Letteratura d’evasione al Salone del Libro, così scrivono i detenuti di Francesco Ruggeri popoffquotidiano.it, 11 maggio 2019 Salone del Libro. Al Lingotto la cerimonia di premiazione del Premio Goliarda Sapienza-Racconti dal carcere. “La Crisalide” di Stefano Lemma e “Comma 22” di Michele Maggio sono i racconti premiati ex aequo al Salone Internazionale del Libro di Torino vincitori dell’VIII Edizione del Premio Goliarda Sapienza-Racconti dal carcere, Progetto Speciale Malafollia. La premiazione durante un evento che, non più in carcere, ma in mezzo alla gente del Lingotto, nel luogo simbolo della lettura, è stato condotto da Antonella Bolelli Ferrera, ideatrice e curatrice del Premio, con un reading dell’attore Luigi Lo Cascio e gli interventi degli scrittori Edoardo Albinati, Erri De Luca e di Patrizio Gonnella di Antigone. I racconti saranno pubblicati nel libro Malafollia a cura di Bolelli Ferrera (Giulio Perrone Editore). Promosso da Inverso Onlus e Siae, Racconti dal carcere è l’unico concorso europeo rivolto alle persone detenute che vede la partecipazione attiva di grandi scrittori ed artisti nelle vesti di tutor. Madrina, la scrittrice Dacia Maraini. “I più grandi scrittori ed artisti da anni sono di fatto i testimonial di un progetto che si pone un fondamentale obiettivo: portare la cultura in carcere affinché assieme ad essa germogli una cultura della legalità - ha spiegato Bolelli Ferrara - senza di loro il Premio rimarrebbe ristretto nella nicchia degli addetti ai lavori, mentre è anche creando un collante fra i due mondi, quello esterno e quello dentro il carcere, che si possono gettare le basi per innescare quel processo virtuoso che induce alla riflessione. Un progetto ambizioso, ma la cultura questo potere ce l’ha. Ed anche la nostra presenza qui ha un significato particolare, per questo ringrazio Nicola Lagioia, direttore artistico del Salone, per avere ospitato anche quest’anno il nostro evento in mezzo ai grandi della letteratura mondiale”. Il progetto - Dopo il felice esperimento del laboratorio di scrittura creativa dello scorso anno, è stata costituita una factory creativa formata dagli autori che nel corso delle diverse edizioni del Premio Goliarda Sapienza si sono distinti per qualità di scrittura e di pensiero. Sotto una guida editoriale, ma con assoluta libertà espressiva, gli autori (una ragazza e cinque uomini di varie età) si sono cimentati nella scrittura di racconti sul tema della follia in carcere. Da qui il titolo del progetto speciale Malafollia, il primo passo verso un più ampio progetto di scrittura collettiva. Dopo la presentazione degli autori finalisti (“Edmond”, Patrizia Durantini, Stefano Lemma, Michele Maggio, Sebastiano Prino, Salvatore Torre), è stato l’attore Luigi Lo Cascio a dar voce alla follia narrata nei loro racconti, pubblicati nel libro “Malafollia” (Giulio Perrone Editore) a cura di Antonella Bolelli Ferrera. Erri De Luca, storico Tutor del Premio, a proposito del percorso interiore, a volte doloroso, che deve compiere uno scrittore, ha detto: “Scrivere, soprattutto quando parte da un faticoso lavoro di introspezione, può essere liberatorio, come parlare a un ascolto amico, ma per diventare libro per lettore, bisogna oltrepassare la soglia della confessione. La storia narrata deve far dimenticare al lettore che esiste l’autore”. Edoardo Albinati, autore di una introduzione del libro Malafollia è rimasto colpito dalla qualità dei racconti: “Ho trovato originale l’idea di concentrarsi sul tema della follia, perché c’è un nesso molto forte tra essa e il carcere, sia quando la follia è il prodotto della carcerazione sia quando ne è la premessa, però quello che mi ha colpito è stata la qualità di scrittura di questi racconti, di cui almeno due-tre di rango letterario assoluto; ritengo che il piacere di leggere sia senz’altro la cosa più attraente, la condizione per cui è valsa la pena scrivere l’introduzione a questo libro”. Patrizio Gonnella, autore di una seconda introduzione per il libro, come presidente di Antigone, ha invece posto l’accento sull’importanza della Sentenza 99 della Corte Costituzionale: “Pone un punto che non è solo di principio, ma ha un forte impatto pratico, ovvero l’equiparazione della salute psichica alla salute fisica. È un retaggio del passato quello di ritenere la malattia solo qualcosa che colpisce il corpo, e questa equiparazione in tema di benessere psicofisico, pur riferendosi a un unico articolo, potrà avere un impatto più generale sull’ordinamento penitenziario. Quale sarà questo impatto lo vedremo con il tempo, sicuramente sarà un grosso strumento nelle mani della Magistratura di Sorveglianza, che potrà mettere in campo tutti gli strumenti, anche normativi, attivabili di solito per la malattia fisica, laddove vi sia un serio disagio psichico”. Giuria - Per la prima volta nella storia del Premio Goliarda Sapienza, le votazioni hanno determinato un’assoluta parità fra due racconti. La giuria formata da scrittori e giornalisti (Annamaria Barbato Ricci, Paolo Di Paolo, Massimo Lugli, Giordano Meacci, Angelo Pellegrino, Federico Ragno, Marcello Simoni, Cinzia Tani, Nadia Terranova, Mons. Dario Edoardo Viganò) e da circa duecento studenti liceali, è presieduta dal poeta Elio Pecora che ha detto: “Questo risultato di parità è la dimostrazione dell’elevato livello dei racconti che hanno diviso la giuria equamente, dimostrando peraltro l’autenticità di questo concorso”. Vincitori ex aequo - Stefano Lemma, autore de “La crisalide”. Motivazione: “Racconto fluido e ben strutturato che percorre le traiettorie della follia trasmettendone le tipiche fissazioni ed esplosioni. Denota un’abilità letteraria capace di allargare l’orizzonte e riflettere sulla genialità dell’estro creativo”. Michele Maggio autore di “Comma 22”. Motivazione: “Un bellissimo squarcio non solo sulla detenzione ma soprattutto su quello che può accedere quando ci si ritrova, spaesati e impauriti, nel mondo dei “liberi” Premi - Ai vincitori: premio di 750 euro ciascuno. Ogni autore ha ricevuto una donazione di 500 euro. Al progetto è stata conferita la Medaglia del Presidente della Repubblica. I proventi del libro saranno utilizzati per iniziative volte a favorire la cultura della legalità. Entro in carcere come volontario da più di dieci anni. E ora con me ci saranno altri scrittori di Bruno Contigiani* Il Fatto Quotidiano, 11 maggio 2019 Da più di dieci anni entro come volontario in carcere. Ma quest’anno c’è una novità: nonostante “Tempo di Libri” - la fiera dell’editoria di Milano - sia stata sospesa, Andrea Kerbaker con Kasa dei Libri e Mediobanca ha deciso di proseguire l’esperienza “fuori salone” del 2018, dando vita assieme a Vivere con Lentezza alla seconda edizione de “I detenuti domandano perché”, aumentando il numero degli istituti in cui si tiene e irrobustendo il senso della manifestazione. Così Isabella Bossi Fedrigotti, Gianni Biondillo, Marco Balzano, Umberto Galimberti, Gian Felice Facchetti, Giuseppe Lupo, Pier Luigi Vercesi e lo stesso Kerbaker si sono resi disponibili a entrare a Milano a San Vittore e al Beccaria (minorile), a Bollate, Pavia, Piacenza (protetti) e Lodi, per confrontarsi con le persone ristrette sulle loro domande di fondo. A Pavia, Isabella Bossi Fedrigotti - la prima a cimentarsi in questa operazione -, di fronte alla domanda su che strada scegliere nei bivi che la vita ci propone, da buona montanara quale si è dichiarata ha indicato quella in salita, la più difficile, esortando tutti a non essere sonnambuli nello scegliere la via. Tornerà per un secondo incontro per confrontarsi con nuove domande. Resta il punto forse più importante del progetto: Mediobanca ha deciso di invitare le proprie persone a partecipare anche agli incontri preparatori dei quesiti, trasformando le ore trascorse in carcere in tempo di formazione per quanti hanno aderito. Al di là delle facili battute sulle possibili inversioni di ruoli nella società, si tratta di una scelta non indifferente. Non sono tante le imprese o banche disposte a dedicare tempo e denaro per un reciproco percorso formativo tra le mura di un carcere. Tutte le volte che ho chiesto della pubblicità a sostegno di Numero Zero, il periodico di Torre del Gallo - la Casa circondariale di Pavia - ho incontrato enormi ostacoli e risposte negative. Eppure investire nel miglioramento culturale delle persone che si trovano dentro ha degli effetti positivi misurabili in riduzione della recidiva (dall’80% al 30% circa), con un vantaggio tangibile per la società in termini di convivenza e anche di sicurezza. Chissà se a compimento del loro percorso i partecipanti potranno affermare: “Dentro: questo posto è meraviglioso - e fuori ci sta la città che ti costringe al tutto o al nulla”. Anche se può sembrare strano, il luogo meraviglioso in questione è il carcere minorile di Nisida, e a scrivere è Valeria Parrella. Ma per sapere il perché, dovreste pensare di fare del volontariato fra le mura di un carcere. *Scrittore e fondatore de “L’Arte del vivere con lentezza” Giustizia, dopo gli scontri sì all’intesa sulla riforma di Errico Novi Il Dubbio, 11 maggio 2019 Divisi su diversi dossier. Ma più di tutto, Movimento Cinque stelle e Lega sembrano su posizioni inconciliabili soprattutto sulla giustizia, dopo le tensioni sul caso Siri. Eppure la riforma chiave in ambito processuale pare destinata a sbloccarsi a breve: dopo le Europee, Salvini metterà da parte le “condizioni” poste per dare l’ok alla riforma del processo messa a punto dal guardasigilli Bonafede sia per il civile che per il penale. Sembra un terreno minato. Peggiore degli altri. E la giustizia in effetti lo è, se la si intende come trend nella comunicazione politica: da questo punto di vista Cinque Stelle e Lega non sono mai stati così lontani. La ragione è banale: sta nell’inchiesta sull’ormai ex sottosegretario Armando Siri, in quella che lambisce il governatore Attilio Fontana in Lombardia, e nelle conseguenze pesanti sofferte sui due dossier dal partito di Matteo Salvini. Ma se per giustizia si intende il fascicolo delle riforme, quello per intenderci nelle mani del guardasigilli Alfonso Bonafede, cambia tutto. Lì non c’è rischio di dividersi. E i segnali che in questa direzione il Carroccio ha irradiato nelle ultime ore più che presi alla lettera vanno interpretati. A partire da un passaggio in apparenza distonico, registrato tra le stesse fila leghiste. Due giorni fa, nel giro di poche ore, è prima intervenuta la titolare della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno: “Non vedo l’ora che arrivi in Consiglio dei ministri la riforma preparata dal ministro Bonafede”, ha detto, “se c’è la paralisi degli investimenti dipende anche dalla lentezza della giustizia”. Bongiorno è la plenipotenziaria di Salvini su processi e provvedimenti in materia giuridica: nessuno, nella Lega, è più in prima linea di lei. Le sue parole non erano tirate via a caso: si riferiva alla doppia riforma già bella e pronta, da quasi un mese, nel cassetto del guardasigilli, autore di una legge delega che prevede ritocchi sia alla procedura civile che al penale. Il tutto con un unico obiettivo: “Tagliare i tempi morti”. Peraltro Bongiorno già conosce le linee generali degli interventi e sa che sono concepiti in modo razionale. Non a caso: il suo collega Bonafede li ha messi a punto dopo averne discusso a un tavolo con avvocati e magistrati. Un tavolo a sua volta doppio, uno per materia, civile e penale. Lavori condotti in un clima di serenità e rigore. Al termine dei quali tutti, ma proprio tutti, hanno riconosciuto a Bonafede capacità d’ascolto ed equilibrio nelle soluzioni trovate. Che sono risultate più che accettabili, quando non eccellenti, sia per le rappresentanze dell’avvocatura che per l’Anm. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. Ma c’è quella distonia di cui si diceva. E riguarda Salvini. Il quale, più o meno negli stessi minuti in cui Bongiorno quasi sollecitava Bonafede a portare le bozze a Palazzo Chigi, ha in apparenza scombinato i giochi: “Se la riforma della giustizia è pronta, Bonafede la porti in discussione: noi come Lega abbiamo le nostre idee su separazione delle carriere, dimezzamento dei tempi dei processi, certezza della pena, responsabilità anche per i giudici che sbagliano”. Sembra un preavviso di conflitto, della serie: o ai testi di Bonafede si affiancano le nostre idee, o non passa niente. Ed è davvero così? La pausa per il voto - Basterà attendere il week end elettorale - e anche quello per i ballottaggi delle amministrative, magari - per avere la risposta. Perché una cosa è certa: come spiegano fonti parlamentari del Carroccio, “non se ne discute in questi ultimi sprazzi di campagna per il voto”. E il motivo è chiaro: la Lega non vuole che la riforma dei processi entri nel dibattito per le Europee. Si tratterebbe di un indiscutibile vantaggio per l’alleato di governo. Ma dopo, quando il clima sarà diverso e si dovrà già cominciare a fare i conti con la futura legge di Bilancio (che nessuno dei due soci intende sobbarcarsi con l’altro all’opposizione), le acque saranno pronte per una navigazione tranquilla. Anche della riforma Bonafede. E la Lega non porrà ostacoli. Questo non vuol dire che il tema giustizia nel suo insieme sarà del tutto sminato. Anzi. Sulla separazione delle carriere, per esempio, le linee di Lega e Cinque Stelle continueranno ad essere parallele. Come ha detto Salvini, la Lega ci crede. Bonafede si limita invece a rispondere: “Quando c’è una raccolta firme imponente come quella delle Camere penali, bisogna essere aperti al confronto”. Ma poi aggiunge: “Io sono contrario: non è nel contratto di governo, e non a caso”. Fine dei giochi? Dipende dal Parlamento. Ma la Lega non userà il dossier sulla separazione di giudici e pm come arma per tenere in ostaggio il ddl Bonafede. La ragione è banalissima: la riforma sulle carriere dei magistrati è di rango costituzionale. Non potrebbe certo viaggiare, alle Camere, abbinata a una legge delega sulla procedura penale e civile. Le “colpe” dei giudici - Gli altri punti segnalati da Salvini nel suo intervento di giovedì sono allo stesso modo insufficienti a complicare il percorso della riforma. L’accenno alla responsabilità civile dei magistrati, ad esempio: la materia è completamente diversa. Si tratta di intervenire sulla riforma scritta nella scorsa legislatura dall’ex ministro Andrea Orlando con un senatore socialista, Enrico Buemi. Un passo avanti non marginale: è caduto il filtro di ammissibilità ed è divenuto più stringente l’obbligo di rivalsa dello Stato nei confronti del giudice che sbaglia, con un ritocco alla definizione dei casi di colpa grave. Ma il quadro normativo resta tutto sommato prudente, visto che i casi di condanne dello Stato attribuibili a errori dei magistrati hanno avuto un incremento modesto. Lì, dunque, si potrebbe intervenire. Ma il punto è: davvero Salvini manderebbe all’aria il lavoro fatto a via Arenula con avvocati e magistrati? La risposta è no. Bongiorno sarà la figura di mediazione che riesaminerà i testi del guardasigilli. Già ora d’altra parte sa che le soluzioni trovate al doppio “tavolo” del ministro rappresentano la soglia oltre la quale non ci si può spingere. Non esiste, allo stato, un margine di intervento sui processi che sia accettabile non solo per le toghe ma anche per gli avvocati. E la ministra della Pubblica amministrazione è anche un’eccellente avvocata penalista, consapevole che non avrebbe senso assumere una posizione dissonante con quella della sua professione. Resta da chiarire solo la “clausola di collegamento” fra approvazione del ddl delega ed entrata in vigore della nuova prescrizione. Su questo Bongiorno sarà inflessibile: va garantito che gli interventi mirati ad accorciare i processi taglino il traguardo prima della data fatidica del 1° gennaio 2020. Da quel giorno in poi, come previsto dalla spazza-corrotti, si applicherà la norma che elimina la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma trovare un accordo sul punto sarà meno arduo di quanto sembri ora: sia perché prima che si arrivi alle sentenze ci vorranno anni sia, e soprattutto perché Bonafede ha preparato, ai tavoli, non solo la legge delega ma di fatto anche i dettagli dei decreti delegati. Si è impegnato ad assicurare un iter veloce. Difficile che l’obiettivo a questo punto possa sfuggirgli. Anm al Colle: allarme su separazione carriere Avvenire, 11 maggio 2019 La nuova Giunta a colloquio con Mattarella. Altera gli “equilibri costituzionali” la separazione delle carriere in magistratura e incide su principi cardini del nostro ordinamento: “L’obbligatorietà dell’azione penale” e “l’uguaglianza effettiva dei cittadini di fronte alla legge”. Al suo primo incontro con il capo dello Stato, la nuova giunta dell’Associazione magistrati guidata da Pasquale Grasso, ha espresso tutta la “preoccupazione” per una riforma, da sempre avversata dalla maggioranza delle toghe, che ora potrebbe arrivare al traguardo. La legge d’iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere penali, già assegnata alla commissione Affari Costituzionali della Camera, è sostenuta da un intergruppo di 50 parlamentari rappresentativi di tutto lo schieramento politico. Motivo di allarme in più per i magistrati a cui non è certo sfuggita l’evocazione della separazione delle carriere da parte del vicepremier Salvini, che ha “pungolato” sul punto il Guardasigilli Bonafede, nettamente contrario invece a questo intervento. Non è un caso che l’Anm abbia scelto di parlarne al capo dello Stato, che è anche il presidente del Csm. Perché la riforma, incidendo sulla posizione nell’ordinamento del pubblico ministero (che si teme possa essere sottoposto così al potere esecutivo) prevede la creazione di un doppio Csm, diverso per chi giudica e per chi fa le indagini. Ma a Mattarella il sindacato delle toghe ha anche voluto chiarire che la sua non è una chiusura corporativa a qualunque intervento riformatore. E dunque ha confermato “la volontà di fornire “il massimo contributo alla nuova stagione di riforme in corso”. Nel rapporto con la maggioranza c’è un altro elemento di tensione: l’attacco alle pronunce dei giudici che “troppo spesso - lamentano i vertici dell’Anm - travalica i limiti della mera critica e disorienta i cittadini sui principi fondanti della giurisdizione”. Nemmeno una settimana fa l’Anm era scesa in campo a difesa dei magistrati di Bologna che avevano ordinato al Comune l’iscrizione all’anagrafe di due richiedenti asilo e che per questo era stati accusati da Salvini di voler fare politica e invitati a candidarsi con la sinistra. Giustizia e populismo. Se “torna il medioevo”: l’allarme dei penalisti sulle riforme di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2019 Che fare quando il mondo è in fiamme? Si esce dalla storica aula 208 della Statale di Milano e la suggestione del titolo del documentarlo in sala in questi giorni arriva. La comunità del diritto penale, nei suoi più bei nomi (da Dolcini a Palazzo, da Dominioni a Paliero, da Pulitanò a Sgubbi), senza distinzione tra sostanziale e procedurale, presenta infatti a Milano il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, messo a punto dalle Camere penali. Denominazione un po’ enfatica forse, ma la soglia dell’allarme è elevatissima. Perché, va giù piatto Vittorio Manes (docente a Bologna), quel medioevo giuridico tante (forse troppe) volte evocato, “adesso è arrivato”. È bastato un anno di governo gialloverde per fare considerare a larga parte dell’accademia e della avvocatura come a grave rischio un patrimonio di diritti ritenuto ormai acquisito. Una lunga sequenza di norme in vigore, come la legge “spazza-corrotti” (con l’appendice della nuova prescrizione), la riforma della legittima difesa, il decreto sicurezza, il no al rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, il nuovo e dimezzato (rispetto alla proposta Orlando) ordinamento penitenziario, ha condotto a un documento che cristallizza in 35 principi l’invalicabile linea del Piave dei penalisti. Ennio Amodio (storico professore di procedura penale a Milano) non nasconde un battagliero senso di smarrimento di fronte al populismo penale imperante. Toni anche in questo caso apocalittici: “La politica penale di questo esecutivo è priva di qualsiasi razionalità, esito solo di sentimenti come angoscia, paura, collera”. Ne è paradigma la legge sulla legittima difesa che nei fatti rappresenta un’abdicazione da parte dello Stato. “Nella consapevolezza, rincara la dose Amodio, “che anche nei confronti della magistratura la diffidenza è massima. Il giudice di fatto, se non asseconda le richieste delle vittime, è visto come alleato del condannato”. Certo l’affermazione di un populismo antigarantista, come lo ha bollato il presidente dell’Associazione dei processual-penalisti Stefano Seminara, ha strada facile, perché, ha ammesso Manes, “i nostri valori non sono né empatici né intuitivi: piuttosto antilogici”. E tuttavia necessari, se il paradigma è cambiato, dal liberale “in dubio pro reo” al “in dubio pro re publica”. Sul garantismo si reggono le democrazie evolute di Andrea Mascherin* Corriere della Sera, 11 maggio 2019 Per il garantista ogni avviso di garanzia è un avvio di indagine destinata a concludersi nel nulla e se riguarda un politico è un atto a orologeria delle Procure? Per il garantista anche il peggior assassino - magari terrorista, magari reo confesso - è comunque e sempre vittima di processi ingiusti? Il carcere è comunque una pena medioevale? Per il garantista la custodia cautelare è sempre una forma di tortura? Non è così. Il garantismo è un’idea alta che regge le democrazie evolute e gli equilibri sociali