudizi, stereotipi, paure, indifferenze. Oltre la barriera delle sbarre, se necessario, laddove la speranza di una vita migliore talvolta si riduce al lumicino, latita e necessita di qualche mano amorevole per essere ravvivata. È la missione di Oltre la Barriera. Una partita da vincere!”, progetto educativo, sportivo e di inclusione sociale promosso da Rerum (Rete Europea Risorse Umane) che anche quest’anno vedrà una tappa fondamentale del suo percorso all’interno della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate il pomeriggio del prossimo 31 maggio 2018 in collaborazione con l’Area Educativa carceraria. Pianificato all’interno del piano artistico ed educativo chiamato “Intercultura 2.0 La città plurale. Verso un nuovo umanesimo”, sostenuto dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, il progetto affonda le sue basi in una “Carta dei Valori” per la quale lo sport vuole essere aggregatore di fattori di costruzione di fraternità. Giunta alla sua quinta edizione annuale, la terza all’interno del carcere di Bollate, l’iniziativa visse le prime due edizioni nel campo sportivo comunale di Figline Valdarno, comune dove Rerum ha sede legale. A sfidarsi dietro a un pallone per un triangolare cui non mancheranno agonismo e sana competizione, oltre agli ospiti del carcere, ex calciatori professionisti chiamati per l’occasione dall’immancabile Damiano Tommasi, presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, ma anche calciatrici, novità di quest’edizione, per andare davvero #OltreLaBarriera di frettolosi pregiudizi. Anche quest’anno, concorrerà alla bellezza dell’edizione lo storico Gruppo degli Sbandieratori dei Borghi e Sestieri Fiorentini effettuando poi un “tour” che raggiunga vari reparti dell’Istituto. Insieme a loro, docenti, giornalisti e operatori dell’Associazione Quartotempo di Campi Bisenzio (Firenze), particolarmente nota per la sua attenzione allo sport per disabili e paraolimpici, ma anche alcuni giovani dell’Associazione ESF (Educatori Senza Frontiere). Ad animare l’edizione, la ferma volontà di incontrare ancora chi ha sbagliato, offrendo un’altra sentita giornata all’insegna del “dono” e della “gratuità”, affinché possano generarsi motivi per andare oltre le divisioni, le rassegnazioni e le barriere culturali. “Voi calciatori avete una grande responsabilità - aveva affermato in proposito Papa Francesco incontrando nel 2014 i giocatori di Napoli e Fiorentina: siete al centro dell’attenzione e tanti vostri ammiratori sono giovani e giovanissimi. Tenete conto di questo, pensate che il vostro modo di comportarvi ha una risonanza, nel bene e in male”. “Tutti noi, nella vita, abbiamo bisogno di educatori - aveva invece affermato incontrando gli allenatori -: persone mature, sagge ed equilibrate che ci aiutano a crescere nella famiglia, nello studio, nel lavoro, nella fede. Educatori che ci incoraggiano a muovere i primi passi in una nuova attività senza aver paura degli ostacoli e delle sfide da affrontare, che ci spronano a superare momenti di difficoltà, che ci esortano ad avere fiducia in noi stessi e nei nostri compagni, che ci sono accanto sia nei momenti di delusione e smarrimento sia in quelli di gioia e di successo”. Una sfida raccolta negli anni da Rerum nelle sue molteplici iniziative, sempre all’insegna della costruzione di reti di fraternità attraverso l’incontro tra realtà complementari dello sport, della cultura, dello spettacolo e della spiritualità. Andare anche stavolta #OltreLaBarriera delle sbarre, se da una parte costituirà certamente un’altra occasione di costruzione di consapevolezza rispetto al dono della libertà per i visitatori, rappresenterà una boccata d’aria di svago e aggregazione diversa per i detenuti, lasciando intravedere meglio loro quel legame con il dinamismo esterno al carcere che non deve mani mancare a nessun essere umano. Napoli: in Consiglio regionale le ceramiche del carcere minorile di Airola ottopagine.it., 14 maggio 2019 Ciambriello: “La ceramica insegna ai ragazzi a modellare e a ricostruire”. Si tiene oggi, 14 maggio, alle 11 presso il Consiglio Regionale della Campania la presentazione dei manufatti e delle opere realizzate da dieci detenuti del carcere minorile di Airola in provincia di Benevento. Il progetto è stato promosso dal Garante Campano dei detenuti, Samuele Ciambriello e realizzato dall’Associazione di promozione sociale “Tarita”. Alla conferenza stampa parteciperanno la Presidente del Consiglio Regionale Rosa D’Amelio, il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello, la Dirigente del centro Giustizia Minorile e Comunità della Campania Maria Gemmabella, la Direttrice del Carcere di Airola Marianna Adanti e la Presidente dell’Associazione “Tarita” Carmela Grimaldi. “Eccezionalmente - viene evidenziato in una nota - saranno presenti alcuni giovani ristretti presso il carcere di Airola che hanno partecipato al progetto”. Per il Garante Samuele Ciambriello: “La ceramica insegna ai ragazzi a modellare e a ricostruire. E’ una chiave per ripartire. Queste iniziative - spiega Ciambriello - rappresentano una educazione alla speranza e una forza. Non è un lenitivo che addormenta il dolore e la solitudine - conclude il Garante - ma è un’attività che impegna il loro presente e li motiva a trasformare la loro vita”. Roma: Ramona e Giulietta, superare i muri del carcere con il teatro di Ilaria Dioguardi retisolidali.it., 14 maggio 2019 Con il teatro a Rebibbia Femminile le detenute scoprono l’ascolto. La regista, Francesca Tricarico, ci racconta Ramona e Giulietta, in scena il 29 Maggio. “Sono sei anni che siamo all’interno del Carcere Femminile di Rebibbia, da dieci operiamo nelle carceri”, dice Francesca Tricarico, regista dello spettacolo teatrale Ramona e Giulietta, che sarà in scena il 29 maggio. “Lavoriamo con l’associazione Per Ananke, che si occupa di laboratorio e di produzioni teatrali, negli ultimi anni si è dedicata a luoghi come i centri diurni per i disturbi psichici e le carceri, in particolare dal 2013 siamo all’interno di Rebibbia Femminile, abbiamo iniziato nella sezione “Alta Sicurezza” e abbiamo fondato una compagnia che si chiama Le Donne del Muro Alto”. Negli ultimi due anni hanno fondato anche una seconda compagnia teatrale che si chiama “Più Voce”, con le detenute comuni. “Si tratta di due sezioni diverse, che presentano caratteristiche diverse: il carcere è un po’ come i quartieri, ci sono delle similitudini ma anche delle profonde differenze a seconda delle sezioni”. Ramona e Giulietta. Il 29 maggio “Le Donne del Muro Alto” porteranno in scena lo spettacolo Ramona e Giulietta - Quando l’amore è un pretesto pubblico, con le detenute comuni, nel Teatro della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia, alle ore 15 a Roma in Via Bartolo Longo, 92. Le iscrizioni sono aperte fino al 15 maggio mandando una mail all’indirizzo press.ledonnedelmuroalto@gmail.com. Un mese fa si è svolto lo spettacolo Il postino, con le detenute della sezione Alta Sicurezza. “Fare teatro in carcere è un’esperienza molto intensa. Quando siamo arrivate sei anni fa all’Alta Sicurezza di Rebibbia Femminile non c’erano molte attività, tranne qualche laboratorio di cucito. L’Alta Sicurezza è una sezione molto più chiusa delle altre, è stato un impatto fortissimo: era come rompere un muro. Da una parte c’era una grande voglia di riscatto, di far sentire la propria voce, dall’altra parte c’era diffidenza”, racconta la regista. “Spesso personaggi noti vanno nelle carceri, portano