10 maggio, Fiammetta Borsellino nel carcere di Padova Ristretti Orizzonti, 12 maggio 2019 “Oggi secondo me si è realizzato veramente un sogno di papà”. Le parole più emozionanti sono state quelle che Fiammetta Borsellino ha detto in chiusura della Giornata del 10 maggio nella Casa di reclusione di Padova, dedicata al tema “La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza”, organizzata da Ristretti Orizzonti, in collaborazione con la Casa di reclusione di Padova e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: “... ecco io volevo concludere solo con un pensiero: oggi secondo me si è realizzato veramente un sogno di papà....mio padre era convinto che bisogna condividere pubblicamente i problemi, condividere pubblicamente i problemi significa prenderne coscienza, ed era fermamente convinto che soltanto una presa di coscienza collettiva potesse proprio aiutare a risolverli...E quindi bisogna avere la capacità, così come è avvenuto oggi in questa giornata veramente magica, di sapere assumere i problemi e farsene carico”. ‘Ascolto partecipato’, forse qualcuno così potrebbe definire l’atmosfera della nostra giornata di studi di ieri 10 maggio nella Casa di reclusione di Padova. Non bastano queste due parole: c’è stato molto di più nelle ore, mattina e pomeriggio, in cui si sono susseguiti gli interventi: testimonianze e ascolto sono stati intensi, vibranti, emozionanti. Come se tra le persone che parlavano e le persone che ascoltavano (più di 500, tra cui 100 persone detenute, studenti e insegnanti, volontari e operatori del carcere, avvocati e magistrati da tutt’Italia, Marta Nalin, assessora alle Politiche sociali del Comune di Padova, che sostiene con forza il nostro progetto con le scuole) ci fosse una forte e spontanea empatia. Sono state ore di intensa emozione, unita a pensieri profondi, articolati, difficili ma portatori di cambiamento. Il riconoscimento più forte è venuto da Fiammetta Borsellino, accolta e poi salutata con lunghi interminabili applausi. Da Fiammetta Borsellino a Paolo Setti Carraro, chirurgo, fratello di Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale Dalla Chiesa uccisa con lui dalla mafia, a Paolo Picchio padre di Carolina, una giovanissima vittima di stalking che non ha retto il peso e si è suicidata a quattordici anni. E poi Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni di Bologna particolarmente attento alla necessità di fare prevenzione in zone difficili del nostro Paese. E Mauro Pescio, attore di teatro, creatore di testi nella trasmissione “Pascal” che ha intervistato Valeria Collina, madre di Youssef, un ragazzo diventato terrorista, di cui ha raccontato la storia nel libro “Nel nome di chi”, e Francesca Melandri, scrittrice, autrice tra l’altro di uno straordinario romanzo che ripercorre pezzi di storia dimenticata come quella delle colonie italiane in Africa nel periodo fascista, “Sangue giusto”. E ancora giornalisti come Francesco Viviano, inviato di Repubblica, ma anche narratore, in “Io, killer mancato”, di una storia personale che lo ha portato vicino a scegliere di stare “dalla parte dei cattivi”, e Paolo Cagnan, autore di un’inchiesta sulla diffusione della criminalità organizzata anche nella nostra regione. Per chiudere con due interventi più tecnici, ma non meno importanti sulla detenzione, di Riccardo De Vito, magistrato di Sorveglianza, e Marco Boato, sociologo, a partire da una idea di sicurezza che si basi su percorsi di autentica inclusione, e non escluda nessuno, neppure quelli ritenuti per la loro appartenenza alla criminalità organizzata irrecuperabili. Hanno portato il loro saluto il direttore Claudio Mazzeo, il Provveditore Enrico Sbriglia, la magistrata Lina Di Domenico, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Ha condotto i lavori con grande cuore e intelligenza Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia, ma soprattutto uno dei massimi esperti di Giustizia Riparativa. La narrazione del dolore subito dalle vittime, inframmezzata dalle testimonianze delle persone detenute sui percorsi di consapevolezza della loro storia criminale, ha tenuto campo senza un attimo di tensione o rilassamento. Impeccabile la gestione di una iniziativa così difficile dentro a un carcere da parte della Polizia Penitenziaria. Potete ascoltare e vedere la registrazione di Radio Radicale (a cui tutti hanno espresso la loro solidarietà). Grazie Radio Radicale: http://www.radioradicale.it/scheda/572641/giornata-nazionale-di-studi-la-cultura-della-prevenzione-lincultura-dellemergenza “Anche in carcere prevenzione, non emergenza” Il Gazzettino, 12 maggio 2019 Le parole più emozionanti sono state quelle che Fiammetta Borsellino ha pronunciato in chiusura della Giornata del 10 maggio nella Casa di reclusione di Padova, dedicata al tema “La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza”, organizzata da Ristretti Orizzonti, in collaborazione con la Casa di reclusione di Padova e la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia: “Oggi secondo me si è realizzato veramente un sogno di papà. Mio padre era convinto che bisogna condividere pubblicamente i problemi, il che significa prenderne coscienza. Era fermamente convinto che soltanto una presa di coscienza collettiva potesse aiutare a risolverli”. Ascolto partecipato è stato quello della giornata di studi di venerdì nel carcere di Padova. Più di 500 partecipanti, tra i quali 100 detenuti, studenti e insegnanti, volontari e operatori del carcere, avvocati e magistrati da tutt’Italia e le testimonianze di Paolo Setti Carraro, chirurgo, fratello di Emanuela Setti Carraro, moglie del Generale Dalla Chiesa uccisa con lui dalla mafia, o di Paolo Picchio padre di Carolina, una giovanissima vittima di stalking che non ha retto il peso e si è suicidata a quattordici anni. E poi Valeria Collina, madre di Youssef, un ragazzo diventato terrorista, di cui ha raccontato la storia nel libro “Nel nome di chi”. Condividere il dolore con chi lo provoca, l’insegnamento della figlia di Borsellino di Marco Pozza Il Mattino di Padova, 12 maggio 2019 Ha preso la parola sapendo d’avere dinnanzi una platea di uomini-difficili, storie i cui protagonisti sono apparentemente uomini senza speranza. Tutt’al più uomini che hanno complicato tremendamente la speranza, singola e collettiva. Fiammetta Borsellino - ospite di un convegno svoltosi nel carcere “Due Palazzi” di Padova - è la figlia di Paolo Borsellino, la cui vita è stata frantumata in quella famigerata via D’Amelio il 19 luglio 1992, quarantasette giorni dopo la mattanza che disintegrò l’amico Giovanni Falcone: “Mio padre sentiva un’urgenza: comprendere l’uomo - racconta - Per questo amava fare i processi in lingua siciliana: per scavare negli accenti, negli sguardi, per indagare dentro le storture che mortificano la città”. Il male è emergenza, il bene è prevenzione, del male prima di tutto. Prevenire è generare educazione civica di prevenzione: fare dell’emergenza la misura di ogni scelta è generare incultura, ostinarsi di stare dalla parte di chi dice “Noi non siamo come loro”. Quando, invece, l’uomo è uguale dappertutto: un perpetuo miscuglio di angelo e bestia, di bene e male. Prevenire è scegliere da quale prospettiva affrontare la vita: “A mio padre importava dire da che parte stare per tentare la liberazione di una terra”. Dalla parte dell’amore, preludio di sofferenza, condizione unica per la trasformazione: “Ricordo le sue parole: “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo trasformare”. A nessuno piace morire. Qualcuno, però, è così ricolmo di vita da accettare di correre il rischio della morte per vivere appieno. Così gravido di vita da produrre una trasfusione- di-vita in coloro che gli stanno vicini, da renderli poi protagonisti di una sfida diretta contro il male, pur di non sapere invano quella morte: “Dopo la morte di mio padre, la nostra è stata un’urgenza - continua - condividere il dolore con coloro che lo hanno provocato”. Guardare in faccia il male, sfidare i suoi rigurgiti cafoni, sorbirsi l’artiglieria della menzogna. Frugare sotto il tritolo per cercare la verità, perlustrando i bassifondi degli inferi: “Non c’è strada verso la giustizia che non passi attraverso la verità”. Verità nascosta, depistata: ma che resta l’unica liberazione per la vittima, il carnefice. Ragionamenti lucidi, non solo emozione. Parole taglienti e decise: insistere su ciò che arreca paura è il grande inganno del male. Far leva sulla leggerezza del bene è la promessa della salvezza: “Ciò che mi rattrista - conclude - è vedere qualcuno che non riesce a compiere quel passo in più che libererebbe anche chi ha ucciso, liberando la parte migliore di sé”. Parole intonate tra il ferro-cemento di una patria galera. Che paiono stonate in mezzo alle strade di una nazione che sceglie l’emergenza come carta di navigazione. Così distratta da invocare l’ergastolo preventivo, scordandosi che la vera sconfitta del male è anticiparlo, rendendolo impotente alla nascita. Cattivi con i buoni di Chiara Saraceno La Repubblica, 12 maggio 2019 Terzo Settore e Ong mai così sotto attacco dal governo. Colpendo la solidarietà si va anche contro la Costituzione. L’attività di solidarietà sociale non è mai stata così oggetto di delegittimazione da parte dei poteri dello Stato come oggi. Chi cerca di adempiere ai “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” per “garantire i diritti inviolabili dell’uomo” (e della donna, naturalmente,) solennemente sanciti dall’articolo 2 della Costituzione, rischia di trovarsi segnato a dito vuoi come “buonista” senza costrutto, vuoi come facinoroso che attenta alla sicurezza. Non importa se tra i diritti inviolabili c’è innanzitutto il diritto alla vita, e ad una vita dignitosa. Gli stessi che vorrebbero sancire per legge il diritto alla vita, quindi a svilupparsi e a nascere, dell’embrione (non chiaro solo se italiano, però), considerano illegittimo cercare di salvare la vita di chi altrimenti annegherebbe, quando si tratta di un migrante. Anzi, secondo gli ultimi progetti del ministro dell’Interno, chi li salva senza permesso (un permesso che può arrivare troppo tardi per essere utile) dovrebbe pagare a caro prezzo ogni vita salvata. Lo Stato si aggiungerebbe così alla serie di coloro che lucrano su queste vite, che diventano sempre più care ad ogni passaggio mentre se ne nega, calpesta, il valore in sé. L’attacco alla solidarietà ha ormai una storia lunga e, purtroppo, di successo. Ha iniziato il M5S a suggerire che le Ong, che operavano nei salvataggi in mare in coordinamento con l’operazione Sofia, erano in realtà in combutta con gli scafisti. Poi è arrivato Salvini con la pratica dei porti chiusi, che ha trasformato ogni salvataggio in un tira e molla defatigante con i partner europei, che certo hanno le loro responsabilità, privo di qualsiasi attenzione e rispetto per i “salvati”. Il risultato è che l’operazione Sofia è stata sospesa a tempo indeterminato, le navi Ong ancora in mare sono pochissime e agiscono a loro rischio e pericolo, gli arrivi in Italia sono fortemente diminuiti, ma non è diminuito il numero delle vite umane sparite in mare, secondo un bollettino necessariamente incompleto e che non fa più scandalo. L’operazione contro l’azione solidale continua anche sulla terraferma. Le nuove norme definite dal decreto sicurezza non restringono solo i criteri per essere considerato meritevole di accoglienza. Restringono anche i criteri di adeguatezza della accoglienza stessa, ridotta pressoché esclusivamente a vitto e alloggio. Non insegnamento dell’italiano, sostegno psicologico, formazione professionale. Neppure diritto alla residenza, quindi al servizio sanitario, al nido per i piccoli. Non è un caso che gli organismi più seri che si occupano di accoglienza abbiano in molti casi rifiutato di partecipare ai bandi e questi siano andati deserti. Si sono rifiutati di considerare queste persone come bestiame da nutrire e alloggiare, senza altri bisogni e diritti. Non si tratta di buonismo, ma di rispetto dell’obbligo costituzionale a rispettare i diritti inviolabili delle persone, che comprendono anche il diritto a essere trattati con dignità, secondo le proprie capacità e i propri bisogni. Un obbligo che sarebbe prioritariamente della Repubblica, quindi dello Stato e del suo governo, ma che quest’ultimo sembra voler sistematicamente cancellare, intimidendo e attaccando chi invece vorrebbe farsene carico per quanto nelle proprie possibilità. Anche nel caso dei rom, se ne è proclamata a dismisura la radicale alterità, la non appartenenza al genere umano civile: gente da sradicare con la ruspa dai luoghi in cui sono spesso costretti a vivere, da spostare di qui e di là senza rispetto, ostacolando ogni percorso di integrazione. Ma delegittimare la solidarietà, o restringerla al cerchio chiuso dei più prossimi, rischia di produrre le folle che minacciano la famiglia rom che ha ottenuto la casa, che si oppongono all’arrivo di un piccolo gruppo di donne e bambini, di incoraggiare i singoli che aggrediscono un “diverso” per strada o sull’autobus. Ciascuno per sé e tutti contro tutti. Su sicurezza e conflitto di interessi veti incrociati tra Lega e 5Stelle di Carmelo Lopapa La Repubblica, 12 maggio 2019 Salvini vuole portare il suo decreto contro le Ong già in settimana in Cdm, ma Conte lo stoppa. I grillini presentano la legge sulle incompatibilità per chi governa e lanciano un appello al Pd. Porte sprangate per Matteo Salvini. Il premier Giuseppe Conte, d’intesa col suo vice Luigi Di Maio, lascia cadere la richiesta del leader leghista di portare subito in Consiglio dei ministri, già questa settimana, il discusso decreto sicurezza bis. Il capo del Viminale lo aveva già confezionato, suscitando un coro di no dai grillini. Ma se è per questo, prima delle Europee non ci sarà posto nell’agenda del governo - a quanto trapela da Palazzo Chigi - neanche per la riforma delle Autonomie regionali e per la flat tax, i due cavalli di battaglia che il vicepremier leghista avrebbe