fondandoli sul rispetto della dignità della persona e sul dubbio come criterio di valutazione delle azioni umane. Nulla è più sbagliato che valutare il garantismo come un’ideologia “estremista”. Al contrario il garantismo non disconosce le regole poste alla base dello Stato di diritto che prevedono corrette forme di accertamento della responsabilità penale e di esecuzione della pena. Sono precisazioni necessarie affinché non si cada nell’equivoco di erronei parallelismi tra l’idea di garantismo e quella di giustizialismo. Sarebbe infatti sbagliato porre i due termini sullo stesso piano, dando loro eguale valore di “estremismo” giuridico e sociale. Chi è per le garanzie è semplicemente per la democrazia solidale, per uno Stato giusto, sempre e prima di tutto con i deboli, e non vendicatore; per uno Stato responsabile e autorevole, piuttosto che paternalistico e autoritario. Il pretendere che il processo sia giusto, che la custodia cautelare uno strumento eccezionale, che la pena sia tesa al recupero del reo non significa che chi sbaglia non debba essere giudicato, o che non debba pagare. Significa che chiunque si trovi al centro di un accertamento giudiziario non vada considerato solo per questo colpevole. Non a caso l’art. 27 della Costituzione parla di presunzione di non colpevolezza e non di innocenza. Non un sofisma: bensì il fatto che la nostra Carta esclude che si possa essere sottoposti a indagini in mancanza di qualsivoglia “traccia” (indizio) di colpevolezza, dunque da innocenti certi, e allo stesso modo escluda che basti la “traccia” per poter considerare qualcuno colpevole. A ben vedere si tratta di un chiaro esempio di civiltà giuridica. Non basta. Per garantire che l’accertamento rispetti il principio di non colpevolezza è necessario che esso si svolga secondo regole che garantiscano l’esercizio della Difesa: che non è modalità per sfuggire alle responsabilità bensì strumento per evitare innanzitutto la condanna, questa volta sì, di un innocente. E che l’eventuale pena, se accertata, sia commisurata al caso specifico e non dettata al primitivo richiamo della legge del “taglione”. Ancora. Va sottolineato che garantismo non significa essere contro la “certezza della pena”. Significa invece che alla pena debba giungersi con tutte le cautele del caso (processo giusto) e che la stessa non debba essere considerata come forma di vendetta dello Stato bensì come corretta sanzione per il disvalore comportamentale accertato nel caso concreto e che, ancora, debba essere anche strumento di recupero del reo alla società. Significa che lo Stato non deve mai rischiare di comportarsi come o peggio di chi viene giudicato colpevole, infliggendo e facendo scontare condanne inumane in situazioni contrarie alla dignità della persona. Questo è un grande sforzo di civiltà, spesso considerato impopolare. Bene: direi “giustamente” impopolare poiché di segno opposto rispetto a quelle che sono le inevitabili reazioni emotive, assolutamente comprensibili, di fronte a fatti gravi e inescusabili. Ci vuole senso di responsabilità perché è comunicativamente molto suggestivo affermare che tutti i politici siano ladri, o i pubblici amministratori corruttibili e gli imprenditori corruttori, o che la custodia cautelare possa essere usata come strumento per ottenere la confessione, o che il carcere vada tradotto con il termine galera e il verbo espiare con quello di marcire, e così via. Il fatto è che alle radici del garantismo vi è il sistema dialettico, che poi è il principio che applicato al sociale promuove il rispetto reciproco delle diverse idee e l’importanza di argomentarle, contro la scorciatoia, assai pericolosa, del linguaggio d’odio e della individuazione costante di nemici da abbattere e delegittimare, negandosi così che, democraticamente, la si possa pensare diversamente spiegandone il motivo. E allora si capisce che il garantismo è una idea di Società prima che di processo, una idea che pone al centro il dubbio, la dialettica, il rispetto del prossimo e delle idee altrui, e anche il rispetto delle diverse professionalità, sia quella del pubblico amministratore, del politico, dell’avvocato, del magistrato, del giornalista. *Presidente Consiglio Nazionale Forense Lazio: la metà dei detenuti è in cella per una pena residua sotto i due anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2019 Se avessero avuto accesso alle pene alternative, come prevede l’ordinamento penitenziario, non ci sarebbe sovraffollamento. Dati della Relazione annuale del Garante regionale Stefano Anastasìa. Criticità, ma anche qualche piccolo miglioramento soprattutto grazie alle iniziative della regione. Parliamo dell’ultima relazione annuale dell’attività svolta dall’ufficio del garante Stefano Anastasìa dei diritti delle persone private della libertà del Lazio, terza regione in Italia per numero dei detenuti, dopo Lombardia e Campania. Il dato principale che balza agli occhi è il discorso del sovraffollamento che, come al livello nazionale, presenta una sua peculiarità: l’aumento della popolazione detenuta non sembra ascrivibile, come in passato, a una prevalenza degli ingressi sulle uscite, bensì a una riduzione delle uscite rispetto agli ingressi. Secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia, il 31 dicembre del 2018 in Italia erano detenute 8.525 con pena residua inferiore a un anno, 7.760 con pena residua tra uno e due anni, 5.952 tra due e tre anni, per un totale di 22.237 detenuti, pari al 56% dei condannati presenti in carcere. La gran parte dei condannati presenti in carcere, dunque, sarebbe ammissibile a pene alternative alla detenzione, se non ostassero presunzioni legali di pericolosità sociale, carenza di programmi di reinserimento sociale, inefficienze della macchina giudiziaria e/ o amministrativa. Così quindi anche nel Lazio: il numero dei detenuti in esecuzione di una pena residua inferiore ai ventiquattro e ai dodici mesi, corrisponde quasi al 50 per cento dei ristretti. Ciò significa che se avessero avuto accesso alle pene alternative come prevede l’ordinamento penitenziario, il sovraffollamento svanirebbe. Sulla base del lavoro svolto e delle doglianze ricevute dai detenuti, il garante regionale del Lazio ha potuto rilevare ritardi e difficoltà nell’accesso ai benefici e alle misure alternative da parte dei detenuti presenti nelle carceri riferibili in particolare al mancato rispetto del termine previsto per la definizione del programma individualizzato di trattamento (nove mesi dall’ingresso in Istituto, secondo il previgente art. 27, comma 2 del Regolamento, sei secondo il nuovo art. 13, comma 4 dell’Ordinamento penitenziario); ai ritardi, a volte gravosi, da parte del Uepe competente per territorio nella fornitura delle informazioni necessarie per la valutazione delle istanze; alla esiguità delle strutture esterne di accoglienza per la fruizione delle misure alternative, a discapito soprattutto dei detenuti meno abbienti e degli stranieri; alle carenze di organico giudiziario e amministrativo del Tribunale di sorveglianza, che hanno reso particolarmente critica la situazione nella Casa circondariale di Velletri e nella Casa circondariale di Rebibbia N. C., dove alcuni detenuti per un lungo periodo di tempo hanno avuto un magistrato a turno, con inevitabili disservizi, soprattutto per le istruttorie e le decisioni più complesse. Particolare rilievo nel percorso di reinserimento sociale dei condannati, tra benefici penitenziari, alternative al carcere e dimissione, secondo il Garante regionale è la disponibilità di un luogo di accoglienza sul territorio, la cui mancanza può rendere inesigibili i benefici e le alternative e particolarmente difficoltoso il reinserimento sociale a fine pena. Per questo motivo, la Commissione ministeriale per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, anche sulla scorta delle indicazioni degli Stati generali dell’esecuzione penale, aveva sostenuto la necessità di individuare appositi luoghi di dimora sociale per consentire ai meno abbienti di usufruire di benefici penitenziari, alternative al carcere e sostegno al reinserimento sociale. Ma ciò non è stato più contemplato dalla riforma dell’ordinamento penitenziario recentemente approvata. Per questo motivo, il Consiglio regionale, su sollecitazione del Garante, ha previsto nel Piano Sociale Regionale il sostegno alla realizzazione di una rete di strutture di accoglienza per detenuti, ex- detenuti e familiari non residenti in visita ai congiunti detenuti nelle carceri del Lazio. Cagliari: nuova tragedia nel carcere di Uta, detenuto di 42 anni si toglie la vita castedduonline.it, 11 maggio 2019 “Un detenuto di 42 anni W.X. si è tolto la vita impiccandosi alle prime luci dell’alba di stamane nel bagno della cella che condivideva con altri due compagni. Una tragedia che ha lasciato interdetti gli Agenti della Polizia Penitenziaria e i Sanitari che si sono immediatamente attivati nel tentativo di salvarlo ma tutto è stato purtroppo invano”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, esprimendo sgomento per la nuova tragedia che si è verificata nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta. “Una circostanza - sottolinea - che ha provocato dolore e sconcerto tra tutti gli operatori dell’Istituto. L’uomo infatti svolgeva un’attività lavorativa nella Casa Circondariale in modo meticoloso guadagnandosi la fiducia per la serietà con cui operava. Non manifestava quindi evidenti segnali di malessere”. “Ancora una volta la tragedia - afferma - si è consumata in un momento in cui nessuno poteva intervenire per impedirla. La vicenda tuttavia fa riflettere sul profondo disagio che la perdita della libertà produce e sulla necessità di rafforzare le attività finalizzate alla socializzazione. L’uomo infatti non effettuava colloqui con i familiari. Forse è stata proprio la profonda solitudine a determinare il gesto estremo. Un dramma che tuttavia suscita profonde riflessioni su un nuovo indiscutibile fallimento dello Stato”. Belluno: la Cisl Fns denuncia “carcere inadeguato, l’ala psichiatrica deve essere chiusa” di Paola Dall’Anese Corriere delle Alpi, 11 maggio 2019 “Chiediamo la chiusura della sezione psichiatrica del carcere di Belluno o, in via subordinata, che la polizia penitenziaria venga esclusa dal reparto, che deve essere gestito esclusivamente da personale medico e paramedico dell’Usl”. Questa la richiesta che arriva da Robert Da Re, esponente della Cisl Fns, all’indomani dell’aggressione di due agenti penitenziari da parte di un detenuto psichiatrico. Una richiesta che viene presentata ormai da tre anni, da quando, cioè, è stata aperta la sezione a Baldenich. Sulla stessa lunghezza d’onda si sintonizza il deputato Luca De Carlo. “La situazione va risolta al più presto. Dobbiamo tutelare i carcerati, certo, ma dobbiamo soprattutto difendere i lavoratori