brevi progetti e se ne vanno: prendono la risonanza che il carcere può dare ma fanno “interventi spot”. Quando le detenute hanno capito che eravamo lì per fare un lavoro con loro, che partiva dall’ascolto di quel luogo per dare voce a quel luogo, è iniziata una collaborazione molto produttiva. Venivo dall’esperienza nel Carcere Maschile che è molto più semplice: è più facile per una donna lavorare con gli uomini. Con le donne ci siamo scontrate tanto, ma poi quello che mi hanno dato dal punto di vista umano e artistico è immenso: un’attenzione, una cura del particolare, una voglia di scoprirsi che sono stati incredibili”. L’amore tra donne. Per i loro spettacoli, l’associazione Per Ananke e Le Donne del Muro Alto si appoggiano ai testi dei grandi autori, che fanno loro da protezione, sono le loro “stampelle”. Hanno portato in scena Didone, Amleto trasformandolo in L’Amleta, Medea, ma poi riscrivono i testi a modo loro, utilizzando il dialetto, che è la “lingua del nostro cuore, delle nostre emozioni, è ciò che ci identifica, le nostre radici, la nostra storia. Cerchiamo nel testo quello che ci appartiene, le nostre necessità, nello stesso tempo cerchiamo grazie al testo di mettere in luce degli aspetti poco conosciuti. Affrontiamo dei temi che nel carcere diventano cassa di risonanza di quello che succede all’esterno. Quando abbiamo fatto Medea ci siamo occupate del tema del razzismo. Con l’ultimo spettacolo, Ramona e Giulietta, abbiamo deciso di affrontare il tabu dell’amore fra donne. Da quando abbiamo iniziato a lavorare nella sezione delle detenute comuni abbiamo sentito tante volte parlare dell’amore fra donne, tra chi difendeva la libertà di amarsi tra donne in carcere e chi, invece, lo considerava un fatto vergognoso, come uno sfogo del carcere; da qui, è partita l’idea di trasformare in uno spettacolo queste visioni diverse e i commenti che sentivamo in continuazione, affinché le chiacchiere da bar diventassero chiacchiere produttive, per confrontarsi con un tema che è caldo, fuori e dentro il carcere. Le detenute si sono divise tra chi considerava questo spettacolo degno e chi indegno: da questi scontri iniziali sono nati dialoghi importanti a prescindere dallo spettacolo, che si sono poi sparsi a macchia d’olio in tutto il carcere, anche tra le detenute che non partecipavano al laboratorio teatrale. L’argomento dell’amore tra donne ha cominciato ad essere affrontato in un modo molto rispettoso, considerando di più che, dietro al tabù e alle chiacchiere da bar, ci sono delle persone. Il teatro in carcere fa più bene alla società esterna che a quella interna, tutte le necessità e i bisogni che si sentono in carcere non sono altro che i bisogni della società fuori ma resi amplificati e enormi dalla detenzione; il carcere non è altro che la lente di ingrandimento della società, ci permette di vedere qualcosa che accade all’esterno ma in un modo più grande. Quando abbiamo fatto Didone, il primo anno l’abbiamo riscritta concentrandoci sul tema dell’abbandono, su quello che avvertono le donne quando sono in carcere. Ma l’abbandono non riguarda solo i detenuti, quindi abbiamo visto tanti spettatori commuoversi mentre assistevano allo spettacolo perché si rispecchiavano. Anche il tema dell’omosessualità che portiamo in scena il 29 maggio è di grande attualità, vediamo tutti i giorni quello che succede fuori riguardo a questo argomento”. I laboratori teatrali. Ogni laboratorio teatrale si svolge, nella fase iniziale, due volte a settimana, poi prima dello spettacolo si intensificano le prove. “Tutto quello che facciamo non avviene in uno spazio comodo, in teatro ad esempio non ci sono le telecamere, quindi non possiamo rivedere quello che proviamo in scena. Facciamo le prove in spazi brutti dal punto di vista teatrale perché sono luoghi piccoli, c’è l’eco. La voglia di raccontarsi e di portare a termine il progetto fa sì che, facendo solo due prove prima di andare in scena, diamo vita sempre ad uno spettacolo che non è a livello amatoriale, ma semi professionale. Le detenute di Alta Sicurezza ormai, dopo cinque anni, sono delle professioniste”. Ogni anno ai laboratori di ogni sezione partecipano tra le 15 e le 20 detenute, ma le richieste sono molto più alte. Per ora i contributi non permettono di allargare il numero delle partecipanti. “La vera tragedia nella commedia sono i contributi. Gli anni non sono tutti uguali. Per due anni siamo stati “Officine di Teatro Sociale” della Regione Lazio, è un sostegno a questo tipo di progetti, ma con una grande pecca: i contributi ti danno il 50% di quello di cui si ha bisogno, se non si trova da soli il restante 50%, viene tolta la parte di contributi offerta. Nel periodo in cui stiamo vivendo, trovare da soli la metà dei contributi è una missione quasi impossibile. Tutti gli anni facciamo raccolta fondi, anche con spettacoli fuori dal carcere, sul nostro sito è possibile sostenerci, abbiamo anche una pagina Facebook Le Donne del Muro Alto. Cerchiamo degli sponsor, ma non riceviamo molte adesioni da parte di enti privati, il tema delle carceri è ancora spigoloso, non vogliono metterci la faccia. Ci rivolgiamo sempre ai bandi pubblici, cerchiamo di fare eventi, i comuni cittadini si spendono molto per questi progetti. Siamo molto dispiaciuti perché nel Lazio ci sono molte resistenze da parte di enti quali banche e fondazioni”. Fame di cultura e bisogno di ascoltare. “Una volta una detenuta protagonista di uno spettacolo mi ha detto: “Io ti odio, perché mi hai dato un personaggio che ha le mie stesse caratteristiche: è una donna forte, coraggiosa, determinata. Ma lei ha applicato queste qualità per il bene comune, mentre a me hanno insegnato che nessuno muore per nessuno, questi libri mi mettono in crisi, mi fanno vedere che esiste un’altra possibilità di vivere”. La ragazza si è bloccata perché si riconosceva troppo in quelle caratteristiche che lei non aveva utilizzato per il bene comune. Dopo la discussione con lei ho fatto, all’interno della sezione Alta Sicurezza, un dibattito sul significato della parola “bene comune” che non ho mai sentito affrontare in un modo così delicato ed attento, nemmeno nei tanti centri culturali che ho frequentato nella mia vita. Questi fatti ci fanno capire quanto ci serva la cultura, quanto sia necessario scoprire che esistono anche altri mondi. I detenuti vivono la società nel microcosmo del carcere, con le stesse dinamiche, gli stessi bisogni e le stesse necessità della società esterna ma in un modo amplificato perché sono costretti a vivere in uno spazio ristretto”, continua Tricarico. “Loro acquisiscono con coscienza dei loro bisogni, delle loro bassezze e delle loro qualità, ma quando si vive in un ambiente ristretto ogni gesto, ogni parola sono amplificati. Capiscono di essere la lente di ingrandimento della società esterna quando hanno l’opportunità di fare attività che li mettono a confronto con la società stessa. Nello stesso tempo fa tanto bene alle persone fuori venire a vedere i nostri spettacoli: la cultura è un bene primario, in carcere è molto evidente la forza della cultura, si ha veramente fame di cultura”. In carcere non ci si ascolta, si urla. “Il teatro è ascolto, cambia il rapporto tra detenute anche al di fuori del laboratorio teatrale perché acquisiscono lo strumento dell’ascolto, in questi cinque anni anche il loro rapporto con gli agenti di polizia penitenziaria è notevolmente migliorato”. Se esisti hai bisogno di vivere in un modo migliore. “Mi ha colpito tantissimo la