Tra la cultura della prevenzione e l’incultura dell’emergenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2019 Oggi giornata nazionale di studio nel carcere di Padova. Passare dalla cultura dell’emergenza a quella della prevenzione in qualsiasi ambito che sia sociale, civile o addirittura ambientale è una sfida che riguarda tutti. Dai migranti agli eventi meteorologici, dal welfare all’emergenza criminalità, sono sempre più numerosi i casi in cui la parola “emergenza” viene usata forse a sproposito, cioè per situazioni che emergenze non sono. Per definizione, una emergenza è un evento totalmente inaspettato, le cui conseguenze sono difficili e urgenti da governare proprio perché non previste. Le stragi di mafia agli inizi degli anni 90 era stata un’autentica emergenza e lo Stato ha avuto quindi la giustificazione per prevedere leggi “emergenziali” che poi però sono diventate “ordinarie”. Ma l’emergenza è anche diventata nemica della verità. Il caso più eclatante riguarda la gestione dei pentiti, il carcere duro come arma per poter far parlare le persone e, nel caso del depistaggio sulla strage di via D’Amelio, anche far confessare un delitto mai commesso e coinvolgere persone innocenti. Parliamo del falso pentito Vincenzo Scarantino capace di ritrattare in diverse occasioni le proprie dichiarazioni nel corso degli anni e lungo lo svolgimento del processo. Emblematico quando disse: “Per lasciare Pianosa avrei fatto arrestare mia madre”. Pianosa è una delle carceri speciali riaperte durante l’emergenza mafiosa, una piccola Guantamo dove numerose furono le denunce di tortura. L’emergenza, quindi, è diventata l’unica risposta dello Stato. Di questo e altro ancora si parlerà oggi, a partire dalle 9, presso il carcere di Padova. Sarà una giornata nazionale di studio dal titolo “La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza”, che distinguerà la prevenzione, intesa come azione diretta ad evitare qualcosa di negativo, dall’emergenza, quindi la difficoltà imprevista. Apriranno i lavori il direttore della Casa di reclusione, Claudio Mazzeo, e il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto, Enrico Sbriglia. A coordinarli sarà Adolfo Ceretti, Professore ordinario di Criminologia dell’Università di Milano- Bicocca, e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano. Tra le sue pubblicazioni, Cosmologie violente e “Oltre la paura”, il libro dell’incontro. A concludere i lavori sarà Lina Di Domenico, vice capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. L’evento è organizzato dal centro documentazione Due Palazzi della redazione di ristretti orizzonti, dalla direzione del carcere e dalla conferenza nazionale volontariato giustizia. L’ospite d’onore sarà Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato Paolo Borsellino, ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992, quando persero la vita anche i cinque agenti della scorta. Ed è lei che ha recentemente ricordato che andrebbe rivisto la pena a vita, perché la riabilitazione è possibile attraverso dei percorsi che il carcere deve offrire. Nell’incontro sarà presente anche Paolo Setti Carraro, chirurgo che ha scelto, dopo anni di carriera in Italia, di andare a operare in Afghanistan, perché “mi sono accorto che il denaro corrompe. Non è una frase fatta. Corrompe davvero, anche nella sanità, perché influenza le diagnosi, le terapie, le urgenze, la scelta dei luoghi di cura”. Paolo è fratello di Emanuela, moglie, uccisa con lui in un agguato mortale a Palermo nel 1982. A coordinare la seconda sezione di lavori dedicati alle esperienze che fanno del carcere, non una scuola del crimine ma di legalità, sarà Francesco Viviano, che prima di diventare un grande cronista è stato un “ragazzo permale”. Francesco Viviano, cresciuto assieme ai mafiosi nel quartiere Albergheria di Palermo e inviato de la Repubblica, ha seguito i principali processi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. È autore, tra l’altro, per Chiarelettere di “Io, killer mancato” e, con Alessandra Ziniti, “Non lasciamoli soli Storie e testimonianze dall’inferno della Libia”. Ma si parlerà anche dell’Italia dei centri di identificazione e di espulsione, dei richiedenti asilo e dei clandestini attraverso le parole della scrittrice Francesca Melandri con la presentazione del suo ultimo libro “Sangue giusto”. Presenti anche i magistrati Riccardo De Vito e Giuseppe Spadaro che affronteranno il tema della pena intesa per creare sicurezza e della prevenzione per togliere alla criminalità organizzata il consenso delle giovani generazioni. Per finire, ci sarà il sociologo Marco Boato che affronterà il 