voluto in qualche modo incardinare. “Io quel che è pronto e che ritengo prioritario lo porterò comunque al primo Consiglio dei ministri disponibile”, fa sapere ai suoi Matteo Salvini. E siccome il rischio che i tanti fronti aperti facciano precipitare la situazione è assai elevato, alla Presidenza del Consiglio stanno valutando l’ipotesi di non convocare affatto il governo prima del 26 maggio. Per rimandare tutte le partite all’indomani della resa dei conti elettorale. Solo un’ipotesi, appunto, ma la dice lunga sul clima che si respira da quelle parti, complice la campagna elettorale. I due leader del resto sono impegnati a beccarsi a distanza ormai ogni giorno dalle piazze di tutta Italia. Ad accendere la miccia ieri è stato Luigi Di Maio, dopo aver letto su Repubblica la notizia della telefonata tra Salvini e Silvio Berlusconi. La considera la conferma del fatto che quei due tramano alle sue spalle per il post Europee. “Se fosse confermata sarebbe grave”, sottolinea. E rilancia rispolverando il vecchio tormentone: la vera emergenza “è la corruzione e per contrastarla serve una legge sul conflitto di interessi, da lunedì la metteremo in calendario in commissione alla Camera”. Lancia perfino un appello al Pd perché la sostenga, attacco al Cavaliere e pesante provocazione all’indirizzo della Lega. Salvini gli risponde a stretto giro dicendo che quella telefonata c’è stata, è vero, ma solo per accertarsi delle condizioni di salute dell’ex premier operato di recente. Il conflitto di interessi? “Se è nel contratto si farà”, taglia corto a nome del partito il sottosegretario leghista Claudio Durigon. Pronti anche da Fi, a patto che la norma intervenga “sul rapporto tra la piattaforma Rousseau e il M5S”, avverte Mara Carfagna. Ma l’ultima crepa aperta sul conflitto di interessi è solo la conseguenza dell’altra mina piazzata due giorni fa dal ministro dell’Interno: il dl sicurezza bis che, tra le altre cose, sottrae al ministero dei Trasporti la competenza ad autorizzare l’attracco delle navi che hanno soccorso i migranti. Il ministro 5stelle Danilo Toninelli nemmeno commenta la norma, ritenuta “priva di qualsiasi fondamento giuridico”. Se ne fa carico Di Maio: “Sono deluso, non c’è niente sui rimpatri. Non vorrei che il dl fosse l’ennesima iniziativa per coprire il caso Siri”. In giornata, il premier Conte e il ministro degli Esteri Moavero Milanesi hanno scritto per rispondere a Salvini che proprio in materia di rimpatri aveva chiesto un’azione comune del governo. Ci sarà “piena sintonia”, scrivono i due al leader della Lega, che apprezza. Ma sul resto il ministro dell’Interno non si placa. “Sto sentendo tanti no” dagli alleati, “ma con i no non si va da nessuna parte: se tutti i ministri portassero i risultati che ho portato io - dice Salvini dalla Lombardia - l’Italia sarebbe un Paese migliore. Sulla sicurezza, io sono pronto, aspetto le riflessioni degli altri ministri”. Non retrocede, insomma. Sul decreto - che del resto non è approdato ancora in cdm - non trapela alcuna valutazione preventiva dal Quirinale. Il presidente Mattarella, quando ha promulgato il primo decreto sicurezza, aveva chiesto con una lettera di rispettare i trattati internazionali e il diritto d’asilo. Domani il capo dello Stato sarà alla celebrazione del centenario di Save the Children, Ong in prima fila nell’aiuto umanitario. Non è previsto un intervento del capo dello Stato, ma la presenza avrà un suo significato. Edmondo Bruti Liberati: “Il decreto è un’accozzaglia di provvedimenti pericolosi” di Liana Milella La Repubblica, 12 maggio 2019 “Con il decreto sicurezza bis si supera ogni limite. È un’accozzaglia di norme inutili, inefficaci, dannose, anche controproducenti e, per certi aspetti, incostituzionali. C’è solo da sperare che, se non la razionalità, almeno la decenza prevalga e che questo testo non venga mai adottato. Ma il solo annuncio veicola un messaggio negativo e pericoloso. Perché l’esigenza di un manifesto-propaganda in questo caso travolge ogni limite”. L’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, toga dalle reazioni ferme ma misurate, stavolta legge con Repubblica il testo del decreto sicurezza bis ed esplode. Andiamo per ordine. Partiamo dal primo articolo, sanzioni per chi salva i migranti in mare… “Siamo di fronte a una manifestazione muscolare inutile priva di ogni applicazione pratica. Nelle situazioni concrete prevarrà sempre l’obbligo di soccorrere le vite umane previsto dalla nostra legge sullo stato di necessità, l’articolo 54 del codice penale, e dalle convenzioni internazionali che la norma proposta deve comunque richiamare, nonché dalla legge dell’umanità”. È possibile portare in capo al Viminale le competenze sul controllo del mare? “Qui siamo di fronte non solo a una contingente norma ad ministrum che punta a riequilibrare le forze nella coalizione di governo, ma a un testo che altera il delicato equilibrio delle rispettive competenze dei ministri. Quello dell’Interno, il ministro di “Polizia”, svolge un ruolo essenziale in difesa della sicurezza e dell’ordine democratico, ma le sue competenze debbono essere rigorosamente limitate, pena lo scivolamento verso uno Stato di Polizia. Per fortuna, a dispetto dei proclami e delle esibizioni dell’attuale ministro dell’Interno protempore, abbiamo visto che la struttura del Viminale, grazie all’alta professionalità e alla fedeltà ai valori della Costituzione, ha agito come limite alle pressioni della politica contingente”. Lei non condivide neppure il maggior potere dato alle Direzioni distrettuali antimafia delle procure? “Estendendo le competenze delle Dda a settori del tutto estranei alle funzioni tipiche si otterrebbe il sicuro risultato di sovraccaricarle di compiti con il rischio di comprometterne la funzionalità sui reati più gravi oggi di loro competenza”. Come giudica la richiesta di Salvini di inasprire le sanzioni per le manifestazioni pubbliche in cui vengano commessi i reati di devastazione e saccheggio? “Anche questa è una norma propaganda del tutto inutile. Le sanzioni per i reati di devastazione e saccheggio già esistono e sono del tutto adeguate. Il problema è quello di individuare i responsabili ed è irragionevole appesantire le sanzioni già previste per gli organizzatori delle manifestazioni per il solo fatto che si siano eventualmente inseriti dei provocatori”. È contrario a introdurre nuovi reati per chi si comporta in modo violento durante i cortei? “La norma, sgrammaticata nella sua formulazione, introduce inutili inasprimenti nella disciplina che fu introdotta nei tempi bui del terrorismo e che ha dimostrato di essere tuttora pienamente adeguata”. Serve davvero un commissario straordinario per far notificare le sentenze di esecuzione delle condanne rimaste arretrate e quindi non eseguite? “L’articolo è forse l’esempio più clamoroso della strumentalizzazione di un problema reale. Ma questa misura, che peraltro stravolge le competenze del ministero della Giustizia, se attuata, provocherebbe solo ulteriori danni”. E perché? “Il rafforzamento, anche con misure straordinarie, del personale amministrativo è necessario, ma va attuato in modo razionale e non con provvedimenti spot. Potenziare un solo settore, per di più introducendo un commissario proposto dal ministero dell’Interno, è platealmente incostituzionale perché l’articolo 110 della Costituzione dà questo compito al ministro della Giustizia in collaborazione con il Csm. Per di più rischia di produrre ulteriori danni perché intervenire su un solo segmento di una trafila complessa crea sovraccarichi e disfunzioni su ciò che precede e ciò che segue. Anziché maggiore sicurezza si avrebbero solo ulteriori disfunzioni”. Gherardo Colombo: “Sulla corruzione abbiamo perso, ora tocca ai ragazzi” di Maurizio Giannattasio Corriere della Sera, 12 maggio 2019 Il bilancio dell’ex pm 27 anni dopo l’inchiesta che condusse alla fine della Prima Repubblica: “Sa perché Mani Pulite è finita? Perché quando sono emerse le corruzioni del cittadino comune, il vigile o l’ispettore del lavoro, sono sparite le prove”. È l’ex magistrato di Mani Pulite, il giudice della scoperta della P2 e del delitto Ambrosoli, il pm dei processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Un uomo che ha fatto tremare i potenti. Ma il Gherardo Colombo che ti viene incontro è spiazzante. Ha appena fatto la spesa al supermercato e si presenta con tre sporte in mano. Lo si incontra spesso nel parco vicino a casa con il suo amato golden retriever Luce. Il suo tempo si divide tra gli incontri con i ragazzi delle scuole e il volontariato a San Vittore e Opera. Sposato, tre figli, un nipotino di 11 anni, Colombo si è dato un compito nella sua seconda vita. Onorare una promessa fatta nel lontano 2007 quando diede le dimissioni dalla magistratura: “Voglio invitare i giovani a riflettere sul senso della giustizia”. Lo fa ormai da 12 anni. Dottor Colombo sono passati 27 anni da Mani Pulite e in Lombardia ci ritroviamo con 90 indagati e 28 persone agli arresti. Sembra che l’unica cosa incorruttibile nel nostro Paese sia la corruzione. Eterna, senza che il tempo riesca a scalfirla. È così? “Siamo solo agli inizi dell’inchiesta. La Costituzione garantisce la presunzione d’innocenza fino alla sentenza conclusiva. È vero, sono passati 27 anni da Mani Pulite e 14 da quando nel 2005 si sono conclusi indagini e processi. A mio parere nella competizione tra corruzione e legge ha vinto la corruzione e ha perso la legge”. Mani Pulite non è servita? “Mani Pulite è la dimostrazione scientifica che un fenomeno così diffuso e capillare com’era e com’è la corruzione in Italia non può essere marginalizzato dallo strumento penale. La differenza sta nel fatto che allora c’era un vero e proprio sistema collegato al finanziamento dei partiti con regole precise, rigorose e molto osservate. Oggi la corruzione è più anarchica e meno regolamentata. Il collegamento al finanziamento dei partiti è occasionale e meno visibile. Da noi esiste un principio di carattere generale per cui la regola prima è per molti la furbizia e di conseguenza, ogni volta che si può, la corruzione viene messa in pratica”. Tratteggia la corruzione come connaturata alla natura umana. È questo che ha scoperto nei suoi lunghi anni in magistratura? “No. Non è una questione genetica, non c’entra il Dna. È una questione di cultura. Nonostante siano passati 71 anni dall’entrata in vigore della Costituzione continuiamo a pensare che lo stare insieme sia regolato dai principi di una società verticale, il cui fondamento è la discriminazione, che nega la pari dignità delle persone. C’è chi sta sopra e chi sta sotto. È una visione ancora molto praticata a dispetto della Costituzione. In una concezione del genere la corruzione serve per scalare le posizioni. O noi cambiamo l’impostazione culturale o è difficile uscirne”. Lei nelle scuole spiega la legalità. Ma cos’è la legalità? È solo una questione giuridica? “In sé la legalità è un termine neutro. Significa rispetto della legge, qualunque ne sia il contenuto. C’era legalità nel 1938 se, come succedeva, gli italiani rispettavano le leggi razziali. Se oggi gli italiani si comportassero, come purtroppo qualche volta succede, in base alle leggi razziali, ci sarebbe illegalità”. Con quale senso riempiamo la parola legalità? “Per capire se la legalità ha una valenza positiva o negativa dobbiamo riferirci a un’altra parola: giustizia. Le leggi sono giuste e ingiuste, le prime creano una legalità giusta, le seconde ingiusta. Ma non abbiamo fatto altro che spostare nuovamente il problema: cos’è la giustizia?”. Sembra un concetto inafferrabile. “Solo se la si pensa teoricamente. Secondo me, a stabilire la giustizia delle leggi ci si arriva in via sperimentale, per esperienza”. Può fare un esempio? “Chi ha scritto la Costituzione ha rovesciato il modo di stare insieme. C’erano stati dei prodromi, la scelta della Repubblica, il voto alle donne, ma la vera rivoluzione è stata l’entrata in vigore della Carta. Prima la regola era la discriminazione, non solo di genere, ma di censo, di etnia, di religione. Arriva la Costituzione e riconosce solennemente la dignità universale, il contrario della discriminazione. I costituenti lo affermano perché alle loro spalle hanno due guerre mondiali. Noi facciamo fatica a capire cosa hanno vissuto e sofferto: i 55 milioni di morti della Seconda Guerra mondiale per noi sono solo una statistica che per di più non ci mostra chi ha perso un braccio, una gamba, la vista, la casa. Una tragedia resa ancora più agghiacciante dalla Shoah e dalla bomba atomica. Oggi assimiliamo la bomba atomica a un cataclisma naturale, in tanti siamo nati quando c’era già. A chi viveva allora, quell’ordigno ha cambiato il futuro. La conseguenza è la Costituzione e, quasi un anno dopo, la dichiarazione dei diritti dell’uomo nel cui preambolo ci si riferisce chiaramente alla necessità di evitare che si ripetano le barbarie che hanno insanguinato il secolo scorso. Il primo articolo della dichiarazione afferma che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Significa che lo strumento per evitare che in futuro quell’orrore possa ripetersi consiste nel riconoscere finalmente la pari dignità di ciascuno. Si dà così alla parola democrazia non solo un valore formale (una testa, un voto) ma sostanziale (la pari dignità è il presupposto che giustifica “una testa, un voto”)”. Non teme che affidare il senso della giustizia all’esperienza e in ultima istanza alla storia sia pericoloso? Anche la giustizia di oggi domani può diventare ingiusta. “Non possiamo dire che è o diventerà ingiusta perché fino a oggi non l’abbiamo sperimentata realmente. Constato infatti che continuiamo ad applicare le regole di ieri”. È questa la ragione per cui corruzione ed evasione fiscale sono così diffuse? “È così. La radice è sempre quella”. È possibile cambiare? “È complicato perché, come diceva Kant, siamo un legno storto e le nostre imperfezioni sono enormi. Non abbiamo solo la testa ma anche la pancia che spesso prende il