lettera di una detenuta che ora è in comunità, me l’ha lasciata prima di andare via dal carcere proprio in un periodo in cui accusavo la stanchezza di questo lavoro, ero scoraggiata, non c’erano fondi regionali”, confida Francesca Tricarico. “C’era scritto “A volte per aver voglia di cambiare la propria vita c’è bisogno di qualcuno che ti aiuti a ricordare che vali. Il teatro mi ha ricordato che sono una persona che sa leggere, scrivere ma soprattutto che sa far sentire la sua voce. A volte c’è bisogno che qualcuno ti dia modo di far sentire la tua voce per capire che esisti. Se esisti hai bisogno di vivere in un modo migliore. Ho capito che voglio andare in comunità”. Personalmente questa lettera mi ha restituito il valore del mio lavoro, a volte ci si chiede “che senso ha tutto quello che faccio?”, è normale che una persona eticamente corretta abbia dei momenti di crisi. Questa ragazza nella sua lettera fa riferimento alle responsabilità che si hanno, nel momento in cui si esiste, sia verso l’altro sia verso se stessi. Da quel momento abbiamo ricominciamo a mettercela tutta nel nostro progetto, questa testimonianza ci ha dato una motivazione fortissima. Io non chiedo mai le storie di queste donne, non voglio sapere i reati, voglio lavorare con la persona. Dopo quattro-cinque anni che le frequento a volte mi chiedo “da dove bisogna iniziare affinché non avvenga tutto ciò?”. Una volta una ragazza mi ha chiesto: “qual è la differenza tra fare l’amore e lo stupro?”. Questa domanda mi ha fatto capire la forte mancanza di educazione all’affettività di alcune detenute. Mi ha fatto pensare all’infanzia e alla vita di questa donna che mi diceva di aver sempre sentito parlare di stupro, che mi chiedeva se nella sua vita avesse fatto l’amore o lo stupro. È stata una domanda terribile, mi ha fatto capire ancora di più quanto sia utile portare cultura nelle carceri, che sia teatro, lettura, scrittura. Fare corsi di cucito o cucina nelle carceri dà una professionalità, che è essenziale e vitale, ma se non diamo alle detenute gli strumenti per affrontare il mondo, quella professionalità finirà nel cestino, perché quando torneranno nella società fuori e dovranno lavorare, non sapranno rapportarsi né con se stesse né con gli altri. Vedere una persona esterna che ti sprona e ti dice che hai delle capacità ti mette in crisi; se le detenute non vedono che possiedono delle risorse, penseranno sempre che possono campare solo in un altro modo, senza sfruttare le proprie risorse. Il teatro dà modo di confrontarsi con la società esterna: va bene scrivere libri e leggere, ma con il teatro si fa un’attività che le mette a confronto, in cui mettono la faccia, la società deve entrare lì dentro al carcere per assistere allo spettacolo. Una volta, in uno spettacolo sulla Rivoluzione Francese, ho messo in scena una detenuta marocchina che interpretava la parte di una drammaturga che abbandona la Rivoluzione perché, diceva, “scrivete una Costituzione meravigliosa ma non avete il coraggio di applicarla”. Uno spettatore mi ha detto: “in quel monologo finale ho avuto un pugno allo stomaco, tutti i pregiudizi che ho sugli islamici hanno cominciato a vacillare. Da oggi quando guarderò una persona di colore, penserò alle parole di questa ragazza”. Non cambieremo il mondo con i nostri spettacoli, ma se ogni volta anche un solo spettatore, quando saremo in scena, avrà un pugno allo stomaco per noi sarà una grande vittoria”. Trieste: incontro letterario con Leo Ortolani alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti., 14 maggio 2019 Il 18 maggio 2019 Leo Ortolani sarà presente nella locale Casa Circondariale per dialogare sul tema proposto nel suo libro “Due figlie e altri animali feroci” in libreria per BAO Publishing. Un libro in prosa, arricchito da alcune stupefacenti ed efficaci vignette, brevi storie, sul tema dell’adozione. Delle adozioni, perché molte persone che hanno vissuto l’esperienza potranno ritrovarsi in queste pagine. E’ la storia personale dell’Autore, di una famiglia e di una genitorialità fortemente, determinatamente, cercata e voluta. Una genitorialità consapevole che ha dovuto “soffrire” una gestazione di 10 anni per giungere finalmente a compimento. Un parto lungo e complicato ma che ha visto la nascita di due bimbe e ha permesso l’inizio di una nuova avventura. Le lettere scritte per cristallizzare l’esperienza, tenere informati gli amici e i parenti di quanto accadeva dall’altra parte del mondo, perché parliamo di un’adozione internazionale e le ultime battute si vivono in Colombia, per consegnare alle figlie, quando diventeranno grandi, la loro storia, la storia della nuova famiglia, dei genitori di cuore, della nuova Avventura che veniva vissuta con l’entusiasmo, la gioia, la paura, la curiosità e l’incognita di grandi e piccine. Sentimenti veri, importanti, esperienze uniche che il tempo rischia di affievolire, un pensiero di grande amore e sensibilità. La genitorialità, un tema delicato, che in carcere difficilmente si affronta, che trova mille ostacoli, una parte certamente dovuti alla privazione della libertà che la detenzione comporta. Ma non solo: i pregiudizi, la distanza fisica, i difficili rapporti tra genitori, gli altalenanti interventi dei servizi deputati all’infanzia, la scarsa attenzione al problema, perché non sempre il genitore che commette un reato è un cattivo genitore. E allora, come il famoso personaggio della fortunatissima serie di Leo Ortolani, “fletto i muscoli e sono nel vuoto” perché non si è mai perfettamente pronti per la grande Avventura che la genitorialità comporta, ma ogni genitore fa certamente del suo meglio per i figli. E i bambini/figli adottivi - perché questo è il tema - sono tanto coraggiosi. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Trani (Bat): il triathlon manda in acqua i detenuti del carcere di Gaetano Campione Gazzetta del Mezzogiorno., 14 maggio 2019 A Polignano via a un week end all’insegna dello sport che va a braccetto con le politiche del sociale. Girare pagina col passato e ricominciare. In un contesto caratterizzato dal rispetto delle regole. E’ la sfida più bella e avvincente. Per alcuni aspetti unica, quella racchiusa nel Cala Ponte Triweek, la gara di triathlon più cool del momento, in programma sabato e domenica prossimi a Polignano. Perché in questo caso lo sport ha il profumo del riscatto sociale: 11 detenuti della casa circondariale di Trani (10 uomini e una donna) affronteranno una delle frazioni della gara. Per farlo, si allenano da tempo all’interno della struttura penitenziaria. L’obiettivo va al di là dell’aspetto agonistico, perché si vogliono raccogliere - col progetto Tri-Chance - fondi per attrezzare una palestra, tra le mura del carcere. Il programma della manifestazione è articolato. Si comincia con la tappa del Gran prix (prima volta in Puglia) per il nuoto in acque libere sulle distanze di 2,7 km e 5 km, riservate agli atleti iscritti alla Federazione italiana nuoto. Poi, si passa all’acquathlon Garmin super Tri: 300 metri di nuoto e 1 km di corsa. Per finire all’appuntamento più atteso, il triathlon sulla distanza olimpica, una delle più impegnative (450 finora i concorrenti) con i migliori specialisti in gara. La partenza domenica della frazione di nuoto (1500 metri) sarà data all’interno del Cala Ponte marina, dopodiché gli atleti inforcheranno la bicicletta per 40 km lungo la costa caratterizzata dai colori e dai profumi della macchia mediterranea, quindi si passerà ai 10 km di corsa