I luoghi dei diritti violati di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2019 Carceri con celle di 2 metri o inagibili. Ma anche le strutture di cura e le navi. La relazione annuale presentata al Parlamento da Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, fotografa le carenze dei 191 penitenziari italiani: dai cortili con servizi igienici a vista ai ‘cubicoli’ senza finestre, mentre restano la piaga dei suicidi e del sovraffollamento. Ma parla anche di altre privazioni della libertà personale: quelle che riguardano per esempio i disabili psichiatrici e quelle riservate ai migranti, durante lo sbarco prima e nei centri poi. Camere e sezioni fuori uso nelle carceri, mentre in altre celle il sovraffollamento toglie l’aria, retrobotteghe della normale detenzione dove si rischia di perdere ogni dignità. Ma anche navi bloccate in mezzo al mare dove i migranti smettono di essere persone e diventano numeri. Oppure, nelle strutture psichiatriche, stanze di contenimento senza letto, con solo una coperta sul pavimento. Sono esempi di diritti violati, in Italia, nei luoghi di privazione della libertà personale da parte dell’autorità pubblica “su cui poco si riflette”, anche quando si gestisce l’emergenza migranti e si legifera per riformare il sistema penitenziario. Lo segnala, nella relazione annuale presentata al Parlamento, Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Con diverse modalità: istituti di pena, custodia nei luoghi di polizia, permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems). Con una certa approssimazione, spesso si parla “di riconversioni di caserme per alloggiare detenuti o di locali idonei, non ben definiti” dove trattenere “persone straniere in corso di accertamenti per probabili espulsioni”. Altri luoghi vengono ‘prestati’ per accogliere temporaneamente persone ristrette: “Aerei charter per rimpatri, navi in attesa dell’indicazione di un porto sicuro”. Proprio su questi luoghi la Relazione al Parlamento cerca di accendere un riflettore. I luoghi del detenere - Si parte dai ‘luoghi del detenere’ come le celle. “Quella prevista nell’ordinamento penitenziario - spiega il rapporto - non è una ‘cella’” in quanto “la legge parla di ‘locali di soggiorno e di pernottamento’”. Nove metri quadrati per una camera singola, si calcola sulla base di una prassi amministrativa. E se nel 2015 le linee guida del Comitato per la prevenzione della tortura hanno definito uno standard minimo desiderabile di 6 metri quadri, per la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sotto quella soglia vi è la forte presunzione di violazione dei diritti umani. Non solo: si può scendere sotto i 3 metri quadrati solo se la ‘cella’ è una camera di solo pernottamento e dove la riduzione dello spazio è compensata dalla possibilità di starne fuori, impegnati in attività ‘adeguate’. Nella sfaccettata realtà dei 191 istituti penitenziari italiani - segnala il Garante - emerge un quadro molto diverso. Dal cortile al nido - Il garante nazionale si è trovato più volte a visitare cortili carcerari dove l’unica attività fisica possibile è quella di andare in circolo o avanti e indietro, con “spazi limitati, servizi igienici a vista, assenza di ripari da condizioni meteo avverse”. Nelle sale per le visite dei familiari, spesso inadeguate, la dimensione privata è pressoché inesistente. E se ai minori dovrebbe essere garantito il diritto al gioco attraverso spazi adeguatamente attrezzati, questo di frequente non avviene. “Una situazione - registra il rapporto - che spinge il genitore a evitare l’accesso in istituto dei propri bambini”. Gli asili nido che per il legislatore rappresentano l’ultima scelta, in Italia sono 19: quattro strutture sono completamente inadeguate, tre non hanno un cortile attrezzato per i bambini, in due manca una ludoteca e in altre tre i locali per i colloqui sono stati definiti non idonei per bambini piccoli. Anche le infermerie del carcere sono al di sotto degli standard. Noto il caso del carcere di Nuoro (con un reparto chiamato ‘la porcilaia’) dove è stata verificata dallo stesso Garante “la presenza di blatte e di insetti infestanti”. Poi c’è l’intercinta, lo spazio che separa le aree detentive dal muro di cinta, sempre più utilizzato “per dare un’impropria attuazione al lavoro esterno”. Sono aree sorvegliate, in cui difficilmente i detenuti possono misurarsi con nuove relazioni sociali. Poi ci sono luoghi “più opachi, sottratti a qualsiasi trasparenza, destinati a una particolare funzione che prende il sopravvento su qualsiasi considerazione di tutela della dignità di chi vi è ristretto”. È il caso della ‘Sezione filtro’ del carcere di Torino ‘Lorusso e Cutugno’, dove vengono trattenute persone sospettate di aver ingerito stupefacenti (il fenomeno dei body stuffer): sette stanze detentive prive di suppellettili e una attrezzata con il cosiddetto ‘water nautico’ e la strumentazione per l’espulsione e il prelievo degli ovuli. Per il garante le situazioni rilevate “sono inaccettabili”. I non luoghi - Nei luoghi dove viene limitata la libertà personale, si convive con diversi problemi, spesso affrontati “con una logica di sottrazione”. Alle persone si tolgono oggetti, a volte abiti. Alla stanza suppellettili, così che diventi un luogo ‘vuoto’. “Almeno nell’intenzione dichiarata, la finalità è il più delle volte protettiva” si legge nel rapporto. Ma il Garante stigmatizza l’utilizzo di celle e camere lisce nelle carceri o nei luoghi di degenza. Poi ci sono i ‘cubicoli’, diffusi in molti istituti, dove si ‘accolgono’ i nuovi arrivati prima di assegnarli a una sezione. In un istituto il Garante ne ha trovati alcuni di due metri quadrati, privi di finestre, con solo una grata a trama fitta per l’areazione, senza un campanello per le emergenze. “Persino il loro nome non è accettabile - spiega il Garante - i cubicoli delle catacombe erano camere sepolcrali. In carcere ci sono persone vive”. Qualche dato, regione per regione - Nel rapporto annuale il Garante nazionale critica la “quasi riforma penitenziaria”. I tre provvedimenti che dovevano dare attuazione alla normativa, emanati il 2 ottobre 2018 dopo un iter travagliato, hanno solo parzialmente raggiunto il loro scopo. “A distanza di due anni - scrive il Garante - continua ad aumentare la popolazione detenuta, anche se a ritmo più contenuto”. Di contro, le camere o sezioni inutilizzabili, per inagibilità o per lavori in corso, sono il 6,5% del totale. Restano casi limite: da anni ad Arezzo su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia 24 su 57 previsti, in Sardegna il 13% dei posti è fuori uso. Una fotografia della situazione viene fornita dai garanti regionali. In Piemonte, oltre al caso della ‘sezione Filtro’, c’è la vicenda della Casa di reclusione di Alba, chiusa tre anni fa per un’epidemia di legionella e su cui non si ha, tutt’oggi, contezza di un progetto definito di recupero. In Sicilia, 23 carceri e 4 istituti per minori, diverse strutture sono prive di impianti di riscaldamento e di possibilità di erogazione di acqua calda continuativa. La piaga dei suicidi - In Campania, la capienza massima delle carceri è di 6.142 persone ma, al momento, i detenuti sono 7.660. A ciò va aggiunta l’endemica carenza di personale sanitario. Nel 2018 si sono verificati nove suicidi, otto morti per malattia e cinque le cui cause devono ancora essere accertare. I suicidi sono calati in Emilia Romagna (8 nel 2017, 2 nel 2018). Nel Lazio, il Garante regionale Stefano Anastasia, come raccontato da ilfattoquotidiano.it, ha presentato un esposto dopo il suicidio di un detenuto del carcere di Viterbo. Sono diverse, però, le lettere inviate dai detenuti anche all’associazione Antigone e che raccontano di ‘celle lisce’, presunte violenze e continue umiliazioni. Tre suicidi in un anno e quattro inchieste aperte sulla situazione del ‘Mammagialla’. Complessivamente negli istituti penitenziari per adulti del Lazio, il tasso di affollamento è del 124% (in Italia è del 118%). In Trentino, nel carcere Spini di Gardolo, tra novembre e dicembre 2018 si sono tolti la vita due detenuti. Il 22 dicembre è scoppiata una rivolta. I luoghi del rinviare - I luoghi del rinviare sono quelli di trattenimento o detenzione amministrativa dei migranti. Principalmente luoghi di attesa: di espulsione, respingimento, del volo di ritorno se ritenuti inammissibili. Locali in cui si aspetta per giorni o per mesi. “La privazione della libertà nei confronti degli stranieri irregolari - spiega Palma - è ormai lo strumento privilegiato per controllare i flussi migratori”, principalmente nel decreto Sicurezza e immigrazione, adottato il 4 ottobre 2018. Provvedimento, ricorda il Garante, approvato d’urgenza “malgrado l’indubbia drastica riduzione degli sbarchi”. È stata ampliata la mappa dei luoghi di possibile privazione della libertà personale dei migranti irregolari: estesi i termini di durata massima della misura restrittiva e i motivi per cui l’autorità di pubblica sicurezza può farvi ricorso. La nuova norma riduce l’esclusività dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), di cui Palma ha più volte denunciato le criticità, come luoghi di privazione della libertà. Possono esserlo (e per tempi più estesi), anche “delle non meglio determinate strutture nella disponibilità delle Questure”. Ci sono poi le ‘sale di attesa’ alle frontiere, negli aeroporti o nei porti, ma sono luoghi di privazione della libertà anche gli aerei sui quali vengono effettuati i voli di rimpatrio forzato o le navi di salvataggio su cui arrivano, soprattutto dalla Libia, i migranti alla ricerca di un futuro. Il Garante è intervenuto più volte nei casi in cui si è protratta l’impossibilità di sbarcare per navi con a bordo persone recuperate in mare: dalla Sea Watch alla Diciotti, fino alla danese Alexander Maersk. Palma considera irragionevole “osservare da una parte il divieto di respingimento verso la Libia”, dove i migranti respinti verrebbero torturati “e, dall’altra, incitare le imbarcazioni private che prestano soccorso ad affidarsi alle autorità di tale Paese”. Chiaro il messaggio alle istituzioni italiane: “Le persone non possano mai divenire mezzo per raggiungere un qualsiasi obiettivo, neppure per inviare un segnale all’Europa”. I luoghi della cura - Nella relazione anche un capitolo dedicato ai luoghi della cura, dalle ambulanze alle stanze per la contenzione, ad esempio, in strutture per disabili psichiatrici. In alcune di esse i dehors “a volte simili a residui manicomiali, sono strutturati dentro ampi complessi recintati”. Veri e propri labirinti di giardino “sembrano richiamare, simbolicamente, l’internità autoreferenziale del disagio”. In queste strutture esistono stanze della contenzione senza letto, “solo una coperta di lana marrone per terra”. Sono stanze di isolamento, pensate per tranquillizzare. In pochi casi, sono separate da un vetro a parete che permette a chi è dall’altra parte una vigilanza continua “molto più spesso, separazione, campanello, pareti bianche”. Il decreto spazza-diritti di Armando Spataro La Repubblica, 13 maggio 2019 Ordine e sicurezza pubblica: con l’introduzione del testo si compirebbero scelte strumentali, palesemente incostituzionali e gravemente lesive dei diritti fondamentali. È stato annunciato un nuovo decreto legge in materia di “ordine e sicurezza pubblica”. Il testo, iniziato a circolare ancor prima dell’approvazione da parte del Consiglio dei ministri, ha un chiaro sapore elettorale. Ancora una volta non sono note le ragioni di urgenza che potrebbero legittimare la procedura, ma quel che è più grave è che con l’introduzione del decreto si compirebbero scelte strumentali, palesemente incostituzionali e gravemente lesive dei diritti fondamentali. Già con i “pacchetti sicurezza” degli anni 2008-2009 varati dal Popolo della Libertà con la Lega, l’Italia sembrò aver cambiato pelle: il tema della sicurezza, facendo presa sulla paura e insofferenza della gente, era diventato la priorità del nuovo governo, favorendo, come