che, oltre al duro lavoro quotidiano, sono costretti a fa fronte anche alla scarsità di personale. Questo è l’ennesimo segnale che deve portare alla chiusura della sezione psichiatrica. Come denunciato più volte, la struttura è inadeguata e pericolosa: da marzo 2016 a giugno 2018 si erano già registrati 150 eventi critici”. La situazione è sempre più esplosiva. “La competenza in questa materia è del Provveditorato regionale”, spiega la direttrice della casa circondariale Tiziana Paolini, “sappiamo che c’è l’intenzione di aprire una sezione psichiatrica nei carceri di Padova e Udine”, dove potrebbero essere dirottati i detenuti di Baldenich. “Da tempo segnaliamo al Provveditorato la nostra situazione, ma non conosciamo ancora quale sia la decisione in merito. Quello che è chiaro è che la nostra struttura per questo tipo di detenuti va rivista e adeguata”, prosegue il capo del carcere, che fa sapere come, dopo l’incidente, siano state attivate tutte le procedure del caso: “Nei confronti dell’aggressore saranno presi dei provvedimenti. Subito dopo il fatto, la persona è prima stata chiusa nella sua cella per motivi di sicurezza e poi condotta in infermeria. A quell’ora era ancora presente il medico dell’Usl, che ha sottoposto il paziente alle cure del caso. Da parte nostra c’è la massima collaborazione con l’azienda sanitaria. Sicuramente l’impegno è gravoso, ma dobbiamo farlo e il Provveditorato monitora la nostra situazione”. Sulla questione interviene anche l’Usl: “Tutti i pazienti detenuti nella sezione “articolazione tutela della salute mentale” hanno accesso e usufruiscono degli ordinari servizi sanitari, anche specialistici, previsti da una delibera veneta e di tutti i servizi sanitari in caso di necessità. Recentemente è stata prevista un’ulteriore implementazione e integrazione dei servizi assistenziali già erogati, che è in fase di attuazione, così da rendere la copertura sanitaria omogenea nelle 24 ore”. La direzione strategica sottolinea anche un’altra situazione critica che è stata denunciata dal sindacato proprio nell’immediatezza dell’aggressione. Un caso limite, di degrado. “Da giorni”, replica l’Usl tranquillizzando gli animi, “è stato programmato e concordato un percorso assistenziale personalizzato per questo paziente-detenuto, che trova applicazione già in queste ore”. Belluno: detenuti psichiatrici, l’Usl annuncia servizi h24 Il Gazzettino, 11 maggio 2019 Dopo il caso delle due guardie carcerarie picchiate mercoledì dal detenuto dell’Articolazione di tutela salute mentale, nella casa circondariale di Baldenich, interviene la Usl. L’ennesimo episodio di aggressione agli agenti penitenziari era stato diffuso da una nota dei sindacati Cisl Fns diffusa nella serata di mercoledì. Nel comunicato i sindacati parlavano anche di “un caso molto degradante, non adeguatamente assistito dal servizio sanitario nazionale, al limite della dignità umana”. La Usl 1 Dolomiti, incaricata dell’assistenza nella Articolazione del carcere precisa, con un comunicato diffuso irti: “Come più volte ribadito, tutti i pazienti-detenuti nella Sezione Articolazione Tutela Salute Mentale hanno accesso e usufruiscono degli ordinari servizi sanitari anche specialistici previsti dalla Dgrv n. 1611 del 19/11/2015 ed in caso di necessità di tutti i servizi sanitari nessuno escluso”. “Recentemente - prosegue l’azienda sanitaria - si è proceduto a programmare un’ulteriore implementazione ed integrazione dei servizi assistenziali già erogati che è in fase di attuazione, in modo da rendere la copertura sanitaria omogenea nelle 24 ore”. “Riguardo allo specifico caso citato negli articoli - conclude la Direzione Generale della Usl 1 Dolomiti - si segnala che da giorni è stato programmato e concordato un percorso assistenziale personalizzato per questo paziente-detenuto che trova applicazione già in queste ore”. La presunta mancata assistenza ai pazienti-detenuti era stata denunciata più volte anche dal Sappe, ovvero il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Hanno bisogno di essere curati, non degli agenti di polizia penitenziaria”, aveva detto Giovanni Vona referente del Sappe, puntando il dito contro l’azienda sanitaria. Nell’articolazione si sono ripetuti nel tempo diversi episodi di aggressione da parte dei detenuti, compreso un agente segregato da uno psichiatrico omicida che gli disse: “Inginocchiati e prega”. Milano: il pane dei detenuti di Opera è più buono di Stela Xhunga peopleforplanet.it, 11 maggio 2019 Perché In_Opera e Antigone fanno bene al nostro sistema penitenziario. Parola di chi ci lavora. Oggi scambiamo due parole con la cooperativa In_Opera che coinvolge i detenuti del carcere di Opera, e con l’associazione Antigone, che dei detenuti monitora i diritti. “I luoghi li fanno le persone”. A dirlo è Pierluigi Mapelli, che insieme alla figlia Elisa fa parte del comitato operativo di In_Opera, cooperativa sociale al fianco dei detenuti del carcere di Opera in provincia di Milano nella lavorazione del pane, che a detta di tutti è buono, molto. Cristian, Beppe, Davide, Antonio, Armando, Angelo, Maurizio, Bishoy, Sebastiano, Aksel, Massimiliano, Andrea, questi alcuni dei nomi degli uomini che fanno del carcere di Opera un luogo in cui le persone scontano la pena senza perdere la dignità di persone. “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”, scriveva nel Settecento Cesare Beccaria. Da quando è nata, la cooperativa In_Opera ha formato e dato un lavoro a 27 persone, 27 detenuti, alcuni tornati liberi, altri in affidamento, altri ancora in semi-libertà. “Lasciatemi riposare, sono appena entrato in pensione” ha risposto Pierluigi agli amici che nel 2013 gli hanno proposto di dare vita al progetto In_Opera; poi però ci ha ripensato, ed è stato un bene. Da 7 anni, insieme alla figlia, lavora e rifornisce il territorio milanese di pan tranvai, filoni rustici e ciambelle facendo lavorare i detenuti, grazie anche alla lungimiranza del direttore del carcere, Silvio di Gregorio, convinto che far riscoprire alle persone detenute la propria autostima sia “determinante”. “Chi lavora, nel 90% non delinque più” ci dice Pierluigi, e ribadisce quanto valore abbia per un detenuto potere uscire dalla struttura per mantenere saldo il legame con la società nella quale un giorno dovrà reinserirsi. “Se un detenuto esce e mi accompagna in panetteria sono felice, perché se ascolta da sé la signora Maria che si lamenta della bruciatura della crosta, realizza a pieno il lavoro che sta facendo e capisce che il pane che produce non è qualcosa di astratto, ma di concreto, che piace o non piace alla signora Maria”. E dalla Regione c’è supporto? “Non manca; certo, la nostra ambizione sarebbe riuscire a dare delle soluzioni di continuità ai detenuti anche dopo che escono dal carcere, vedremo, siamo fiduciosi, in Regione ci sono persone sensibili sul tema”. Il percorso dell’individuo “socialmente pericoloso” è spesso una via di non ritorno nella società, che, anche quando si dice cattolica, anziché porgere l’altra guancia, preferisce avere un Caino a disposizione. I dati forniti dal Ministero della Giustizia e aggiornati al 31 dicembre 2017 offrono un quadro complessivo dei detenuti divisi per tipologia di reato: 7.106 detenuti per ‘Associazione di stampo mafioso’ (416bis), 19.793 per ‘TU stupefacenti’, 9.951 per ‘Legge armi’, 3.061 per ‘Ordine pubblico’, 32,336 ‘Contro il patrimonio’, 703 per ‘Prostituzione”, 8.027 ‘Contro la Pubblica amministrazione”, 1.514 per ‘Incolumità pubblica’, 4.646 per ‘Fede pubblica’, 104 per ‘Moralità pubblica’, 2.624 ‘Contro la famiglia’, 23.000 ‘Contro la persona’, 145 ‘Contro la personalità dello Stato’, 6.795 ‘Contro l’amministrazione della giustizia’, 849 per ‘Economia pubblica’, 3.961 per ‘Contravvenzioni’, 1.668 per Tu Immigrazione, 1.065 ‘Contro il sentimento e la pietà dei defunti’, 2.705 per ‘Altri reati’. Le formulazioni delle misure alternative non possono prescindere dalla messa in circolo dei dati del Ministero della Giustizia, tuttavia, dice Claudio Sarzotti dell’Associazione Antigone, “bisogna prendere con cautela tutti i numeri e piuttosto interpretarli come indicazioni tendenziali nella consapevolezza dei limiti metodologici che ci sono rispetto allo studio delle carceri e in particolare dei fenomeni di recidiva. Nessuno studio prende in conto delle variabili, i dati si limitano a fotografare la realtà”. Antigone è nata alla fine degli anni Ottanta nel solco della omonima rivista voluta da Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Massimo Cacciari e altre figure portatrici di un attivismo civico divenuto oggi quasi mitologico. In fasi storiche di populismo penale e di urlata “tolleranza zero”, associazioni come Antigone diventano osservatori, spazi di denuncia, corpi intermedi in grado di promuovere piccoli e grandi progetti che tutelano l’individuo dentro il carcere, e lo aiutano, una volta fuori, a districarsi tra i mille cavilli burocratici e pratici che una detenzione irrimediabilmente porta con sé, come spiegato in una guida, che il detenuto in procinto di tornare libero può consultare. Se valutare la recidiva è difficile, perché in carcere ci finiscono persone che hanno commesso più reati e il reingresso non è necessariamente conseguenza della recidiva, valutare la dignità dell’individuo è facile: è sempre, in ogni caso, inviolabile. Ragusa: i detenuti diventano pasticcieri per tornare alla... vita di Marcello Digrandi Giornale di Sicilia, 11 maggio 2019 Quando dietro le sbarre diventa un’impresa. Hanno scelto il percorso più difficile realizzare una cooperativa sociale “Sprigioniamo sapori” all’interno della casa circondariale di Ragusa. Con annesso laboratorio artigianale per la produzione di torroni e di altri prodotti dolciari a base di mandorle, miele, pistacchi e nocciole, tutte materie prime di eccellenza, tipiche del territorio siciliano. La dolcezza e il piacere aumentano quando il torrone e le creme spalmabili sono fatti con un ingrediente aggiuntivo, il bene sociale. Una storia nata dal “basso”, nel 2013, grazie ad un protocollo d’intesa con la casa circondariale e il ministero. L’obiettivo è il pieno inserimento lavorativo di due detenuti per la produzione e la commercializzazione di prodotti dolciari. “Sono stati anni difficili - spiega Pino Digrandi, uno dei soci della Coop - riuscire a vendere e a commercializzare fuori dal carcere prodotti realizzati dai nostri abili artigiani pasticcieri. I nostri interlocutori sono il mondo del sociale e i distributori che si muovono all’interno delle coop o delle botteghe che operano nel terzo settore. Ma il vero obiettivo è la riabilitazione lavorativa e sociale dei nostri collaboratori”. Cremona: la Rete Bibliotecaria consegna cassette del book-crossing fatte dai detenuti cremaoggi.it, 11 maggio 2019 Come ogni anno, il Centro per il libro e la