puntando verso il centro di Polignano. La gara Silver è valida sia per il rank nazionale che come campionato pugliese. Spettacolo dunque assicurato, grazie ad atleti di spessore come l’azzurro Daniel Hofer accompagnato dalla campionessa austriaca Sarah Wilm. Ancora triathleti esperti e promesse: Ivan Risti, Elena Casiraghi, Martina Dogana, Martina Grimaldi. Il campione italiano Michele Sarzilla, Nicola Ragazzo, Federico Zamò, Sharon Spimi, Beatrice Taverna e Lusia Iogna Prat. Infine, per il secondo anno consecutivo, i bambini delle scuole di Polignano saranno impegnati in “Gioco nel blu”, con una serie di iniziative multisportive nel villaggio creato ad hoc. La manifestazione è organizzata dalla società sportiva Otrè di Noci ed è stata presentata ieri nel capoluogo pugliese. “La penisola che non c’è”, di Nando Pagnoncelli recensione di Massimo Rebotti Corriere della Sera., 14 maggio 2019 Il primato degli italiani nel regno delle percezioni errate. Coltiviamo idee false su povertà, crimine, immigrati: esce il 14 maggio un saggio dell’esperto di sondaggi (Mondadori). Un forte allarme ma anche fiducia nei giovani. Come ha ondeggiato l’opinione pubblica durante le manifestazioni contro i rom nelle periferie romane? E come oscilla sul reddito di cittadinanza, sulle navi delle organizzazioni non governative, sulla castrazione chimica o sulla legalizzazione delle droghe leggere? Per un politico a caccia di consensi c’è una buona ragione ogni giorno, verrebbe da dire ogni ora, per conoscere l’umore degli elettori. A mettere in guardia dalla deriva della “sondocrazia” - il governo attraverso i sondaggi, come lo chiamava Stefano Rodotà - è, ironia della sorte, un autorevole esperto di sondaggi come Nando Pagnoncelli. Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il discorso che sviluppa il presidente di Ipsos Italia nel libro La penisola che non c’è (Mondadori) affronta i nodi più sensibili che attraversano le opinioni pubbliche delle (affaticate) democrazie occidentali: la percezione distorta della realtà, le fake news, l’indisponibilità a riconoscere le competenze degli altri, la fine della mediazione, la conflittualità esasperata. In un contesto del genere, lo strumento dei sondaggi - che è prezioso, anche dal punto di vista democratico - va usato, raccomanda l’autore, con attenzione e metodo, sottraendolo ai rischi della strumentalizzazione politica. Pagnoncelli dedica la prima parte del libro a una definizione dell’opinione pubblica - ormai “persuasore occulto” di ogni agire politico - e delle tecniche, sempre più raffinate, che ne “misurano” gli sbalzi. La storia dei sondaggi si intreccia a quella dei cambiamenti della società e della politica - fece epoca il pronostico (azzeccato) della vittoria di John Kennedy su Richard Nixon, dopo un dibattito televisivo che ribaltò le posizioni - e sancisce l’utilità contemporanea di uno strumento che fotografi le oscillazioni, oggi molto rapide, delle opinioni. Ed è in questo campo che i “distinguo” di Pagnoncelli si fanno più netti: “Il sondaggio - scrive - dovrebbe rimanere uno strumento di conoscenza” e non diventare “un oracolo che orienta”. Secondo l’autore quella in atto è una china pericolosa, un “sistema” dove la ricerca del consenso diventa il fine unico della politica. E se, per caso, i dati di un sondaggio dovessero contraddire la propaganda di un leader, nota Pagnoncelli, il politico ha già pronta la risposta: “Abbiamo altri sondaggi che dicono l’opposto”. Ma il centro del libro, più che sull’uso corretto dello strumento che da decenni interroga i cittadini, è su come, negli ultimi anni, si sia trasformato il “mare” in cui pesca il sondaggista: un’opinione pubblica che ha della realtà una percezione assai distante dalla realtà stessa. Tempo fa aveva fatto discutere il divario tra quanti immigrati pensiamo che ci siano in Italia, il 30 per cento, e quanti ce ne sono davvero, il 7% per cento. La questione però, argomenta l’autore, è ben più vasta: su tanti argomenti gli italiani hanno in mente un Paese che non c’è, si tratta di un problema cruciale che può minare il buon funzionamento di una democrazia. Ci addentriamo così nel “regno delle percezioni” dove l’Italia purtroppo eccelle, come certificato da un’ampia indagine di Ipsos in quattordici Paesi: siamo primi nella “distorsione percettiva” o “più banalmente nell’indice di ignoranza”. Come italiani, in pratica, pensiamo che si commettano molti più reati di quanto in realtà avviene, ci riteniamo più poveri, più disoccupati, più malati, con un’economia più fragile e marginale, di quanto in realtà non sia. Tutto ciò causa un pensiero distorto sul Paese che determina una serie di conseguenze, la principale delle quali è un discorso pubblico che asseconda questa visione negativa, che dilata i problemi invece di ridimensionarli. Oltre alle percezioni sballate sulla realtà, l’indagine mette in evidenza le nostre contraddizioni. Come il pubblico di un Festival di Sanremo - racconta l’autore tra lo sconcertato e il divertito - che, contemporaneamente, protesta per la sconfitta di un cantante e si spella le mani per la vittoria di quello che l’ha sconfitto. Così noi, contemporaneamente, vogliamo meno tasse, ma servizi pubblici più efficienti; siamo preoccupati per l’invecchiamento della popolazione, ma ci sentiamo invasi dai giovani immigrati; vogliamo l’euro, ma non ci fidiamo dell’Europa. Pagnoncelli spiega tanto ondeggiare con tre ragioni sostanziali: la bassa scolarizzazione del Paese, una spiccata “emozionalità” e una “dieta mediatica” - i canali attraverso cui ci informiamo - troppo poco varia, dove la televisione, tuttora, è una sovrana quasi assoluta. Una condizione di fragilità che diventa il terreno ideale per il “virus” delle fake news. Ciò nonostante, la conclusione è ottimista. La speranza per l’autore risiede nei giovani che proprio adesso si affacciano alla vita pubblica, nella loro consapevolezza dei problemi. E se lo dice un osservatore che da oltre trent’anni interroga con rigore la società italiana, c’è probabilmente da credergli. Le parole dei media e della legge di Alberto Leiss Il Manifesto., 14 maggio 2019 Oggi cerco di tenere insieme cose apparentemente distanti. Impressioni e riflessioni provate e inseguite nella giornata di venerdì scorso. Un pomeriggio nella meravigliosa sala Zuccari del Palazzo Giustiniani di Roma, invitato da magistrate e magistrati del gruppo Area per una discussione sugli stereotipi che sostengono la “violenza di genere”. Un servizio giornalistico visto a tarda sera a Propaganda live: la cronista Francesca Mannocchi e il fotografo Alessio Romenzi, rischiando la propria incolumità, hanno realizzato un documento fortissimo, e a tratti straziante su ciò che sta accadendo in Libia, luogo “alieno”, ma in realtà vicinissimo alle vite di tutti noi. Il filmato visto su La7 l’ho ritrovato poi impaginato sull’Espresso di domenica. Ho provato riconoscenza profonda per quei colleghi con l’elmetto accanto alle milizie che difendono Tripoli contro l’attacco di Haftar, e per chi ha commissionato il servizio. In questi ultimi giorni ho cercato invano informazioni adeguate sulla guerra in Libia sui media nazionali. La “notizia” di questa guerra è scomparsa dalle prime pagine, e a fatica si trova qualcosa nei notiziari a più di metà dello sfoglio. Sembra che l’informazione - non senza eccezioni - si adegui alla linea politica imbarazzata e opportunistica che caratterizza il governo, che ha clamorosamente “mollato” il suo principale alleato