oggi, sentimenti di odio e intolleranza. Ma oggi, se possibile, con quest’altro “decreto spazza-diritti”, si profila qualcosa di peggio: si insiste sulla declamata politica dei “porti chiusi” (in sé impraticabile se non in presenza di gravi e specifici rischi per la sicurezza e l’ordine pubblico dello Stato di approdo) e, in base al concetto di “soccorso illegale” (una definizione illogica e lessicalmente contraddittoria, che avrebbe senso giuridico solo in caso di provato accordo criminale tra le Ong e i trafficanti di migranti), si arriva a prevedere assurde sanzioni pecuniarie al solo scopo di paralizzare l’azione di soccorso dei migranti che coraggiosamente continuano a svolgere le poche organizzazioni non governative ancora in grado di operare in un Mediterraneo sempre più plumbeo. Si ignora, in tal modo, che proprio sulla base di precisi obblighi internazionali (oltre che di doveri etico-sociali), quelle navi cercano lodevolmente di soccorrere coloro che rischiano la propria vita per sfuggire a guerre e a disperanti condizioni di vita. Ci troviamo di fronte, invece, a un progetto di norma che sembra prevedere un divieto di salvataggio con conseguente accettazione del rischio di un maggior numero di morti per annegamento: forse l’anticamera per analoghe sanzioni a carico di chi ospita o sfama gli stranieri anche sulla terraferma? Viene attribuita alle Procure distrettuali la competenza per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: una scelta irragionevole che accentua la centralizzazione del pubblico ministero e sembra scommettere su una sorta di maggiore prevedibilità di decisioni conformi allo spirito di tempi così bui. Limitando le competenze del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti alle sole finalità di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino si realizza un’anomala concentrazione di poteri in capo al ministro dell’Interno, turbando gravemente i delicati equilibri istituzionali che presidiano le competenze statuali in materia di difesa e sicurezza. Nella stessa scia si pone la scelta di commissariare il ministero della Giustizia, prevedendo l’istituzione di un commissario straordinario nominato su proposta del ministro dell’Interno per gestire l’assunzione a termine di 800 persone destinate alla notifica delle migliaia di sentenze oggi ineseguite per la nota carenza di personale amministrativo, in particolare nelle Corti di appello. Un problema reale, ma sfruttato politicamente per alimentare paure e soffiare sul fuoco dell’insicurezza collettiva. Per di più violando le prerogative costituzionali del ministro della Giustizia e sostituendosi ai poteri di organizzazione degli uffici giudiziari spettanti ai loro dirigenti, talvolta dimentichi che prima di invocare nuove risorse, avrebbero il dovere di dimostrare che quelle disponibili sono state utilizzate al meglio. È auspicabile che il presidente del Consiglio dei ministri e il ministro della Giustizia, entrambi avvocati, così come tutti i componenti del Governo, sappiano respingere questa ennesima deriva populista che si presta a plurime censure di incostituzionalità, privilegiando il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, la divisione dei poteri e il riparto di competenze nell’ambito dell’Esecutivo. Il grande affare delle toghe. Business da cinque milioni per i magistrati-professori di Nicola Lillo e Gianluca Paolucci La Stampa, 13 maggio 2019 Il prossimo concorso in magistratura sarà tra circa venti giorni: per le prove del 4, 5 e 7 giugno si sono iscritte 14.684 persone, anche se, in media, negli scorsi anni alla Fiera di Roma se ne sono presentate la metà. I più o meno giovani laureati in Giurisprudenza concorrono a 320 posti da giudice. Quello in magistratura è uno dei concorsi pubblici più difficili d’Italia. E si dimostra essere anche un business da diversi milioni di euro. Una vera e propria macchina da soldi. Quasi ogni anno il ministero bandisce un concorso da 300-350 posti, a cui migliaia di laureati concorrono. Ma prima di arrivare ai giorni delle prove c’è un percorso lungo, fatto di studi, ansie e insicurezze. E soprattutto fatto di corsi privati: sono cinque le scuole di specializzazione più importanti, che assieme fatturano tra i 5 e i 6 milioni di euro all’anno. Sono tutte società a responsabilità limitata con nomi che dicono poco o nulla: Diritto e scienza, Lexfor, Ita, il Diritto, Carlo Galli Srl. Per i “concorsisti” ciò che conta è però il magistrato che tiene i corsi. I nomi sono di giudici importanti come Caringella, Santise, Galli, Giovagnoli, Garofoli e Bellomo. Sono loro, le loro lezioni, l’esperienza e le conoscenze a rendere attraenti i corsi, dove migliaia di aspiranti magistrati si iscrivono con la speranza di affinare la preparazione. L’esame consiste in tre prove da scrivere a mano: temi di diritto civile, penale e amministrativo. Poi dopo un anno di attesa si conoscono gli esiti e chi riesce a passare questo primo difficile ostacolo va alle prove orali. Nel frattempo gli aspiranti magistrati continuano i propri studi, per tentare un altro scritto o, qualora quello precedente fosse piaciuto ai commissari, per tenersi “allenati” in vista delle prove orali. La media di chi ha successo è di un concorsista ogni dieci. Questo sistema è un vortice che rischia di durare molti anni: ci sono studenti che tentano il concorso più volte, anche fino ai 35-40 anni di età. La gran parte dei “concorsisti” si affida così alle scuole private. E il giro d’affari è enorme. I “magistrati-professori”. Va però precisata una cosa: come prevede il Consiglio superiore della magistratura, i magistrati ordinari non possono tenere corsi di specializzazione, soprattutto perché alcuni di essi sono all’interno delle commissioni esaminatrici. Discorso diverso per i giudici amministrativi, che non rispondono al Csm: per loro è stata diffusa una delibera che vieta di tenere corsi per l’accesso alla magistratura amministrativa, ma non a quella ordinaria. Non è un caso dunque che i giudici prima citati siano tutti al lavoro nei Tar o al Consiglio di Stato: nelle diverse società che si occupano della preparazione ai concorsi hanno il ruolo di direttori scientifici, gestendo e tenendo le lezioni, figurando dunque come semplici consulenti. Uno dei corsi più gettonati è Lexfor, che offre lezioni a Milano, Napoli, Roma e in altre città oltre che in streaming. Sono diverse le offerte: si va dal corso ordinario (500 euro a bimestre, 2.500 euro da settembre a giugno), alla full immersion di due giorni (200 euro). I direttori scientifici di questa società sono due magistrati del Consiglio di Stato: Francesco Caringella, 53 anni, presidente di sezione, noto giallista e impegnato in queste settimane a presentare il film “Non sono un assassino” tratto dal suo romanzo, e Roberto Garofoli, 53 anni, anch’egli presidente di sezione al Consiglio di Stato e, fino a poche settimane fa, capo di Gabinetto del ministero dell’Economia, da cui è stato allontanato da Lega-Cinque Stelle perché considerato troppo vicino ai precedenti governi (ha lavorato a Palazzo Chigi durante il governo Letta e al Tesoro con Renzi e Gentiloni). Questa società è stata costituita nel settembre del 2017 con un capitale sociale di 5 mila euro. Negli ultimi tre mesi dell’anno - questi gli ultimi dati disponibili - ha avuto ricavi per 805.825 euro. Gli azionisti della società sono tre avvocati, Domenico Marcano, Matteo Carabellese e Nicola Campione. I due magistrati invece non figurano in alcun atto: sono semplici direttori scientifici. Abbiamo chiesto alla società qual è il compenso dei due giudici, ma non abbiamo avuto alcuna risposta. I numeri di questa società sono simili a quelli di altre scuole. La Ita Srl con sede a Torino si riferisce al corso “Jusforyou”, il cui direttore scientifico più noto è Roberto Giovagnoli, 45 anni, anche lui consigliere di Stato. Questa scuola offre più corsi in giro per l’Italia, ordinari (fino a 3.600 euro l’anno), accelerati (2.800 euro) o full immersion (tre giorni per 750 euro). La società ha fatturato per il concorso in magistratura 1,68 milioni nel 2017 (3,8 milioni considerando anche altri corsi di diritto): l’azienda fa capo alla S.o.i., Società organizzazione industriale Spa della famiglia Gastaldi. Dal Tar alla cattedra Altre due importanti scuole sono Iurisprudentia (della società Il Diritto Srl), con direttore scientifico il magistrato amministrativo Maurizio Santise, 41 anni, giudice del Tar, e la Rocco Galli Srl, di Rocco Galli, 75 anni, oggi in pensione, che è stato tra i primi in assoluto a introdurre questi corsi: “Sono circa 3.000 i magistrati suoi ex allievi - si legge sul sito - nonché un numero elevatissimo di commissari, consiglieri di prefettura, avvocati dello stato e avvocati ordinari”. I suoi corsi - con annesse simulazioni del concorso - vanno da un costo di 1.600 a 2.000 euro l’anno. Galli è amministratore unico della società con sede a Napoli: i ricavi nel 2017 sono stati pari a 704.999 euro. La società Il Diritto Srl, il cui direttore scientifico è il magistrato Santise, invece, nel 2017 ha avuto ricavi per 981.645 euro. I soci sono l’avvocato Salvatore Desiderio, 70 anni, di Napoli, e Valerio Desiderio, 38 anni. Anche questa scuola privata offre corsi di diverso tipo, a Napoli o in streaming. La Stampa ha chiesto a queste quattro società quanti studenti ogni anno si iscrivono - visti i ricavi enormi - e qual è la retribuzione dei direttori scientifici, per lo più magistrati in carriera. Nessuna di loro ha preso in considerazione le nostre richieste. L’unica società che ha risposto è stata Diritto e Scienza, che fa capo a Francesco Bellomo, 48 anni, noto alle cronache per il dress-code (tacchi spillo e minigonna) richiesto ad alcune corsiste. Bellomo - che era un Consigliere di Stato - è stato destituito dalla magistratura e ha dei processi a carico per stalking. La sua società - di cui detiene l’85%, mentre il 15% è di Marika Miglioranza, avvocato milanese di 43 anni - nel 2017 ha avuto ricavi per 984.405 euro. Le sue lezioni, tra Bari, Roma, Milano e in streaming, vanno dai 1.800 ai 2.120 euro l’anno (Iva esclusa), l’intensivo costa 1.600 e la full immersion di due giorni dai 200 ai 450 euro. La società ci ha spiegato che “il numero degli iscritti ai corsi per magistratura è oscillante nei diversi anni. Quest’anno didattico (2018- 2019) è complessivamente pari a circa 310 (comprensivo di corsi ordinari e intensivi). L’anno scorso era di circa 350”. E il compenso del direttore scientifico, che è sempre Bellomo? “Afferendo a un contratto di lavoro privatistico - spiegano - non può essere divulgato dalla società in forza della normativa sulla privacy”. Per i giudizi negativi su Facebook scriminante ampia del diritto di critica di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2019 Diritto di critica ampio per chi pubblica post satirici sui social network. Lo ha deciso la Cassazione che, con la sentenza 3148 del 23 gennaio scorso, ha stabilito che non commette il reato di diffamazione l’utente che in un gruppo Facebook dedicato allo scambio di informazioni sui ristoranti pubblica un finto volantino di un esercizio esistente per evidenziare in maniera satirica l’inadeguata qualità dei servizi e i prezzi eccessivi. Nel caso esaminato, il diritto di critica è riconosciuto a una persona che non esercita un’attività professionale ma che intende partecipare a un dibattito social sui locali gastronomici della sua città. In linea generale, la giurisprudenza ha affermato che la pubblicazione di un’offesa su Facebook può integrare la fattispecie della diffamazione aggravata, prevista dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, diverso dalla stampa. Questo perché il messaggio pubblicato sui social network è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (Cassazione, sentenza 2929/2019). I giudici hanno anche chiarito che per i post sui social, come accade per la stampa, per stabilire se viene commesso il reato di diffamazione, occorre