41 bis e l’emergenza dilatata senza dare spazio al cambiamento. Carceri più trasparenti con le schede informative di Valentina Stella Il Dubbio, 10 maggio 2019 Consultabili sul portale del Ministero della Giustizia. Sempre maggiore trasparenza per le carceri con le nuove schede informative. Lo ha reso noto il ministero della Giustizia, spiegando che esse sono consultabili sul proprio portale, costantemente aggiornate e compilate dai sistemi informativi dell’Amministrazione penitenziaria centrale e dai referenti d’istituto. Gli stessi referenti controllano anche che i dati provenienti dai sistemi, come ad esempio il numero degli educatori assegnati, aderiscano sempre alla realtà perché spesso gli educatori lavorano per lunghi periodi in altri istituti in virtù di distacchi. Tra le sezioni maggiormente consultate quelle che riguardano i giorni e gli orari di visita dei parenti ai detenuti. I sistemi da cui provengono i dati sono il Sistema Informativo Anagrafica Penitenziaria e i Sistemi Informativi Gestione Personale. Il trasferimento dei dati da questi sistemi avviene ogni notte mentre l’aggiornamento a cura degli istituti è discrezionale. “È la prima volta che - si legge nella nota - attraverso un’architettura che salvaguarda la massima sicurezza, i sistemi informativi dell’amministrazione penitenziaria praticano la trasparenza dando pubblicità costante al dato. Il risultato più importante è la diffusione finale di dati unici, ufficiali, non mediati. Il nuovo sistema d’aggiornamento è stato pensato per essere progressivamente esteso ad altre tipologie di dati, come i tempi medi di risposta alle richieste dei detenuti. Prossimo obiettivo è la realizzazione di analogo sistema per le strutture della giustizia minorile e dell’esecuzione penale esterna”. Per una maggiore trasparenza si è battuta per anni Rita Bernardini, membro della presidenza del Partito Radicale che così ha commentato: “Il ministro Bonafede ha mantenuto la parola almeno su una delle richieste che gli abbiamo avanzato in occasione del secondo incontro del 19 marzo scorso. La delegazione del Partito Radicale e dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi gli aveva chiesto, fra l’altro, di aggiornare e implementare le schede online riguardanti i singoli istituti penitenziari, per renderli sempre più “trasparenti” al cittadino. C’è da precisare che questa piccola “riforma” l’avevamo già ottenuta con il precedente governo, soprattutto grazie all’intervento di Santi Consolo, solo che le schede una volta messe in rete non venivano mai aggiornate. Ora ci sono ulteriori informazioni e la dichiarata intenzione di un aggiornamento costante, il che ci fa ben sperare”. Ma il lavoro da fare non è finito, precisa l’esponente radicale: “Con l’attuale capo del Dap Francesco Basentini siamo in contatto per aggiungere altri elementi di informazione, per correggere eventuali refusi, e per segnalare direzioni reticenti nel fornire elementi di conoscenza della realtà penitenziaria. Faccio un esempio: occorrerebbe che ogni carcere rendesse pubblico il listino prezzi del sopravvitto con il quale i detenuti hanno a che fare ogni giorno anche per acquistare beni di prima necessità. Sono molti i reclusi che si lamentano dell’esosità dei prezzi e della scarsa possibilità di scelta; e allora perché non rendere pubblico il prezzario per scongiurare abusi delle ditte fornitrici?”. Fiammetta Borsellino: ecco come si sconfigge la mafia di Carmelo Musumeci welfarenetwork.it, 10 maggio 2019 Bisogna rivedere l’ergastolo. Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie. Lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve. In un incontro pubblico, organizzato da Sandra Berardi dell’Associazione Yairaiha, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino, dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992, ha detto queste importante parole: “Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato! Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie. Lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve”. Penso che queste parole abbiano avuto più effetto deterrente sugli autori dell’assassinio di suo padre che tanti inutili decenni di carcere duro. L’ho detto tante volte che pretendere di migliorare una persona per poi farla marcire dentro sia una pura cattiveria, anche perché in carcere se uno rimane cattivo soffre di meno. La società vorrebbe chiudere i criminali e buttare via le chiavi, ma bisogna rendersi conto che prima o poi alcuni di questi usciranno. E molti saranno più cattivi di quando sono entrati. È difficile migliorare le persone con la sofferenza e l’odio. Il carcere in