sopravvento. La prima cosa da fare è individuare il campo dove operare. È quello educativo. In secondo luogo è necessario conformare l’educazione al principio informatore della nuova organizzazione sociale. Non è semplice perché siamo imbevuti di cultura verticale e continuiamo a educare secondo il relativo schema. Vediamo le regole come un mezzo per imporre l’obbedienza e della regola guardiamo molto più la sanzione che il precetto, in perfetta sintonia con una società dove chi sta sopra comanda e chi sta sotto obbedisce”. E se non obbedisce viene punito… “La sanzione porta all’obbedienza. Del precetto ci dimentichiamo. Dovrebbe essere il contrario, perché il precetto ti dice come ottenere il risultato. Negli incontri a scuola con i ragazzi faccio esempi concreti che sfiorano la banalità. Chiedo: vi piacciono le regole? No. E le torte? Sì. Secondo voi c’è una relazione tra la torta e la regola? Qualcuno ci arriva subito, qualcun altro dopo un po’. La risposta è sì, perché per fare la torta bisogna seguire una regola, la ricetta. La regola è un’indicazione per raggiungere il risultato. Si accorgono di essere in contraddizione. Non amano le regole, ma amano ciò che con le regole si crea”. Perché si dimentica il precetto? “Perché spesso non riusciamo a vedere il risultato. Così chi non paga le tasse dice non pago perché gli altri rubano. Può succedere, ma l’affermazione è generalmente una scusa. Ci sta dietro una convinzione che dipende dal non vedere che le imposte sono le risorse che permettono a tutti di avere i diritti. Non si può avere sicurezza, istruzione, sanità, acqua corrente in casa senza risorse e cioè i soldi che arrivano dalle tasse”. Lei sostiene che le sanzioni contro la corruzione servono a poco. Altri vorrebbero sanzioni più severe. “Se usiamo la sanzione per far rispettare la regola, ma la sanzione non viene applicata, implicitamente comunichiamo che il comportamento formalmente vietato è in effetti consentito”. Se la sanzione non arriva significa che la giustizia non funziona. “Credo che sia impossibile riuscire a controllare tutto, salvo essere controllati dall’occhio del Grande Fratello. L’amministrazione della giustizia non funziona se le regole sono in contrasto con la cultura e la consuetudine. Anche se le pene sono aumentate la corruzione non è sparita. Ricordiamoci le grida manzoniane. Ammesso che il diritto penale serva per educare le persone, cosa a cui non credo ormai per niente, in realtà se servisse educherebbe solo all’obbedienza. In una democrazia non abbiamo bisogno di persone obbedienti, ma di persone che sappiano gestire la loro libertà, che sappiano scegliere e discernere. Bisogna insegnare a discernere, non a obbedire. Altrimenti la democrazia salta”. Quali sono le responsabilità della politica? “Faccio un’affermazione forte: la politica è meno colpevole del cittadino. Sa perché Mani Pulite è finita? Perché all’inizio le prove ci portavano verso chi stava in alto, il segretario di partito, il sindaco, l’onorevole. Figure con cui i cittadini non si identificavano, e allora tutti a sostenere le indagini, a volte anche scorrettamente (ricordiamoci della dignità delle persone). Poi le inchieste sono proseguite e sono emerse le corruzioni del cittadino comune: il vigile che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, l’ispettore del lavoro che per poche lire non controlla se ci sono le cinture di sicurezza nei cantieri. Allora i cittadini hanno cominciato a pensare: ma questi qui cosa vogliono? Vogliono vedere quello che faccio io? Non ci pensino nemmeno! Sono sparite le prove e Mani Pulite è finita. Spesso nelle scuole parlo di evasione fiscale. Tutti la maledicono, sono convinti di non averne a che fare. Replico che non sto parlando dell’evasione di Zio Paperone. Mi rivolgo direttamente ai professori e ai genitori. “Certamente non voi, ma quanti pagano le tasse alla mattina perché gliele trattengono sullo stipendio e al pomeriggio fanno lezioni private in nero? O quanti non si fanno fare la fattura dall’idraulico perché così costa meno?”. L’atteggiamento dei miei ascoltatori cambia”. C’è un problema di selezione della classe dirigente? “È necessario non fare di tutte le erbe un fascio. Se per molti si sta insieme (meglio, ci si mette in scala) per furbizia, per tante persone si sta insieme evitando di imbrogliarsi. Anche in politica. Ai tempi di Mani Pulite molto spesso la corruzione era legata al finanziamento illecito dei partiti, e il finanziamento costituiva una sorta di giustificazione. Un po’ ipocrita, ma reale. A chi manovrava le tangenti per i partiti magari restava qualcosa attaccato alle mani (si sa che il denaro è appiccicoso) ma era poco a fronte delle centinaia e centinaia di miliardi che giravano. La dignitosissima e disperata lettera di Sergio Moroni è profondamente significativa. Moroni si suicida perché gli sembra che gli sia stata tolta la terra da sotto i piedi. Certo il finanziamento illecito era reato, ma era come se il reato fosse stato abrogato dalla prassi, la regola effettiva per lui era che si poteva fare”. Mani Pulite ha distrutto i partiti della cosiddetta prima Repubblica. “Mani Pulite, come la scomparsa di tanti partiti storici, è la conseguenza della caduta del Muro di Berlino. Prima - penso alla P2, ai fondi neri dell’Iri, indagini che ho svolto personalmente - succedeva che, quando non era possibile fare altrimenti, fosse la stessa magistratura a togliere le castagne dal fuoco. La regola era che in certi cassetti non si guardava”. Che cosa le chiedono gli studenti? “Il mio approccio è “costituzionalmente orientato”: bisogna sì parlare, ma anche ascoltare. Purtroppo l’ascolto non è una caratteristica costante nelle nostre scuole. Non bisogna generalizzare, ci sono molte eccezioni, ma l’atteggiamento complessivo è molto verticale. Lo si vede anche nei piccoli dettagli, per esempio nel come ci si rivolge ai ragazzi. Giorni fa in un’aula di terza media, prima che arrivassero professori e preside, chiacchieravo con un ragazzo dandogli del lei. Quando finalmente ha capito che mi rivolgevo a lui un grande sorriso gli ha illuminato il viso perché ha sentito di essere considerato”. Il mondo salvato dai ragazzini? “Sì, peccato che poi ci siamo noi, gli adulti. Ci aiuta un po’ il fatto che c’è un ricambio generazionale”. Pessimismo da una parte, via d’uscita dall’altra. Chi vince? “Non sono pessimista, faccio fotografie. La via d’uscita dipende dall’impegno che ci si mette. Sono ottimista perché vedo quanto i ragazzi sono disposti a coinvolgersi su questi temi”. Nonostante tutto crede nel progresso? “Ogni tanto si verificano terribili ricadute, come il fascismo e il nazismo nel secolo scorso, ma il trend complessivo è che si va avanti. La schiavitù non è più legale da un secolo e mezzo negli Stati Uniti, e le donne votano in Italia da oltre 70 anni. Siamo molto lenti a cambiare, ma la nostra storia ci dice che ne siamo capaci”. La castrazione chimica? È illegale e inumana, si pensi a cose più serie di Luigi Migliorini Corriere Veneto, 12 maggio 2019 Nei giorni scorsi in Polesine c’erano gazebi della Lega in cui si raccoglievano sottoscrizioni per una petizione per l’introduzione della castrazione chimica per gli stupratori. Ad Adria mi è stato chiesto se volevo firmare e ho risposto ironicamente che l’avrei fatto se avessero aggiunto il ritorno al taglio della mano per i ladri e il ripristino dell’antica lapidazione per le adultere (per gli uomini la pena non era prevista). Al diniego all’aggiunta è seguito il mio rifiuto di firmare. Non capisco come si possa insistere in siffatta iniziativa, anziché semmai prospettare un inasprimento delle attuali pene, peraltro già elevate. Lo stesso ministero della Giustizia, con nota del capo di Gabinetto del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha definito la castrazione chimica incostituzionale e ha condiviso il giudizio negativo del Comitato nazionale per la protezione dei diritti dell’uomo e la biomedicina. L’articolo 32 della Costituzione stabilisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. La castrazione chimica, seppure attuata tramite farmaci, determina un’alterazione nel fisico e, probabilmente anche nella psiche, che viola i succitati limiti, considerato che il rispetto della persona umana è costituzionalmente previsto in linea generale, senza esclusioni. Ha sostenuto l’incostituzionalità in questione, tra gli altri, anche il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, in un intervento televisivo. L’eventuale coatta castrazione chimica potrebbe determinare scompensi mentali tali da rendere chi vi è stato sottoposto, uscito dal carcere (non è prevista la condanna all’ergastolo) pericolosissimo. E potrebbe esserci il caso, seppure più raro, di violenza sessuale posta in essere da una donna (sono noti alcuni episodi soprattutto nei confronti di ragazzi). In queste ipotesi, ovviamente niente castrazione chimica ed altra incostituzionalità sotto il profilo della disparità di trattamento tra uomo e donna. Smettetela quindi, leghisti, con le demagogiche amenità e occupatevi di cose serie. La mafia nigeriana, storia delle cosche venute dall’Africa Nera di Roberto Saviano L’Espresso, 12 maggio 2019 Alleanze con Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Apparato gigantesco, gerarchia rigida. Un libro spiega come è cresciuta la mafia nigeriana. La mafia nigeriana non è leggenda metropolitana, ma una realtà criminale presente nel nostro come molti altri paesi, eppure quando se ne parla senza conoscenze, quando il racconto viene strumentalizzato per criminalizzare gli immigrati, ci si allontana pericolosamente dal comprenderne la reale portata. Anche per la mafia nigeriana vale la regola aurea: parlarne in maniera superficiale è il più grosso favore che le si possa fare. Oggi, chi volesse approfondire, potrà leggere il libro di Leonardo Palmisano, “Ascia Nera”, edito da Fandango. Palmisano ci presenta una mafia che non è affatto minore, ma un’organizzazione criminale che parte dal delta del Niger e trova terreno fertile ovunque decida di estendere le proprie attività. E avverte: guai a ritenere la mafia nigeriana dedita unicamente alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento della prostituzione, ha in realtà la capacità di entrare anche in altri mercati, grazie alle consorterie che è stata in grado di creare con le mafie autoctone. I punti di riferimento di Black Axe sono rintracciabili nella predicazione antischiavista, derivata strumentalmente dalle Black Panther. Agli esordi l’egemonia di Ascia Nera si determina grazie alla massa di giovani istruiti, studenti universitari che imbracciano le armi a Benin City, nel 1977. Nasce come confraternita studentesca (Neo Black Movement), ma si distingue subito per l’adesione al cultismo e alla pirateria. Nel libro di Palmisano gli Aye (African Youth Empowerment), i picciotti, rivelano la lunga trama degli affari e delle affiliazioni, l’evoluzione di un apparato gigantesco. Dalle grandi città universitarie nigeriane, si sono spostati nel mondo occidentale, prima governando la tratta delle donne, poi entrando nello spaccio di piazza, nella gestione partecipata del narcotraffico transcontinentale, nel riciclaggio di denaro sporco nelle banche svizzere, nella compravendita di armi e di pietre preziose sul mercato olandese e di Dubai. L’affidabilità del sistema è garantita da una gerarchia rigida e molto ben strutturata, un’organizzazione che ha preso a modello le mafie italiane. Palmisano trova similitudini tra la stratificazione interna di Ascia Nera e le gerarchie ‘ndranghetiste e anche la suddivisione del territorio, come i processi decisionali, sono mutuati dalle organizzazioni criminali italiane. In Nigeria, Ascia Nera continua a farsi chiamare Neo Black Movement e si comporta come un’associazione benefica, aprendo ospedali, regalando automobili alle polizie locali, edificando un sistema di welfare criminale in parte paragonabile a quello vigente in vaste aree del sud Italia. Contemporaneamente il movimento mafioso corrompe colletti bianchi, politici ed imprenditori, diventando un interlocutore privilegiato per le classi dirigenti nigeriane. E, in ultimo, partecipa alle elezioni con l’arma della minaccia e dell’assassinio. Fuori dalla Nigeria fa affari con i narcos messicani e con i fondamentalisti pakistani per l’importazione di cocaina e di eroina gialla. Si raccorda con grande facilità alle grandi mafie sul territorio italiano, approfittando dell’esclusione sociale dei neri per ricattare, minacciare e assassinare chi si oppone alle sue regole. Palmisano racconta di come in Italia si sia insediata in Sicilia, dove ha patteggiato il proprio radicamento con una decina di mandamenti; in Calabria, dove gestisce con la ‘ndrangheta i ghetti; in Puglia, dove compera marjuana dalla mafia del Gargano e smercia droga al dettaglio per conto della mafia barese e dalla Sacra Corona Unita. E in Campania, dove spaccia e ricetta al servizio della camorra. Poi c’è il radicamento al Nord, dove gode dello spazio conquistato dalle mafie meridionali e della permeabilità del tessuto economico e imprenditoriale. In Europa ha relazioni con la camorra marsigliese insediata a Parigi e con la mafia russa a Londra e a San Pietroburgo. Di tutto questo possiamo continuare a parlare come di un pericolo tanto onnipresente quanto generico, cosicché nulla cambierà. La marginalizzazione e l’esclusione dal mercato del lavoro sono le prime cause di affiliazione tanto per gli italiani quanto per gli stranieri. Continuino pure i nostri politici a urlare #primagliitaliani e #lamafiafaschifo: non avranno risolto nulla, ma tutti quegli hashtag li avranno fatti sentire almeno al passo con i tempi. Magra consolazione. Aosta: dentro le mura del carcere cresce un orto solidale di Francesca Soro La Stampa, 12 maggio 2019 Il progetto coinvolge otto carcerati: produrrà verdura per le famiglie che non riescono ad arrivare a fine mese. In Valle d’Aosta è nata una mini filiera ortofrutticola dagli “ultimi” agli “ultimi”. Decolla il progetto dell’orto carcerario solidale che produrrà verdura per le famiglie della regione che non riescono ad arrivare a fine mese. L’Avvc-Associazione valdostana volontariato carcerario ha lanciato nel carcere di Brissogne (circa 200 detenuti) la nuova iniziativa benefica: 150 metri quadrati di terreno dentro le mura, coltivato da otto detenuti sotto la guida di un esperto della cooperativa Mont Fallère, rifornirà di prodotti freschi l’emporio solidale “Quotidiamo”, nel capoluogo regionale, centro che distribuisce generi di prima necessità alla popolazione aostana in stato di disagio economico. I muscoli e la buona volontà dei detenuti divisi in due squadre per tre giorni a settimana e coordinati dai volontari dell’Associazione e della cooperativa, sono sostenuti dalla Compagnia di San Paolo che ha trovato il progetto virtuoso. “Siamo all’inizio - dice Maurizio Bergamini, presidente dell’Avvc - ma crediamo che questo progetto sia un vero e proprio ponte “agro-solidale” tra il mondo dentro le mura e quello fuori. La sofferenza e il disagio si trovano in entrambi, ma questo non impedisce loro di aiutarsi”. Il gruppo di detenuti a Brissogne che ha scelto di lavorare la terra di un’area quasi dismessa della casa circondariale, seminerà, annaffierà e curerà filari di piantine i cui frutti saranno, durante l’estate e l’autunno, raccolti in cassette e portati all’emporio. Lì i volontari li esporranno negli scaffali a disposizione delle circa 90 famiglie bisognose iscritte dai servizi sociali per la spesa. “In passato avevamo già provato con una coltivazione, ma i detenuti non si mettevano d’accordo con la destinazione dei frutti del loro lavoro. Questa volta l’obiettivo è chiaro: provvedere alla spesa di chi non ha i soldi per mettere i pasti in tavola ogni giorno. La verdura non resterà qui” dice Bergamini. L’Avvc punta sull’agroalimentare da tempo: “Abbiamo provato con il miele e poi nel 2017 siamo partiti con un campo di zafferano recuperando una parte incolta lungo il perimetro del carcere - dice il presidente dell’associazione La terra è bassa - trampolino per andare oltre i muri”. Catania: se basta una lettera per rendere i detenuti più umani di Martina Monaco* sicilianpost.it, 12 maggio 2019 Michele Dara, autista 50 enne della provincia di Catania, da 10 anni intrattiene rapporti epistolari con gli italiani più soli: chi è rinchiuso nelle nostre carceri. Una storia di ordinaria bontà. Michele Dara, autista 50 enne della provincia di Catania, da 10 anni intrattiene rapporti epistolari con gli italiani più soli: chi è rinchiuso nelle nostre carceri. Una storia di ordinaria bontà Ogni giorno milioni di italiani si svegliano, si vestono, escono di casa e interagiscono con la gente che incontrano per strada. Gesti che fanno parte della quotidianità di ognuno di noi, o quasi…Ci sono persone per le quali una chiacchierata sul tram la mattina o un caffè in compagnia […] Ogni giorno milioni di italiani si svegliano, si vestono, escono di casa e interagiscono con la gente che incontrano per strada. Gesti che fanno parte della quotidianità di ognuno di noi, o quasi…Ci sono persone per le quali una chiacchierata sul tram la mattina o un caffè in compagnia degli amici al bar del paese non sono cose affatto scontate, e queste persone sono i detenuti; ed è proprio a loro che Michele Dara regala un sorriso ogni giorno della sua vita. 50 anni e una carriera da autista a San Michele di Ganzaria, un paesino di 3000 anime in provincia di Catania dove è nato e cresciuto, Michele è una persona comune come tutti noi. Se non fosse che da più di 10 anni dedica il suo tempo agli emarginati dalla società, a chi si trova dietro le sbarre di un penitenziario ed è dimenticato da tutti. Tutto è iniziato quando un caro amico di Michele, Fabio, è stato arrestato per spaccio di sostanze stupefacenti e condannato a 6 anni di reclusione. Michele ha scelto di non abbandonarlo dimostrandogli che le amicizie, quelle vere, sono capaci di superare qualsiasi ostacolo anche quando Fabio è sprofondato in una profonda depressione che lo ha portato a tentare il suicidio nel maggio del 2009. Basta una parola. “Mi hai salvato dalla morte dell’anima, e mi hai fatto vedere che anche per le anime marce come me c’è una speranza” scrive Fabio in una lettera indirizzata all’amico. Furono proprio queste parole a cambiare la vita di Michele e a fargli capire che la sua missione nel mondo sarebbe stata quella di dedicarsi ai detenuti, perché a volte una parola di conforto può salvare la vita di qualcuno. Michele Iniziò così una corrispondenza epistolare con i reclusi nel carcere di Bollate, un comune in provincia di Milano, dove Fabio stava scontando la sua pena, a volte andava a trovarli instaurando con loro delle vere e proprie amicizie. Il cappellano, resosi conto dell’impatto positivo delle sue parole, ne discusse col direttore del penitenziario Fabrizio Rinaldi. Michele fu invitato a perseverare nel suo tentativo di creare umanità laddove si smette di essere umani. Dare e ricevere. Da quel giorno Michele inizia ad inviare lettere non soltanto al carcere di Bollate ma anche ai detenuti che stanno scontando la loro pena in diverse carceri d’Italia. Il 23 novembre 2019 scrive in una missiva indirizzata a Salvatore P.: “Questa esperienza di vita mi ha regalato tante emozioni, mi fa sentire vivo e completo; è grazie ad essa che ho colmato il vuoto che sentivo che mi faceva sentire incompleto su questa terra. Ho imparato tanto da voi: a saper ascoltare nel senso più profondo della parola, a farlo con il cuore; a liberarmi dai pregiudizio perché io non sono nessuno per giudicarti. Quando abbracciai il Santo Padre durante la sua visita pastorale a Piazza Armerina nello scorso settembre gli sussurrai di pregare per te”. In un mondo reso sempre più sterile ed insensibile ai sentimenti ed al dialogo una storia di eroismo quotidiano come questa ci regala la speranza che la società in cui viviamo possa un giorno diventare migliore. Forse basta un po’ di coraggio per fare del bene e tutto il resto è secondario. *Studentessa del corso di Storia e Tecnica del giornalismo dell’Università degli Studi di Catania tenuto dal prof. Giuseppe Di Fazio Airola (Bn): i giovani detenuti di presentano loro opere in ceramica ottopagine.it, 12 maggio 2019 Martedì in Regione progetto tra legalità e senso civico adolescenti in cerca di risposte. Promosso dal Garante Campano dei detenuti e realizzato dall’Associazione di promozione sociale “Tarita”. Martedì prossimo alle 11, presso il Consiglio Regionale della Campania (Isola F13 al 21° piano “Sala Nassirya” Centro Direzionale di Napoli), ci sarà la presentazione dei manufatti e le opere realizzate da 10 detenuti del carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento. Il progetto è stato promosso dal Garante Campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, e realizzato dall’Associazione di promozione sociale “Tarita”. Alla conferenza stampa parteciperanno la Presidente del Consiglio Regionale Rosa D’Amelio, il Garante Campano dei detenuti, Ciambriello, la dirigente del centro Giustizia Minorile e Comunità della Campania Maria Gemmabella, la direttrice del Carcere di Airola, Marianna Adanti e la presidente dell’Associazione “Tarita” Carmela Grimaldi Eccezionalmente saranno presenti alcuni giovani ristretti presso l’istituto di pena della Valle Caudina che hanno partecipato al progetto. “Queste iniziative per adolescenti a metà sono una educazione alla speranza - spiega Ciambriello - che non è un lenitivo che addormenta il dolore e la solitudine, ma è una forza che impregna il loro presente e li motiva a trasformare la loro vita. La ceramica per modellare, ricostruire e ripartire”. “Noi, disposti a diventare disumani per mantenere il nostro stile di vita” di Paolo Cognetti L’Espresso, 12 maggio 2019 Due scrittori dialogano sull’ultimo romanzo dell’autore francese Philippe Claudel. Che parla di tragedia dei migranti e cinismo del popolo in un Continente che si decompone. Philippe Claudel e io ci incrociamo, qualche volta, al di qua e al di là delle Alpi, e ci leggiamo a distanza con l’affetto che gli amanti della montagna hanno tra loro, e che li fa sentire, fin dall’inizio, vecchi amici. Se c’è una qualità che è subito riconoscibile in Philippe è l’umanità, una forma di generosità e di modestia, di attenzione verso l’altro e di accoglienza. Per questo mi ha molto colpito che l’ultimo suo libro, “L’arcipelago del Cane” (Ponte alle Grazie), parli di uomini che diventano disumani. È ambientato in un’isola del Mediterraneo dove il mare, un giorno, porta i cadaveri di alcuni ragazzi dalla pelle scura: gli abitanti decidono di nasconderli per proteggere la propria tranquillità, scelgono di rimuoverli, di dimenticarli, e poi di mentire e coprirsi a vicenda, complici gli uni degli altri in questa viltà collettiva, questo cinismo di popolo. È un libro duro, sia con i personaggi che con i lettori, perché dopo un po’ è difficile non pensare che sull’isola ci abitiamo noi, che il libro sia un’accusa diretta a noi italiani, francesi, europei, tutti noi che stiamo dalla parte giusta del mare e distogliamo lo sguardo, decidiamo di non vedere e di non agire. Quando l’ho finito mi è venuta voglia di parlarne con lui. È così, Philippe? Vorrei sapere con quale urgenza hai scritto questa storia e come ti sentivi mentre la scrivevi, perché a volte mi è sembrato che la penna ti bruciasse tra le dita. “Lo scrittore vive nel mondo, come chiunque. Il mondo gli procura gioie, sofferenze, problemi, ferite e carezze che forse lui sente in modo più intenso degli altri uomini, e che poi cerca di tradurre in parole. Celebra le meraviglie, ma è anche una sentinella, uno che lancia degli allarmi. Insomma, è figlio di Orfeo e Cassandra: dispiega la lingua come una stoffa preziosa e fa uso della sua grazia, ma con questa esplora la dimensione tragica dell’esistenza umana e i pericoli che minacciano il gruppo sociale e l’individuo. Ho già scritto molto sulla figura del profugo, di colui che deve lasciare il proprio Paese per cercare una vita migliore altrove, che fugge dalla miseria, dalla guerra, dalla fame, mi sono però reso conto che bisognava scrivere ancora perché intorno a noi, con la nostra complicità diretta o tacita, accadevano cose che interrogavano il principio stesso di umanità, e che avrebbero dovuto farci vergognare. Ciò che m’importava in “L’arcipelago del Cane” era parlare non tanto di quegli uomini e quelle donne che a rischio della vita tentano di superare mari e frontiere, ma parlare di noi, che abbiamo la fortuna di vivere in Paesi ricchi e protetti, e che speriamo di mantenere il nostro modo di vita, costi quel che costi, come se il mondo esterno non esistesse, come se la nostra vecchia Europa fosse un giardino recintato o una fortezza. È di questa illusione che ho voluto scrivere, e dell’inquietudine che induce molti nostri concittadini a prendere decisioni disumane”. È tutta questione di proteggere il proprio benessere o c’è altro? Che cosa abbiamo paura di perdere, secondo te? Il fetore di cadaveri che aleggia sull’isola a un certo punto sembra provenire non solo dai morti per mare, ma dall’isola stessa. È la nostra Europa questo cadavere in decomposizione? Identità e tradizione sono davvero dei valori? “Io sono molto legato ai luoghi, e in particolare al luogo in cui sono nato e dove vivo ancora, in Lorena, nel nordest della Francia, che nel XX secolo è stata terra d’immigrazione per molti italiani e polacchi giunti lì per lavorare nelle miniere o nell’industria siderurgica. Le mie radici mi definiscono e amo la terra in cui si trova la mia casa. Nondimeno, non è la mia terra. Non ne sono il proprietario esclusivo. Non è di mia proprietà. E sono pronto a dividerla con chi vorrà venire a viverci in pace, portando la sua differenza e rispettando le mie usanze. Per secoli, in molte civiltà, l’altro, l’estraneo, era accolto con ospitalità, gioia e curiosità, perché incarnava un sapere, una cultura, un talento che non si conosceva. Si vedeva il suo arrivo come una fortuna e un beneficio. Oggi come oggi, molti nostri concittadini non percepiscono più lo straniero come qualcuno che porterà qualcosa, ma come chi prenderà loro qualcosa. Siamo vecchissimi Paesi, su un vecchio continente, che fu quello di civiltà magnifiche, ma oggi siamo così vecchi da non riuscire a vedere come il mondo è cambiato e come cambierà ancora”. Certo saprai che in Italia il primo partito è oggi un partito apertamente ostile ai migranti, che anzi ha fatto di questa ostilità la ragione del proprio successo. La maggioranza dei miei connazionali esulta perché chiudiamo i porti o perché non concediamo la cittadinanza a ragazzi nati e cresciuti nel nostro paese. Io mi sento molto in difficoltà a comunicare altre idee in questo periodo - per esempio la bellezza della varietà umana, il coraggio di cambiare il proprio modo di vivere - confesso che spesso preferisco lasciar perdere per non mettermi a litigare con le persone. Sento che litigare non serve a niente, vorrei piuttosto potermi confrontare con calma, ma è proprio lo spazio della calma, del confronto, che ci è stato sottratto in questi tempi di violenza politica. Come si fa, Philippe? “Mi sembra che tutta l’Europa regredisca verso un medioevo di feudalesimo e di fortificazioni. Non c’è soltanto il caso dell’Italia, ma anche della Francia, della Polonia, dell’Austria, dell’Ungheria, dei Paesi Bassi, della Germania, del Belgio, della Gran Bretagna, della Svezia, e da poco anche della Spagna. Ci sono leader politici che giocano con la paura dei popoli come dei piromani con dei fiammiferi. Non è difficile far paura alla gente e far crescere le loro paure: questo tipo di discorso penetra, direi, nella parte più arcaica del cervello dell’uomo, quella in cui risiede il suo istinto di sopravvivenza, quella sopravvivenza che implica un posto in cui abitare e del cibo. Nel momento in cui si fa credere che questi due elementi indispensabili sono minacciati