bilanciare il diritto di critica con quello all’onore e alla reputazione; va applicato, tra l’altro, il requisito della continenza delle espressioni usate, alla luce del complessivo contesto dialettico in cui vengono usati toni aspri e della loro funzionalità rispetto ai fatti narrati e al concetto da esprimere. La giurisprudenza ha declinato questi concetti per i dibattiti televisivi o per discussioni in sede politica (Cassazione, sentenza 32027/2018) o per espressioni ritenute comunque gratuite e umilianti utilizzate da un blogger (Cassazione, sentenza 50187/2017). Nella pronuncia 3148/2019, la Cassazione si è occupata di una pagina Facebook con un titolo ironicamente allusivo a una celebre guida sui ristoranti di qualità, dove gli utenti potevano segnalare i peggiori locali di una città siciliana e dintorni. Su questa pagina l’imputato aveva pubblicato un finto volantino di un ristorante della città, che pubblicizzava la vendita di pasta con l’indicazione di prezzi esorbitanti. Per questo, e per i commenti successivi in cui, tra l’altro, apostrofava il titolare del locale come “truffatore”, l’uomo era stato condannato per diffamazione dai giudici di merito. Per la Cassazione, in questo caso ricorre un’ipotesi di libero esercizio del diritto di critica, capace di dare giustificazione alla condotta apparentemente diffamatoria. Il diritto di critica si concretizza in un giudizio che postula l’esistenza del fatto oggetto o spunto del discorso critico e una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere. Non possono quindi essere punite coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, se queste espressioni sono proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta legittima che si deve manifestare. Infine, la Cassazione afferma che a carico di chi pubblica un post su un social non si possono porre oneri informativi analoghi a quelli gravanti su un giornalista professionista ma si deve tener conto della diversità tra le due figure per ruolo, funzione, formazione, capacità espressive, spazio divulgativo e relativo contesto. Dal prelievo ematico e dalle modalità può scattare la guida in stato di ebbrezza di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2019 Cassazione - Sentenza 4 aprile 2019 n. 14919. Il prelievo ematico e le modalità con cui si è verificato l’incidente sono prova dell’assunzione di stupefacenti e dello stato di alterazione conseguente. Lo confermano i giudici della Corte di cassazione penale con la sentenza n. 14919 del 4 aprile 2019. Il caso - Un automobilista viene condannato per guida in stato di ebbrezza dal Tribunale di Lucca, decisione confermata anche in sede di appello dalla Corte territoriale di Firenze, per aver guidato un veicolo sotto l’effetto di stupefacenti provocando un incidente: uscito di strada aveva impattato contro un muretto in cemento armato. L’accertamento dell’assunzione di sostanze stupefacenti sul conducente era stata riscontrata con prelievo ematico, dal quale risultava che egli aveva assunto cannabinoidi, cocaina e oppiacei. L’imputato aveva ricorso per la cassazione lamentando nullità assoluta della notifica, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento dello stato d’alterazione psicofisica nonché in riferimento al trattamento sanzionatorio, con particolare riguardo al diniego delle attenuanti generiche che la Corte territoriale non gli avrebbe riconosciuto. La decisione - Gli Ermellini rigettano il ricorso ritenendolo inammissibile, per manifesta infondatezza di tutti i motivi in cui esso si articola. La Corte di merito aveva ritenuto che la modifica del domicilio eletto era stata infatti resa nota alla Corte di merito in data successiva al tentativo di notifica infruttuosamente eseguito presso il domicilio eletto in primo grado; ed è per tale ragione che, a seguito di questo tentativo non riuscito per impossibilità della notificazione, si è correttamente proceduto a notificare l’avviso di udienza presso il difensore. Inoltre nel percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale vi sono elementi che rafforzano la penale responsabilità dell’imputato, accertata sulla base della convergenza fra l’esame diagnostico e le stesse modalità dell’incidente. Ciò denota una condotta alla guida anomala, come tale ritenuta confermativa dello stato d’alterazione del guidatore. È poi corretto l’argomentare della Corte laddove si precisa che gli esiti del prelievo ematico deponevano per una recente assunzione di vari tipi di stupefacenti in quantità elevate. Del resto, pur avendo la Corte dato conto delle dichiarazioni dell’imputato nelle quali egli sosteneva di avere assunto droghe nei giorni precedenti, e non in occasione del sinistro, gli accertamenti di laboratorio eseguiti a seguito di prelievo ematico presentano notoriamente una ben maggiore valenza dimostrativa dell’immanenza dello stato di alterazione rispetto a quanto accade con le analisi delle urine. Anche per quanto attiene al trattamento sanzionatorio la Corte ha evidenziato che la pena è stata applicata muovendo dal minimo edittale. È pur vero che nemo tenetur se detegere e che mai può pretendersi dall’imputato che egli renda piena e integrale confessione, ma la mancata ammissione delle proprie responsabilità costituisce un dato non certo positivo di valutazione ai fini della concessione di un più benevolo trattamento. L’onere motivazionale del sequestro del corpo di reato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2019 Prova penale - Mezzi di ricerca della prova - Sequestro probatorio - Provvedimento di sequestro - Obbligo di motivazione - Natura delle cose oggetto di sequestro - Corpo del reato - Sussiste. L’obbligatorietà della motivazione del decreto di sequestro ai fini probatori, ricavabile dallo stesso dettato della norma di cui all’art. 253, c. 1, c.p.p., ha carattere assoluto e non ammette differenziazioni di sorta tra corpo del reato da una parte e cose pertinenti al reato dall’altra, e dunque opera indipendentemente dalla natura delle cose da apprendere ai fini di prova. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 2 maggio 2019 n. 18316. Prova penale - Mezzi di ricerca della prova Sequestro - Oggetto - Beni costituenti corpo del reato - Obbligo di motivare le finalità probatorie - Sussistenza. L’onere motivazionale del provvedimento di sequestro del corpo di reato trova la sua ratio nella tutela dei diritti dell’individuo costituzionalmente garantiti, tra cui certamente il diritto alla protezione della proprietà. Il giusto equilibrio tra i motivi di interesse generale e il sacrificio del diritto del singolo al rispetto dei suoi beni sarebbe infatti messo in crisi dall’opposta regola di legittimità tout court del sequestro probatorio del corpo di reato indipendentemente da ogni riferimento alla concreta finalità probatoria perseguita. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 2 maggio 2019 n. 18316. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Oggetto - Cose costituenti corpo di reato - Decreto di sequestro - Motivazione in ordine al presupposto della finalità di accertamento dei fatti - Necessità. Il decreto di sequestro (così come il decreto di convalida di sequestro) probatorio, anche ove abbia a oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una specifica motivazione sulla finalità perseguita per l’accertamento dei fatti, dovendosi escludere la sussistenza di una sorta di “obbligatorietà” del sequestro del corpo di reato tale da esonerare dall’obbligo di motivazione. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 27 luglio 2018 n. 36072. Prova penale - Sequestri - Decreto - Motivazione - Necessità - Conseguenze della omessa motivazione in merito alla sussistenza della finalità probatoria - Annullamento senza rinvio - Necessità. Nel caso di radicale mancanza della motivazione, in ordine alla necessaria sussistenza della concreta finalità probatoria perseguita in funzione dell’accertamento dei fatti, del decreto di sequestro di cose qualificate come corpo di reato, che, sebbene non integrato sul punto dal p.m. neppure all’udienza di riesame, sia stato confermato dall’ordinanza emessa all’esito di questa procedura, la Corte di cassazione deve pronunziare sentenza di annullamento senza rinvio di entrambi i provvedimenti. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 13 febbraio 2004 n. 5876. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Oggetto. Anche per le cose che costituiscono corpo di reato il decreto di sequestro a fini di prova deve essere sorretto, a pena di nullità, da idonea motivazione in ordine al presupposto della finalità perseguita, in concreto, per l’accertamento dei fatti. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 13 febbraio 2004 n. 5876. Torino: “la sedazione degli arrestati si fa in carcere, non in questura” di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2019 “Gli accertamenti di persone arrestate che hanno contrasti con la polizia devono essere fatti in carcere, non nelle camere di sicurezza”. Il procuratore reggente di Torino, Paolo Borgna, non entra nello specifico del caso di Ndiaye Migui, ma sottolinea che “al momento è stato soltanto aperto un fascicolo modello 45, cioè nessun poliziotto risulta indagato”. Per capire cosa è successo nel commissariato Dora Vanchiglia ci vorrà tempo. Finora sappiamo che, il 21 aprile, la polizia è stata aggredita da un senegalese irregolare, Ndiaye Migui, già depositario di due provvedimenti di espulsione. L’uomo viveva ancora in una baracca ed era armato di oggetti contundenti. A farne le spese è stato un agente. Portato in commissariato, l’uomo si sarebbe rifiutato di farsi identificare e avrebbe dato in escandescenza. A quel punto, stando alla ricostruzione del Corriere di Torino, sarebbe stato chiamato il 118 il cui personale lo avrebbe sedato per permetterne il prelievo delle impronte. Una procedura, la sedazione, che anche in Piemonte richiede la presenza di un medico, di concerto con il magistrato. La Procura adesso dovrà chiarire chi ha disposto la sedazione - secondo il questore De Matteis esiste un vuoto normativo - e se la sedazione di un arrestato è consentita per le impronte. La questione, in realtà, è più ampia: “Ci sono molti aspetti da mettere a punto - dichiara al Fatto Borgna, che ha incaricato l’aggiunto Patrizia Caputo di aggiornare il protocollo in uso. Quando ci sono contrasti, gli accertamenti vanno eseguiti in carcere, dove c’è personale preparato, medici e psicologi. Con il Garante dei detenuti e la Regione, stavamo già rivedendo le pratiche di chi ingoia ovuli di cocaina. Ora abbiamo allargato la discussione”. Siena: campi di lavoro per giovani nella tenuta sequestrata di Suvignano Redattore Sociale, 13 maggio 2019 La tenuta di Suvignano a Siena apre le sue porte a giovani volontari in arrivo da tutta Italia pronti a partecipare al campo di lavoro sulla legalità promosso da Arci Toscana dal 29 giugno all’8 luglio. Le iscrizioni sono già aperte, con possibilità di partecipare a un’iniziativa che coinvolgerà i partecipanti in attività lavorative nei terreni della struttura, alternate a workshop, momenti di studio, informazione e formazione sui temi della lotta alla mafia. Il campo di lavoro, intitolato “Suvignano #benecomune” si colloca nel programma dei campi di lavoro “Estate in campo” promossi dall’Arci nazionale in tutta Italia e conta sul partenariato di Arci Siena, Comune di Murlo, sezione soci di Monteroni d’Arbia di Coop Centro-Italia e Circolo Arci Vescovado di Murlo. Il campo di formazione ed educazione alla legalità a Suvignano è il primo organizzato in Toscana in un bene confiscato alla mafia e segna l’avvio del riutilizzo sociale della tenuta. Con questa iniziativa, inoltre, la tenuta di Suvignano rafforza il suo ruolo di simbolo della cultura della legalità in Toscana dopo la lunga battaglia che ha impegnato istituzioni, associazioni e semplici cittadini e che ha portato, pochi mesi fa, ad assegnare all’Ente Terre Regionali, ente pubblico di emanazione