Serraj e sta alla finestra per vedere come va a finire. Non mi interessa qui come ci si debba schierare (certamente non con chi comincia a sparare mentre si discute di negoziati) ma ascoltare la voce di chi in Libia combatte sperando ancora nell’esito positivo della “rivoluzione” che ha abbattuto Gheddafi. E ancor più le voci di chi non combatte, ma soffre da anni nell’inferno dei campi libici in fuga da guerre e massacri, e ha subito le torture, le violenze e i ricatti più infami. Donne stuprate davanti ai figli. Uomini ormai disposti a affogare nel Mediterraneo pur di salvare quel che resta delle loro famiglie. Voci ascoltate in quel servizio, che stridevano terribilmente con i propositi del nostro scandaloso ministro dell’Interno. E qui vedo un nesso con la discussione aperta dalle magistrate e i magistrati di Area. La violenza contro le donne attraversa tutto il mondo e segna come enorme colpa maschile il ricorso alla guerra e a tutte le forme di prevaricazione. Le parole, sempre, ma specialmente in questi contesti sono armi potenti. È potente il silenzio dei media su drammi tanto vicini. Sono potenti gli stereotipi sessisti che si ripetono nelle cronache dei tanti “raptus”, o del “troppo amore”, che motiverebbero i femminicidi quotidiani. Tanto più grave il linguaggio che questi stereotipi ripete se esso informa - come è avvenuto in diverse recenti sentenze - i testi della legge. Questo è stato ripetuto e sottolineato nella discussione di venerdì pomeriggio: la responsabilità simbolica del linguaggio della legge è enorme, e la magistratura non è ancora sufficientemente attrezzata. Non si tratta di inventare nuovi reati e altre pene (tantomeno la castrazione chimica che piace tanto a Salvini): in Italia - è stato detto - già molte norme adeguate sono state introdotte. È la cultura degli operatori e operatrici (e degli “esperti” che spesso accompagnano il processo) che deve cambiare. Non a caso l’intervento più applaudito è stato quello della “libera pensatrice femminista” Alessandra Bocchetti, che ha parlato della “rivoluzione difficilissima e lenta” che le donne stanno compiendo non per il potere ma per affermare la logica della cura contro quella della conquista. È venuto il momento di staccare la spina ai social network di Chris Hughes Il Dubbio., 14 maggio 2019 L’ultima volta che ho visto Marck Zuckerberg era l’estate del 2017, alcuni mesi prima che scoppiasse lo scandalo di Cambrige Analytica. Ci incontrammo al Campus di Facebook a Menlo Park, in California, e da lì mi portò a casa sua, in un tranquillo e rigoglioso quartiere. Passammo insieme un’ora o due mentre sua figlia piccola ci girava intorno. Parlammo soprattutto di politica, un po’ di Facebook, e un po’ delle nostre famiglie. Quando le ombre crebbero lunghe, dovetti andar via. Abbracciai sua moglie, Priscilla, e dissi addio a Mark. Da allora, la sua reputazione e quella di Facebook è crollata. Le scorrettezze dell’azienda sono su tutte le prime pagine. Sono passati 15 anni da quando fondammo insieme Facebook ad Harvard, e non lavoro con lui da almeno dieci, ma mi sento comunque responsabile. Mark è ancora la stessa persona di allora, una brava persona. Ma è proprio questo a rendere il suo potere incontrollato un problema. La sua influenza è sbalorditiva, molto più di chiunque altro nel settore privato o nel governo. Controlla tre principali piattaforme di comunicazione - Facebook, Instagram e Whatsapp - che miliardi di persone usa tutti i giorni. Il comitato di Facebook è un organo più consultivo che di sorveglianza, perché Mark controlla circa il 60% delle quote. Stabilisce da solo le regole per distinguere un linguaggio violento da uno offensivo, e può scegliere di silenziare un avversario acquisendolo, bloccandolo o copiandolo. Preoccupa che l’ambizione lo abbia portato a sacrificare sicurezza e civiltà in cambio di un click. Sono deluso da me stesso per non aver capito che gli algoritmi avrebbero potuto cambiare la nostra cultura, influenzare le elezioni e rafforzare i leader nazionalisti. E temo che Mark si sia circondato di persone che rinforzano le sue idee piuttosto che combatterle. Il governo deve ritenerlo responsabile. La sanzione di 5 miliardi che ci si aspetta gli imponga l’agenzia federale per il controllo sul mercato, non sarà sufficiente. Il potere di Mark è senza precedenti, “non americano”. E’ tempo di rompere con Facebook. L’America è stata costruita sull’idea che il potere non dovrebbe concentrarsi in una sola persona, perché siamo tutti vulnerabili. Proprio per questo i fondatori di Facebook hanno creato un sistema di controlli e contrappesi. Non c’era bisogno di prevedere il suo successo per comprendere la minaccia che una società gigantesca avrebbe posto alla democrazia. Jefferson e Madison erano voraci lettori di Adam Smith, secondo il quale i monopoli impediscono la competizione, che invece fa crescere l’economia. Negli ultimi 20 anni più del 75% delle industrie americane, dalle compagnie aree a quelle farmaceutiche, hanno creato concentrazioni sempre più grandi, e la grandezza media delle società pubbliche è triplicata. La stessa cosa sta accadendo ai social media e alla comunicazione digitale. Dal momento che Facebook domina i social, non deve affrontare le responsabilità basate sul mercato. Questo vuol dire che ogni volta che Facebook commette degli errori, ripetiamo uno schema inesausto: prima l’indignazione, poi la delusione, infine la rassegnazione. Nel 2005, ero nel primo ufficio di Facebook in Emerson Street a Palo Alto, quando lessi la notizia che la News Corportation di Rupert Murdoch stava acquisendo il sito di social network Myspace per 580 milioni di dollari. Sentii un “wow” e la notizia rimbalzò silenziosamente attraverso la stanza. I miei occhi si spalancarono. 580 milioni di dollari, sul serio? Facebook stava gareggiando con Myspace, anche se indirettamente. I nostri utenti erano più coinvolti, con visualizzazioni giornaliere. Se Myspace valeva così tanto, Facebook avrebbe potuto valere almeno il doppio. Fu questa spinta alla “domininazione” che portò Mark ad acquisire negli anni dozzine di società, comprese Instagram e Whatsapp nel 2012 e nel 2014. Facebook è passato da un progetto sviluppato dalla stanza di un dormitorio universitario a una società seria con tanto di avvocati e un dipartimento di risorse umane. Avevamo quasi 50 impiegati, e le loro famiglie facevano affidamento su Facebook per mettere il piatto in tavola. Mi resi conto che non sarebbe mai finita: più diventiamo grandi, più dovremo lavorare per continuare a crescere. Quasi un decennio dopo, Facebook ha guadagnato il prezzo del suo dominio. Vale mezzo trilione di dollari e comanda, secondo la mia stima, più dell’ 80% del fatturato mondiale dei social network. Questo spiega perché anche nell’anno peggiore per Facebook, il 2018, il suo guadagno per azioni crebbe del 40% rispetto all’anno precedente. Il suo monopolio è visibile anche nelle statistiche. Il 70 per cento degli americani adulti usa abitualmente i social media, e la maggior parte di essi è su Facebook. Quasi due terzi usa il sito principale, un terzo usa Instagram e un quinto Whatsapp. Meno di un terzo usa Pinterest, Linkedin o Snapchat. Quello che è nato come uno svago è diventato il modo principale in cui la gente di ogni età comunica online. Anche se le persone volessero lasciare Facebook, non avrebbero alternative significative, come abbiamo visto con lo scandalo di Cambrige Analytica. Preoccupate per la loro privacy e con una fiducia