dall’arrivo di stranieri, il gioco è fatto: si insinua nella mente dell’uomo il germe dell’inquietudine. Poi, basta alimentarlo regolarmente e farlo crescere. Detto questo, nel caso dell’Italia, la salita al potere di quel tipo di partiti è anche il risultato di un’impotenza o di una pavidità dell’Unione Europea che non ha aiutato a sufficienza il vostro Paese nell’accogliere e nel farsi carico dei migranti. Ancora una volta, molti altri Paesi hanno preferito distogliere lo sguardo e lasciarvi soli o quasi a sbrogliarvela”. Seguo con preoccupazione i movimenti popolari che agitano la Francia, non tanto per i contenuti quanto per la rabbia che esprimono e che vedo divampare anche da noi. È questo che fa paura: la rabbia, il desiderio di vendetta, quello di annientare l’avversario, siano i governanti o solo uno che la pensa in un altro modo. Che aria stai respirando nel tuo Paese? “Per la prima volta nella vita, qualche mese fa ho avuto il mal di Paese, come si dice di avere il mal di stomaco o il “mal d’anima”. Il movimento dei Gilet Gialli è nato da rivendicazioni eterogenee, talora del tutto lecite, talora del tutto bislacche o irreali. Attestava soprattutto una mancanza totale di fiducia nella classe politica, nei dirigenti del Paese. La maggior parte delle persone che hanno aderito a questo movimento si sentivano abbandonate, mal rappresentate o ignorate. C’è però stata dopo poco una deriva verso la violenza, violenza delle parole, violenza delle azioni, che ha raggiunto dimensioni che non avevo mai riscontrato. La cosa più preoccupante per me era constatare come il Paese si divideva, come molte rivendicazioni attestassero una volontà egoistica. D’altronde, il dialogo era diventato impossibile: si mettevano sullo stesso piano un’analisi e un’opinione, un fatto e una supposizione. I social network, che sono casse di risonanza straordinarie per le stupidaggini, sono riusciti a esacerbare ancor più le tensioni. Vivo in un Paese che oggi sembra aver ritrovato la calma, e che l’incendio di un edificio emblematico della nostra cultura, Notre-Dame-de-Paris, è riuscito miracolosamente a rinsaldare, anche se le tensioni e le tentazioni che sono affiorate negli ultimi mesi non si sono affatto sedate. Terminerò dicendo che in pochi giorni sono stati raccolti più di un miliardo di euro donati per restaurare la famosa cattedrale, ma che mai si è raccolta così in fretta una simile somma per affrontare qualche tragedia umana”. Perché i senza dimora non hanno il “reddito di cittadinanza” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 12 maggio 2019 Workfare all’italiana. Paradossi del reddito di cittadinanza: la campagna Inps con camper e gazebo a Roma, Milano, Napoli, Bologna e Palermo per informarli su un diritto negato dalla legge. In fila in Caf della Cgil per il “reddito di cittadinanza”. Con i comuni dell’Anci l’Inps organizzerà nelle prossime settimane una campagna con camper e gazebo per spingere i senza fissa dimora a presentare la domanda per il sussidio impropriamente detto “reddito di cittadinanza”. Secondo il presidente nominato dell’ente previdenziale Pasquale Tridico, ideatore di questo sistema di sussidio pubblico in cambio di lavoro pubblico, formazione e mobilità obbligatoria (“workfare”), i camper e i gazebo potranno partire dalla stazione Termini di Roma e faranno tappa anche a Milano, Napoli, Palermo e Bologna. L’obiettivo di “Inps per tutti”, questo è il nome della campagna, sarà “raccogliere, là dove le barriere burocratiche lo impediscono, le richieste di reddito di cittadinanza”, a cominciare di chi ha diritto e bisogno di questo “reddito” “ma non lo sa”. A cominciare dai “disabili” e dai “senza tetto”. Tridico ha aggiunto: “Solo a Roma ci sono 17 mila senza tetto iscritti con “residenze fittizie” di cui solo cento hanno fatto domanda di accesso al Reddito di inclusione (Rei), e solo 1200 a quello di cittadinanza”. L’iniziativa è stata annunciata lo scorso otto maggio in un’audizione davanti alla commissione lavoro al Senato. “Barriera burocratica” è un’espressione singolare perché attribuisce l’esclusione dei senza tetto a una volontà impersonale, mentre è una diretta conseguenza della legge. La soglia massimale del “reddito” è 780 euro. L’importo finale è il risultato della differenza tra questa soglia, il reddito Isee a 9.360 euro e altri fattori. Com’è noto, e lungamente argomentato su Il Manifesto diversamente dalla propaganda, questi soldi non andranno a tutti. Per quanto riguarda i senza fissa dimora, ai pochi che hanno i requisiti saranno negati i 280 euro versati come contributo per l’affitto perché non hanno una residenza. Per accedere ai 500 euro è necessaria la residenza in Italia per un minimo di dieci anni, gli ultimi due consecutivi. Condizione razzista imposta dalla Lega per escludere i cittadini extracomunitari residenti in Italia che tuttavia colpisce anche i poveri che hanno perso la residenza e sono stati cancellati dalle anagrafi dei comuni. Con ogni probabilità la campagna dell’Inps sarà diretta agli italiani senza dimora, e non agli stranieri che non hanno la residenza e sono ugualmente poveri. Un’altra discriminazione che colpirà almeno 50 mila persone. Saranno esclude inoltre le persone che hanno la residenza in una via fittizia. A Roma questa pratica è nota come “Modesta Valenti” dal nome di una senza tetto deceduta il 31 gennaio 1983 dopo cinque ore di rimpalli burocratici tra 118 e servizi sociali. Modesta fu identificata 9 mesi dopo perché non aveva documenti. La comunità di Sant’Egidio organizzò i funerali. Sono migliaia oggi i senza tetto che vivono tra i 10 mila (stimati) nelle occupazioni della Capitale, ad avere ottenuto la “residenza fittizia” che reca il suo nome. Tuttavia solo 200 comuni su 7915 riconoscono la prassi, sostiene la Federazione Italiana organismi per le persone senza fissa dimora. In alternativa, sarà necessario cambiarla insieme alla prassi sulla residenza virtuale. Politicamente, significa uno scontro tra Lega e Cinque Stelle perché sarà necessario rivedere le derive securitarie delle politiche urbane, quelle del “decoro” e, in particolare, l’articolo 5 del “piano Lupi” che attacca le occupazioni abitative. Dunque è possibile che i senza dimora non “sappiano” del “reddito”. Ma è molto probabile che, pur conoscendolo, non possano presentare domanda perché la legge glielo impedisce. Al 19 aprile su 472.970 mila pratiche accettate, ben 101,803 aveva percepito tra 40 e 200 euro. Calcoli che andranno aggiornati. Al 30 aprile erano state presentate 1.016.977 domande, ben al di sotto dei 4,9 milioni potenziali annunciate dal governo, stima rivista al ribasso dall’Inps e dall’Istat: 2,7 e 2,4 milioni. Tra i 100 mila e più che hanno ricevuto il modesto sussidio si sta facendo strada l’ipotesi della rinuncia. Un’ipotesi non contemplata dalla legge. Si sta discutendo su come affrontare il problema, approntando un modulo. Il vicepremier Di Maio è tornato ieri sul “miliardo” che sarà “risparmiato” dal “reddito”. Lo fa passare per un “risparmio” dovuto ai “controlli” operati su chi, ad oggi, ha fatto domanda. Più che altro è la prova che, pur con un criteri più ampi, questo sussidio malconcepito è inadatto a rispondere ai bisogni dei poveri e dei lavoratori poveri che non sono (ancora) troppo poveri per percepirlo. Invece di reinvestirli sulla misura, magari ampliandola e rendendola meno condizionata, li si vuole dirottare altrove in provvedimenti a pioggia per un welfare improvvisato “per le famiglie”, “il ceto medio” e l’aumento della “crescita demografica”. Questi cortocircuiti e paradossi aspettano il “reddito” pentaleghista nei prossimi mesi. Flick: “I migranti vanno trattati come cittadini. Così Salvini eccita le armate della paura” di Nadia Ferrigo La Stampa, 12 maggio 2019 Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, sul decreto sicurezza bis: “Mi lascia molto perplesso vedere come si mettano insieme due temi molto diversi: sicurezza e migrazioni”. “Nel nostro Paese vedo tre casi di discriminazione, particolarmente gravi. Il primo sono i migranti”. Al Salone del Libro di Torino Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, durante la presentazione del libro “La Costituzione, Un manuale di convivenza”, Edizioni Paoline, commenta il decreto di sicurezza bis. Nel nuovo testo, si parla anche di una multa per le navi delle ong. Cinquemila euro per ogni vita salvata. “Non parliamo mai di Costituzione, se non per dire che è stata fatta settant’anni fa. Ma la domanda giusta, prima di disapplicarla, come si sta cercando di fare, sarebbe: è stata attuata? Il problema di fondo è questo. Le vicende di attualità mostrano che oggi la Costituzione serve. Mi lascia molto perplesso vedere che nel decreto sicurezza si mettano insieme due temi molto diversi: sicurezza e migrazioni. Così si mette un bollo tondo sulla testa dei migranti, identificandoli tutti e soltanto come un pericolo”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini lo ripete in continuazione. “Prima gli italiani”. Come si può leggere questa affermazione, testo costituzionale alla mano? “L’Italia è stato un paese povero e di emigranti, ma ebbe il coraggio di scrivere che il migrante va trattato come il cittadino. Non c’è prima il cittadino, o prima il migrante. Anche perché questo è un discorso pericoloso: così si passa in fretta a dire prima il cittadino di Foggia, di Palermo, di Milano. La nostra Costituzione ha un obiettivo preciso e chiaro. Qualcuno può dire che è un’utopia, ma io non lo credo: tutti hanno pari dignità sociale, senza le distinzioni di lingua, razza, sesso e religione, che la Costituzione elenca. Io vedo tre casi di discriminazione, particolarmente gravi. Il primo sono i migranti. Se si salvano, allora li rimandiamo nei loro paesi, anche se questo vuol dire condannarli alla guerra, alla miseria e alla fame. Ma la nostra Costituzione garantisce a tutti gli stessi diritti fondamentali. Secondo, gli ebrei. L’antisemitismo sta riemergendo in modo preoccupante. E poi c’è una terza situazione di disparità sociale, la donna. Si è combattuto e si combatte per la sua parità. Ma c’è sempre la subcultura, quel venticello, che porta qualcuno a fare quei manifesti dove si spiega che deve soltanto stare in casa, fare figli e andare in chiesa”. E questo venticello, soffia sempre più forte? “Assolutamente. Il femminicidio ne è la proiezione più drammatica. Non sei più mia? Allora non sei più di nessuno, e non meriti di vivere. Bisogna reagire. Ma non solo con le manette, che pure sono necessarie. È molto più facile evocarle, per tener tranquilla la gente, che applicarle. È un problema di cultura dell’uguaglianza e della dignità, che in questo Paese continua a mancare”. Una multa per ogni persona salvata, riporta alla continua promessa di pene sempre più pesanti. Ma manca un pezzo, che cosa succede nelle nostre carceri? Dove ci porta la rincorsa a carcere? “C’è un signore, che ora avrebbe più di duecento anni, Cesare Beccaria, che combattè contro la pena di morte e la tortura, spiegò che è inutile far soffrire la gente per farla parlare. L’ha fatto per prima la Chiesa, poi gli Stati. Alcuni lo fanno ancora, anche il nostro qualche volta. Ma ci indigniamo, giustamente, per Giulio Regeni. Ma non per Stefano Cucchi, non per i fatti della caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz durante il G8 di Genova. Bisognerebbe sempre indignarsi. Alcuni rappresentanti del governo attuale parlano di “marcire in carcere”. Espressioni colorite, pensate per fare breccia nell’opinione pubblica. Ma questo è contro la Costituzione. Che piaccia o no, le pene devono tendere alla rieducazione e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. In carcere, descritto da un sociologo americano come “discarica sociale”, troviamo con percentuale del trenta ciascuno i tossici, i migranti e gli stranieri. Qualche cosa non funziona, anche perché le statistiche ci dicono che chi sconta la pena con le misure alternative o fuori dal carcere ha un tasso di recidiva del 30 per cento. Chi sta dentro, del 70 per cento circa. E di colletti bianchi in carcere ce ne sono pochissimi. Occorrerebbe tornare a un nuovo equilibrio”. Anche il Salone del Libro è stato travolto dalle polemiche su Altaforte, la casa editrice di CasaPound. Il mese scorso i presidi dell’estrema destra a Torre Maura, pochi giorni fa Casal Bruciato. Corriamo il pericolo di un ricostituzione del partito fascista? “Mi sono un po’ preoccupato quando ho sentito delle per così dire dotte dispute sul 25 aprile. Ho sentito dire “Io non vado, vado a inaugurare un commissariato. Non mi interessano i derby tra fascisti e comunisti”. Ma la Resistenza non è un derby tra fascisti e comunisti, è un patrimonio di tutti. Un fenomeno corale, senza il quale non ci sarebbe stata la Costituzione. È un realtà tragica: non solo la lotta contro il nazista invasore, ma anche quella tra gli italiani per combattere il fascismo. Se non si capisce questo, non si capisce la Costituzione e il rapporto con la festa del 2 giugno, quando si scelse la Repubblica. Questo clima eccita le armate della paura, e funziona bene in campagna elettorale. Ma stimolare la paura, promettendo poi di eliminare tutti i problemi, è pericoloso. Il partito fascista era ed è un pericolo permanente per la democrazia, perché era ed è contrario ad essa. Vediamo la violenza nei confronti del diverso, l’intolleranza. Torre Maura e Casal Bruciato sono esempi eclatanti, che ci fanno capire come la subcultura della violenza e del fascismo sia sempre viva. La legge Scelba vieta la ricostituzione del partito fascista, la legge Mancino vieta tutte le discriminazioni. Chi inneggia la fascismo dovrebbe fare i conti con un magistrato che applica la legge. Il problema è il rischio che le leggi per gli amici si interpretino, e per gli altri si applichino, come già diceva Giolitti ai primi del Novecento. Ed è già accaduto, per esempio argomentando dottamente che un saluto fascista non è apologia, ma semplice e innocente commemorazione storica. Ciascuno