della Regione Toscana, la tenuta confiscata nel 2007 a Vincenzo Piazza, imprenditore palermitano vicino al boss Bernardo Provenzano. “Suvignano #benecomune” prevede la partecipazione dei giovani ad alcuni lavori agricoli nell’orto didattico e nell’oliveto e momenti di formazione e approfondimento sui temi delle mafie con un workshop di fotografia sociale e di documentazione e un laboratorio giornalistico su “La mafia raccontata” tenuto dal giornalista de La Repubblica Attilio Bolzoni. L’iniziativa prevede anche visite guidate al patrimonio artistico e culturale della città di Siena, proiezioni di film, presentazioni di libri, incontri con rappresentanti del mondo dell’associazionismo culturale giovanile e delle istituzioni e iniziative culturali e ludiche promosse sul territorio. Per tutta la durata del campo, i partecipanti saranno affiancati e guidati da coordinatori e coordinatrici Arci con esperienza nel settore. “Ci piacerebbe che a Suvignano venissero tante ragazze e tanti ragazzi da tutta Italia, ma soprattutto dalla nostra regione - auspica il presidente di Arci Toscana, Gianluca Mengozzi - Perché capiscano, toccando questa realtà con mano, che la mafia non ha confini territoriali, non è qualcosa di lontano e che non ci tocca. La lotta alla mafia e l’educazione alla legalità sono temi che riguardano tutta la comunità e noi, come Arci Toscana, non possiamo che garantire un lavoro sempre più capillare e deciso per far crescere i nostri giovani con la consapevolezza di quanto siano necessari e indispensabili, per vincere questa lotta, la volontà e l’impegno di ciascuno, ovunque”. Lecce: a Borgo San Nicola il riciclo del legno come metafora di ritorno alla vita di Carmine Sanasi agoranotizia.it, 13 maggio 2019 Evento finale con le istituzioni e mostra sui lavori di design dei detenuti. Non tutti sanno che all’interno dell’Istituto Penitenziario di Borgo San Nicola, a Lecce, c’è una delle più grandi falegnamerie carcerarie ad oggi in funzione. Ne sono rimaste pochissime su tutto il territorio nazionale e quella salentina si distingue per dimensione e numero di detenuti che sono stati impiegati nella lavorazione del legno. È in questo contesto che è nato il progetto “Sprigionarte”, realizzato da Aforisma School of Management in partenariato con le associazioni Culturambiente Onlus e Linfa e finanziato dalla Regione Puglia, Assessorato Formazione e Lavoro, Por-Fesr 2014-2020*. L’obiettivo del percorso, finalizzato all’inclusione socio-lavorativa di chi attualmente sta scontando una pena, è il rilascio della qualifica professionale di falegname per 10 detenuti della casa circondariale di Lecce, che hanno frequentato un corso di formazione della durata di 900 ore. Nell’ambito del corso, poi, un focus didattico è stato dedicato al riuso dei materiali e all’Eco Design, che ha portato alla realizzazione di una serie di manufatti realizzati con legno di scarto in un’ottica di design creativo. Un’attività che è stata scelta anche perché il concetto di upcycling può essere usato come metafora per reinventare se stessi e risvegliare l’intelligenza emotiva e creativa dei detenuti. Il progetto è arrivato alla sua conclusione e l’evento di chiusura - aperto alla stampa - si terrà martedì 14 maggio, dalle 16.30 alle 18.30, alla Casa circondariale, in via Paolo Perrone, 4 a Lecce. Oltre ai saluti istituzionali e all’illustrazione del progetto e di come è stato portato avanti nei mesi passati, si potrà visitare la “Piazza Nomade”, allestita nella sala del Teatrino, interattiva e dinamica, che prevede anche la presentazione di alcuni manufatti realizzati con la tecnica del recupero e del riciclo, come il carretto della raccolta differenziata, il tavolo infinito e le panchine green, il bar su ruote. L’esposizione prevede un racconto cronologico dell’esperienza, dal project work allo stage, mostrando al pubblico il percorso pratico degli allievi partendo dalle prime esercitazioni fino ai prototipi della collezione. I primi mesi di formazione, invece, sono stati dedicati a prendere confidenza con la falegnameria e i suoi strumenti, con lo studio e l’applicazione delle nozioni di base, lo scambio di competenze con il turn over dei docenti, che ha portato ad una serie di manufatti lignei, come i cofanetti a incastro, gli orologi da parete, il restauro di mobili d’epoca e soprattutto la produzione interna degli arredi carcerari. Napoli: le detenute di Pozzuoli con la piccola Noemi “basta armi e odio” Il Mattino, 13 maggio 2019 Una lettera scritta dalle detenute del carcere di Pozzuoli alla direttrice Carlotta Giaquinto, alla quale hanno chiesto di renderla pubblica perché indirizzata alla piccola Noemi. “Speriamo vivamente e preghiamo tutte affinché la lotta per la vita di Noemi possa essere vinta dal bene che già le vogliamo e che le mandiamo con il pensiero - recita la missiva. Le detenute di Pozzuoli dicono basta!”. Un messaggio chiaro e diretto. “Siamo disgustate ed arrabbiate per l’accaduto e, vista la nostra posizione di detenute - continuano - vogliamo lanciare da qui un appello per tutti quelli che sono fuori: basta odio, basta armi, basta morti. Appoggiamo totalmente l’iniziativa della città sul disarmo della violenza perché, prima che detenute, siamo sorelle, mogli e mamme. Prendiamo le distanze da questo gesto perché noi che siamo qui abbiamo imparato che la violenza è una strada senza uscita e senza futuro e non ha motivo di manifestarsi soprattutto in luoghi pacifici come un bar. Un caffè con un amico non può trasformarsi in una tragedia”. La parte finale della lettera è poi molto significativa. “Noi abbiamo sbagliato ed è per questo che la nostra è tra le posizioni, quella più dura, la più spietata, perché meglio di chiunque altro sappiamo che prima di commettere un errore si può scegliere di non farlo - conclude. Invitiamo le forze dell’ordine a non fallire di nuovo e a prendere la situazione sotto controllo, perché li poteva esserci un nostro figlio. Crediamo che nessuno meriti di morire per mano di un altro uomo e soprattutto un bambino”. Lecco: “Cento lettere. Dalla sbarre alle stelle”, una storia vera per gli studenti del Fiocchi leccoonline.com, 13 maggio 2019 Giovedì 9 maggio alle 20.45, presso l’aula magna dell’Istituto P.A. Fiocchi, i ragazzi del quarta Tecnico per l’automazione industriale hanno accolto Fabio Masi, regista e autore Rai, scrittore del libro “Cento lettere. Dalla sbarre alle stelle”, da cui ha tratto uno spettacolo teatrale messo in scena dai detenuti del carcere di Pescara, dove Attilio Frasca, protagonista della storia e coautore del libro, si trova detenuto per scontare una lunga pena. La serata, che ha riscosso un notevole successo di pubblico, ha rappresentato il momento finale di un percorso che ha impegnato la classe per buona parte dell’anno scolastico. Infatti, la proposta dei ragazzi è stata quella di un dialogo aperto a tutta la città per condividere un cammino che è partito dalla selva oscura di Dante, li ha visti poi partecipare all’iniziativa “Diamoci un’altra chance” nel mese di aprile presso il Municipio di Lecco (dove hanno provato la cella simulata e conosciuto meglio la realtà delle Apac brasiliane) e, infine, si è poi impattato con la storia di Attilio Frasca. In questo percorso moltissime sono state le domande sorte tra gli studenti, che durante la serata hanno ripetutamente interpellato Masi: si può davvero uscire dalla propria selva oscura? È sempre possibile cambiare? Com’è possibile sbagliare tanto senza rendersi conto del male che si sta facendo? Masi non ha glissato su alcuna domanda e ha raccontato come quest’uomo, che certamente ha sbagliato molto, ora stia percorrendo da anni un lungo e non semplice cammino di coscienza del male fatto e di redenzione. “In una società dove l’imbarbarimento dell’adolescenza sembra sempre dietro l’angolo e i ragazzi sembrano essere quasi solo attori delle cronache peggiori (basterebbe pensare a quanto accaduto a Manduria poche settimane fa)” hanno commentato la prof. Giuditta Boscagli responsabile dell’iniziativa e docente di italiano e storia e il dirigente scolastico Claudio Lanfranconi “è stato eccezionale vedere studenti così desiderosi di mettersi in gioco, di dialogare, di scoprire meglio per quale grandezza è fatta la loro vita, pur dentro tutti gli sbagli grandi e piccoli di cui è fatta la quotidianità di tutti. Uscendo dalla sala alla fine dell’incontro i presenti erano stupiti di come questi ragazzi abbiano mostrato per una sera di essere veri protagonisti del proprio cammino, intuendo che c’è un modo di affrontare la vita che le dà più gusto e risvegliando anche in noi adulti il desiderio di fare i conti fino in fondo con ciò che davvero siamo e desideriamo per noi stessi e per chi ci circonda”. Firenze: detenuti-corridori dentro le mura di con Vivicittà gonews.it, 13 maggio 2019 Una competizione speciale si è svolta sabato 11 maggio all’interno della Casa circondariale Mario Gozzini di Firenze, dove i detenuti insieme ad una rappresentativa di runners hanno dato vita alla terza edizione di Vivicittà. Un appuntamento che Uisp - Unione Italiana Sport Per tutti, ha riproposto anche quest’anno nel segno della solidarietà nei confronti di chi vive recluso. Vivicittà, manifestazione che si svolge in oltre 34 città in Italia, 17 all’estero e che coinvolge migliaia di cittadini, ormai da anni varca anche i cancelli dei penitenziari e vede la partecipazione delle realtà sportive del territorio. A raccogliere l’appello del Comitato fiorentino UISP, il G.S. Le Torri con la presidente Catia Ballotti e la Polisportiva Oltrarno con il presidente Gino Sarti: una pattuglia motivata di podisti ha corso insieme a 60 detenuti, percorrendo 5 giri del cortile interno della struttura. A fare il tifo gli operatori Uisp che portano avanti durante tutto l’anno progetti in carcere, gli educatori e gli agenti di polizia penitenziaria. Sul motto mai tramontato de “l’importante non è vincere ma partecipare”, la Direttrice della Casa Circondariale, dottoressa Antonella Tuoni, ha ringraziato gli organizzatori e ha espresso la volontà che questi eventi possano in futuro ripetersi, perché rappresentano un’importante occasione di condivisione di sani valori. A vincere quest’anno Francesco, detenuto che è stato premiato con la coppa della manifestazione dalla direttrice e da Marco Ceccantini Presidente Uisp Firenze che ha dichiarato come lo sport sociale sia uno strumento prezioso per dare la possibilità anche a chi ha commesso degli errori, di trovare e seguire la strada giusta. Roma: da Rebibbia al campionato di rugby, il debutto in libertà del detenuto Mirko di Paolo Ricci Bitti Il Messaggero, 13 maggio 2019 I Bisonti, soprattutto quelli che giocano a rugby, non si fermano: per il detenuto Mirko un altro primato nella storia di chi cerca e trova il riscatto inseguendo una palla. Il 17 aprile scorso il 38enne romano, da 11 anni a Rebibbia e con altri 4 e mezzo da scontare, era diventato il primo recluso italiano a tornare in libertà per allenarsi con la squadra capitolina dei Bisonti. L’11 maggio un traguardo ancora più alto: Mirko è il primo detenuto a uscire dal carcere per giocare in un campionato, quello di C2, in cui lottano i Bisonti. La direzione di Rebibbia gli ha concesso ancora più fiducia. Tanti altri detenuti in Italia, grazie al progetto della Fir “Oltre le sbarre”, fanno meta in campionati ufficiali dal 2011, ma possono farlo solo sui campi all’interno delle carceri: le squadre rivali accettano di giocare sempre in trasferta contro i XV dei reclusi. Un match “vero”, allora, quello vinto dai Bisonti di Mirko contro i Rinos sul prato smeraldo ex Cus Roma a fianco del Tevere: la C2 è la serie più bassa, ma la trafila è la stessa del Sei Nazioni. Cartellino federale, controllo dell’identità e dei tacchetti da parte dell’arbitro, il riscaldamento, il discorso del capitano, il saluto al pubblico (c’era qualche fedele, essì che c’era qualcuno in tribuna sabato al Cus), l’attesa in panchina (vorresti entrare, ma non è