lettura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali organizza il “Maggio dei libri”: un’iniziativa nata nel 2011 con l’obiettivo di “sottolineare il valore sociale dei libri quale elemento chiave della crescita personale, culturale e civile”. Il ‘Maggio dei Libri’ è una campagna nazionale che invita a portare i libri e la lettura anche in contesti diversi da quelli tradizionali, per intercettare coloro che solitamente non leggono ma che possono essere incuriositi se stimolati nel modo giusto. La Rete Bibliotecaria Cremonese (RBC) non poteva mancare a questo appuntamento che da sempre coinvolge le biblioteche del territorio. Quest’anno la scelta è stata quella di valorizzare un progetto divenuto ormai diffuso e conosciuto: le casette del book-crossing di RBC. Le casette del book-crossing sono realizzate grazie ad un accordo tra la Rete Bibliotecaria Cremonese e la Casa Circondariale di Cremona: sono state infatti realizzate dai detenuti all’interno del laboratorio di falegnameria organizzato dal C.P.I.A. di Cremona (Centro Provinciale di Istruzione per Adulti). Le 30 casette che sono state costruite e consegnate ai Comuni del territorio, hanno già in parte trovato collocazione in parchi, sale d’attesa, piazze, luoghi inusuali per avvicinare alla lettura anche chi non frequenta la biblioteca, lasciando però tutte le indicazioni per conoscere e scoprire i servizi bibliotecari. Alcuni Comuni hanno già provveduto alla loro inaugurazione dando vita a iniziative di promozione della lettura che coinvolgono soprattutto le scuole e i ragazzi, come ad esempio Padino, Persico Dosimo, Grontardo, Dovera, Bonemerse, Bagnolo Cremasco, Scandolara Ravara (Unione Municipale), Castelleone, Sospiro. Offanengo inaugura la casetta dei libri oggi pomeriggio, venerdì 10 maggio, all’interno delle iniziative dedicate alle celebrazioni per i 10 anni della nuova biblioteca. Cremona inaugura la quarta casetta di RBC sempre oggi al Circolo ARCI Signorini in occasione delle Letture dall’Europa, Spino d’Adda domani, alle alle ore 10.30 in occasione della presentazione della bibliobike, il mezzo ecologico che porterà i libri della biblioteca a domicilio, Gadesco Pieve Delmona domenica 12 maggio, alle ore 10.30 con la premiazione del Concorso di disegno per le scuole. “Le attività del Maggio dei libri legate alle inaugurazioni delle casette - dichiara Elisabetta Nava, Presidente della Rete Bibliotecaria Cremonese - costituiscono un progetto in continuità con le linee di indirizzo da sempre condivise: apertura delle biblioteche, promozione della lettura, accessibilità della cultura. Un’iniziativa che valorizza relazioni e collaborazioni già attivate dalla rete, come quella con la Casa Circondariale di Cremona: nel 2018 abbiamo inaugurato le biblioteche nel carcere, ore le casette dei libri costruite nella Casa Circondariale. Una Cultura che libera, che avvicina, che circola”. Trapani: carcere e parrocchia insieme per sostenere ex detenuti di Ornella Fulco trapanisi.it, 11 maggio 2019 Una comunità che si fa accogliente nei confronti di chi ha bisogno e che, da questo, trae occasione per avvicinarsi all’altro senza pregiudizi e con la voglia sincera di capire e conoscere. È accaduto lo scorso 8 maggio, nella chiesa Cristo Re di Valderice dove il parroco don Francesco Pirrera ha organizzato un incontro con i vertici della Casa circondariale di Trapani, di cui è cappellano. Il direttore Renato Persico, il comandante della Polizia Penitenziaria Giuseppe Romano, il responsabile dell’Area educativa Antonino Vanella e il commissario Michele Buffa, responsabile del Nucleo traduzioni e piantonamenti, hanno raccontato la realtà carceraria a partire dall’esperienza con alcuni detenuti africani che, adesso, finito di scontare le loro condanne, sono ospitati dal sacerdote nella casa parrocchiale. Un modo concreto, quello di padre Pirrera - che ha il sostegno del vescovo di Trapani, Pietro Maria Fragnelli, presente all’incontro - di dare un’opportunità a questi giovani che sono passati, come ha raccontato uno di loro, dal gommone su cui si erano imbarcati verso l’Europa alla galera, perché accusati di essere scafisti. I ragazzi, provenienti da Paesi come il Gambia e il Senegal, hanno raccontato la loro esperienza carceraria e hanno ringraziato - sì ringraziato - i poliziotti e gli operatori per aver loro dato ascolto e supporto pur in una realtà di grande sofferenza - come ha sottolineato il commissario Romano - quale è quella carceraria. “Dobbiamo riuscire ad andare oltre il muro - ha detto il direttore Persico - nel senso di offrire opportunità concrete di reinserimento sociale agli ex detenuti. Le occasioni sono ancora troppo poche e difficili da realizzare. Noi lavoriamo per restituire alla società persone migliori, anche se in condizioni per nulla facili”. “Ci ritroviamo qui - ha sottolineato il vescovo Fragnelli - al di là delle differenze, anche di credo. Non importa come lo chiamiamo, ma Dio è padre di tutti noi ed è a lui che affidiamo le nostre preghiere e il nostro impegno”. I giovani attualmente ospiti della parrocchia frequentano scuole del territorio e sperano di poter trovare presto la loro strada e la loro autonomia. Intanto possono attendere con dignità che la loro posizione venga vagliata dalle autorità e non dormono per strada come, pure, qualcuno di loro ha raccontato di aver fatto una volta uscito dal carcere. Alcuni hanno una moglie che attende di raggiungerli, altri solo dopo mesi dal loro arrivo a Trapani potuto chiamare - dal carcere - i loro cari per dire che non erano morti, che ce l’avevano fatta ad attraversare il Mediterraneo in cerca di un futuro migliore. Tutti hanno negli occhi la speranza e non la cupezza di un futuro già segnato. Le vite degli uomini, e non solo le loro, sono fatte di “attraversamenti”. Anche a noi spetta fare un viaggio e trovare la strada per camminare insieme, nel rispetto reciproco e nella fratellanza vera. Rossano Calabro: il premio “Sulle ali della libertà” a un detenuto della Casa circondariale agensir.it, 11 maggio 2019 Un detenuto della Casa circondariale di Rossano Calabro (Cs) è il vincitore della II edizione del premio “Sulle ali della libertà”, concorso nazionale dedicato alla promozione della cultura in carcere. L’uomo ha conseguito in carcere la laurea in sociologia con la tesi su “La sfera pubblica: il carcere come progetto sociale”. Oltre 13 gli elaborati - arrivati da diverse case di reclusione d’Italia - che sono stati valutati da una commissione di esponenti del mondo della cultura, del giornalismo e del sociale, presieduta da mons. Paolo Lojudice, arcivescovo eletto di Siena, e da Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio. La consegna del premio avverrà mercoledì prossimo, 15 maggio, alle 10.30, nella sede di rappresentanza del Banco Bpm a Roma. La cerimonia sarà coordinata dal giornalista Rai Davide Piervincenzi, alla presenza di esponenti del Governo, di parlamentari e delle autorità civili e religiose della capitale. Il premio è promosso e ideato dall’associazione Isola solidale, che a Roma da oltre mezzo secolo accoglie i detenuti che hanno commesso reati per i quali sono stati condannati, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Il premio ha ottenuto anche quest’anno dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Medaglia di rappresentanza, riconoscimento che viene attribuito a iniziative ritenute di particolare interesse culturale, scientifico, artistico, sportivo o sociale. Bologna: Giallo Dozza, in carcere tra mete, festa e integrazione Corriere della Sera, 11 maggio 2019 Quando lo sport vuol dire solidarietà e quando una partita è un momento per sentirsi liberi. Va in scena alle 14,30, all’interno della casa circondariale Dozza la quarta edizione del trofeo Illumia. Concluso il campionato di serie C2 regionale di rugby, con un eccellente terzo posto, i ragazzi del Giallo Dozza, squadra composta da detenuti del carcere bolognese, sfidano Faenza in una partita-festa che chiude la stagione. Iniziato nel 2013, il percorso rieducativo Giallo Dozza ha coinvolto in questi anni circa 200 detenuti. Il progetto del Giallo Dozza “Tornare in campo”, realizzato con la collaborazione di un partner come Illumia, si è posto come obiettivo il recupero fisico, sociale ed educativo dei detenuti attraverso l’insegnamento del rugby all’interno del carcere e i risultati sia in campo che fuori sono stati eccellenti, con un tasso di recidiva nei detenuti pressoché inesistente, mentre in campo la squadra del presidente Stefano Cavallini e diretta da Eddy Venturi è cresciuta arrivando a disputare 83 incontri e centrare un inaspettato, ma meritatissimo terzo posto in C2. Numeri importanti per una squadra multietnica formata da più di 30 detenuti, provenienti da oltre 10 nazionalità e culture diverse come Marocco, Albania, Macedonia, Romania, Repubblica Dominicana, India, Nigeria, Moldavia, Italia, Ucraina, Tunisia, molti dei quali hanno preso in mano la palla ovale per la prima volta nel Giallo Dozza. A supportare il trofeo Illumia l’Uisp, che da oltre trent’anni lavora nella casa circondariale per promuovere il diritto allo sport per tutti. Roma: le Scritture lette e commentate dai detenuti di Rebibbia alla Radio Vaticana di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 11 maggio 2019 È una redazione a tutti gli effetti, quella che si è costituita per la prima volta lo scorso anno nella casa di reclusione di Rebibbia. Con un unico obiettivo: leggere il Vangelo e commentarlo al microfono della Radio Vaticana. Un po’ per ritrovarsi, un po’ per raccontarsi, ma soprattutto per ribadire che qualsiasi uomo che ha avuto a che fare con la giustizia, non è finito. Facile a dire, difficile da far credere soprattutto perché si ha a che fare con una istituzione che fatica a cambiare e con una cultura che identifica la persona che abbiamo di fronte con l’errore che ha commesso. Ma a loro questo interessa poco perché hanno investito tutto sulla fede: “Quel qualcosa che aiuta specialmente chi vive una situazione come questa a non sentirti perso, ad avere il coraggio di andare avanti e credere in un futuro migliore” mi spiega Pietro, che in carcere ha ricominciato a prendere i libri in mano riuscendo perfino a laurearsi in giurisprudenza. “Ho così dato un senso a questo percorso” tiene a sottolineare, fiero dell’obiettivo raggiunto. E aggiunge: “Chi crede e condivide questa situazione riesce a capire che bisogna vivere di presente e di futuro, non di passato. Durante il mio periodo di detenzione ho dovuto affrontare momenti difficili. Su tutti la perdita di mia madre, ma il conforto della fede mi ha dato la possibilità di guardare avanti”. Pietro è il più preparato e le sue “catechesi” vengono proposte con linguaggio efficace, da navigato esegeta: “L’esperienza detentiva la vivo da pellegrino. Spero solo di non essere visto, quando