ha diritto a manifestare il proprio pensiero. Ma questo non può significare la liceità di istigare all’odio e alla violenza. E a questo ci deve pensare un giudice”. Dopo l’elogio della Costituzione, della dignità e del patrimonio culturale e artistico, sta lavorando all’”elogio delle città”. Da dove le viene lo spunto? “Le città sono al tempo stesso una benedizione e una maledizione. Sarà un “elogio della città”, ma questa volta con un punto interrogativo. C’è un episodio che mi ha dato la spinta decisiva. A metà aprile brucia la guglia di Notre Dame. Si raccolgono in fretta i soldi per la ricostruzione, i media di tutto il mondo ne parlano. Pochi giorni dopo, muore bruciato un migrante in una baracca, vicino a Foggia, nell’indifferenza pressoché generale. Credo sia giusto e doveroso tutelare il patrimonio artistico, storico, per costruire il futuro come dice la Costituzione all’articolo 9. Ma la Costituzione ci dice anche, all’articolo 2, che nelle formazioni sociali occorre garantire i diritti inviolabili e far adempiere i doveri inderogabili di solidarietà. Altrimenti la Costituzione resta zoppa. Là dove si incontra un altro che si considera “diverso” inizia la strada del campo di concentramento. L’ha detto quello che ritengo il migliore dei costituzionalisti, non un professore di diritto, ma un perito chimico piemontese, ebreo, che si chiamava Primo Levi”. Pericolosamente sull’orlo del baratro di Filippo Miraglia* Il Manifesto, 12 maggio 2019 Il fastidio che il titolare del Ministero dell’Interno ha per la Costituzione, le istituzioni della Repubblica, le leggi e le convenzioni internazionali, è così esplicito che dovremmo forse considerarlo eversivo. Così com’è chiara la sua attitudine alla competizione machista. Non potendo piegare l’ordinamento giudiziario ai suoi desiderata, né tanto meno quei corpi dello Stato che svolgono un servizio secondo quanto disposto dalla legge, prova a introdurre modifiche legislative che gli consentano di vincere, costi quel che costi. Scavalcando competenze e stracciando ogni senso di responsabilità pubblica che dovrebbe avere un ministro. Intanto ottiene un risultato d’immagine, alimentando il razzismo e provando così ad accrescere il suo consenso personale. L’obiettivo è comunque assicurato, anche se il testo non arriva neanche in consiglio dei ministri. Se poi ci arriva, e magari viene anche approvato, tanto meglio. La dinamica del secondo salvataggio effettuato dalla Mare Jonio, la nave di Mediterranea, (piattaforma della società civile sostenuta anche dall’Arci, che ha destinato la raccolta del 5 per mille di quest’anno proprio a Mediterranea) il 9 maggio scorso, deve avere irritato a tal punto il ministro della Propaganda da spingerlo a forzare le istituzioni pur di impedire che quanto è successo si possa ripetere. Leggendo il primo articolo della bozza di decreto si capisce che il riferimento è proprio a quanto è successo giovedì scorso a 40 miglia dalla Libia, in acque internazionali. La Mare Jonio ha tratto in salvo 30 persone ed ha chiesto, alle autorità italiane, trattandosi di una nave italiana, di indicare un porto sicuro. L’Mrcc di Roma ha risposto inoltrando una mail del Viminale che dice alla Mare Jonio di fare riferimento alle autorità libiche. Oltre all’evidente illegittimità di questo comportamento, si tratta di una scelta alla quale forse nessuno di noi pensava si potesse arrivare: indicare come posto sicuro un Paese in guerra, dove sono lesi da lungo tempo i diritti umani, oramai anche secondo tutti gli organismi internazionali, e dove le persone sono sottoposte a veri e propri crimini contro l’umanità. Salvini, e i suoi sostenitori, oramai sembrano aver perso ogni senso di umanità, oltre che di responsabilità. Pur di non ammettere che è necessario intervenire nel mare davanti alla Libia per salvare quelle persone che sono obbligate a fuggire, continua a negare che ci sia un conflitto in corso e che le persone debbano essere evacuate e aiutate a mettersi in salvo. Mentre l’Unhcr lancia l’allarme per il numero di morti che aumenta ogni giorno nella frontiera più pericolosa del mondo, chiedendo ai governi di intervenire con urgenza se non si vuole assistere ad altre tragedie, il capo della Lega introduce multe per chi salva vite umane, arrivando quindi a criminalizzare lo stesso diritto alla vita. Secondo il decreto sicurezza bis, quindi secondo il ministro dell’Interno, Alima, la bimba di due anni, il cui splendido sorriso ci ha commosso, sarebbe dovuta ritornare in Libia, in una zona di guerra, in un centro di detenzione, alla mercé delle milizie e dei loro interessi. Metterla in salvo, se questo Decreto fosse stato legge, sarebbe costato dai 3500 ai 5500 euro. Una vergogna forse senza precedenti. Un cinismo al quale nessuno era mai arrivato. Il decreto spazza via poi alcune tra le principali garanzie Costituzionali, indicando i nemici del Paese sui quali è urgente intervenire. Non la corruzione, la mafia, il disastro del territorio e del clima, la violenza sulle donne, i morti sul lavoro, la povertà, la precarietà e la disoccupazione e il razzismo. Nulla di tutto questo. L’emergenza è impedire i salvataggi e criminalizzare la solidarietà. Forse è il momento di chiedersi se questo Paese non ha superato la soglia oltre la quale c’è il baratro. La democrazia è a rischio. Davvero. Un moto di ribellione, riempire le piazze di uomini e donne che dicono di no, io non ci sto, è urgente. *Responsabile immigrazione Arci nazionale Dopo i migranti, chi li salva. La nuova stretta di Salvini di Leo Lancari Il Manifesto, 12 maggio 2019 Il costo della vita. Il ministro fissa il tariffario delle vite di quanti fuggono attraversando il mare, al solo scopo di fermare le navi delle ong. Ma non è detto che gli riesca. Si va dai tre milioni cinquantacinquemila cinquecento ai quattro milioni ottocentounomila cinquecento. È la cifra che avrebbe dovuto pagare chi ha strappato al mare gli 873 migranti arrivati in Italia dall’inizio dell’anno se l’ultimo decreto del ministro degli Interni Matteo Salvini, il cosiddetto decreto sicurezza bis, fosse già in vigore. Cifra notevole che corrisponde al valore dato dal Viminale - sulla base di chissà quali calcoli - alla vita di un migrante, che oscillerebbe - per fortuna senza fare distinzione tra uomini e donne - tra i 3.500 e 5.500 euro. Ammesso che il provvedimento veda mai la luce. “Per me anche la settimana prossima in consiglio dei ministri”, ha annunciato ieri Salvini con il solito tono di chi non si perde in chiacchiere. In realtà la strada è più in salita di quanto il ministro leghista vorrebbe far intendere. Dopo aver bollato le nuove norme come “il segno della disperazione di Salvini”, gli alleati 5 Stelle promettono infatti battaglia contro un provvedimento che tra le altre cose si appropria di una parte non indifferente di poteri che appartengono oggi al ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Senza contare i rilievi che potrebbero arrivare dal Quirinale, a partire dalla scelta di procedere con un decreto anche su norme del codice penale e del codice di procedura penale. Provvedimento solitamente utilizzato in situazione di urgenza e che invece - per quanto riguarda l’immigrazione - Salvini impiega dopo che da mesi è proprio lui a decretare la fine dell’emergenza sbarchi. Per aggirare il possibile ostacolo nel testo si mette l’accento sulla “straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure volte a contrastare prassi elusive dei dispositivi che governano l’individuazione dei siti di destinazione delle persone soccorse in mare”, ma non è detto che basti. Il nuovo giro di vite arriva sette mesi dopo il primo decreto sicurezza e punta a colpire in modo particolare chi si spende nel salvare la vita dei migranti. Oltre alle sanzioni tra i 3.500 e i 5.500 euro per ogni “straniero trasportato”, nel testo sono previste sanzioni per quelle navi che, pur svolgendo operazioni di soccorso in acque internazionali, non rispettano le “istruzioni operative delle autorità Sar competenti o i quelle dello Stato di bandiera”, un riferimento alla cosiddetta Guardia costiera libica. Inoltre nel caso la presunta violazione sia stata commessa da una nave battente bandiera italiana, è prevista la sospensione da 1 a 12 mesi o la revoca della licenza. L’articolo 2 mette mano al Codice della navigazione trasferendo al Viminale competenze che oggi sono dei ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. In particolare a quest’ultimo resterebbe il compito di vigilare sulla sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino, attribuendo invece al Viminale la competenza a limitare o vietare il transito e/o la sosta nel mare territoriale qualora sussistano ragioni di ordinaria e sicurezza pubblica. Prevista anche l’estensione (articolo 3) alle procure distrettuali la competenza sui reati associativi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche nelle ipotesi non aggravate e con la possibilità di effettuare intercettazioni preventive, insieme allo stanziamento (articolo 4) di tre milioni di euro per il triennio 2019-2021 per finanziare l’impiego di poliziotti stranieri per lo svolgimento di operazioni sotto copertura. Immigrazione a parte, nel decreto è previsto un inasprimento delle sanzioni per i reati di devastazione, saccheggio e danneggiamento commessi nel corso di manifestazioni (articolo 5) e misure a tutela delle forze dell’ordine con l’inserimento di nuove fattispecie di reato. In questo caso a essere colpiti saranno quanti si oppongono agli agenti facendo uso di scudi o altri oggetti di protezione passiva, di materiali imbrattanti oppure chi utilizza razzi, fuochi artificiali o petardi, nonché chi fa ricorso a mazze, bastoni o altri oggetti contundenti. Libia. Così si vive e si muore sotto le bombe di Tripoli di Francesca Mannocchi L’Espresso, 12 maggio 2019 Le battaglie, gli agguati feroci casa per casa, il fronte che non si vede. Un inferno, a meno di 300 chilometri dall’Italia. Rapporto dalla città assediata dal generale Haftar. La menzogna fa bere una volta, ma non fa bere la seconda”. Abdullah cammina in Piazza dei Martiri, osserva gli striscioni, le bandiere, i volantini. “Abbiamo già cacciato un dittatore, abbiamo festeggiato la sua fine, non ne lasceremo entrare un altro nella capitale”, dice mentre indica l’immagine del generale Khalifa Haftar su uno striscione appeso al muro. Haftar ha il volto coperto da una croce, una scritta in basso dice: “lasciaci soli”. Abdullah ha ventinove anni, per gran parte della sua vita quella che oggi è chiamata Piazza dei Martiri in onore dei morti della rivoluzione del 2011, era la Piazza Verde, espressione del consenso per la Jamahiryia, il regime delle masse, per il Fratello Guida, il Colonnello, il guardiano della Rivoluzione: Muammar Gheddafi, il beduino nato in una tenda di Qasr Abu Hadi. Abdullah ricorda le manifestazioni in supporto del regime, ogni due marzo per celebrare la dichiarazione della Jamahiryia, e il primo settembre, il giorno della rivoluzione, al Fateh. Da questa stessa piazza all’inizio delle proteste, il 25 febbraio del 2011, Gheddafi gridò ai suoi sostenitori: “La vita senza dignità non ha valore, la vita senza bandiere verdi non ha valore, quindi cantate e ballate! Chi non mi sostiene morirà”. Pochi mesi dopo a ballare in piazza c’erano i rivoluzionari: i cartelloni che celebravano il rais furono abbattuti, tutti i ritratti di Gheddafi stracciati a terra dagli insorti che ballavano, sì, ma in segno di sfida contro il regime, per rivendicare la vittoria e appropriarsi del luogo che per decenni era stato simbolo del potere del Colonnello, e ribattezzarlo Piazza dei Martiri. Oggi la piazza è di nuovo piena, uomini e bambini da un lato, le donne dall’altro. Un cartellone campeggia di fronte al mare: “No alla militarizzazione della Libia”. Che però è già militarizzata e conta 5 milioni di persone e venti milioni di armi. Un’enorme bandiera viene trascinata per tutto il perimetro della piazza da ragazzi che urlano “No a un altro dittatore, No ad Haftar, il criminale di guerra”. Un anziano siede su uno sgabello declamando una poesia, un’ode al deserto, al coraggio e agli eroi della Libia, primo tra tutti Omar al Mukhtar, che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani negli anni Venti. Cita le sue parole, l’anziano sullo sgabello: “Non lascerò questo posto finché non avrò ottenuto uno dei due livelli più alti: martirio o vittoria”. Non vinse, catturato e processato nel Palazzo Littorio di Bengasi fu condannato a morte e impiccato in piazza, di fronte a ventimila persone. In questi giorni in piazza si commemorano altri morti. Saranno i martiri della guerra di Haftar. Intorno all’anziano a Piazza dei Martiri, al nome di Mukhtar, l’eroe, tutti gridano “Allah u Akhbar”, dio è grande. E ancora: “vinceremo”. Ogni muro è tappezzato di immagini di Haftar e dei suoi alleati. C’è il saudita Bin Salman, il presidente egiziano Al Sisi, quello russo Putin e il principe ereditario degli emirati Mohamed bin Zayed al Nahnyan. Tante le immagini del presidente francese Macron. Il volto di ognuno cancellato da un segno rosso. Non ci sono foto di Sarraj, nessun cartello o manifesto che inneggi al governo in carica, sostenuto dall’Onu. È chiaro chi sia il nemico, meno chiaro chi siano gli alleati. I manifesti in Piazza dei Martiri sono lo specchio di quanto questa ennesima guerra di Libia sia già diventata più che una guerra civile, una guerra per procura. Si contano amici e antagonisti, e tutto intorno la gente ripete: “Dove sono gli italiani?”