sempre minore in Facebook, gli utenti di tutto il mondo hanno dato inizio a un movimento chiamato “cancella Facebook”. Una parte di essi ha cancellato il proprio account dal telefono, ma solo temporaneamente. D’altronde, dove altro potrebbero andare? Il dominio di Facebook non è un caso fortuito. La strategia aziendale era battere ogni rivale alla luce del sole, e il governo tacitamente ha accettato. L’errore più grande da parte della F. T. C è stato permettere che Facebook acquisisse Instagram e Whatsapp. Quando non è riuscito ad assorbire i suoi rivali, Facebook ha usato il proprio monopolio per abbatterli o copiare le loro tecnologie. Nel frattempo, l’innovazione è cresciuta negli ambiti non monopolizzati del mercato, come il trasporto pubblico, e la criptovaluta. Non biasimo Mark per la sua corsa alla dominazione. Ha dimostrato che nulla è più nefasto della frenetica e virtuosa attività di un imprenditore talentuoso. Ma ha creato un leviatano che divora l’imprenditorialità a restringe la scelta del consumatore. Come abbiamo potuto permettere che accadesse? Il modello di business di Facebook è creato in modo da catturare quanta più attenzione possibile per incoraggiare le persone a creare e a condividere informazioni personali. Paghiamo Facebook con i nostri dati e la nostra attenzione, ed entrambe le cose non sono a buon mercato. Armi italiane: commesse più piccole, ma si moltiplicano i clienti di Rachele Gonnelli Il Manifesto., 14 maggio 2019 Il governo Conte ha autorizzato la vendita a Paesi coinvolti in conflitti e violazioni dei diritti umani, dal Qatar all’Egitto. Nessuno stop agli affari militari con l’Arabia saudita: 816 esportazioni nel 2018. Commesse più piccole ma con un parco clienti più vasto, in gran parte verso Paesi non Nato e non Ue, molti dei quali stravolti da violenti conflitti, tra i quali spiccano Qatar, Pakistan, Turchia, Emirati, India, Egitto. È così che l’Italia ha continuato a esportare volumi consistenti di armi - valore annuo complessivo di 5,2 miliardi di euro, inclusa l’intermediazione - in base alla relazione trasmessa dal governo al Parlamento, seppur tardivamente rispetto alle scadenze della legge 185, sulle autorizzazioni alla vendita concesse nel 2018. Come nota la Rete Disarmo che ieri ha analizzato i dati, siamo di fronte a un calo rispetto all’anno precedente del 53%, e addirittura del 66% rispetto al 2016, ma il livello storicamente molto alto e la moltiplicazione dei Paesi destinatari è “ancora più preoccupante”. Il sensibile calo - scrivono gli analisti della Rete - non deve far pensare a una crisi o un rallentamento nella esportazione di armi italiane perché le aziende stanno comunque incamerando contratti e possibili commesse per un valore doppio rispetto alla effettiva capacità già autorizzata. E anzi, in base a uno studio del professor Maurizio Simoncelli per Rete Disarmo, pubblicato dal sito Sbilanciamoci!, negli ultimi mesi il governo “del Cambiamento” ha firmato una cinquantina di accordi di cooperazione militare bilaterale, incluso con Niger e Corea, in modo da facilitare ulteriormente l’export di armi aggirando la normativa sulla trasparenza prevista nella legge 185. Nella relazione del 2018 non figurano poi provvedimenti di sospensioni, revoche o dinieghi per esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita che il governo Conte aveva promesso. Al contrario, sono riportate 11 autorizzazioni per l’Arabia saudita e, in un altro allegato, 816 esportazioni. Documenti semi nascosti indicano quindi tre forniture del valore di 42.139 mila euro, attribuibili alle bombe aree classe MK80 prodotte dalla fabbrica sarda della Rwm Italia che risalgono ad autorizzazioni rilasciate dal governo Renzi per la maxi fornitura a Riyadh di 19.675 bombe del valore di 411 milioni di euro complessivi. Si tratta delle micidiali bombe aeree della serie MK prodotte a Domusnovas dalla filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm con sede legale a Ghedi, Brescia, che vengono impiegate dall’aeronautica militare saudita per bombardare indiscriminatamente lo Yemen. Un rapporto Onu del gennaio 2017 ha documentato l’uso di questi ordigni nei bombardamenti di zone abitate da civili in Yemen e un secondo rapporto redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni unite ha dichiarato che questi raid possono costituire “crimini di guerra”. Rete Disarmo ricorda che, insieme ad altre due ong, Mwatana e Ecchr, ha denunciato alla magistratura l’illegalità di queste forniture belliche. L’Egitto del generale Al-Sisi risulta il terzo acquirente di armamenti italiani tra gli Stati non appartenenti a Ue o Nato. Negli ultimi anni verso il Paese dove ha trovato la morte ancora senza giustizia il ricercatore italiano Giulio Regeni sono state rilasciate 61 licenze per esportazioni di sistemi militari (valore complessivo di 31.400.207 euro). Dalla relazione - mette in rilievo Rete Disarmo - non è possibile conoscere gli specifici modelli esportati, ma è documentata l’autorizzazione nel 2018 di “armi e armi automatiche di calibro uguale o inferiore a 12,7 mm”, di “bombe, siluri, razzi, missili e accessori”, di “apparecchiature per la direzione del tiro”, di “apparecchiature elettroniche” e di “software”. Nel 2013 il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue aveva annunciato la decisione degli Stati membri di “sospendere le licenze di esportazione all’Egitto di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna”, comprensiva di brutali torture come quelle che ha subito Giulio Regeni. Migranti. Salvini minaccia Sea Watch 3: “La fermeremo in ogni modo” di Leo Lancari Il Manifesto., 14 maggio 2019 La nave della ong dirige verso la Libia. 200 i migranti arrivati nel fine settimana. E’ un Matteo Salvini particolarmente nervoso quello che ieri dà avvio alla settimana politica. “Se la nave Sea Watch raccogliesse immigrati in acque libiche o maltesi e volesse venire in Italia la bloccheremmo con tutte le modalità legali che abbiamo a disposizione”, avverte verso l’ora di pranzo rivolgendosi anche “ai nostalgici dei porti aperti presenti in parlamento”. A irritare il ministro degli Interni è la notizia che, dopo settimane di sosta nel porto di Marsiglia, la nave della ong tedesca ha ripreso il mare e sta facendo rotta verso le acque internazionali di fronte alla Libia. Come se non bastasse da Agrigento arriva la notizia che la procura di Agrigento non ha confermato il sequestro preventivo della nave Mare Jonio - che nei giorni scorsi ha salvato un gruppo di migranti - optando invece per un sequestro probatorio utile ai magistrati per l’accertamento di eventuali reati. Ha quindi sempre più l’aria di un’arma spuntata la frase che Salvini pronuncia a metà giornata: “Io tutelo l’ordine pubblico e me ne prendo gli onori e gli oneri, quindi chi entra in Italia deve avere il mio permesso”, dice. Frase che il ministro va ripetendo come un mantra da mesi ma che ormai sembra non avere più la stessa efficacia, come dimostrano i 200 migranti sbarcati nel fine settimana dopo essere stati salvati dalla nave di una ong, ma anche della Marina militare. A rendere le cose più complicate per il ministro leghista c’è poi il fatto che quello del contrasto all’immigrazione è una fronte che Salvini ha aperto anche all’interno della sua stessa maggioranza. Con Luigi Di Maio che lo punzecchia definendo come “un segno della disperazione” il decreto sicurezza-bis annunciato venerdì dal titolare del Viminale e promettendo battaglia in consiglio dei ministri. Uno