uscirò, da eterno carcerato”. Pietro sa bene che la società tende a considerare il detenuto un emarginato o comunque una persona che va condannata al di là dei suoi sentimenti e delle sue esigenze. Per lui, e per quelli come lui, il carcere inizia molto prima della detenzione vera e propria e non finisce certo nel momento in cui si riacquisisce lo stato di libertà. Un ruolo determinante assume allora il volontario, il segno di una testimonianza. La persona investita di un ruolo sociale, una forza in grado di ripristinare i valori della persona. Colui, o colei, che intende il carcere non un luogo che custodisce, ma che educa, un valore e non una misura estrema. “Ho girato diversi istituti di pena e ovunque ho avuto la fortuna di incontrare persone che mi hanno ascoltato. Il loro è un servizio straordinario che andrebbe maggiormente supportato”. Ad evidenziarlo è Antonino che, durante le prove di registrazione, ci parla del suo ritorno alla lettura delle Sacre Scritture: “Qui la solitudine ti affligge e la fede è un balsamo che allevia le ferite di questo tormento”. Poi il suo più grande desiderio: “Quello di poter continuare il mio percorso di rieducazione totale, così da farmi trovare pronto nel momento in cui sarò chiamato al reinserimento nella società. Processo, questo, molto difficile e irto di ostacoli, ma è bene presentarsi all’appuntamento con i giusti requisiti”. Marco ci osserva e cerca di mettere in ordine i pensieri mentre attende il suo turno. Ha il piglio del filosofo e chiede insistentemente a Rosalba Manes, la biblista della Gregoriana che li ha coordinati, quale lettura avrebbe affrontato. Lontano dal microfono, mentre il “collega” Paolo (nominato tecnico di studio) sistema le spesse coperte grigie per insonorizzare la stanza che l’amministrazione ha messo a disposizione, Marco riflette sulla sua condizione: “Sembra incredibile ma il carcere è un luogo dove è possibile passare da un cuore di pietra a un cuore di carne”. Lo ascolto con attenzione perché non è mai banale, ma si accorge che qualcosa deve essermi sfuggito e aggiunge: “Vedi, il carcere è un po’ come il cammino del popolo di Dio nella Bibbia: si parte da Caino e Abele, il cuore di pietra, e arriviamo fino a Gesù che ci ama fino alla fine con un cuore di carne”. E conclude: “Il carcere consente proprio questo: mettersi all’altezza del cuore dell’altro. Forse è proprio questa la rieducazione”. Mi convinco che dietro quelle sbarre esiste uno spazio straordinario che consente di conoscere l’uomo, nel suo mistero di bene e di male. Pino, il più “radiofonico”, vanta caratteristiche poetiche rare. Ha una voce roca e profonda. Gli studi di doppiaggio farebbero a gara per farlo lavorare ma lui ama scrivere e sogna di prestare servizio presso l’accoglienza del santuario romano del Divino Amore. Ci parla di tradimento, leggendo i versetti 27-31 del capitolo 14 del vangelo di Marco: “Sono frequenti gli episodi in carcere in cui il compagno ti volta le spalle e ti tradisce. E non solo tre volte come è capitato a Pietro. Spesso ti accorgi che sono le persone a cui tu vuoi bene, i tuoi amici”. In altri tempi, di fronte a “sgarri dei Giuda” avrebbe reagito a suo modo. Oggi ha in tasca una soluzione, a suo dire, sempre vincente: “Trovo appagamento perdonando chi mi fa del male perché lo metto in difficoltà in quanto offro una risposta inattesa all’offesa ricevuta. Trovo ogni giorno tanta forza scrivendo versi e pregando. Non sono più attratto dalla violenza”. Le luci della sera ci avvertono che il nostro studio sta per chiudere. Gli agenti della polizia penitenziaria ci invitano a lasciare la stanza e a raccogliere le nostre cose. Ma prima di congedarci, giungono puntuali le consuete domande: “Quando vado in onda? Devo avvertire i miei familiari, così mi ascoltano”. Consegno loro un piccolo calendario delle trasmissioni, gli fisso un altro appuntamento e li saluto affettuosamente. Questa volta però è diverso perché Pietro indugia, lascia per un istante il lungo corridoio che conduce alle celle, mi corre incontro e mi dice: “Sai perché vengo a leggere il Vangelo con te? Perché questa esperienza mi fa sentire meno ultimo”. “Malafollia, racconti dal carcere” recensione di Annalena Benini Il Foglio, 11 maggio 2019 La profondità della disperazione e della rabbia che scuote chi legge. “Ho visto una donna ucraina molto giovane. Era incinta e mancava poco al parto. La facevano rimanere sempre in isolamento perché era ingestibile: le piaceva menare, soprattutto gli assistenti. Non era neanche possibile contenerla: oltre a essere incinta era una bestia, alta ed enorme. Una faccia, dei piedi e delle mani stratosferiche. Faceva sempre ciò che voleva e durante l’ora d’aria si lavava il suo enorme pancione, tutta nuda, sotto la doccia della sezione. Ero commossa da quella visione, si sentiva libera e riusciva a far sentire così anche noi. Solo nel guardare una donna che si faceva la doccia”. (Patrizia Durantini in “Malafollia, racconti dal carcere” Come ha scritto Edoardo Albinati nell’introduzione a questi sei racconti sul carcere, scritti da narratori che il carcere lo conoscono come si conosce la propria casa, “è spesso la follia a spingere la gente dentro una galera oppure è la galera a produrre come un suo effetto inevitabile, quasi calcolato in anticipo, la follia. La massima staticità e la massima agitazione finiscono per convergere in un unico istante e in uno spazio definito, quello della cella”. La massima staticità e la massima agitazione convergono anche nel senso di smarrimento, una volta fuori di prigione. La paura di non farcela. Il desiderio di tornare dentro. “Ogni tanto ne veniva una nuova. Una, perfino, rubò un tablet e si consegnò. Diceva che per un po’ non voleva stare fuori. Ci sono ragazze che arrivano vicino al suicidio. Altre invece ci arrivano e basta. Si tagliano e prendono a capocciate i blindi”. O staccano agli agenti le dita delle mani, quando arrivi all’esasperazione ed esce fuori il mostro che è in te, scrive Patrizia Durantini, una donna di questi racconti carcerari, insieme a Edmond, Michele, Salvatore, Sebastiano, Stefano, che sono veri scrittori, oltre che veri carcerati. Antonella Bolelli Ferrera ha curato questa antologia facendo viaggiare le storie da sole. Nessuno scrittore riconosciuto come tale ha affiancato questi sei scrittori nel loro viaggio importante, terribile e serio dentro la prigione e dentro di sé. “Mi ritrovo solo come un cane, senza un lavoro fisso e una buona ragione per andare avanti. Tutti quelli che conoscevo non fanno più parte del mio mondo, anche se probabilmente sono io che non faccio più parte del loro mondo. O di qualsiasi mondo. Sono trascorsi due anni dal mio addio alla galera eppure mi sono portato le sbarre della cella appresso e posso sentire ancora il loro peso sulla schiena”, scrive Michele Maggio in “Comma 22”, che è il diario della follia e della verità. Dell’isolamento, anche, e della comunità che è necessario costruirsi per non lasciarsi uccidere dalla solitudine. Sebastiano Prino racconta gli anni di punizioni, di monologhi alle sbarre, di psicofarmaci e di ribellioni. “Le guardie che mi aprirono il cancello indossavano guanti di lattice per perquisirmi, ma l’odore che emanavo dal corpo e dagli indumenti che mi coprivano li fece desistere dal toccarmi. Con guardie davanti e guardie dietro, varcai la porta di quella corte di giustizia che da subito mi apparve molto minore di come l’avevo immaginata (…) Le guardie mi lasciarono il passo indicandomi una sedia posta al di qua della scrivania, ma invece di prendere posto infilai lentamente le mani in tasca e un attimo dopo, avvolti dal foglio della convocazione tagliato a metà, scagliai verso quegli uomini seduti e su quelli nascosti dietro di loro, il contenuto del mio bugliolo. Poi mentre venivo buttato per terra gridai la mia grandezza”. C’è un valore letterario che va oltre la testimonianza, perché quando si scende nella profondità della disperazione e della rabbia riuscendo a trovare le parole, si compie un’opera importante e viva, che scuote chi legge dal torpore, lo sveglia con un pugno in testa, gli dice: guarda, la vita è questa, guarda, lui è come te. La dinamica dell’intolleranza di Mattia Feltri La Stampa, 11 maggio 2019 Qui la trama si infittisce. Dunque, come tutti sappiamo, i fascisti sono stati esclusi dal Salone del libro, dopo esserne stati ammessi, da un’azione congiunta Pd-Movimento cinque stelle per una profilassi di igiene democratica. Ieri, durante un comizio di Matteo Salvini, di cui i fascisti pubblicano il libro intervista, il medesimo Salvini ha invitato alcuni contestatori a levarsi di torno in quanto “moscerini rossi”. Altri rossi, non necessariamente moscerini, per carità, hanno invece allontanato dal corteo per Peppino Impastato (ucciso dalla mafia quarantuno anni fa) tre parlamentari del Movimento cinque stelle perché “state al governo coi fascisti: qui non potete rimanere”. Per concludere, i neofascisti di Forza Nuova hanno annunciato che lunedì cercheranno di impedire l’intervento all’Università La Sapienza di Mimmo Lucano, ex sindaco di sinistra di Riace indagato per la gestione dei migranti: è un traditore degli italiani, hanno detto per illustrare la limpidezza dell’iniziativa. In meno di ventiquattro ore, la cronaca politica ha mandato all’aria il celebre paradosso di Karl Popper, secondo cui una società tollerante, per difendersi dagli intolleranti, deve farsi intollerante. Non è mai parso uno dei pensieri più brillanti di Popper. Infatti, se sei intollerante con l’intollerante, a tua volta diventi intollerante e qualcun altro sarà autorizzato all’intolleranza contro di te. Visto che qui i rossi cacciano i verdi che cacciano i gialli che cacciano i neri che cacciano tutti, va rispolverata la terza legge della dinamica: ad ogni azione corrisponde sempre un’uguale e opposta reazione. Decreto sicurezza bis: più poteri al Viminale e multe a chi soccorre migranti di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 11 maggio 2019 Il testo prevede il trasferimento di poteri dal dicastero di Toninelli a quello di Salvini che potrà interdire la navigazione “qualora sussistano ragioni di ordine pubblico o sicurezza”. Più poteri al Viminale in materia di traffico marino, potere che verrebbe sottratto al ministero delle infrastrutture, con la finalità di aumentare il potere di contrasto all’immigrazione. È quanto prevede, secondo alcune indiscrezioni, un articolo del nuovo decreto sicurezza che sta per essere portato alla discussione del consiglio dei ministri. Un passaggio del testo, secondo quanto diffuso dalle agenzie prevede testualmente di “attribuire al Ministro dell’Interno la competenza a limitare o vietare il transito e/o la sosta nel mare territoriale qualora sussistano ragioni di ordine e sicurezza pubblica”. Il decreto sicurezza-bis interviene “in