. Si chiedono perché il sostegno di Macron per l’uomo forte della Cirenaica sia così limpido mentre gli italiani tacciono e se parlano lo fanno con timidezza. “Vattene via criminale senza dignità, sconfiggeremo te e le bombe emiratine”, grida la gente di Tripoli. Nawja ha portato una sedia da casa, e un cappello per ripararsi dal sole, parla italiano: “Italia e Libia popoli fratelli”; è in piazza per supportare i ragazzi al fronte, far sentire loro che non sono soli, che Tripoli non diventerà una nuova Bengasi, una nuova Derna, rase al suolo dalle bombe di Haftar. Ma a guardarla da qui, Tripoli sta già diventando una nuova Siria. Sua figlia tiene in mano uno striscione, con la scritta “le Nazioni Unite stanno distruggendo il paese”: “Nessuno si fida più di Gassam Salamè qui, le Nazioni Unite hanno perso credibilità, da anni parlano di negoziazioni, ma anche loro sono complici. Sanno che non si può trattare con i criminali eppure si ostinano a dialogare con Haftar”, dice, “La pazienza è finita, è finito il tempo della negoziazione”. Salma si avvicina con una rosa in mano, ha venticinque anni, il volto coperto dal niqab e non è d’accordo. “No al governo militare, sì al governo civile”, dice il manifesto che alza al cielo: “I libici sono fratelli, non sono nemici. Bisogna tenersi per mano”. Parte della sua famiglia vive a Bengasi, nella zona del paese controllata da Haftar, Bengasi, dove la rivoluzione ebbe inizio. Salma dice che l’unico esercito che riconosce è quello del 17 febbraio, è lo spirito della rivoluzione, che la rivoluzione non è ancora finita: “C’è tanta gente con cui possiamo ancora sederci e parlare, negoziare, fare accordi. A est non ci sono nemici, ci sono fratelli, libici come noi. Sono i benvenuti, ma in pace. Haftar ha distrutto gli sforzi fatti finora con la sua avanzata militare. Perciò credo ancora che ci sia una soluzione diplomatica, ma solo se lui sarà escluso dalle trattative. Venite fratelli dell’est, ma senza Haftar”. Le donne intorno le fanno da coro, gridano: “Bengasi svegliati, caccia l’assassino”. La manifestazione dello scorso venerdì è stata l’ultima prima dell’inizio del Ramadan, il mese sacro dei musulmani, il mese del digiuno, della preghiera, dell’autodisciplina. “Per noi è anche il mese della guerra”, sorride amaramente Abdullah, ricordando tutte le battaglie degli ultimi anni combattute durante il mese sacro. “Anche la guerra civile del 2014 è iniziata durante il Ramadan. Per noi Ramadan purtroppo significa combattimento”. Lo sa bene anche Haftar, che ha esortato le sue truppe ad attaccare più duramente e dare ai nemici una lezione, perché “il Ramadan è mese di guerra santa”, ha detto in un audio-messaggio diffuso dal suo portavoce al-Mismeri. Abdullah si allontana dalla piazza che è quasi sera, qualcuno distribuisce dolci, i baryoush, qualcuno intona ancora canti di protesta, “Haftar, Tripoli non ti lascerà entrare”. I bambini sostengono manifesti di cui ignorano il significato, invitati dai padri a calpestare le foto del generale stese a terra. Altri a bassa voce esprimono la stanchezza della città. “Non si tratta di essere ottimisti o pessimisti sulla fine della guerra, me di essere lucidi e ammettere che la scelta ormai è tra milizie e dittatura”, dice un anziano che indossa la jalabia bianca del giorno di festa. Sale gli scalini del palazzo da cui si affacciava il Fratello Guida, Gheddafi, osserva le bandiere: “parte di quelli che oggi vedi in piazza fino a un mese fa si lamentavano degli abusi delle milizie, evocavano i tempi della sicurezza, rimpiangevano il passato, quando il regime garantiva almeno a tutti casa, lavoro e elettricità. Siamo stanchi e molti di quelli che riempiono questa piazza sarebbero stati pronti solo poche settimane fa ad accogliere Haftar”. La stanchezza di Tripoli è nelle sue code alle stazioni di servizio, nelle banche. La stanchezza di Tripoli si legge nelle sue contraddizioni, la più grande riserva petrolifera del continente africano, la nona nel mondo, con i suoi 48 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi gas naturale la Libia potrebbe restare sul mercato per oltre cento anni. Un’economia basata sul petrolio, che rappresenta il 95% delle entrate governative e il 96% del valore delle esportazioni, un fatturato medio di 24 miliardi di dollari, un pieno di benzina per 4 dollari. Ma la gente resta in coda ore, se non giorni, alle stazioni di servizio, con le macchine piene di taniche per elemosinare un po’ di carburante. Perché tutto, raffinerie comprese, è ostaggio delle milizie. Un paese ricchissimo in cui non c’è denaro contante. Perché anche le banche sono in mano ai gruppi armati. La stanchezza di Tripoli è ciò su cui Haftar avrebbe voluto far leva per costruire il consenso. Ma ha sopravvalutato i suoi alleati in città. E osato troppo, troppo in fretta. Avrebbe voluto entrare da eroe, replicando la retorica con cui ha condotto la guerra di Bengasi: ripulire la capitale di “milizie e islamisti”. Ma non può essere accolto da invasore. Quando su Tripoli fa buio Abdullah guida tra le strade di Darah, il quartiere degli hotel, di fronte alla Marina, e al porto vecchio dei pescatori. La gente è stanca, certo, e ha paura di dire cosa pensa. “Nessuno oggi ti dirà apertamente che appoggerebbe Haftar. La paura è un lascito del regime”. Come il timore vivo che provava Abdullah da bambino, quando i padri dicevano ai figli di non nominare Gheddafi mai, nemmeno quando si è soli in una stanza. Indica un edificio: “Al tempo di Gheddafi lì sotto c’erano parcheggiate macchine di ogni tipo, umili o lussuose, taxi o camioncini della frutta. Tutti si fermavano una volta al mese a prendere una busta di contante, era il giorno di paga degli informatori. Non importava a quale classe sociale appartenessero, tutti controllavano tutti e basta. Consuetudini del regime. Alla fine ti ci abitui. E oggi sembra di essere tornati al punto di partenza, Haftar l’aveva detto nel 2014 che “la Libia non è pronta per la democrazia” e ora ha presentato la sua strategia per conquistarla: una dittatura mascherata da liberazione dai terroristi”. Non pensava che la sua ambizione sarebbe stata bloccata a un incrocio a venti chilometri a sud est di Tripoli da gruppi armati arrivati da tutto l’ovest della Libia. Sono passate cinque settimane dall’inizio dell’offensiva contro le forze del Gna (Governo di accordo nazionale) di Tripoli da parte delle truppe del maresciallo Khalifa Haftar, capo delle forze armate libiche (Lna); la battaglia ha raggiunto quartieri periferici nella parte meridionale della città, Ain Zara, Khalat al Ferjan, Salhaeddine, Yarmouk camp e la zona del vecchio aeroporto internazionale già distrutto nel 2014. Poi c’è il fronte esterno, a quaranta chilometri dalla capitale, ad Azizia e al Hira, dove si combatte in zone di aperta campagna. Più di quattrocento morti, duemila feriti. Cinquantamila sfollati. Tante linee del fronte, una più fluida dell’altra. Avanzate e ritirate quotidiane. Più che combattere si gioca al gatto e al topo sotto i colpi di mortaio. Il quartiere residenziale di Ain Zara è spettrale. I negozi fermi al momento in cui sono stati abbandonati, all’esterno ancora la frutta e la verdura ormai coperta di sabbia e polvere delle macerie, chilometri di strade e blocchi di terra, per contrastare i mezzi nemici. Le moschee usate come postazioni dei cecchini. Lungo la via i segni delle bombe di Haftar. “Hanno carri armati di ultima generazione, T72, T92, droni, razzi Grad, aerei e elicotteri”, dice Yasin Salama, arrivato a combattere da Misurata, con il suo khalashnikov scassato, la T-shirt e l’esperienza di tre guerre in otto anni: “siamo addestrati ma a terra è facile, se il nemico bombarda non puoi fare nulla. Preghi e basta”. Veterano esperto, Yasin spiega che non si può avanzare indiscriminatamente, al madaniiyn: “i civili, dobbiamo pensare ai civili. Prima di tutto salvare vite umane”. Intorno a lui mitragliatrici e ak-47 raccontano l’insufficienza materiale delle truppe rispetto a quelle avversarie. “Dove sono i nostri alleati? Perché non mandano droni, mentre noi viviamo con la paura delle bombe emiratine?”. Yasin fa riferimento a uno dei missili usati su Tripoli, un LJ-7 cinese, usato dagli Uav Wing Loong, apparecchi anche questi cinesi, di cui dispongono solo gli Emirati Arabi che secondo le Nazioni Unite hanno fornito ad Haftar anche aerei, 100 blindati e stanziato 200 milioni di dollari a sostegno della sua campagna militare. Fathi Bashaga, il ministro dell’Interno del Gna, è corso ai ripari e volato in Turchia, solido alleato del governo di Sarraj, insieme al Qatar, per discutere di difesa e sicurezza. Tradotto: a chiedere sostegno militare. All’ingresso del quartiere una cartiera, anch’essa distrutta dalle bombe, il rumore delle cataste di lamiera mosse dal vento si unisce agli spari che si fanno sempre più vicini. I civili che potevano sono scappati, mancano all’appello quelli intrappolati ancora nelle zone dei combattimenti. Un’automobile carica di buste si ferma lungo il ciglio della strada, seguita da un’ambulanza. Osama Oshah è l’ultimo ad andarsene dal quartiere, con la moglie e i due figli piccoli. Sfollato due volte, ha lasciato la città di origine, Derna, quando Haftar ha iniziato la sua campagna militare per liberare la città da Ansar al Sharia, e oggi fugge da Tripoli: “la distruzione di Ain Zara non è niente rispetto a Bengasi e Derna. Non fatevi ingannare dalle parole, quello che Haftar chiama esercito è una banda di selvaggi mercenari, sudanesi, ciadiani, e quelli che Haftar chiama terroristi per giustificare la sua guerra sono oppositori politici. I dittatori fanno così, giocano con le parole, l’abbiamo imparato sulla nostra pelle, chiamano guerra al terrore la giustificazione della loro brutalità”. L’ambulanza che lo segue trasporta un uomo, scheletrico, sembra non mangiare da giorni. Per settimane non è stato possibile evacuarlo. I soldati alzano gli occhi al cielo, ogni rumore è la minaccia di un drone, di una bomba improvvisa. Il comandante della brigata è di Misurata - Khaled Mansour - e ha il volto coperto dal passamontagna perché parte della sua famiglia vive ancora a Bengasi, e anche sul campo - dice - meglio non fidarsi di nessuno. Racconta che la settimana scorsa due uomini sono arrivati sventolando una bandiera bianca, dicevano di essere soldati di Haftar, di volersi arrendere e disertare. Invece era un’imboscata. Quando i suoi uomini sono usciti per salvarli sono stati attaccati ai due lati dai soldati nemici. Ha perso tre dei suoi uomini migliori. Poche centinaia di metri separano i cecchini: libici da una parte, libici dall’altra. Il comandante imbraccia un ak-47 e sale velocemente tre piani di scale, uno dei suoi uomini armato di mitragliatrice lancia una raffica di fuoco verso il nemico. Hanno combattuto anche nel 2016, con Bunyar al Marsous, la coalizione di forze militari di Misurata che sconfisse l’Isis a Sirte. Una guerra durata sei mesi e costata alla città settecento morti e tremila feriti: “non accetto di farmi descrivere come un terrorista da un aspirante dittatore burattino di altri dittatori, se c’è qualcuno che ha combattuto gli jihadisti in Libia, siamo noi”. Per leggere il fronte di Tripoli è necessario osservare chi si astiene dai combattimenti, più di chi vi partecipa. Le forze in campo sono prevalentemente misuratine, i combattenti più numerosi, quelli più esperti. I comandanti misuratini sono i più attrezzati sul campo, sono qui per proteggere la capitale ma anche per proteggere sé stessi. Haftar considera la città una roccaforte della fratellanza musulmana, i misuratini sanno che se cade Tripoli, sono i prossimi sulla lista. Ci sono brigate di Zawhia e di Zuwara, ci sono gli amazigh, gli uomini di Janzour, mancano però all’appello la maggioranza delle milizie di Tripoli. I grandi assenti sono i salafiti della milizia Rada, le Forze di Deterrenza che contano 1500 persone e controllano l’aeroporto di Mitiga e la prigione. Sono i potenti salafiti sostenuti da Ryahd che con il decreto 555 emanato da Sarraj si sono guadagnati lo status privilegiato di Forze Speciali. Non devono tenere conto a nessuno in nome della lotta al terrorismo. In città chiamano il decreto 555 l’assegno in bianco ai signori della guerra. È con loro che gli emissari di Haftar hanno dialogato negli ultimi anni, attraverso i gruppi salafiti madkhalisti che lo sostengono in Cirenaica. Sono loro oggi l’ago della bilancia. Dai loro tavoli di negoziazione con l’uno e l’altro governo può dipendere l’esito della campagna militare del generale. Atiya ha poco più di vent’anni, pantaloni corti e giacca mimetica. Sorride sempre. “È la mia guerra”, dice, “non ho paura di essere un martire se serve a proteggere la capitale dall’invasore”. Combatte nella zona dell’ex aeroporto, uno dei fronti più pericolosi, il più conteso. È aperta campagna e si avanza tra le fattorie e gli allevamenti. I blindati si muovono verso sud, in ricognizione. La radio trasmette le posizioni: “Zona 17, ci siamo, baba, baba”, significa che c’è un carro armato in postazione nemica. La voce dall’altra parte risponde: “moriremo se è necessario, non ci muoviamo fino a nuovo ordine. Dimostreremo chi siamo. Allah u Akbar”. Essere sulla prima linea del fronte di Tripoli, oggi, significa muoversi randomicamente. Prima di combattere il nemico bisogna cercarlo, sapere dov’è. Quanto è distante, ma soprattutto se è troppo vicino. I soldati che presidiano Airport Road devono conquistare la strada metro dopo metro, sotto la pioggia dei mortai, perché gli uomini di Haftar sono a destra e sinistra. Basta che entri un carro armato a bloccare la strada principale per essere circondati. Un rpg colpisce improvvisamente la macchina blindata, seguito da una raffica di proiettili. Il suono sordo e rotondo dei colpi che escono si intervalla a quello sibilante e ripetuto dei colpi che entrano. “È la quarta guerra in otto anni”, dice Atiya, “la rivoluzione prima, la guerra civile, poi la guerra di settembre, milizie contro milizie a marciare su Tripoli e ora la guerra di Haftar. I nemici di ieri sono gli alleati di oggi. E gli alleati di oggi possono diventare i nemici di domani”. Il balletto di brigate e gruppi armati ha portato anche Salah Badi, il signore della guerra di Misurata, a difendere la capitale. Solo sette mesi fa, nella guerra di settembre, aveva mosso i suoi mezzi a sostegno della Settima Brigata di Tarhouna contro gli abusi di potere delle milizie di Tripoli