Italia non è la medicina ma è, invece, la malattia, che fa aumentare la criminalità e la recidiva. E molto spesso aiuta a formare cultura criminale e mafiosa. La galera è spesso una macelleria che non ha nessuna funzione rieducativa o deterrente, come dimostra il fatto che la maggioranza dei detenuti ritorna a delinquere in continuazione. Come si fa a tenere un uomo dentro per sempre, con l’ergastolo ostativo, molto spesso “colpevole” di avere rispettato le leggi della terra e della cultura dove è nato e cresciuto, senza dargli la speranza di poter diventare una persona migliore? Perché queste persone dovrebbero smettere di essere mafiose se non hanno la speranza di un futuro diverso? Cosa c’entra la sicurezza sociale con tutte le privazioni previste dal regime di tortura del 41 bis? Il carcere in Italia, oltre a non funzionare, crea delle persone vendicative perché alla lunga trasforma il colpevole in una vittima: quando si riceve del male tutti i giorni si dimentica di averne fatto. Mi permetto di ricordare ad alcuni politici, che fanno certe dichiarazioni per avere consensi elettorali, che il carcere, così com’è oggi in Italia, non rieduca nessuno, anzi ti fa diventare una brutta persona. Credo che “maggiore sicurezza” dovrebbe significare più carceri vuoti, perché fin quando ci saranno carceri pieni vuol dire che i nostri politici hanno sbagliato mestiere. La nostra Costituzione stabilisce che la condanna deve avere esclusivamente una funzione rieducativa, e non certo vendicativa. E la pena non deve essere certa, ma ci dev’essere la certezza del recupero, per cui in carcere un condannato dovrebbe stare né un giorno in più né uno in meno di quanto serva. Io aggiungo che ci dovrebbe stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato. In tanti anni di carcere ho capito che la mafia che comanda si sconfigge dando speranza e affetto sociale ai suoi gregari, facendoli così cambiare culturalmente e uscire dalle organizzazioni criminali. Molti ergastolani non sono più gli uomini del reato di 20 o 30 anni prima, non sono più i giovani di allora. Ormai sono uomini adulti, o anziani, che non hanno alcuna prospettiva reale di uscire dal carcere, se non da morti. Ora molti di loro sono persone che sanno di aver fatto errori, anche grossi, che stanno pagando e l’unica cosa che chiedono è una data certa del loro fine pena. In carcere quello che manca più di tutto è proprio la speranza di riavere affetto sociale. Solo questo può sconfiggere la mafia e creare sicurezza. I padri della nostra Costituzione lo sapevano bene - forse perché alcuni di loro in carcere hanno trascorso tanti anni - se hanno stabilito che la pena deve avere solo una funzione rieducativa. Vivere in carcere senza avere la speranza di uscire è aberrante. La pena dell’ergastolo è un insulto alla ragione, al diritto, alla giustizia e, penso, anche a Dio. A me sembra che finora le politiche, ultraventennali, del carcere duro e del fine pena anno 9.999 abbiano portato più vantaggi alle mafie (almeno a quelle politiche e finanziarie) che svantaggi. Credo che alla lunga il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi. Sono rimasto perplesso di fronte al programma di costruire nuovi istituti penitenziari, perché nei Paesi in cui ci sono pochi carceri ci sono anche meno delinquenti. Non citerò i dati sulla recidiva, ma per esperienza personale penso che il carcere in Italia non fermi né la piccola né la grande criminalità, piuttosto la produca. E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male non puoi che farne parte. Si vuole assumere nuovo personale di Polizia, ma siamo il Paese nel mondo che, in rapporto al numero di detenuti, ha più agenti penitenziari. Penso che sarebbe meglio se in carcere ci fossero più educatori, psicologhi, psichiatri, insegnanti o altre figure di sostegno. Sigmund Freud affermava che l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza. Anch’io credo sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. È vero che una società ha diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma è altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di loro. Purtroppo, a volte, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive, né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena, soprattutto nel caso, non raro, che essa non abbia ulteriori probabilità di reiterare i reati. Lasciandola in quella situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e, dopo un simile trattamento, anche il peggiore assassino si sentirà “innocente”. Grazie Fiammetta Borsellino delle tue parole. Un sorriso a te e uno al tuo cuore. Giustizia, pressing leghista per