bello sperare che qualche tuo compagno si faccia male, però vorresti proprio entrare) poi, dopo il the all’intervallo, l’ordine dell’allenatore Stefano Scarsella. “Mirko, tocca a te, ala a destra, mi raccomando: placca basso e, soprattutto, divertiti”. Mirko è entrato, ha placcato basso (quasi, eh), ha rilanciato il gioco, si è lanciato in sostegno, ha battagliato sui palloni a terra anche se ha proprio il fisico da aletta veloce: certo, si vede che è solo da un anno che ha scoperto il rugby, e nel campetto di brecciolino di Rebibbia che sta al prato del Cus come il Sahara (zone pietrose, no le dune) al tappeto di Twickenham. Ma che impegno, che concentrazione, ce l’ha messa tutta Mirko, ha persino salvato una meta che non avrebbe cambiato il risultato, ma lui l’ha impedita lo stesso perché nel rugby, in campo, non si fanno sconti. Poi gli abbracci con i compagni, il lancio per aria della presidente Germana De Angelis, che è diventata anche la “custode” di Mirko: lo va a prendere e poi lo riporta a Rebibbia. Brava. “Dedico questo mio debutto in campionato ai Bisonti e, soprattutto, a miei compagni del carcere: sono qui anche per loro”, ha detto Mirko prima del terzo tempo, prima di tornare “oltre le sbarre”. Bravo. Napoli: a Secondigliano detenuti, agenti e volontari in campo per Noemi lacronacadinapoli.it, 13 maggio 2019 Dibattiti e partite per minori a rischio. A Secondigliano detenuti, agenti di polizia penitenziaria e volontari in campo per Noemi. Sarà dedicato alla bimba di quattro anni rimasta ferita in una sparatoria a piazza Nazionale lo scorso 3 maggio e alla lotta contro la violenza criminale “Noi di Secondigliano”, la III edizione del “Fair Play E-Vent Cup” dal titolo “Giochiamo il futuro calciando il passato”, ideato da Franca Lovisetto della E-Vent e Piermassimo Caiazzo dell’associazione O.C.C.T. che promuove l’evento insieme all’associazione Sguardo Sociale, in collaborazione con il Centro penitenziario di Secondigliano, l’Istituto comprensivo Giovanni Pascoli II-Marta Russo Plesso Carbonelli e la parrocchia dei Sacri Cuori e il Centro sportivo Andrea Capasso, con il patrocinio della VII Municipalità. Obiettivo dell’iniziativa, che verrà presentata martedì 14 maggio, alle ore 11, presso la casa circondariale “Pasquale Mandato” di Secondigliano, è quello di favorire iniziative con gli studenti delle scuole del quartiere (quarte e quinte delle elementari e medie inferiori) per prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e delle devianze minorili e della violenza in generale. Alla conferenza stampa di presentazione parteciperanno: Giulia Russo, direttrice del carcere di Secondigliano; Antimo Cicala, commissario capo della polizia penitenziaria e comandante del reparto di Napoli Secondigliano; Franca Lovisetto, organizzatrice di eventi sociali e rappresentante per l’Italia dell’O.C.C.T. ed E-Vent; Piermassimo Caiazzo, organizzatore di eventi sociale e rappresentante per la Campania dell’O.C.C.T.; Maurizio Moschetti, presidente della VII Municipalità; Anna Maria Spiezia, consulente esterno alle politiche sociali della VII Municipalità; padre Giovanni Russo, cappellano del carcere di Secondigliano; padre Vincenzo D’Antico, parrocco della chiesa dei Sacri Cuori di Secondigliano; Antonella Leardi, madre di Ciro Esposito (il tifoso partenopeo morto nel giugno 2014); Alfredo Capasso, titolare dell’omonimo Centro sportivo di via Limitone d’Arzano; Monica Marasco, dirigente scolastico dell’IC Giovanni Pascoli II - Marta Russo. Modera Celeste Napolitano, dell’associazione Amae. Il progetto si avvale in particolare della mediazione dello sport come elemento di raccordo tra i minori del territorio, spesso preda di falsi miti, e i detenuti che metteranno a disposizione le loro esperienze per insegnare ai ragazzi che la vita, come una partita di calcio, va giocata con impegno e serietà nel rispetto delle regole e dell’altro. Ancora una volta i carcerati metteranno a disposizione dei ragazzi le loro storie ed esperienze di vita come un “indicatore sociale” che descrive un pericolo da evitare e in cui si potrebbe incorrere pagando gravi conseguenze. Due gli appuntamenti della manifestazione: giovedì 16 maggio, con il dibattito e confronto con gli alunni delle classi elementari presso l’Istituto comprensivo Giovanni Pascoli II - Marta Russo di via Del Cassano (al Rione dei Fiori), dove le tematiche trattate riguarderanno: devianza e criminalità; società e individuo; attività di prevenzione della polizia di Stato; bullismo; violenza in genere; reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale; attività dei detenuti all’interno del carcere; violenza sulle donne. Interverranno: Maurizio Moschetti, presidente della VII Municipalità; Anna Maria Spiezia, consulente esterno alle politiche sociali della Municipalità; Antimo Cicala, commissario capo della polizia penitenziaria e comandante del reparto di Napoli Secondigliano; Monica Marasco, dirigente scolastico dell’IC Giovanni Pascoli II - Marta Russo; Concetta Funaro, sostituto procuratore della polizia di Stato presso la Procura di Napoli; Piermassimo Caiazzo, organizzatore di eventi sociale e rappresentante per la Campania dell’O.C.C.T.; padre Vincenzo D’Antico, parroco della chiesa dei Sacri Cuori di Secondigliano; Franca Lovisetto, organizzatrice di eventi sociali e rappresentante per l’Italia dell’O.C.C.T. ed E-Vent; modera Celeste Napolitano, dell’associazione Amae. L’evento clou si svolgerà invece il venerdì 17 maggio con inizio alle ore 9.30, presso il Centro sportivo A.S.D. Andrea Capasso (via Limitone d’Arzano, 53), dove si disputerà l’incontro-dibattito tra detenuti e alunni. Si proseguirà alle ore 10.15 con la celebrazione della santa messa da parte di don Augusto Piccoli, cappellano della polizia di Stato di Alessandria e Asti, che procederà poi alla benedizione delle squadre. Alle 11 saluto delle autorità, presentazione delle squadre e inizio del quadrangolare di calcio a 5 “3 °Fair Play E-Vent Cup 2019” tra le squadre: detenuti casa circondariale di Secondigliano; polizia penitenziaria di Secondigliano; Vivi Secondigliano; Associazione O.C.C.T. e, a seguire, l’esibizione della scuola di ballo “Latin Emotion”. Si concluderà con le premiazioni e la consegna del Trofeo Fair Play E-vent Cup alla squadra vincitrice. Il Fayr Play avrà anche quest’anno fini umanitari e filantropici. L’iniziativa, che è a cura dell’associazione internazionale O.C.C.T. nata nella sede centrale di Cittadella (Padova), prevede infatti una raccolta fondi per l’acquisto della Digni-Cap (uno speciale “casco” per evitare la caduta dei capelli durante le sedute della chemioterapia) da donare al reparto oncologico dell’ospedale di Cittadella, che sarà poi gestito insieme alle associazioni Altre Parole e Insieme per Mano ad uso gratuito per i pazienti che ne avranno necessità. Perugia: “Golose Evasioni”, questa sera si cena in carcere di Andrea Regimenti agensir.it, 13 maggio 2019 La nuova sfida del complesso penitenziario di Perugia che ha ospitato all’interno delle mura un vero e proprio ristorante in occasione della quinta edizione delle “Golose Evasioni”, cena evento promossa nell’ambito del corso di “Addetto alla cucina”, organizzato nel laboratorio del carcere di Capanne per il reinserimento sociale e lavorativo di dieci detenuti under 30. “Questa sera, si cena in carcere”. Sta tutta in un gioco di parole e in una provocazione, la nuova sfida del complesso penitenziario di Perugia che ha ospitato all’interno delle mura un vero e proprio ristorante in occasione della quinta edizione delle “Golose Evasioni”, cena evento promossa nell’ambito del corso di “Addetto alla cucina”, organizzato nel laboratorio del carcere di Capanne e previsto nell’ambito dell’avviso “Umbriattiva Giovani”, finanziato dalla Regione Umbria e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro. L’occasione è stata giovedì 9 maggio, quando i dieci detenuti under 30 del reparto penale dell’istituto perugino hanno allestito un vero e proprio ristorante per 240 commensali. Una “serata all’insegna del gusto e della convivialità - ha spiegato al Sir Luca Verdolini, responsabile dell’area giustizia di “Frontiera Lavoro” e coordinatore del progetto -, ma anche un modo per questi ragazzi di dimostrare le loro capacità”. La cena. Il corso ha previsto 255 ore di lezione e ha dato ai detenuti la possibilità di apprendere un mestiere sotto la guida di esperti chef che hanno trasmesso loro tutti i trucchi per diventare professionisti a 360 gradi, capaci di soddisfare le richieste dei clienti più esigenti. Sono stati affiancati nella preparazione della cena dai “moschiettieri del Gusto” vale a dire gli chef Catia Ciofo, Antonella Pagoni, Cristiano Venturi ed Andrea Mastriforti, tutti nomi tra i più importanti del panorama ristorativo italiano. La cena, accompagnata dai musicisti di “UmbriaEnsemble”, ha avuto un “menu e una carta dei vini che non hanno nulla da invidiare ai locali più celebri di Perugia, passatelli con punte d’asparagi, datterino appassito, fusione di menta e guanciola di vitello brasato sono solo alcune delle specialità del menu che è stato attentamente valutato dallo chef stellato Giancarlo Polito e dal critico enogastronomico Leonardo Romanelli, ospiti d’onore della serata”. I camerieri in sala sono stati istruiti e guidati da un maître professionisti, Emilio Sabbatini, dalla lunga carriera nella ristorazione di alto livello, che ha affrontato questa nuova sfida con entusiasmo. Qui si lavora con persone che hanno commesso degli errori e che stanno portando avanti un percorso di reinserimento, a cui bisogna insegnare tutto. Ma hanno molta umiltà e grande voglia di imparare”, ha detto a nome di tutti una delle docenti, la chef Catia Ciofo. Tutti i dettagli della serata sono stati curati con la massima attenzione. Tavoli eleganti, tovaglie raffinate, candele accese, piatti di porcellana, sottopiatti, bicchieri di vetro e posateria di alta qualità. E la cura per il dettaglio arriva fino al piatto. Non è la magistratura a dare il fine pena ai detenuti, è la società. Per Aldo, 28 anni, uno degli allievi, una delle soddisfazioni più grandi è “sapere che il cliente gradisce non solo il cibo, ma anche la preparazione”. Sotto la guida attenta degli chef, Aldo mette molta cura nell’impiattare il cibo, guarnirlo per bene con salse e intingoli: “Si mangia con tutti i cinque sensi, quindi anche con gli occhi”, spiega. Per Aldo, Nour Eddine, Gianluca e gli altri detenuti, il corso per “addetto alla cucina” rappresenta una straordinaria opportunità per imparare un mestiere. “Per non sprecare il tempo che dobbiamo passare qui”, riflette Aldo. Perché il lavoro rappresenta l’arma migliore per combattere la recidiva ed evitare che l’ex detenuto, una volta tornato in libertà, commetta nuovi reati. Ma imparare un mestiere spesso non basta. “Non è la magistratura a dare il fine pena ai detenuti, è la società - ha sottolineato Verdolini. Perciò desideriamo che l’attività formativa di Frontiera Lavoro in carcere diventi un marchio forte e credibile. E che possa costituire un elemento importante nel curriculum di ogni detenuto che vi transiterà”. L’evento “Golose Evasioni” rappresenta anche “un modo per superare le invisibili barriere che separano il mondo esterno dal carcere”. “La sfida più importante è quella culturale - ha aggiunto il direttore dell’istituto perugino, Bernardina Di Mario - con la sua costante apertura al pubblico tale evento vuole essere un’opportunità di interfacciarsi con l’universo carcerario e riflettere sul senso della pena”. Rai in campo per salvare Radio Radicale di Alberto Barachini* Corriere della Sera, 13 maggio 2019 Il 26 febbraio del 1976, con la prima trasmissione di Radio Radicale, si aprì una nuova pagina dell’informazione italiana. Erano gli anni delle prime radio libere. Anni difficili per il nostro Paese, con un dibattito politico condizionato da una società costretta a fronteggiare il terrorismo nelle sue diverse matrici ideologiche. In quel