che oggi invece difende, contro gli alleati di ieri, a loro volta sostenitori di Haftar. Per questo al fronte i soldati non sono solo spossati, sono disincantati, sanno che nel caso di sconfitta del generale della Cirenaica, gli alleati di oggi torneranno rivali, e come in tutti i conflitti precedenti chi ha combattuto più tenacemente chiederà il conto: posizioni politiche, denaro. È difficile immaginare che i misuratini che stanno combattendo per difendere Tripoli lascino le posizioni in caso di vittoria. E di nuovo, gli alleati di oggi saranno i nemici di domani. “È l’opportunismo che ha ucciso lo spirito della rivoluzione”, dice Atiya, “I giovani sono morti per la libertà e i vecchi hanno rubato il bottino”. Atiya durante la rivoluzione ha perso suo padre, un ribelle. “Un martire del 2011”, racconta mentre osserva dal finestrino del blindato blocchi di abitazioni danneggiate o distrutte. Atiya dice che non può smettere di credere nello spirito del 17 Febbraio, nelle parole d’ordine della rivoluzione. Dice che è difficile uccidere, perché dall’altra parte, di nuovo, ci sono libici come lui. Ma che non può fare altrimenti: “Se non sparo per primo, sono il primo a morire”. Grida “Hurria Hurria”, libertà libertà, mentre scende dal mezzo blindato: “non posso smettere di credere nella libertà”. Perché il rischio di smettere di credere nella libertà, oggi a Tripoli, è consegnarsi alla stanchezza e alla passività che apre la strada a una nuova dittatura. Egitto. Gli anni in carcere di Shawkan, giornalista accusato di terrorismo di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2019 “Ai genitori di Regeni dico: non mollate mai”. Mahmoud Abu Zeid e il ricercatore italiano ucciso sono accomunati dall’età e dalla passione per il proprio lavoro. È stato condannato a cinque anni e otto mesi di carcere perché accusato di essere dei Fratelli Musulmani ed è in semilibertà. “Quando è morto, non si parlava d’altro. Vivere in questo paese è un inferno”. “Ai genitori di Giulio dico di andare avanti per cercare la verità e ottenere giustizia, di non mollare, mai. Sono con loro, con la loro battaglia, senza esitazione. Giulio era un uomo di pace”. Giulio Regeni e Mahmoud Abu Zeid, meglio conosciuto col nomignolo di “Shawkan”, hanno diversi punti in comune, tra cui l’età, 31 anni e una differenza di pochi mesi, e una sconfinata passione per il proprio lavoro. Giulio, ricercatore universitario, è stato rapito il 25 gennaio del 2016 e fatto ritrovare cadavere nove giorni dopo, il 3 febbraio, lungo il ciglio dell’autostrada verso Alessandria d’Egitto. Addosso i segni di sevizie e torture - recentemente rivelate anche da un supertestimone ritenuto attendibile dalla procura di Roma - al punto da renderlo irriconoscibile anche per mamma Paola, il cui primo commento è stato “Sul corpo di mio figlio tutto il male del mondo”. Il destino di Mahmoud, fotogiornalista egiziano, è stato diverso. Lui è ancora vivo, ma addosso porta i segni di cinque anni e otto mesi di carcere e l’accusa infamante di essere un terrorista. Il 14 agosto del 2013 il giovane fotoreporter si trovava in piazza Raba’a, ad est del centro del Cairo, per raccontare la manifestazione dei Fratelli Musulmani; protestavano contro il golpe messo in atto pochi mesi prima da Abdel Fattah al-Sisi, ex ministro della difesa. Il servizio gli era stato commissionato da un’agenzia inglese, la Demotix, e quel giorno fu testimone di un’immane mattanza (secondo fonti ufficiali oltre 800 vittime) da parte di esercito e polizia agli ordini dell’attuale presidente dell’Egitto. Oltre ai morti, il regime mise in carcere centinaia di presunti affiliati alla Fratellanza Musulmana, compreso il giovane fotografo, accusato di essere un terrorista. Le sue macchine fotografiche requisite, rullini e memorie spariti, lui a marcire nel carcere di Tora, tristemente noto per la sua durezza, alla periferia sud della capitale. Da allora il suo processo è stato rinviato oltre cinquanta volte, fino al settembre scorso, quando è arrivata la sentenza: cinque anni, da scontare in regime di semilibertà. Dopo un’appendice di altri sette mesi di carcere, come pegno per i danni provocati dai manifestanti nel 2013, il 4 marzo è arrivata la libertà parziale. Giulio è morto mentre Shawkan (il re dello show) scontava la pena, ma l’eco mediatica della tragedia di Regeni è arrivata fino alla sua cella: “Certo, ho saputo della sua morte all’epoca, in carcere non si è parlato d’altro per giorni. Un giovane non deve morire così, ammazzato perché stava facendo il suo lavoro. Oltre che criminale è stato un atto stupido, ma vivere in Egitto ormai è diventato un inferno. Mi dispiace davvero per lui e per la sua famiglia, sono loro vicino”. La voce di Shawkan è profonda, ma segnata per sempre, come segnata è la sua vita futura. In fondo lui ha riavuto indietro la libertà, ma solo a mezzo servizio: “Ogni pomeriggio, alle 6 e per i prossimi cinque anni, dovrò rientrare nella stazione di polizia nel quartiere di Giza e lì passare la notte, fino alle 6 del mattino successivo. Questa non è libertà. Non posso trovarmi un lavoro effettivo, non posso uscire dal Paese e il continuo distacco dalla mia famiglia a ferirmi”. Da giovane spensierato e amante della fotografia e dell’azione a un uomo quasi maturo, cresciuto troppo in fretta dentro una prigione, additato come terrorista e considerato un membro dei Fratelli Musulmani, alla stregua dell’ex presidente, Mohamed Morsi (salito al potere dopo le elezioni del 2012, le prime dopo la rivolta di piazza Tahrir e della Primavera Araba egiziana, una volta finito il lungo regno di Hosni Mubarak), recluso nella stessa prigione: “Io non ho mai fatto politica nella mia vita e non intendo iniziare adesso - precisa Mahmoud Abu Zeid -. Adesso davanti ho solo l’obiettivo di tornare a fare il fotoreporter, ma qui in Egitto è impossibile. Vorrei lasciare il mio Paese, anche se lo amo, per migliorare la mia abilità tecnica, occuparmi delle mie passioni, la fotografia, il giornalismo. Purtroppo sono incatenato qui al Cairo, almeno per altri cinque anni. A proposito di giornalisti, vorrei ringraziare tutti voi per il sostegno arrivato a me e alla mia famiglia durante questi anni”. Sono le 5 del pomeriggio ed è tempo di prepararsi per rientrare nella prigione a tempo. Sua madre, Zeda, prepara le ultime sue cose per la sera. Presto lui, suo padre, Abdel Shakur, e suo fratello maggiore Mohamed, archeologo, si avvieranno verso la stazione di polizia. L’umore non è dei migliori, non può esserlo, così come non è delle migliori la sua salute: “Quasi sei anni in quel buco non sono facili da superare. Ci sono stati tempi durissimi, ho superato malattie, ho perso peso. Adesso, fuori, seppure in regime di semilibertà, le cose non vanno molto meglio. Fisicamente sono esausto, a livello psicologico è in corso un deterioramento, mi sento giù, la depressione non mi abbandona. Sento addosso una debolezza generale mai provata prima. Mi sto lentamente perdendo, provo a resistere, provo a sopravvivere. Ecco come sto, non credo tornerò ad essere mai più quello di prima, prima dell’arresto”. Un sesto della sua vita Shawkan l’ha vissuto all’interno di una prigione, difficile non tornare al ricordo di quell’esperienza terribile: “Non riesco a descrivere appieno l’inferno che ho vissuto lì dentro. È un luogo di oscurità umana e sociale, dove si perdono le speranze, i sogni. Il problema è che devi scendere a patti con questa situazione, non ci sono alternative, scappatoie, devi solo sopravvivere. Stare lì dentro, giorno dopo giorno è stato durissimo, un incubo infinito perché non riuscivo a capire il motivo per cui mi avessero chiuso lì dentro, cosa c’entrassi io con la politica. Nei momenti di crisi continuavo a dirmi “resisti” e così ho fatto, così ho resistito fino all’ultimo. Ora però, tutte questi traumi vissuti là dentro me li sto portando dietro nella vita fuori da Tora. Quando sono entrato in carcere, nell’agosto del 2013 stavo bene, ero una persona normale, adesso non è più così, non sono più così forte. Il tempo passa e passerà e io devo tenere duro e andare avanti. Una cosa è certa, il carcere mi ha cambiato, non credo in meglio”. Guaidó, svolta fallita. E nel Venezuela non si vede il finale di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 12 maggio 2019 Il leader della rivolta chiede aiuto, ma Trump non sembra intenzionato a intervenire. La dura repressione delle ultime ore in Venezuela - arresti, deputati dell’opposizione che cercano rifugio nelle ambasciate o fuggono all’estero - pare voler dire una cosa sola: il regime di Nicolás Maduro è tornato in vantaggio, la sfida più pesante di sempre al chavismo, quella guidata da Juan Guaidó, è in un vicolo cieco. Non era quello che il mondo si attendeva, soltanto un paio di settimane fa. Si ipotizzava sul “come” sarebbe caduto Maduro, non sul “se”. Ora invece si contano le vittime del regolamento di conti e il regime non ha nemmeno bisogno di zittire Guaidó, per adesso, risparmiandosi una reazione più feroce dall’estero. Il leader della rivolta ha intensificato i segnali, cerca di uscire dall’angolo. Rilascia grappoli di interviste tutti i giorni e alla domanda più spinosa (“Lei sarebbe d’accordo con un intervento militare americano?”) risponde ormai con un sì. Poiché si tratta di un evento altamente improbabile, per mille ragioni, a partire dalla contrarietà dello stesso Donald Trump, è più un grido di disperazione che una chiamata. Amici del mondo, sembra dire Guaidó, qui tutto quello che potevamo fare l’abbiamo fatto. La gente è stremata, la sfida degli ultimi quattro mesi non ha fatto diminuire né la fame né lo sfascio del Paese. È ovvio che, come sempre, qualunque soluzione figlia di una trattativa è migliore di un finale in armi, o altrettanto drammatico per le conseguenze sulla gente come potrebbe essere un Venezuela stremato dalle sanzioni. Ci vorrebbe un ritorno alla democrazia piena, magari graduale, come risultato di un negoziato, un accordo tra chavismo, esercito e opposizione, senza regolamenti dei conti. Al momento è difficile vederlo, questo gran finale. Ma considerando che gli uomini di Maduro hanno dimostrato finora, piuttosto evidentemente, che hanno più da perdere da un cambio di casacca contro il loro leader che da una resistenza finale, non è detto invece che un’apertura sia possibile quando sono più forti. Come in questo momento. Afghanistan. Uccisa sulla soglia di casa l’attivista per il divorzio Mina Mangal di Marta Serafini Corriere della Sera, 12 maggio 2019 Ex giornalista, da poco consulente della Camera Bassa, aveva già denunciato su Facebook le minacce di morte che riceveva. Nel 2018 uccisi nel Paese 15 giornalisti. “Mi hanno insultato, ricoperto di fango. E ora vogliono uccidermi. Ma io non mi fermo”. Scriveva così su Facebook Mina Mangal agli inizi di maggio, spiegando di aver ricevuto minacce di morte da “fonti sconosciute”. Sospetti e paure, con i post preoccupati degli amici, cui lei rispondeva con gli emoticon e le faccine sorridenti. Fino a ieri mattina alle 7.20, quando le hanno sparato sulla porta di casa. Mangal, proveniente dalla regione di Paktia e da una famiglia potente, aveva ottenuto un nuovo impiego come consulente per la commissione culturale della Camera bassa del Parlamento. Ma non solo. La donna era nota anche per la carriera giornalistica in diverse tv private tra cui Tolo e Ariana, nelle quali aveva mosso i primi passi. “Con il suo approccio aveva contribuito a cambiare il modo di vedere di molte giovani”, commentano le ex colleghe. Poi, l’impegno per la Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento, in un Paese considerato uno dei peggiori al mondo in cui essere donna. “Amava il suo lavoro perché sperava di migliorare l’accesso delle giovani all’educazione. Ma si batteva anche contro i matrimoni precoci e forzati”, hanno raccontato i colleghi alla stampa locale. Doversi sposare, dormire e vivere tutti i giorni con una persona che non ha scelto: per Mina non era solo una battaglia politica, lei stessa era stata data in sposa nel 2017 ad un uomo che non amava. Un destino comune a tante afghane, anche a quelle istruite o che vivono nella capitale. Mina aveva deciso di battersi per i propri diritti e, all’inizio di maggio, aveva finalmente ottenuto il divorzio. “È stato il suo ex marito ad ammazzarla”, accusano i familiari. A far pensare, invece, ad un agguato organizzato sono i racconti dei testimoni che parlano di uno o più uomini a volto coperto. Una volta arrivati a Rehman Baba - zona occidentale di Kabul dove la donna viveva - i killer prima hanno esploso dei colpi in aria per disperdere i passanti e poi hanno mirato al petto e alla testa di Mina. “Investigheremo”, hanno promesso le autorità, sottolineando di non aver chiaro se il movente sia personale o se si tratti di un attacco di matrice terroristica, dato l’impegno della giornalista per i diritti femminili e le critiche al fondamentalismo religioso e alla corruzione. Se infatti di recente i talebani, coinvolti nei colloqui di pace con il governo statunitense, hanno preso l’impegno di porre fine al bando contro l’educazione femminile, gran parte della comunità internazionale resta scettica, dato che il gruppo controlla oltre il 60 per cento del Paese. “Le donne in Afghanistan dovrebbero poter esprimere la loro opinione, lavorare e vivere senza paura di ritorsioni”, ha scritto su Twitter l’artista visuale e regista Fereshta Kazemi. Ma, al di fuori dei social, sono poche le reazioni sulla morte di Mina. E le stesse testate per cui lei aveva lavorato si sono limitate a dare la notizia senza troppa enfasi pubblicando però, in alcuni casi, la foto del cadavere. In attesa di una rivendicazione o di un arresto, il pensiero torna a Nadia Anjuman, poetessa uccisa nel 2005 dal marito per aver declamato le sue poesie in pubblico. E ai 15 giornalisti uccisi nel 2018 in Afghanistan. Un altro triste record per un Paese in cui - come scrivevano Nadia e Mina - anche il diritto di cantare e di amare resta un sogno.