le carriere separate di Francesco Grignetti La Stampa, 10 maggio 2019 È palesemente l’effetto delle ultime inchieste, la diffidenza verso le toghe. E così in casa della Lega hanno riscoperto il ddl d’iniziativa popolare (redatto dagli avvocati dell’Unione Camere penali) per la separazione delle carriere in magistratura. Un argomento davvero indigesto tra i giudici italiani e che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, M5S, non appoggia affatto. Per inviare un segnale, intanto, da ieri i deputati leghisti stanno aderendo in massa al cosiddetto Intergruppo parlamentare (sono già in 50, di tutti i partiti politici) rispondendo a un appello di Enrico Costa, Forza Italia. Prima fu Genova, insomma, con la sua sentenza sui 49 milioni di euro e la caccia al tesoretto leghista. Poi le procure siciliane, e il Matteo nazionale è finito indagato per sequestro di persona ai danni dei migranti bloccati sulle navi. Quindi Roma e il caso di Armando Siri. Da ultimo Milano, con la nuova Tangentopoli. Troppo per non pensare male dalle parti di Salvini. E così ecco che viene fuori lo spirito di ripicca. Non è un caso cioè se da ieri il leader ha inserito il tema nei suoi comizi: “Bonafede porti in discussione la riforma della giustizia, perché noi come Lega abbiamo le nostre idee sulla separazione delle carriere, sul dimezzamento dei tempi dei processi, sulla certezza della pena e anche sulla responsabilità dei giudici che sbagliano”. Conferma il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari: “Il tema della separazione delle carriere in ottica di riforma del processo e del sistema della giustizia è un tema che ci sta molto a cuore e che porteremo avanti”. L’Intergruppo, come detto, nasce da un’idea di Costa: “Una proposta non trasversale ma trasversalissima”. Chiosa dell’avvocato Beniamino Migliucci: “Questa è una riforma non contro la magistratura ma a favore, per un pm indipendente dalla politica e un giudice indipendente dal pm. Deve essere chiaro che il pubblico ministero non sarà sotto l’esecutivo”. Nel governo si litiga su prescrizione e divisione delle carriere Il Tempo, 10 maggio 2019 A dividere gli “alleati” sulla giustizia non sono solo le recenti inchieste che hanno coinvolto tanto il sottosegretario leghista Armando Siri che - seppur molto marginalmente - il governatore lombardo Attilio Fontana. Non che su quel fronte la situazione sia tranquilla, al punto che Salvini ha subito rinfacciato ai pentastellati le indagini a carico della sindaca di Roma Virginia Raggi. La tensione, però, è destinata a deflagrare ulteriormente quando sarà finalmente in discussione la riforma della Giustizia annunciata - e finora sempre rinviata - dal ministro Alfonso Bonafede. Ieri a sollecitare il Guardasigilli sono stati tanto Salvini che il ministro per la Pa, Giulia Bongiorno. “Non vedo l’ora che arrivi in Consiglio dei ministri perché se c’é la paralisi degli investimenti dipende anche dalla lentezza della macchina della giustizia” ha sottolineato la Bongiorno. Mentre il leader della Lega aveva posto l’accento sulle correzioni che il Carroccio vorrebbe fare al provvedimento: “Se la riforma della giustizia è pronta, Bonafede la porti in discussione: noi come Lega abbiamo le nostre idee, sulla separazione delle carriere, sul dimezzamento dei tempi dei processi, sulla certezza della pena, sulla responsabilità anche per i giudici che sbagliano”. “Abbiamo tante idee sul penale, sull’amministrativo e sul civile” ha concluso Salvini. Frasi destinate ad aprire un nuovo fronte con i Cinquestelle, anche perché diversi dei punti cari alla Lega (in primis la separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri) sono piuttosto invisi ai grillini. Ma a far discutere presto potrebbe essere anche lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio, che dovrebbe entrare in vigore nel 2020. Per i leghisti questo passaggio sarà però subordinato all’effettiva approvazione di una riforma del processo penale. Per il ministro Bonafede, invece, la norma entrerà in vigore comunque, anche se la riforma non dovesse arrivare in tempo. Se ne discuterà tanto, c’è da scommetterci, nei prossimi mesi. La polizia è di tutti di Gianluca Di Feo La Repubblica, 10 maggio 2019 C’è una linea rossa che separa politica e i istituzioni. Questo tracciato non può essere sottile, ma deve restare netto: un muro ben visibile e saldo in qualunque situazione, perché marca l’esistenza stessa di una democrazia. Alcuni segnali negli ultimi giorni trasmettono la sensazione che questa barriera cominci a venire intaccata. Si tratta di episodi minori, che non costituiscono certamente un pericolo