scenario impensabile solo fino a qualche settimana fa. A fare da contraltare agli avvertimenti minacciosi di Salvini c’è la presenza in mare delle navi delle ong, che non rinunciano al proprio compito di ricerca e salvataggio dei migranti in fuga dalla Libia. “In queste ore siamo l’unica nave civile di soccorso in un Mediterraneo centrale che grida aiuto”, ha scritto ieri Sea Watch denunciando come, oltre al naufragio di 70 migranti avvenuto nei giorni scorsi, “altre 240 persone sono state in Libia, anche attraverso l’impiego di velivoli militari delle missioni Ue”. Domenica Moonbird, l’aereo che coadiuva la nave Sea Watch 3 nelle operazioni di soccorso, ha reso noto di aver visto migranti buttarsi in acque e provare a fuggire a nuoto all’arrivo di una motovedetta libica che voleva riportarli in Libia. Un esempio dei drammi che si consumano tutti i giorni in mare. “L’Europa sta lasciando annegare le persone come deterrente per coloro che rimangono intrappolati i Libia nei campi di detenzione in condizioni disumane e che non possono far altro che scegliere tra tortura e morte”, ha denunciato Philip Hahn, capomissione della Sea Watch 3. Intanto la decisione della procura di Agrigento di non convalidare il sequestro preventivo della nave Mare Jonio e di emettere un nuovo provvedimento di sequestro probatorio, è stata definita “importante” da Mediterranea, la piattaforma alla quale la nave fa riferimento, per la quale la scelta dei pm “è orientata dalla necessità di accertare i fatti e dunque di verificare attraverso un’indagine se vi sia o meno un reato. Come sempre - conclude l’ong - noi siamo pronti a fornire ogni elemento utile per accertare la verità”. Cannabis shop osservati speciali Avvenire., 14 maggio 2019 Più controlli per i negozi che vendono la cannabis light. in Italia ce ne sono migliaia non tutti ligi alle regole. Il giro di vite, contenuto in una direttiva del ministero dell’Interno, è arrivato la scorsa settimana. E per tre negozi di Macerata, Porto Recanati e Civitanova Marche, sono stati disposti i sigilli per irregolarità. Parliamo dei negozi che vendono prodotti ottenuti con le infiorescenze femminili della “Canapa Sativa”, dalla quale si possono ricavate estratti per uso alimentare, biscotti e torte, ma anche cosmetici o tessuti. Nel nostro Paese, ormai, ce ne sono migliaia. Ma c’è il sospetto che non rispettino la legge e il Viminale ha disposto “servizi di osservazione” in tutta Italia, per verificare sia le caratteristiche dei prodotti esposti sugli scaffali, sia che i punti vendita siano distanti (almeno 500 metri) da scuole, parchi gioco, ospedali. Dal 20 I 7, in Italia è permessa la vendita di alcuni prodotti contenenti la cosiddetta cannabis light (si legge lait e si traduce con “leggera”) a patto che la concentrazione di “tetraidrocannabinolo” (sembra uno scioglilingua, ma è il nome scientifico del principio attivo che identifica quella sostanza stupefacente) sia compresa fra lo 0,2 e lo 0,6%. Negli anni, sulla questione si sono susseguite pronunce contrastanti della Corte di Cassazione. E, a livello scientifico, i dubbi restano. Il Consiglio superiore di sanità, massimo organo consultivo del ministero della Salute, non ha escluso “la pericolosità dei prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa”, soprattutto nel caso in cui vadano a interagire con malattie concomitanti, stati di gravidanza o di allattamento o con alcune medicine. In più, recenti ricerche hanno dimostrato come, acquistando una trentina di grammi di prodotto “grezzo” venduto lecitamente, chiunque possa in I5 minuti a casa propria - munendosi di un “estrattore” acquistabile su internet per pochi euro - ottenere una quantità di sostanza sufficiente per farsi una canna. Ciò significa che, alla prova dei fatti, la cosiddetta cannabis light davvero leggera non è. Il 30 giugno, il Viminale riceverà dai prefetti un primo rapporto sulla situazione, con le sanzioni adottate nei confronti dei negozi ispezionati. E si capirà quanti siano effettivamente fuorilegge. Violenza sulle donne, arma di guerra di Fausta Chiesa Corriere della Sera., 14 maggio 2019 Il 23 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione volta a combattere l’uso dello stupro come arma in guerra. Una buona notizia? Non proprio. ll documento è uscito ampiamente impoverito dopoti veti posti da Stati Uniti, Russia e Cina, che si sono uniti in una strana alleanza per “annacquare” i diritti delle vittime. A dirlo non sono soltanto le Ong - tra queste l’italiana Fondazione Pangea e Amnesty International - e le attiviste come Amal Clooney, ma gli stessi Paesi che si sono battuti per avere una risoluzione che desse più poteri, in primis la Germania, e la stessa Italia attraverso l’ambasciatore Stefano Stefanile, rappresentante permanente a New York, che sperava in un testo “più onnicomprensivo e inclusivo”. Dalla bozza su cui Berlino aveva lavorato duramente la stana alleanza ha imposto di eliminare l’istituzione di un nuovo e specifico organismo per monitorare e segnalare gli stupri. E su pressioni di Washington è stato tolto ogni riferimento alla “salute riproduttiva” che, per estensione, costituiva il sostegno all’interruzione di gravidanza per le vittime di violenze sessuali in guerra. Alla riunione avevano partecipato, oltre al ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres e i premi Nobel per la Pace 2018 Nadia Murad e Denis Mutwege, che ci ricordano gli esempi più recenti dello stupro come arma di guerra. Nadia Murad è una delle 6.700 e più donne yazide fatte prigioniere in Iraq, torturate e violentate dagli uomini dell’Isis. “Ma è con la guerra della ex Jugoslavia negli anni Novanta e con la denuncia da parte di associazioni di donne che lo stupro emerge come arma di guerra, utilizzata in maniera massiccia e sistematica”. Nel febbraio del 2001 per la prima volta il reato di violenza sessuale contro le donne è considerato un crimine contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale dell’Afa per la ex Jugoslavia. Una sentenza storica condanna tre miliziani serbo-bosniaci per lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale di donne. Le associazioni umanitarie calcolano che tra il 1992 e il 1995 tra le 20 e le 30mila vittime della guerra nella Bosnia-Erzegovina furono abusate dalle forze nazionaliste. Mai casi che arriveranno all’Aia saranno una percentuale piccolissima rispetto al dramma. Le violenze sessuali arrivano poi in Kosovo dal 1996 al 1999 e dopo i Balcani proseguono con altri protagonisti - i soldati della Federazione russa - nella guerra in Cecenia dal 1999 al 2009, con testimonianze riportate da Human Rights Watch, che documenta anche gli stupri in Sierra Leone durante la guerra civile che termina nel 2002. In Africa lo stesso schema di stupri si ripete in Ruanda con il conflitto tra Hutu e Tutsi. “Nei Balcani e in Africa sub-sahariana ci sono decine di migliaia di donne che attendono giustizia”, dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Nella Repubblica Democratica del Congo i conflitti e gli stupri iniziati negli anni Novanta proseguono ancora oggi. Lo stesso accade in Sud Sudan oggi e in passato a causa del genocidio del Ruanda che ha avuto un’incidenza altissima di stupii di guerra”. Non ha fatto eccezione la guerra in Iraq con le violenze sessuali perpetrate dai soldati americani, conosciuti anche per gli abusi sulle donne giapponesi in tempo di pace, sin da quando nel 1945 hanno base nell’isola di Okinawa. “Lo stupro è un’arma per