contesto così drammatico, Radio Radicale impose, sin dalle prime ore di messa in onda, il suo marchio di fabbrica: le interminabili “dirette”. Dai congressi di partito alle interviste raccolte per strada - sempre all’insegna della trasparenza - con l’unico obiettivo di informare gli ascoltatori, per diventare un “servizio al pubblico”. Uno strumento di comprensione per operai e studenti, giornalisti e politici. Il motto della radio, “Conoscere per deliberare”, d’ispirazione einaudiana, sanciva la nascita di un nuovo modello. Le istituzioni entravano direttamente nelle case degli italiani. Il resto è storia. Una convenzione con il ministero delle Comunicazioni, a partire da11994, affidava a Radio Radicale il compito di svolgere il ruolo di canale dedicato alla trasmissione dei lavori del Parlamento. La recente legge di Stabilità 2019, destinando all’emittente radicale la metà delle risorse dell’anno precedente, ha autorizzato un’ultima proroga di sei mesi, che scadrà il prossimo 21 maggio. Tra pochi giorni, i microfoni di Radio Radicale rischiano di spegnersi, così come si è spenta la voce graffiante di Massimo Bordin, compagna indimenticabile di milioni di ascoltatori, che seguivano la sua rassegna stampa del mattino. Nel mio ruolo di presidente della Commissione di Vigilanza Rai voglio sottolineare, ancora una volta, che Radio Radicale ha sempre svolto un’attività di carattere pubblico e rappresentato una tribuna a disposizione di tutti i soggetti della vita democratica. Lo dimostrano i numerosi appelli lanciati nei giorni scorsi da esponenti di partiti dell’intero arco parlamentare. Con i vertici del servizio pubblico mi sono confrontato sulle possibili soluzioni. L’ipotesi di un “matrimonio” tra la Rai e Radio Radicale salverebbe l’immenso patrimonio di Radio Radicale, in termini di archivi, esperienze e competenze. Si tratterebbe di uno scenario compatibile con gli obblighi previsti dal contratto di servizio, che si porrebbe in linea con il Piano industriale recentemente approvato dalla Rai. Questo prevede, in particolare, un potenziamento dell’offerta di informazione istituzionale con la creazione di un canale dedicato e un rafforzamento della collaborazione nella produzione dei contenuti tra Rai Parlamento e GR Parlamento. La condizione indispensabile perché ciò avvenga è che da questa collaborazione derivi una razionalizzazione e un contenimento dei costi complessivi per l’erario e si determini conseguentemente un risparmio per i cittadini. Per verificare la proposta, nell’ambito delle mie prerogative, d’intesa con i presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, intendo promuovere un confronto convocando i responsabili dell’emittente e della tv di Stato in commissione. Anche l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha espresso l’auspicio che la convenzione venga nuovamente prorogata per il tempo necessario all’approvazione di una normativa aggiornata di un servizio radiofonico e multimediale, destinato all’informazione e alla comunicazione istituzionale. Il tempo è limitato, la situazione rimane delicata, ma non è mai troppo tardi per fare la cosa giusta: scongiurare la chiusura di uno spazio di partecipazione e confronto. *Presidente della Commissione di Vigilanza sulla Rai “Finché c’è Radio Radicale c’è speranza per il Paese”. L’appello degli scrittori per salvarla di Emanuela Minucci La Stampa, 13 maggio 2019 “L’unica radio che, nella vita, ho ascoltato oltre alla mia. È sempre stata in grado di leggere il polso del Paese” (Marino Sinibaldi). “Arrivo da una famiglia molto cattolica, prima di cena recitavamo i vespri: poi io andavo in camera e ascoltavo la vostra radio che dava voce a tutti: un Facebook ante litte- ram” (Michela Murgia). “Dà spazio agli indifendibili, accede a ciò che il mercato non mostra e qualunque cosa accada lei è lì” (Roberto Saviano). “Dobbiamo difendere la sua vita, per questa radio tutti hanno sempre avuto diritto di parola”. “Un servizio pubblico senza secondi fini” (Helena Janeczek). Sono alcune delle dichiarazioni che hanno commosso la platea riunita ieri mattina nella Sala Azzurra per seguire l’incontro “A microfoni aperti”. Un omaggio a Radio Radicale, che sta vivendo i suoi giorni più difficili di fronte allo spettro della chiusura: il 21 maggio cessa la convenzione con il governo per la trasmissione dell’attività istituzionale. Al capezzale di un’emittente che ha trasmesso in diretta e senza filtri, per oltre 40 anni, la storia del nostro Paese: non solo le sedute parlamentari e gli affollati congressi di partito, ma anche i convegni e i dibattiti minori, con tante idee ma anche sedie vuote. E, con Radio Carcere, la vita e i problemi degli ultimi. L’idea dell’incontro nacque il 17 aprile, quando il direttore editoriale del Salone, Nicola Lagioia, al telefono con la scrittrice Loredana Lipperini, apprese della scomparsa di Massimo Bordin, storico conduttore della rassegna “Stampa e regime”: “Ora starai insegnando agli angeli come si interrompe Marco Pannella”, ha detto Lagioia, tra ironia e commozione. “Per me”, ha aggiunto, “la sigla della sua rubrica era come l’inno nazionale, e Radio Radicale con la sua antiretorica fuori formato che se ne frega dei tempi e proprio per questo è ancora più istituzionale è un valore consustanziale alla speranza che il Paese resti in piedi”. Così come il Salone è riuscito in tempi rapidissimi a trovare una sala per l’incontro, è stato altrettanto facile trovare tanti scrittori disponibili a raccontare perché una piccola radio rappresenta un bene pubblico insostituibile. Ad alternarsi al microfono - di fronte al direttore della testata Alessio Falconio e Massimiliano Coccia - oltre a quelli già citati, scrittori come Elena Stancanelli, Edoardo Camurri, Annalena Benini, Giordano Tedoldi, Antonio Pascale, Lella Costa. Per citarne solo alcuni. L’incontro è stato trasmesso in diretta su Radio Radicale. Come tutto, come sempre. Bonifichiamo i “pozzi avvelenati”. Mai un’etica (in)civile di Glauco Giostra* Avvenire, 13 maggio 2019 Ci sono allarmanti procellarie all’orizzonte economico, che preannunciano rovinose burrasche sulla nostra Penisola: tutti ne sono consapevoli, forse anche coloro che dovrebbero e potrebbero fare qualcosa per limitare almeno i danni. Gli organismi nazionali e sovranazionali competenti avvertono che più si tarderà a intervenire più pesante sarà la regressione economica, più lunga e ripida la china da risalire. Incombe tuttavia sul Paese, in modo meno avvertito, il pericolo di una ancor più grave regressione, che avrebbe conseguenze molto più durature e dagli sbocchi imprevedibili per la democrazia. Questo giornale sta documentando ormai da giorni i fronti aperti da una vera e propria “guerra contro le reti di solidarietà”, che finirà - riprendo una considerazione proprio qui acutamente svolta - per condurre a uno “Stato asociale”. Si stanno avvelenando i pozzi della cultura, del dialogo, della civiltà, dell’umanità. Per avidità di facili consensi vi sono stati gettati dentro parole ostili, minacce, discriminazioni, intolleranze, xenofobie, fanatismi, rancore, slogan di sfacciata volgarità. Le falde civili ne sono ormai inquinate e, quel che è peggio, di ciò si sta progressivamente perdendo la consapevolezza. Giorno dopo giorno il sapore dell’acqua sembra meno sgradevole, si è di molto stemperato quell’insopportabile retrogusto che avvertivamo tempo fa già al primo sorso e che ce la faceva ritenere non potabile. Espressioni come “pacchia”, “crociera”, “taxi del mare”, “oziosi palestrati”, “bambini preconfezionati che giungono sui barconi” riferite alle disperate vicissitudini di nostri simili e percepite inizialmente per quel che sono - oscenità verbali - vengono ormai considerate un linguaggio a tutto concedere “improprio”, ma che sa andare al cuore del problema. Come l’auspicio che i condannati “marciscano” in galera. Mandiamo giù quotidianamente frasette roboanti e tweet insulsi e cattivi. Magari rispondiamo con altri tweet di speculare banalità e aggressività, convinti che oggi non si possa che dialogare così. Eppure, se la Chernobyl culturale degli ultimi decenni non avesse debilitato tanta parte della nostra capacità critica, se il frastornamento prodotto da una informazione che offre un turbinìo di notizie e pochissima conoscenza non imponesse reazioni istantanee e irriflessive, forse ci accorgeremmo che molti stentorei proclami non sono altro che grossolane mistificazioni. Basterebbe spigolare qua e là. Qualora un Ministro dell’Interno, cioè colui che presiede alla sicurezza pubblica, fosse davvero preoccupato per le depredazioni domiciliari dovrebbe organizzare con maggiore efficienza le forze dell’ordine sul territorio, potenziarne gli organici, aumentare le zone videosorvegliate, mettere a carico dello Stato le spese per sistemi di allarme e di collegamento con le centrali di polizia, e altre provvidenze che l’approfondita conoscenza del fenomeno gli potrebbe suggerire. E invece il nostro Ministro sostiene che la via migliore sia lasciare al cittadino una incondizionata licenza di difendersi, promettendogli ingannevolmente di sottrarlo al processo qualsiasi reazione metta in atto, fosse anche l’omicidio. È come se un pastore incapace di predisporre una strategia di contrasto agli attacchi dei lupi con recinti e cani da guardia, si preoccupasse soltanto di riconoscere alle pecore il diritto di difendersi con morsi e calci, anche letali. Hanno annunciato urbi et orbi che avevano abolito la miseria, ma poi hanno avvertito l’urgenza legislativa di introdurre il reato di accattonaggio: difficile coglierne la coerenza, a meno che non pensassero di stroncare l’intollerabile tendenza delle persone abbienti a vestirsi di abiti consunti, giacere all’uscita delle chiese e dei supermercati, simulare malattie o deformità, protendere la mano per chiedere la carità. Persone in fuga da terre inabitabili rischiano e perdono la vita nel tentativo di raggiungerne una su cui condurre un’esistenza non indignitosa? Si arriva a ipotizzare addirittura multe per chi salva la vita a naufraghi. E si tuona: “Per i trafficanti di esseri umani i nostri porti sono e saranno chiusi”! Anche a voler ipotizzare - smentendo la realtà - che alle nostre coste arrivino sempre e solo imbarcazioni condotte da scafisti, si fa fatica a capire cosa c’entri una tal risposta con quella invocazione disperata. Si tratta all’evidenza di una giacca non abbottonata in corrispondenza delle asole. È come se il Ministro della Salute rifiutasse il ricovero in ospedale a donne che rischiano di morire per emorragia a seguito di aborto praticato clandestinamente, motivando il rifiuto con la necessità di combattere il fenomeno delle mammane. Abbeverandosi a questa sorgente culturale, non molti giorni fa si è arrivati a escludere gli atleti africani dalla mezza maratona di Trieste, adducendo pateticamente la volontà di combattere il loro sfruttamento da parte di procuratori sportivi senza scrupoli. È andata in scena, ancora una volta, questa singolare strategia di contrasto alle ingiustizie: infierire sugli indifesi anziché colpire i loro aguzzini. Le discettazioni per stabilire se siamo dinanzi al ritorno del fascismo o a un fenomeno differente non servono a nulla. Serve una resistenza civile a livello politico e culturale. Certo, sul primo versante, c’è bisogno di un progetto serio che parli anche dei sacrifici che sono necessari per una società meno diseguale e rancorosa, per una convivenza solidale e fiduciosa; che indichi senza fatue promesse ciò che dovremmo riuscire a fare per avere la speranza di abitare in un futuro migliore per noi e per i nostri figli. Ma c’è anche bisogno che ognuno di noi senta la responsabilità del momento, non smetta di indignarsi, di smascherare l’imbroglio demagogico, di testimoniare con fermezza buon senso e umanità, affinché nessuno possa pensare, assistendo al nostro silenzio rassegnato, “probabilmente sbaglio a turbarmi e ad avvertire un pericolo, se anche lui non trova nulla da