sostanziale, ma il cui valore formale non può essere taciuto. Riguardano infatti la più delicata delle istituzioni: il ministero dell’Interno, da cui dipende la sicurezza della collettività e che per questo è dotato di poteri e strumenti di controllo fortissimi. Sarebbe riduttivo minimizzarli o attribuirli all’italica accondiscendenza che il personale degli apparati spesso mostra verso i titolari dei dicasteri. E d’altronde la cultura istituzionale di Matteo Salvini è tutta da dimostrare, visto il disprezzo o quantomeno l’insofferenza per le regole che è solito esibire, uno degli elementi che servono a consolidare la sua immagine di uomo forte. Ma proprio quando è stato colpito nell’immagine il leader della Lega ha tradito la confusione nell’esercitare i ruoli. A Salerno, il selfie con una ragazza che gli ha rinfacciato i suoi insulti verso “i terroni” lo ha spinto a ordinare: “Cancella quel video”. Immediatamente è intervenuta la Digos, che le ha tolto il cellulare, per quanto fosse chiaro che quella giovane non potesse rappresentare una minaccia. La vicenda si è chiusa senza conseguenze, il telefonino è stato restituito e il video circola liberamente sul web. Ma è rimasta l’impressione che si trattasse di un abuso, come se l’azione delle forze dell’ordine volesse solo compiacere il ministro. Lo stesso sapore amaro che sempre a Salerno ha lasciato la rimozione dello striscione “Questa Lega è una vergogna”, affisso su una casa privata poco lontano dal comizio di Salvini. La proprietaria ha dichiarato di averlo tolto dopo che funzionari di polizia le avevano ventilato pesanti azioni legali, condizionando quindi la libertà di manifestazione del dissenso. In fondo, quella scritta era molto più civile delle esternazioni che il ministro semina ogni giorno. Il problema però non è il comportamento del leader leghista, quella maleducazione civica a cui non vogliamo rassegnarci ma che caratterizza la sua maschera. Il vero guaio è avere diffuso il dubbio che il contagio del suo autoritarismo possa arrivare alle forze dell’ordine, che non possono essere al servizio del politico ma non devono neppure trasmettere la percezione di esserlo: l’importanza della loro funzione infatti dipende tutta dalla loro credibilità. E la replica fornita dalla comunicazione istituzionale - ribadiamo istituzionale - della polizia di Stato - ribadiamo di Stato - a un tweet di Roberto Saviano non fa che confermare questo sospetto. Di fronte alle critiche dello scrittore - “e la polizia di Stato, che sequestra striscioni e telefonini, ridotta a servizio d’ordine per la campagna elettorale di un partito. Che pena” - un anonimo dirigente ha scritto una risposta cominciata bene e finita malissimo: “La polizia di Stato serve il Paese e non è piegata ad alcun interesse di parte. Chi sbaglia paga nelle forme prescritte dalla legge. Che pena leggere commenti affrettati e ingenerosi per dispute politiche o per regolare conti personali”. Sono commenti gravi nei confronti di qualunque cittadino ma che diventano pesantissimi perché rivolti a una persona sottoposta alla protezione delle forze dell’ordine. Certo, Salvini non perde occasione per denigrare Saviano e i giornalisti non allineati: lo ha fatto pure durante la trasmissione Otto e mezzo di fronte al libro di Paolo Berizzi, inviato di Repubblica sotto scorta per le minacce dei neofascisti. Questi comportamenti però devono restare al di là della linea rossa. Perché “l’istituzione - recita Wikipedia, una fonte alla portata anche di Salvini - ha il fine di garantire l’attuazione di norme stabilite tra l’individuo e lo Stato sottratte all’arbitrio individuale e del potere in generale”. E l’arbitrio del potere segna la fine della democrazia. La corruzione porta le mafie nelle istituzioni di Vincenzo Musacchio Gazzetta del Mezzogiorno, 10 maggio 2019 Tommaso Buscetta, per anni, si rifiutò di rivelare a Giovanni Falcone quali erano i rapporti tra mafia e politica, ripetendogli che in nostro Paese non era pronto a una simile “rivoluzione”. Buscetta iniziò a parlare, quando il sistema di potere s’indebolì e molti collaboratori di giustizia ritennero che quegli uomini potentissimi collusi con la mafia, non detenessero più il potere che avevano prima. È da quel momento che si apre una nuova stagione dell’antimafia che però termina con la morte di tutti i suoi protagonisti in particolar modo di quelli che si erano avvicinati al cd. “quarto livello” (Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino). L’espansione della criminalità organizzata, di fatto, è cominciata con le grandi privatizzazioni, la deregolamentazione e in particolare con la gestione degli