spaventare - spiega Simona Lanzoni - ma è anche usato come pulizia etnica. E questo è accaduto contro le yazide in Iraq e accade contro le rohingya in Myanmar. Se stupriamo le donne, i figli non saranno rohingya: questa è la logica”. Per Lanzani la risoluzione del Consiglio di Sicurezza “delegittima le istituzioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia, come la Corte penale internazionale alla quale Stati Uniti, Cina e Russia non hanno aderito. Un accordo in controtendenza con “tutti i progressi che si stanno facendo in questo campo”. Un passo avanti, anche se molto più corto e incerto di quello che si sperava, è stato comunque fatto. Grazie alla risoluzione le varie agenzie dell’Onu potranno giustificare un budget per i progetti di assistenza alle donne. Libia. Ritorno a Derna: la città vecchia è un cumulo di macerie di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera., 14 maggio 2019 Le strade sono un susseguirsi di crateri, non c’è un edificio privo di danni: il secondo centro della Cirenaica è in ginocchio. Il cuore della città vecchia è ridotto a cumuli di macerie. Siamo nell’ennesimo luogo di distruzione e morte, tra i tanti che ormai inquinano di rovine i paesaggi urbani in Libia e di larga parte del Medio Oriente. Macerie e assieme tante, infinite distese d’immondizie. Se il Paese intero è ridotto a una grande discarica, Derna, come del resto grandi nuclei quali Sirte, Bengasi e Tripoli, non fa eccezione. Non si vede edificio che non sia stato gravemente danneggiato e tutto attorno giganteschi cumuli di pattumiera emanano i loro miasmi pestilenziali. Qualcuno talvolta cerca di appiccarvi il fuoco per liberarsene e allora la situazione diventa ancora peggiore, con i fumi chimici a rendere l’aria irrespirabile. Liquami puzzolenti e carichi di veleni intanto scendono verso il Mediterraneo, ammorbano la costa, rendono inutilizzabili pozzi, ruscelli e falde freatiche. Tanti palazzi dovranno certamente essere demoliti prima di iniziare qualsiasi tipo di ricostruzione. Così, la città vecchia di Derna propone la stessa domanda che si era imposta solo pochi giorni fa visitando quella di Bengasi: se sono stati necessari tanto tempo, migliaia di vittime e distruzioni così gravi alle truppe di Khalifa Haftar per debellare le opposizioni nei due centri più importanti della Cirenaica, cosa sarà adesso di Tripoli, che è molto più grande e con un numero molto maggiore di abitanti, tra cui si nascondono milizie ben addestrate dalle battaglie degli ultimi anni e decise a resistere ad ogni prezzo? Scriviamo mentre nella zona della capitale gli scontri armati si fanno più violenti, nonostante si sperasse in una tregua per il mese di Ramadan. Il numero dei morti dall’inizio dei combattimenti, il 4 aprile scorso, sfiora ormai quota 600. Venire a Derna serve così anche per capire le dinamiche dello scontro in atto. Gli ufficiali locali dell’intelligence di Haftar ci dicono che siamo i primi giornalisti occidentali a visitarla da più di due anni. Nel gennaio 2019, dopo aver vinto a Bengasi e dopo oltre sette mesi di battaglie furiose, i soldati dell’auto proclamato Esercito Nazionale Libico agli ordini dell’uomo forte della Cirenaica riuscivano a penetrare gli ultimi bastioni della resistenza nel nido di cunicoli e postazioni di cecchini posti nei vecchi mercati coperti e presso la “Jammah al Atiqh” (la moschea antica), dove i radicali pro-Al Qaeda avevano i loro comandi. Da allora a Derna impera una calma tesa, con i posti di blocco sempre pronti e le vie del centro deserte. “Qui non ci poteva venire nessuno straniero, l’intera zona era infestata da estremisti islamici, uomini di Al Qaeda e di Isis. Ora è bonificata, anche se ci sono ancora cellule nascoste e pronte a colpire”, spiega il 35enne Anis Al Hassi. “Gheddafi, dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, li mandava come volontari a morire assieme ai radicali sunniti in lotta contro gli americani in Iraq. Oggi tanti di loro sono con le milizie estremiste a Tripoli”, aggiunge. Ma occorre distinguere tra realtà visibile sul campo e propaganda. Tra gli uomini di Haftar è consuetudine chiamare “terrorista islamico” qualsiasi oppositore. Però, a giudicare dalla vastità delle distruzioni, sia qui che a Bengasi sembra evidente che larghi strati di popolazione abbiano attivamente contribuito alla resistenza. Tra i vicoli devastati incontriamo il settantenne Nasser Abdel Qader, psicologo dell’infanzia, specializzato nelle cure della sindrome di Down. “Sono potuto tornare a vedere i ruderi del mio studio e della mia casa solo due mesi fa. Sono inabitabili, totalmente bruciati. Nessuno ci aiuta a ricostruire, manca l’Onu, non ci sono organizzazioni umanitarie. Siamo abbandonati a noi stessi”, lamenta. Scopriremo poi che due sue nipoti sono morti combattendo contro i soldati di Haftar. “Non erano jihadisti”, ci dicono. Una testimonianza sul fatto che gli oppositori appostati tra queste macerie non erano solo radicali della “guerra santa”. Ma nessuno ne parla, gli uomini dell’intelligence di Haftar sono sempre vigili, pronti ad arrestare. Sembra che nei carceri tra Derna e Bengasi siano chiusi oltre 3.000 prigionieri. Abbondano le voci (da verificare) di esecuzioni sommarie. E del resto incontriamo anche civili ben contenti che finalmente le milizie jihadiste siano state cacciate. “O noi, o loro. Con gli estremisti islamici vale solo il linguaggio della forza. Non hanno alcun rispetto della democrazia e dei diritti civili. Con che autorità obbligavano mia moglie e le nostre figlie a mettersi il velo e restare in casa?”, ci dice Ahmad, un ingegnere 65enne. Certo è che qui c’è stata battaglia dura, senza esclusione di colpi. Sembra che anche l’aviazione egiziana abbia dato manforte ad Haftar sin dal giugno 2018. Secondo Al Hassi, i nemici morti in sette mesi sarebbero circa 700. I caduti tra i soldati di Haftar “tra 800 e 1.000”. Evidenti nei muri si vedono i cunicoli scavati dalla resistenza per passare di casa in casa, sono ancora leggibili le scritte con i nomi dei morti da “martiri” con il fucile in mano. Non mancano i crateri di bombe d’aereo. Oltre il 20 per cento della zona urbana è inabitabile. Circa 20.000 dei suoi 80.000 abitanti originari sono morti, feriti o scappati. Taiwan. Il parlamento approva la pena di morte per le spie di Pechino di Riccardo Noury Corriere della Sera., 14 maggio 2019 I rapporti tra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese, si sa, sono tesi dal 1949. Pechino considera l’isola una provincia “ribelle” in attesa di essere riunificata, se necessario con la forza. La leadership taiwanese, pur con toni ufficialmente morbidi, contesta il principio di una “unica Cina” chiedendo il rispetto del sistema democratico sotto il quale vivono 23 milioni di abitanti. Impossibile persino fare una sintesi di quasi 70 anni di tensioni. Qui quello che importa raccontare è uno sviluppo preoccupante. Il 9 maggio il parlamento di Taiwan ha approvato un emendamento al codice penale che prevede anche la pena di morte per i cittadini della Cina continentale, di Hong Kong e di Macao colpevoli di spionaggio in favore di Pechino. Finora, le spie cinesi avevano ricevuto condanne lievi. Il parlamento ha anche approvato un emendamento alla Legge sulla protezione delle informazioni sulla sicurezza nazionale, che inasprisce le pene per i cittadini di Taiwan che passeranno o riveleranno a cittadini della Cina continentale, di Hong Kong e di Macao, informazioni riservate sulla sicurezza nazionale.