criticare e da denunciare”. Di sicuro, l’ora è adesso. Un domani, tutto potremo raccontarci a nostra discolpa tranne che le intenzioni degli imprenditori di questa nuova etica (in)civile del forte contro il debole, del normale contro il diverso, del bianco contro il nero fossero dissimulate e incerte: c’è una trasparenza democratica in questo oscurantismo autoritario che avanza. *Giurista, Università di Roma La Sapienza Lezioni (storiche) da Torino di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 maggio 2019 La regola aurea liberale è che le parole e le idee sono sempre permesse. Soltanto le azioni, se incarnano una fattispecie penale, vanno impedite e punite. È noto che la XII delle Disposizioni transitorie e finali della nostra Costituzione vieta la ricostituzione “sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista”. Assai meno noto però è il secondo comma di quella disposizione (anche perché ormai decaduto). In esso si disponeva che a dispetto del riconoscimento della qualità di elettori a tutti i cittadini, ai “capi responsabili del regime fascista” il diritto di voto e l’eleggibilità fossero negati: ma non per sempre. Per non di più di cinque anni, solo per cinque anni: poi basta (praticamente dunque solo per le elezioni politiche del 1948). Lo ripeto: si trattava non di fascisti in generale bensì dei “capi responsabili del regime fascista”, vale a dire di coloro che avevano presumibilmente organizzato lo squadrismo e le spedizioni punitive, contribuito in modo decisivo all’instaurazione della dittatura, che avevano occupato le più alte cariche del governo e del partito, erano stati membri del Gran Consiglio, plaudito alla guerra d’Abissinia, all’alleanza con Hitler e alla guerra, avevano approvato le leggi razziali. Ebbene, neppure gente di questa risma la Repubblica volle mettere politicamente al bando: dopo un breve intervallo di tempo (solo cinque anni) li restituì ad una normale condizione di cittadini nella totale pienezza dei diritti politici. Come mai questa indulgenza? Forse perché l’ispirazione antifascista di quelli che con una certa enfasi ci siamo abituati a chiamare i nostri padri costituenti conobbe un momento di momentanea debolezza? Niente affatto naturalmente, la ragione è un’altra. È che l’Assemblea costituente ritenne saggiamente che la nascente democrazia italiana, reduce tra l’altro da una guerra civile, avesse tutto da guadagnare in termini di legittimazione e quindi di solidità nel mostrarsi verso i suoi nemici anziché rigidamente (e seppur giustamente) sanzionatoria, il più inclusiva possibile. Pensò quindi che bisognasse avere fiducia nel fatto che le norme che regolano lo spazio pubblico democratico all’insegna del confronto e della libera discussione fossero capaci di avere la meglio su qualunque radicalismo (e quale spazio pubblico più rappresentativo di quello costituito dalle elezioni?). Ovviamente ad una condizione: che entro il suddetto spazio pubblico ci si muovesse sempre in modo pacifico. Un presupposto essenziale della democrazia è che gli esseri umani siano esseri mediamente assennati e ragionevoli e che di conseguenza basti il libero dibattito delle opinioni a far emergere tra di loro l’orientamento più conveniente e giusto facendolo risultare vincente. A patto per l’appunto che non intervenga la violenza ad alterare le cose. È per questo che un principio cardine della democrazia liberale è che tutte le opinioni devono essere libere di esprimersi, anche le più sciocche, crudeli o antidemocratiche. Ciò che è essenziale è che chi professa tali idee si limiti a divulgarle con la parola o con lo scritto senza far ricorso a mezzi violenti. In questo modo, infatti, quelle idee, per quanto funeste, urteranno infallibilmente sempre, alla fine, contro il buon senso della maggioranza e non avranno mai la meglio. È precisamente per ciò che in tutte le democrazie vi sono leggi che puniscono con la necessaria durezza l’uso della violenza politica, cioè della violenza volta ad alterare il processo politico o ad aggredire chi la pensa diversamente. E infatti, non a caso, i medesimi autori della Costituzione, pochissimi anni dopo l’entrata in vigore di questa, ritennero opportuno approvare in aggiunta ai numerosi articoli del codice penale adatti allo scopo una legge che sanzionava in modo particolare oltre l’apologia di fascismo tutta una serie di gesti e di comportamenti ispirati ai modi e alle pratiche del fascismo. In società complicate e frantumate come le nostre è assolutamente inevitabile che vi sia, diciamo, l’uno per cento della popolazione che crede che la terra sia piatta, che Auschwitz non sia mai esistita, che i vaccini siano dei veleni o che il fascismo sia stato una bellissima cosa. Pensare che non possa o non debba essere così è da illusi o da sciocchi. Pertanto, supporre che in Italia possa non esserci un certo numero di nostalgici di Mussolini e del suo regime significa supporre qualcosa di inverosimile. Ebbene, che cosa bisogna farne allora di questi nostri concittadini? Impedirgli di riunirsi, di parlare e di tenere un comizio? Vietargli di scrivere un manifestino o un giornale, di pubblicare un libro? Mandarli al confino? Arrestarli tutti per attuare tali divieti, con il bell’effetto magari che qualcuno di loro decida allora di entrare in clandestinità e di mettersi a sparare? La risposta dovrebbe essere evidente. Eppure ogni volta che come per il Salone del libro a Torino si rende visibile la sparuta presenza di qualche gruppuscolo fascista nel nostro Paese, ogni volta che qualche decina di energumeni di CasaPound mette fuori la testa, nessuno del fronte antifascista si attiene all’aurea regola liberale secondo la quale le parole e le idee sono sempre permesse e che solo le azioni se incarnano una fattispecie penale, quelle sì vanno invece impedite e duramente perseguite e sanzionate. No, in Italia questa regola sembra non valere. Di conseguenza, anziché prendersi la briga di indicare e denunciare se ci sono le azioni suddette - ripeto tutte previste e sanzionate dal codice penale - anziché chiedere alla magistratura di intervenire, si preferisce evocare le vacue genericità di Umberto Eco sull’ur-Faschismus, lanciare il milionesimo allarme sul ritorno del fascismo, la milionesima deprecazione sull’”onda nera” che monta. Spacciando alla fine per chissà quale luminosa vittoria della libertà aver fatto chiudere lo stand di una scalcagnatissima casa editrice di serie zeta, diretta da un signor nessuno che travolto da un’inaspettata notorietà non gli è parso vero di poter far sapere al mondo che lui è ancora fascista. Va detto con chiarezza. Tutto ciò, oltre ad essere intimamente poco serio, è anche ben poco in armonia con i principi di una democrazia liberale. E agli occhi di chi invece vorrebbe che l’antifascismo non si scostasse mai da tali principi appare solo come un parossismo ideologico e una povera strumentalizzazione politica. Qualcosa di assai diverso da quanto pensarono e fecero settant’anni fa i padri della nostra Costituzione: i quali tra l’altro, a differenza degli odierni settari, che cosa fosse il fascismo lo sapevano bene. Migranti. Sui barconi sale la classe media, i più poveri non si spostano di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 13 maggio 2019 Sembra un paradosso, ma non sono i più poveri della terra a rischiare la vita sui barconi. Se si escludono i Paesi afflitti dalle guerre, i 100 milioni di migranti che nel mondo si sono spostati negli ultimi 25 anni, provengono dalla classe media. Le persone emigrano dai Paesi dove il reddito consente di affrontare le spese di viaggio. Allora quando diciamo che i migranti vanno aiutati a casa loro abbiamo chiaro in testa il “come”? Perché il rischio è di ottenere il risultato contrario. Emigra la classe media - La maggiore preoccupazione dell’Europa si concentra sull’Africa. I dati elaborati dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) per Dataroom, mostrano un quadro molto chiaro. Negli ultimi sei anni, su 1 milione e 85 mila migranti africani sbarcati in Europa, il 60% proviene da Paesi con un reddito pro capite tra 1.000 e 4.000 dollari l’anno, considerato medio-basso dalla Banca mondiale per il continente africano. Il 29% tra i 4 e 12 mila dollari, ossia medio-alto; il 7% da Paesi dove c’è un reddito alto (sopra i 12.000 dollari) e solo il 5% dai Paesi poverissimi (sotto i mille dollari). In Italia questa percentuale scende addirittura all’1%. Infatti, nello stesso periodo, su 311.000 arrivi di immigrati africani il 65% proviene da Paesi con un reddito medio-basso, il 33% medio-alto. Chi parte e da dove - In Italia il numero più alto di arrivi (87.225) è dalla Nigeria, dove il reddito pro capite è di 5.473 dollari l’anno; dal Senegal (30.280 partenze), il reddito medio è di 2.781 dollari; dalla Costa d’Avorio (22.240) e il reddito 2.880 dollari. Indipendentemente dalla posizione geografica, ed esclusi i Paesi con conflitti in corso dove gli spostamenti sono interni e nei Paesi confinanti, là dove il reddito è basso le partenze sono minime. Dal Burundi (reddito 742 dollari), ne sono arrivati 30; dalla Repubblica Centrafricana (731 dollari) 165; dal Niger (reddito di 870 dollari) 1.135 arrivi. I flussi tendono a fermarsi quando il reddito medio supera i 12 mila dollari, ed è il caso del Sud Africa, Botswana e Guinea Equatoriale. La Banca mondiale - che ha osservato i 100 milioni di persone che nel mondo si sono spostate negli ultimi 25 anni - la chiama “gobba migratoria”: sotto i mille dollari le migrazioni sono basse o assenti; tra i 1.000 e i 4.500 aumentano e arrivano al picco; tra 4.500 e 12 mila iniziano a diminuire; sopra i 12 mila si diventa Paese di immigrazione. Dall’altra parte del mondo - Milioni di arresti e schieramenti permanenti di polizia lungo il confine non hanno impedito ai messicani, negli ultimi 20 anni, di continuare inesorabilmente ad attraversare la frontiera con gli Usa. Nel 1995 il reddito medio pro capite di chi tentava l’espatrio era di 3.829 dollari. Nello stesso periodo quasi nessuna partenza da Honduras e Salvador, dove il reddito era rispettivamente di 937 e 1.590 dollari. Però appena è salito (più che raddoppiato nel 2018), si sono moltiplicate anche le partenze: 77.128 dall’Honduras, 31.636 dal Salvador. Contemporaneamente sono scese quelle dal Messico, dove la popolazione ha raggiunto un miglior tenore di vita. Gli effetti della globalizzazione - Secondo il Center for Global Development di Washington, che ha analizzato migliaia di censimenti nazionali nel corso di 50 anni, la Grande Migrazione è un effetto collaterale della globalizzazione, che ha determinato il crollo della povertà assoluta. Sembra assurdo, ma uno dei più grandi successi della nostra epoca ha indirettamente messo in moto i barconi. Con l’apertura al commercio e le comunicazioni internazionali ormai a costo zero, viaggiano le merci e in parallelo le persone. Il primo indicatore sono le esportazioni. Nel 1990 dall’Africa erano 127 miliardi di dollari, saliti a 539 nel 2017. Il reddito medio dei Paesi di partenza è passato da 3.300 dollari a 4.700 e il numero di africani in Europa da 4,5 milioni a 9,2 milioni. Oggi il 75% degli abitanti dell’Africa ha un cellulare (contro il 32% di dieci anni fa) e il 20% un collegamento a Internet (contro il 4% di dieci anni fa). È facile sapere qual è la rotta percorribile e in quale Paese ci sono più opportunità. Un viaggio verso l’Italia, come evidenzia l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom) - può costare fino a seimila dollari. Dallo stesso studio emerge che il 53% ha un lavoro nel Paese d’origine, solo il 32% è disoccupato e il 15% studente. Gli arrivi nei prossimi 20 anni - “Nei prossimi due decenni - spiega il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa - dall’Africa verso l’Europa si sposteranno altri 3,4 milioni di persone. Allarmarsi non serve a nulla, ci vuole consapevolezza sulla sfida da gestire perché il processo è inarrestabile”. Possiamo augurarci che sia