appalti e delle opere pubbliche. Le mafie erano già pronte per il momento cruciale in cui si sarebbe aperta la partita delle nomine da parte della politica e hanno preteso posti di primo piano in ambito locale e nazionale scegliendo persino i candidati per le elezioni e attivandosi per affiancarli a uomini influenti dello schieramento su cui avevano puntato. La criminalità organizzata è riuscita a creare, con il metodo correttivo o con la violenza, secondo i casi, reti politico-clientelari e intrecci del potere mafioso in grado di orientare le scelte politiche ed economiche a livello locale, nazionale e sovranazionale. Orientare le nomine politiche per le mafie significa essere più forti nella costituzione di lobby politico mafiose da utilizzare in posizioni chiave della vita economica, sociale e istituzionale del nostro Paese. La criminalità organizzata è dentro il meccanismo delle nomine politiche a qualsiasi livello: la spartizione da manuale Cencelli, tipicamente italiana, purtroppo, trova ampio consenso anche da parte delle mafie. Si nominano persone fiduciarie del politico di turno che spesso è stato eletto con i voti della mafia e che quindi dovrà restituire il favore alla stessa con gli interessi. La verità è che alla nostra classe politica non è mancato il coraggio di rinnovare le sue prassi di gestione del potere affidando gli enti alle persone meritevoli e competenti, anzi, la stessa ha proprio scelto consapevolmente di stringere un patto scellerato con le mafie. Alla competenza delle persone, si è preferita la gestione corrotta del potere cui ormai siamo abituati da tempo immemore. Durante un interrogatorio risalente agli anni ottanta, al magistrato che gli poneva la domanda “Che cosa è la mafia?”, Frank Coppola, boss mafioso americano, così rispose: “Signor giudice, tre magistrati vorrebbero diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino: quest’ultimo otterrà il posto. Questa è la mafia”. Questo banalissimo esempio spiega come oggi criminalità organizzata e corruzione stiano sconfiggendo lo Stato poiché i governi garantiscono alle mafie impunità e offrono nuovi affari insediando nei posti di potere proprio i cretini. La corruzione è oggi il principale strumento di penetrazione delle mafie nelle istituzioni a qualsiasi livello. Nell’inchiesta denominata “Mafia Capitale”, in una delle tante intercettazioni, Buzzi dice testualmente: “Me li sto a comprà tutti”. “Chi se ne frega se al Campidoglio le cose sono cambiate, se adesso c’è un sindaco e poi ce ne sarà un altro”. “Ho il portafogli a disposizione e uno appresso all’altro me li compro tutti”. A questo punto viene da domandarsi: perché non c’è una reazione popolare a tutto questo marciume? Credo non sia per paura, ritengo, invece, che la mafia “politica”, insediata ormai ovunque, si rapporti ai territori come un’impresa che offre beni e servizi, immette capitali, fa girare l’economia e che quindi sta diventando molto più pericolosa di quella di Totò Riina perché crea intorno a se consenso e complicità spesso volute e ricercate proprio da quella società civile che dovrebbe lottarla. Cercare ancora le verità negate delle stragi di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 10 maggio 2019 In memoria delle vittime. A cinquant’anni da Piazza Fontana al centro dell’impegno deve rimanere la verità, la completa conoscenza degli avvenimenti. Anche con la completa disponibilità e trasparenza della documentazione dei nostri apparati su quegli anni terribili di sangue. Celebriamo la giornata dedicata alla Memoria delle Vittime del terrorismo e delle stragi: mai come quest’anno deve essere una giornata di impegno per la democrazia del nostro Paese, senza vuota retorica. Un impegno per la verità, la trasparenza e la storia. Siamo a cinquant’anni da Piazza Fontana, quando un’intera generazione perse l’innocenza. Ricordiamo quel 12 dicembre, l’inizio della strategia della tensione che si è allungata per anni, con una dolorosa scia di sangue, lutti, lacrime e dolore sulla Storia del nostro Paese. Si voleva colpire il progresso, l’emancipazione, la democrazia stessa e furono protagonisti gruppi della destra eversiva, elementi appartenenti ad apparati dello Stato, opache complicità che venivano dall’estero. Il Presidente Giorgio Napolitano ha parlato di “intrecci eversivi, nel caso di Ustica forse anche intrighi internazionali, che non possiamo oggi non richiamare, insieme con opacità di comportamenti da parte di corpi dello Stato, a inefficienze di apparati e di interventi deputati all’accertamento della verità”. Si riferiva ad Ustica, ma credo si possa così descrivere il lungo periodo, dalla