materia di Codice della Navigazione, in particolare su `Divieto di transito e di sosta´ di navi mercantili nel mare territoriale, limitando le competenze del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti alle sole finalità di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino”. Sanzioni a chi soccorre - Dal punto di vista politico il ministero di Matteo Salvini sottrae poteri e competenze a quello di Danilo Toninelli proprio in materia di immigrazione e di navigazione. Sul piano pratico invece l’intenzione è di mettere il mirino l’attività delle Ong. Un altro articolo infatti stabilisce che “a chi, nello svolgimento di operazioni di soccorso in acque internazionali, non rispetta gli obblighi previsti dalle Convenzioni internazionali - con particolare riferimento alle istruzioni operative delle autorità Sar competenti o di quelle dello Stato di bandiera - sarà applicata “la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 3.500 a 5.500 euro per ciascuno degli stranieri trasportati”. Nei casi “più gravi o reiterati è disposta la sospensione da 1 a 12 mesi, ovvero la revoca della licenza, autorizzazione o concessione rilasciata dall’autorità amministrativa italiana inerente all’attività svolta e al mezzo di trasporto utilizzato”. Anche 007 stranieri - L’imminente presentazione del nuovo decreto è stato annunciato da Salvini a Napoli; il provvedimento aumenta anche il numero degli agenti e componenti delle forze dell’ordine a disposizione del capoluogo campano e altre misure che mirano a smaltire i processi arretrati nei tribunali. Sempre in materia di contrasto all’immigrazione il decreto dà il via libera ad operazioni sotto copertura (anche con l’impiego di agenti stranieri) per smascherare l’attività degli scafisti. Sbarchi, Salvini taglia Toninelli. Decreto sicurezza bis: sui porti deciderà il Viminale di Valentina Errante e Cristiana Mangani Il Messaggero, 11 maggio 2019 L’ultima prova di forza di Matteo Salvini, in una maggioranza sempre più instabile, ha la forma di un decreto e prevede l’attribuzione al Viminale dei poteri che, da sempre, spettano al ministero delle Infrastrutture: quelli sul mare. Due articoli per depotenziare il ruolo di Danilo Toninelli, limitato, secondo le nuove norme, alla sola sicurezza della navigazione e protezione dell’ambiente marino, e accrescono quello del ministro dell’Interno, al quale competerebbe la possibilità di vietare anche il transito e la sosta di navi e mercantili. Il provvedimento arriva dopo i tre sbarchi che Salvini ha dovuto digerire, nonostante la sua linea dei “porti chiusi”. La prima reazione era stata una lettera al premier Giuseppe Conte e al ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, per sollecitare “un salto di qualità” sui rimpatri. In sostanza, per chiedere nuovi accordi bilaterali (“che non sono di mia competenza”, ha scritto) con i Paesi di origine degli stranieri che siano condizionati all’accettazione di una quota di migranti irregolarmente presenti in Italia. L’iniziativa aveva ricevuto la secca replica dei pentastellati: “Non faccia lo gnorri e si prenda le responsabilità invece di coprire i suoi fallimenti: i rimpatri sono di sua competenza”. Nel pomeriggio, poi, è arrivato il decreto: via i poteri a Toninelli e multe tra i 3.550 e i 5mila euro per ogni migrante trasportato, qualora chi abbia effettuato il salvataggio non si sia attenuto alle istruzioni operative delle autorità competenti sul tratto di mare, ossia quelle libiche. Il testo prevede modifiche al codice di procedura penale in materia di immigrazione, consentendo l’uso delle intercettazioni anche nei casi meno gravi, mentre stanzia tre milioni di euro, in tre anni, per incrementare l’attività degli agenti sotto copertura nelle inchieste sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La straordinaria necessità e urgenza, prevista dalla formula dei decreti, per Salvini consiste nel prevedere misure che contrastino “prassi elusive” delle norme che regolano l’individuazione dei porti sicuri e dell’approdo delle persone soccorse in mare. Il “contesto internazionale” e i rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica sono il pretesto per spostare la competenza sul mare, attribuita dal codice della navigazione al ministero delle Infrastrutture, al Viminale, cioè a se stesso. E ieri il primo fronte si è aperto proprio con Mare Jonio, la nave della Ong italiana Mediterranea: è stata fatta approdare a Lampedusa, e ci è arrivata scortata dalla Guardia di finanza. L’imbarcazione aveva soccorso 30 persone in mare ed era a 12 miglia dall’isola siciliana, quando due motovedette delle Fiamme gialle l’hanno bloccata e controllata. In contemporanea, Salvini ha postato sui social una foto della nave e del capo missione Luca Casarini, con scritto a margine: “Ultimo viaggio per la nave dei centri sociali Mare Jonio: bloccata e sequestrata. Ciao ciao”. Nella vicenda è intervenuto il premier Conte che ha voluto sottolineare: “Il porto di Lampedusa è aperto. Ci siamo sentiti con Salvini e siamo d’accordo sul sequestro, la nave era stata già diffidata, ora si faranno le verifiche. I migranti a bordo verranno fatti scendere e messi in sicurezza, ci mancherebbe, mica li mettiamo nelle patrie galere, o li affoghiamo in mare”, ha commentato fuori da Palazzo Chigi. Per i componenti dell’equipaggio è scattata l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da parte della procura di Agrigento, mentre il provvedimento di sequestro è stato deciso perché la Finanza avrebbe “riscontrato a bordo alcune irregolarità”. Mare Jonio a parte, l’Italia ha comunque dovuto riaprire i porti per accogliere i migranti soccorsi dalla nave Cigala Fulgosi che presidiava la zona di mare davanti a Tripoli. Ieri è stato effettuato il trasbordo dei 36 passeggeri sulla Stromboli, che è arrivata nel porto di Augusta, dove è avvenuto lo sbarco. Migranti, naufragio al largo della Tunisia: “Almeno 70 morti” di Silvia Morosi Corriere della Sera, 11 maggio 2019 I migranti di origine subsahariana sarebbero partiti dalla Libia ed il numero delle vittime potrebbe aumentare. Si trovavano su un barcone che si è capovolto. Almeno 70 migranti sono annegati giovedì a causa dell’affondamento della loro imbarcazione in acque internazionali, a 40 miglia dalla città di Sfax in Tunisia. Sedici finora i sopravvissuti, salvati da pescherecci locali nella zona. Lo riferisce su Twitter Alarm Phone. I migranti di origine subsahariana sarebbero partiti dalla Libia e il numero delle vittime potrebbe aumentare, come riferito dalla Marina militare tunisina che sta effettuando le operazioni di soccorso. I corpi ripescati saranno trasferiti all’ospedale universitario Sfax Habib Bourguiba. Nel frattempo Salvini, in una lettera al premier Conte e al ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, fa sapere che “per la prima volta i rimpatri superano gli arrivi”, invocando però “una strategia comune di tutto il governo” (qui il testo completo della lettera). Sono stati ottenuti “buoni risultati per quanto di competenza del ministero dell’Interno”, sul fronte dei rimpatri di migranti”, ma per consolidarli “serve un vero e proprio salto di qualità nella politica estera italiana nella sua collegialità, investendo profili di natura economica-commerciale e di politica estera tout court, ambiti che travalicano le competenze del mio dicastero”. In giornata, intanto, un totale di 100 migranti è riuscita ad approdare sulle coste di Lampedusa. I primi 30 sono sbarcati dalla Mare Jonio soccorsi giovedì al largo della Libia; l’equipaggio, che fa capo alla ong Mediterranea, è stato iscritto al registro degli indagati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “Un atto dovuto” ha fatto sapere la procura di Agrigento. Altri 70 migranti sono arrivati invece a bordo di unità della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza. Secondo quanto dichiarato dal sindaco dell’isola, Totò Martello, erano a bordo di un barcone intercettato a 11 miglia dal porto. “La lotta alla droga è priorità”. Ma la bolla di Salvini si sgonfia di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2019 Il ministro dell’Interno insiste ma non trova il modo di chiudere i cannabis light shop. A Torino il M5S chiede di coltivare la canapa per uso terapeutico. Oggi a Roma la Million Marijuana March. “La lotta alla droga è una priorità”. Chissà perché non gli era venuto in mente prima, quando ha firmato il patto di governo, ma ora Matteo Salvini non ha dubbi: “Non ci sono droghe più o meno leggere o che fanno più o meno male”. Deve essere per questo che comincia da quelle da salumeria, tipo la cannella e affini. Quelle, per capirci, senza alcun effetto stupefacente, usate anche dalla nonnina di 80 anni per dormire meglio, come hanno spiegato in questi giorni molti gestori di cannabis light shop invitando il ministro di governo a recarsi in loco e provare. Perfino il premier Conte ha provato ieri a portare il suo vice destro sul filo della ragione: “Stiamo parlando di sostanze che non sono stupefacenti”, ha detto. Ma è fiato sprecato, bisogna solo attendere ancora un paio di settimane perché è nei panni del leader del Carroccio, che Salvini si muove in questo contesto. Mai così distante dai suoi alleati di governo che invece a Torino, con una mozione della maggioranza consiliare pentastellata, hanno imposto alla sindaca Chiara Appendino di chiedere l’autorizzazione per la coltivazione in proprio da parte del Comune della cannabis sativa da destinare alla produzione di farmaci. Naturalmente la bolla è già scoppiata. Ieri il ministro leghista è rimasto in silenzio, attonito probabilmente davanti ai sondaggi che danno la Lega in calo. E poi, neppure la Comunità San Patrignano doveva essere riuscita a trovare qualche escamotage per chiudere tutti i negozi “dello scandalo” (peraltro, come fanno notare in molti, nati a suo tempo con il voto favorevole della Lega), perché la direttiva del Viminale annunciata da Salvini e arrivata infine ai questori non contiene altro che una raccomandazione generica ad intensificare i controlli. Lo fa notare l’altro vice premier, Luigi Di Maio, che su La7 assesta il suo colpo: “Salvini sta usando il tema della droga per coprire il caso Siri. Noi siamo contro lo spaccio senza se e senza ma. Penso che si debbano chiudere le piazze dello spaccio”. E anche Matteo Mantero, al quale il capo del Viminale aveva chiesto di ritirare la sua legge per la legalizzazione della cannabis, risponde a tono: “Combattere la “droga” facendo chiudere i negozi di canapa light è come combattere l’alcolismo vietando la birra analcolica”, twitta il senatore 5 Stelle. Perché, aggiunge, “è più facile prendersela con i commercianti che vendono fiori secchi che combattere la criminalità. Ma mentre le forze dell’ordine perderanno tempo nei controlli di questi negozi, la criminalità sarà