il più breve possibile e accelerarlo comprando prodotti africani, ma intanto “La gente spesso rifiuta l’immigrazione perché esaspera la sensazione di avere perso il controllo sulla propria vita” sottolinea Il Manifesto del nuovo liberalismo pubblicato dall’Economist. Come aiutarli a casa loro? - Diciamo che bisogna aiutarli a casa loro. Giusto, ma facendo cosa? Gli studi recenti dimostrano che il sostegno al reddito incrementa le partenze, mentre gli investimenti per lo sviluppo dei servizi incoraggia la popolazione a restare. Basta pensare ai 38 milioni di piccoli produttori agricoli in Nigeria, spesso proprietari di terre che non riescono a coltivare per mancanza di capitali necessari. Per i milioni di africani senza l’acceso all’energia elettrica sarebbe possibile un futuro a casa loro se arrivassero investimenti nelle energie rinnovabili. Servono anche nella sanità, nei trasporti, nell’istruzione (ci sono ancora oltre 400 milioni di africani analfabeti) e soprattutto nello sviluppo tecnologico della rete internet. Per chi vuole partire un’alternativa può essere quella di formare sul posto, o nei luoghi di transito, le professionalità che servono ai Paesi di destinazione. Un esempio è quello degli infermieri: nei prossimi 15 anni in Europa ne serviranno 590 mila in più rispetto a quelli programmati. Michael Clemens del Center for Global Development di Washington, fa i conti: il costo della formazione di un infermiere professionale in Germania o nel Regno Unito arriva a quasi 100 mila dollari. Un corso completo di tre anni può essere effettuato nei maggiori centri urbani del Marocco e della Tunisia per meno di 14 mila. Insomma, il vantaggio di un “accordo per le competenze globali” è reciproco. Dice l’economista Ugo Gentilini della Banca Mondiale: “Che le persone migrino oppure no, una strategia di sicura efficacia per l’Africa è il potenziamento del suo capitale umano. Crescere tramite l’accesso ai servizi di qualità che formino competenze è essenziale per preparare i giovani a un mercato del lavoro, sia interno che globale”. Il piano Marshall - Allora è lì che andrebbero orientati i 50 miliardi europei di piano Marshall per l’Africa. Ma per attivarlo ci vuole una politica unica e condivisa che abbia la forza di imporre anche nuove regole fra il Nord e il Sud del mondo, usato da decenni come discarica e depredato dalle troppe multinazionali occidentali che operano nei Paesi africani senza pagare le tasse dovute. Fare questo vuol dire pensare al futuro dell’Europa e del proprio Paese. Non del proprio partito. Siria. Scomparsi in 130 mila nelle carceri La Stampa, 13 maggio 2019 Sono almeno 127.916 le persone scomparse nel sistema carcerario del regime di Assad in Siria, e 14.129 sono state uccise con la tortura. Sono i dati di un’inchiesta del New York Times, con l’aiuto del Syrian Network for Human Rights e le testimonianze di molte vittime. Secondo il quotidiano, Assad ha creato un sistema di gulag per eliminare gli avversari. Le detenzioni hanno raggiunto il picco durante gli anni più sanguinosi del conflitto, ma nel 2018 sono stati registrati 5.607 arresti arbitrari, e molti sono stati trasferiti nella prigione di Saydnaya, dove avvengono le esecuzioni. Il Times ha raccolto testimonianze come quella di Muhannad Ghabbash, un trentenne rinchiuso nella base di Mezze per aver organizzato proteste pacifiche ad Aleppo, che ha raccontato come venivano picchiati i detenuti, bagnati con acqua fredda, costretti a comportarsi come cani per far divertire i carcerieri. Muhannad ha contato almeno 19 prigionieri che ha visto morire per malattie, stenti e torture. Mariam Khleif, una madre di 32 anni, ha rivelato di essere stata sottoposta a stupri sistematici insieme alle altre detenute. Turchia. Erdogan si è tolto la maschera di Yascha Mounk* La Repubblica, 13 maggio 2019 Quando Recep Erdogan fu eletto per la prima volta a capo del governo turco, nel 2003, promise che avrebbe rispettato le istituzioni democratiche e che avrebbe rinunciato prontamente al potere se mai avesse perso la fiducia dei cittadini. La realtà è stata molto meno rosea. I giornali e le riviste di tutto il mondo inizialmente lo presentavano come un riformatore democratico, ma ha sistematicamente esteso i suoi poteri ed epurato gli oppositori dai vertici delle forze armate, dalla funzione pubblica e dalle istituzioni scolastiche e universitarie. Quando i suoi ex alleati cercarono di spodestarlo attraverso un golpe, nell’estate del 2016, sfruttò l’occasione per consolidare il suo controllo del Paese: grazie allo spropositato stato d’emergenza proclamato pochi giorni dopo il fallito colpo di Stato, ha avuto la possibilità di liquidare decine di migliaia di dipendenti pubblici che considerava politicamente inaffidabili e incarcerare alcuni dei giornalisti più famosi del Paese. L’enorme potere di cui dispone ormai il presidente turco rende ancora più incredibile il fatto che un’opposizione unita sia riuscita, il mese scorso, a riportare una sorprendente serie di vittorie nelle elezioni municipali, conquistando il governo della capitale del Paese, Ankara, e della città più importante, Istanbul. Il risultato è che Erdogan, per la prima volta dal fallito golpe di tre anni fa, ha dovuto fare una scelta difficile: riconoscere i risultati elettorali, ammettendo quindi il crescente malcontento dei cittadini verso il suo governo? O usare il suo controllo delle istituzioni turche per far annullare il voto? Citando presunte irregolarità, la commissione elettorale ha annunciato che Istanbul terrà nuove elezioni a giugno. Questo annuncio segna un punto di svolta fondamentale nella storia politica della Turchia: ormai è impossibile, per qualunque osservatore ragionevole, continuare a negare la realtà. Un Paese dove il presidente ha il potere di annullare le elezioni quando il risultato non gli è gradito è chiaramente diventato una dittatura. Da questo momento, chiunque insisterà a definire la Turchia una democrazia, o a trattare le sue elezioni come un barometro attendibile dell’opinione pubblica, sarà un bugiardo o un folle. Se l’annuncio spazza via ogni dubbio rimanente sullo stato attuale della democrazia turca, solleva anche grossi interrogativi sul futuro. Nei prossimi giorni, Imamoglu dovrà decidere se boicottare il nuovo voto a giugno. Se lo farà, offrirà a Erdogan il potere che brama. Se non lo farà, accorderà legittimità a un’elezione che difficilmente potrà vincere. Se è testa, vince Erdogan. Se è croce, perde Imamoglu. Ma pure per Erdogan, anche se ha ottime probabilità di mantenere il controllo di Istanbul nel breve termine, si prospetta un futuro più difficile. Fino a questo momento, segmenti ampi della popolazione turca credevano alle parole del presidente quando questi affermava che avrebbe lasciato di buon grado il potere se il popolo gli avesse ritirato la sua fiducia. Ora la pretesa di Erdogan di rappresentare l’autentica volontà del popolo probabilmente suonerà falsa anche alle orecchie di chi lo aveva sostenuto. La perdita di legittimazione democratica di Erdogan non significa che stia per perdere il potere. Ma è il segnale che il suo potere, da questo momento in avanti, poggerà su basi molto più precarie. Ora che la sua pretesa di esercitare un mandato popolare è stata smascherata definitivamente, Erdogan dovrà misurarsi con un’opposizione ancora più determinata; e dovrà ricorrere a un’oppressione ancora più esplicita per rimanere al potere. *Traduzione di Fabio Galimberti Filippine. Duterte, il “castigatore” di Manila, punta a conquistare il Senato di Francesco Radicioni La Stampa, 13 maggio 2019 Tre anni dopo aver varcato il portone del palazzo Malacañang Rodrigo Duterte spera di replicare alle urne il successo che lo ha portato a essere il presidente delle Filippine più controverso fin dai tempi della dittatura di Ferdinando Marcos. Oltre sessanta milioni di elettori sono chiamati oggi al voto per eleggere migliaia di rappresentanti a ogni livello: dalle amministrazioni locali fino alla metà dei seggi della Camera alta del Parlamento di Manila. “Una storica battaglia contro il ritorno della tirannia”, ha definito queste elezioni la senatrice Leila de Lima, una delle voci più critiche di Duterte finita in carcere nel 2017 con accuse che i suoi sostenitori definiscono “politicamente motivate”. Se il voto di oggi viene interpretato come un referendum sulla popolarità dell’ultimo uomo forte delle Filippine, le opposizioni temono che il risultato delle elezioni di midterm sarà un nuovo colpo per le fragili istituzioni democratiche del paese. Finora il Senato delle Filippine è stato l’ultimo bastione di resistenza alle politiche più controverse annunciate da Duterte: la riforma dell’architettura istituzionale del paese in senso federalista, la reintroduzione della pena di morte, la sanguinosa guerra alla droga. Il “salvatore” Dopo che negli scorsi mesi c’era stata una leggera flessione del consenso, gli ultimi sondaggi del Sws indicano però che la popolarità di “The Punisher”, il “castigatore” in italiano, è tornata a salire: il 79% dei filippini si dice “soddisfatto” della sua leadership. “In un arcipelago di 108 milioni di persone - di cui un quarto vive al di sotto della soglia di povertà - Duterte ha presentato se stesso come un salvatore”, così un diplomatico europeo spiega il successo del leader filippino. In un sistema politico dove a contare è più il carisma personale che la forza dei partiti tradizionali, secondo gli analisti ci sono pochi dubbi che la popolarità di Duterte trascinerà consensi verso i candidati al Senato fedelissimi al presidente: il braccio destro Bong Go e l’ex-capo della polizia Ronald de la Rosa. In un nuovo tentativo di legittimare il clan di Ferdinando Marcos, in lista per un seggio c’è anche Imee Marcos, figlia dell’uomo forte nelle Filippine negli anni 70 e 80. “È tempo di seppellire il passato”, ha detto una volta Duterte. A caccia di un seggio Secondo un recente sondaggio di Pulse Asia, solo uno tra i candidati dell’opposizione - Bam Aquino - ha qualche chance di conquistare uno dei 12 seggi del Senato per cui si vota oggi. Nonostante il rallentamento della crescita economica, l’aumento dell’inflazione e la violenta guerra alla droga che ha provocato migliaia di morti nel Paese, il messaggio populista e machista di Rodrigo Duterte continua ad attrarre consensi. A poco valgono le denunce delle opposizioni sulle violazioni dei diritti umani e sul clima d’intimidazione verso la stampa, così come sul rischio che Manila possa voltare le spalle allo storico alleato americano per guardare sempre di più a Pechino e Mosca. “Ha presentato se stesso come un uomo del popolo, un outsider che non tollera gli oligarchi corrotti e le élite dinastiche di quella che definisce la Manila imperiale”, scrive Jonathan Miller in “Rodrigo Duterte: Fire and Fury in the Philippines”. “Molta gente morirà” Può apparire paradossale per un leader arrivato al potere scagliandosi contro le iniquità sociali, ma i sondaggi di Sws evidenziano anche che - da settembre 2016 a oggi - il consenso per l’uomo forte delle Filippine è cresciuto di 15 punti tra le classi più agiate, mentre è diminuito tra i più poveri. “Sono stati proprio i più poveri tra i poveri le principali vittime delle migliaia di omicidi extragiudiziali”, spiega Celito Arlegue del Council of Asian Liberals and Democrats. Fin dal suo ingresso al Malacañang, Duterte ha promesso di estendere a livello nazionale il modello adottato da sindaco di Davao: una feroce campagna contro la criminalità, ma soprattutto contro spacciatori e consumatori di shabu: le metanfetamine che aiutano a combattere fame e fatica. “Molta gente morirà”, aveva promesso. Così è stato. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, le vittime di queste esecuzioni sommarie sarebbero oltre 20mila: uccise brutalmente da vigilantes negli slum di Tondo e delle altre baraccopoli del paese. “Nonostante la retorica - continua Arlegue - i poveri non sono mai stati una priorità per Duterte”.