strategia della tensione agli di anni di piombo, del terrorismo rosso o nero. Al centro dell’attacco sono sempre stati la democrazia, la convivenza civile, il rispetto per gli uomini. È con questa “eredità” che dobbiamo concretamente confrontarci oggi nel rispetto delle care vittime; al centro dell’impegno deve rimanere la verità, la completa conoscenza su questi avvenimenti. Partendo da piazza Fontana dobbiamo avere in mente i tormentati percorsi processuali, conclusi, ma senza un soddisfacente “corso” della giustizia. Siamo consapevoli di quante verità non siano state ancora totalmente svelate: c’è un capitolo di condanne per i responsabili materiali dei delitti, ma in troppi casi mancano i mandanti e sono celate le radici più profonde. La verità non può fermarsi all’ultimo atto sanguinoso, terribilmente drammatico di una vicenda, deve svelare tutte le trame, dalle origini e dalle motivazioni più profonde. Ancor oggi ci sono processi in corso, istruttorie aperte e su tutto questo bisogna rinnovare e intensificare l’impegno. A partire da un’azione di governo e diplomazia per acquisire ogni documentazione disponibile in Italia e fuori dal nostro paese.La diplomazia appunto: abbiamo avuto la soluzione del caso Cesare Battisti, ma rimane grande il problema dei terroristi condannati da assicurare alla giustizia (ci sono veramente troppi condannati di ogni colore politico in giro per il mondo) e ci sono anche personaggi con grandi responsabilità - per terrorismo ed eversione - in giro senza formale condanna, come c’è soprattutto il problema di documentazione importante da reperire, da far mettere a disposizione degli inquirenti, rogatorie internazionali che necessitano di adeguate risposte. Ma il debito con la verità si deve pagare anche con la completa disponibilità e trasparenza della documentazione dei nostri apparati su quegli anni terribili di sangue. E qui il discorso non può non cadere sulla Direttiva Renzi del 2014. Una direttiva che aveva generato aspettative positive e invece si sta rivelando dagli esiti estremamente insufficienti. Sia ben chiaro, emergono tutte le difficoltà legate ad un sistema archivistico cronicamente in crisi per le disattenzioni della politica, ma emerge soprattutto il dato storico-politico della assoluta insufficienza del materiale messo a disposizione. Oggi è questo l’aspetto che deve essere richiamato perché indica ancora una assenza di vera volontà politica per la trasparenza. E allora diciamolo chiaramente: onorare le vittime -oltre naturalmente ad una puntuale applicazione della legge sui risarcimenti - deve significare fare i conti fino in fondo con la verità, e storica e giudiziaria, del periodo che 50 anni fa iniziava con il boato di Piazza Fontana. *Presidente Associazione Parenti Vittime Strage di Ustica Dichiarazioni infedeli con soglia allargata di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 7 maggio 2019 n. 19228. Per la verifica della sussistenza del reato dichiarazione infedele delle imposte sui redditi nei confronti di un amministratore di società di persone la quantificazione dell’imposta evasa va riferita all’intera somma non dichiarata dai soci e non soltanto dal socio amministratore. A fornire questa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 19228/2019. La società di persone non è soggetto passivo Ires né Irpef. I redditi sono dichiarati quota parte dai soci che versano la relativa Irpef. Allorché a tale società vengono addebitati maggiori redditi, si pone il dubbio se il rappresentante legale risponda del reato di dichiarazione infedele quando la soglia di imposta evasa superi quella penalmente rilevante (150mila euro) calcolandola come somma dell’Irpef non dichiarata dai singoli soci ovvero soltanto considerando l’Irpef non dichiarata nella propria dichiarazione quale persona fisica/socio. Dalla lettura del Dlgs 74/2000 sembrava che, ai fini delle imposte sui redditi, la dichiarazione infedele non potesse configurarsi in capo al rappresentante legale della società di persone, ma ai singoli soci, allorché avessero superato nella propria dichiarazione Irpef la soglia di punibilità. Ciò perché tale società non è soggetto passivo né Irpef né Ires e inoltre l’articolo 1 del Dlgs 74/2000 prevede che riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, o rappresentante di società, il “fine di evadere le imposte” si intende riferito alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce. Così, escludendo che l’amministratore di una snc o sas possa ritenersi un soggetto che agisca per conto del singolo socio, appariva più coerente far riferimento, a differenza dell’Iva, alla dichiarazione