libera di agire indisturbata. Dove ci sono i canapa shop è diminuito il mercato illegale - spiega ancora Mantero - facendoli chiudere Salvini fa un grosso favore agli spacciatori e mette a rischio la salute dei consumatori perché i prodotti sul mercato illegale sono sicuramente più pericolosi”. L’opposizione è servita: c’è poco da aggiungere. E infatti il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, balbetta: dopo aver ammesso di non essere “mai stato a favore della legalizzazione” finisce col rivolgere all’avversario politico un generico appello a preoccuparsi piuttosto “dello spaccio h24 di droga gestito dalla criminalità organizzata”. Per fortuna il suo compagno di partito Marco Furfaro, coordinatore di Futura e componente della direzione nazionale, abbandona le inutili cautele elettorali e azzarda: “La politica deve fare lo sforzo di uscire dalla demagogia: con slogan e pregiudizi non si risolvono i problemi. In un Paese in cui le mafie imperversano, la legalizzazione delle droghe leggere non può essere un tabù. Il proibizionismo di questi decenni ha solo rafforzato le mafie, portato morti, condannato tanti ragazzi alla delinquenza”. Furfaro annuncia poi che sarà oggi a Roma (ore 14, Piazza della Repubblica) alla Million Marijuana March, “con migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi, per porre all’attenzione della politica il tema della legalizzazione delle droghe leggere e dell’accesso all’uso terapeutico”. “No ai killer robot, è impossibile controllarli” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 11 maggio 2019 Intelligenza artificiale. Intervista a Noel Sharkey, esperto di robotica e presidente dell’International committee for Robot Arms control: “Va proibito l’uso di armi che non prevedono decisione umana. Si sta già sviluppando una “giustizia” algoritmica che crea discriminazioni razziali, di genere, di poveri e minoranze. Figuratevi cosa può succedere in guerra” “Ho passato 40 anni a studiare i robot, la mia passione, e all’inizio non ero un’attivista, solo uno scienziato. A un certo punto mi sono reso conto che lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale procedeva molto velocemente ma la riflessione sul suo utilizzo, soprattutto sul piano bellico, non procedeva di pari passo, fino a fare spazio a qualcosa di inconcepibile”. Professore emerito di Intelligenza artificiale e robotica all’università di Sheffield, co-direttore della Fondazione Responsible Robotics, presidente dell’ong International committee for Robot Arms control, Noel Sharkey è appena uscito da Montecitorio, dove, accompagnato da Francesco Vignarca della Rete Disarmo, è andato a spiegare le ragioni per cui l’Italia deve appoggiare la campagna di messa al bando dei Killer Robot al presidente della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli e al presidente della commissione Difesa della Camera Gianluca Rizzo - entrambi M5S - mentre oggi terrà una conferenza al museo Maxxi di Roma nell’ambito del festival itinerante dei Diritti umani, quest’anno dedicato al tema “Guerre e pace”. In scenari come Libia, Gaza, Afghanistan sono già in uso droni o armi tipo killer robot? No, anche se la tecnologia è quasi pronta. Se decidessero di testarli, credo che sceglierebbero scenari più defilati. Daesh ha realizzato un suo prototipo, un drone commerciale con una carica esplosiva: quando la batteria si scarica, scoppia, un ordigno low technology che colpisce a caso. Si può realizzare in una settimana. È per questo che il Pentagono sta cercando di elaborare codici autodistruttivi per le armi più sofisticate, in modo che non siano riassemblabili o copiate? Non c’è bisogno di copiare, il problema è la funzione. Una granata è in qualche modo un’arma automatica ma è ferma e deve essere innescata dalla vittima. Le nuove armi cercano attivamente il loro bersaglio, in base a date caratteristiche e agli algoritmi che le guidano. Non sono totalmente indiscriminate, operano una selezione sulla base della programmazione. I politici sostengono di essere in grado di operare questa scelta, gli scienziati non sono d’accordo. Le tecnologie emergenti - Intelligenza artificiale, stampa 3D, bioingegneria genetica - sono dual use, civile e militare. Come operare un discrimine senza fermare la ricerca? All’inizio della campagna Stop Killer Robot ci accusavano di voler frenare le innovazioni. Vogliamo solo impedire due funzioni delle macchine: la selezione degli obiettivi e il “targeting”. Proponete un trattato di non proliferazione delle armi autonome? Non di non proliferazione, ma di proibizione dello sviluppo, della produzione e dell’uso di armi che non prevedono la decisione umana. Una volta ratificato, non resterebbero problemi di controllo dei laboratori, specialmente in Paesi come Cina, Russia, Iran? Il trattato serve come stigmatizzazione della comunità internazionale. Ci si basa sul trattato contro le armi chimiche, perché anche nella chimica siamo immersi. È come dire che l’avvelenamento non è eliminabile come rischio, però è reato. Ci si rivolge quindi in particolare a scienziati e ricercatori, ché non vadano oltre i limiti? Esattamente. Quando l’Istituto sudcoreano di studi avanzati ha lanciato una sperimentazione su armi autonome, una cinquantina di scienziati, incluso me, delle più prestigiose università del mondo ha minacciato di boicottarlo sul piano accademico e il progetto è stato ritirato. Può esistere una Intelligenza artificiale restricted o consentita? No. Solo i ricercatori sono in grado di capire i rischi di un progetto, com’è successo a Google con la rivolta contro l’utilizzo dei video Big Data per migliorare il riconoscimento facciale. Il progetto non diceva che sarebbe servito per il targeting militare ma i dipendenti si sono subito resi conto delle implicazioni e si sono ribellati. Una rivolta etica individuale e collettiva, che ora bisogna rafforzare con una regolamentazione internazionale anche a protezione da rappresaglie e licenziamenti. In autunno apriremo uno sportello della campagna nella Silicon Valley, dove questi progetti possono attecchire. E comunque queste armi autonome non potranno mai funzionare. Perché? Anche i militari ne prevedono un utilizzo solo in situazioni particolari e limitate. Però quando una tecnologia è implementata, poi viene usata su vasta scala, non in modo “chirurgico” come dicono. All’inizio il robot procedeva a fianco del soldato come aiuto, ora si prevede una persona che attiva stormi di fighters. Cina e Stati uniti stanno lavorando sui bombardieri, la Russia su stormi di 50-100 super tank. Dicono che c’è sempre un umano a comandarli, non è così, l’umano non comanda ogni singolo robot. Inoltre quando tagli la comunicazione il drone non sa gestirsi e cade, ma lo stormo continua la sua missione, non è semplice disattivarlo. Alla fine non chiedete altro che la prima legge della robotica di Asimov diventi universale. In effetti è una legge molto buona. Solo che preferisco rovesciarla: l’essere umano non deve delegare alla macchina o a un sistema automatico decisioni sulla vita e la morte di un altro essere umano. In campo civile e medico questo non avviene già? Viene usata la macchina per evitare il tremolio della mano e la stanchezza del chirurgo ma è sempre il medico a indicare dove tagliare. Una macchina tedesca per operazioni in autonomia è stata ritirata a causa delle tante cose andate male. Si sta sviluppando una giustizia algoritmica, che va creando discriminazioni razziali, di genere, di poveri e minoranze, ad esempio negli Usa per il calcolo della cauzione penale oppure in Gran Bretagna nelle preselezioni per colloqui di lavoro. Guardando a queste ingiustizie, figuratevi cosa può succedere in situazioni di guerra. Turchia. “Io, torturato per tre giorni nelle prigioni di Erdogan” di Victor Castaldi Il Dubbio, 11 maggio 2019 Le accuse del reporter tedesco Deniz Yucel, arrestato nel 2017. Un atto di accusa durissimo nei confronti del regime di Erdogan e del suo sistema carcerario degno delle peggiori dittature. “Sono stato torturato per tre giorni nel carcere Siliviri n. 9, probabilmente su indicazione diretta del capo di Stato turco o degli ambienti a lui più vicini”. sono le parole del reporter della Welt, Deniz Yucel, tedesco di origini turche, che dal febbraio 2017 è stato per un anno intero detenuto in Turchia senza una vera e propria imputazione ufficiale. Il giornalista fu anche tenuto per lunghi periodi in completo isolamento. La sua detenzione aveva scatenato una grave crisi tra Berlino ed Ankara. L’accusa rivolta alle autorità turche e direttamente al presidente Recep Tayyip Erdogan è contenuta in una testimonianza scritta presentata al tribunale di Berlino. La tortura, a detta di Yucel, avvenne “comunque in seguito della campagna diffamatoria che aveva iniziato il presidente e sotto la sua responsabilità”. “In un modo o nell’altro - continua il reporter - il principale responsabile della tortura a cui sono stato sottoposto si chiama Erdogan”. Tra le imputazioni rivolte a Yucel quella di aver promosso “la propaganda per una organizzazione terroristica”. Le autorità giudiziarie turche avevano permesso la testimonianza di fronte ad un giudice in Germania. A Istanbul, invece, il processo contro il giornalista - che rischia fino a 18 anni di carcere - riprenderà il 16 luglio. Yucel ha anche riferito di avere informato della tortura la Corte europea per i diritti umani, preferendo finora non parlarne in pubblico: “Il luogo giusto per una cosa del genere è un’aula di tribunale”. Il cronista racconta che “dato che nelle celle non sono installate le telecamere” egli fu colpito “con calci contro i miei piedi e con percosse sul petto e le schiena”. Lo scopo della violenza, dice Yucel, “era di umiliarmi e di intimidirmi. Probabilmente si voleva anche provocare una mia reazione. Comunque si tratta di una forma di tortura”. Successivamente, racconta ancora il giornalista, “un guardiano mi ha colpito sul viso, mentre un altro diceva: quanto ti pagano i tedeschi perché tu tradisca la tua patria. Parla, o ti strappo la lingua”. A detta del reporter, “è impensabile che il direttore di un penitenziario avrebbe osato muoversi in maniera autonoma in un caso trattato dal capo dello Stato in persona”. L’obiettivo sarebbe stato quello di aumentare il livello di crisi con la Germania, allo scopo di strumentalizzarla nella campagna elettorale allora in corso. “La testimonianza di Yucel è straordinariamente preoccupante”, ha detto il portavoce per gli Affari esteri della Spd, Nils Schmid. E mentre il vicepagruppo della Linke al Bundestag, Sevim Dagdelen, chiede che il ministero degli Esteri di Berlino convochi immediatamente l’ambasciatore turco, l’esponente dei Verdi Omid Nouripour aafferma che “il governo federale deve spiegare a Erdogan che la tortura e la detenzione di cittadini tedeschi non sarà più accettata”.