del singolo socio posto che solo da essa può derivare un’imposta evasa. La differenza, non è di poco conto: riferendosi alle singole dichiarazioni dei soci, per configurarsi il reato ciascuna di esse deve sottrarre a tassazione 150mila euro di Irpef, riferendosi alla società di persone l’importo è complessivamente determinato. Nella specie, secondo la Suprema Corte le norme incriminatrici trovano applicazione, oltre che in caso di coincidenza tra soggetto attivo e contribuente persona fisica, anche nei confronti di chi opera nella qualità di amministratore così da riferirgli la dichiarazione dell’ente. Di conseguenza la finalità di evasione riguarda anche il soggetto giuridico nel cui interesse si agisce. Pertanto, per la dichiarazione infedele, presentata da chi amministri una società di persone, si impone una valutazione unitaria dell’imposta evasa, anche ai fini della verifica della soglia di punibilità. Tale conclusione, aldilà del contenuto del Dlgs 74/2000 che pare condurre a differente interpretazione, non considera che le società personali non quantificano le imposte sui redditi. Occorrerebbe poi comprendere come calcolare l’imposta evasa atteso che ciascun socio, soggiacendo alla tassazione progressiva (in base agli altri redditi, deduzioni e detrazioni) potrebbe aver evaso importi differenti a parità di imponibile non dichiarato. Taranto: suicidio in cella, la nota dell’Associazione “Marco Pannella” pugliapress.org, 10 maggio 2019 “Ieri un detenuto di 44 anni di Manduria si è impiccato, legandosi alle grate della cella con una corda rudimentale ricavata dalla stoffa dei pantaloni, nel reparto infermeria. Stava scontando una condanna per concorso in tentata estorsione e furto, e sarebbe stato scarcerato per fine pena il prossimo 28 agosto. È così il carcere di Taranto si avvia ad avere il tragico primato anche per numero di suicidi oltre che per carcere più sovraffollato d’Italia. Sono state pubblicate ieri le classifiche ministeriali che riconfermano questa prima posizione con 612 detenuti a fronte di 306 posti disponibili. Ma non è solo questo. Nel carcere di Taranto manca tutto: agenti penitenziari, educatori, palestra, campo, acqua calda, docce, attività e progetti di reinserimento e persino il magistrato di sorveglianza è completamente assente. Tutto questo è fuori legge. Come può uno Stato chiederne poi rispetto? Forse è proprio la mancanza di speranza per il futuro che porta così tanti detenuti al suicidio. Mentre noi da mesi continuiamo a chiedere a parlamentari e consiglieri regionali di accompagnarci all’interno. Esattamente da quando il neo guardasigilli Bonafede ci ha tolto questa facoltà ispettiva che sempre negli altri anni avevamo esercitato con scrupolo e attenzione, essendo stati spesso gli unici a denunciarne le condizioni. Ora potremo effettuare queste visite solo accompagnando parlamentari e consiglieri regionali, ma da mesi che rivolgiamo loro questo appello nessuno ci ha mai risposto. Nel frattempo le persone continuano a morire in carcere nella disattenzione totale di politica e istituzioni. Per questo rivolgiamo anche per l’ennesima volta a comune e provincia di Taranto l’invito a nominare il garante comunale e provinciale dei detenuti. Non possono difendere i loro diritti da soli, se non ormai sempre più spesso con una corda. Venerdì 10 Maggio dalle ore 18 saremo a Taranto in piazza della Vittoria per raccogliere firme eutanasia legale, e raccogliere anche segnalazioni da parenti dei detenuti e operatori penitenziari”. Trapani: in 12 in una cella di 20 metri quadri, detenuto risarcito con 7mila euro La Sicilia, 10 maggio 2019 Un uomo di Castelvetrano ha trascorso un anno e mezzo in carcere a San Cataldo per reati di droga. Si è rivolto al Tribunale che gli ha dato ragione. Un risarcimento danni di 7.384 euro è stato riconosciuto dalla prima sezione civile del Tribunale di Palermo (giudice Antonina Maria Aiello) a un pregiudicato originario di Castelvetrano, ma residente ad Alcamo, Tommaso Ingrao, di 50 anni, con precedenti per fatti di droga. L’uomo ha denunciato condizioni di scarsa vivibilità nel periodo in cui, dal 30 aprile 2014, all’8 novembre 2016, è stato detenuto nel carcere di San Cataldo. “Detenzione - ha evidenziato la difesa di Ingrao - trascorsa in una cella di 20 metri quadrati con altri 11 detenuti, finestra chiusa, docce non funzionanti, acqua fredda, letti a castello. È stato, inoltre, accertato che i carcerati venivano lasciati chiusi in cella a volte anche 20 ore al giorno causa mancanza di luoghi di socializzazione”. Ad assistere Tommaso Ingrao sono stati gli avvocati Daniele e Alessandro Gabriele. “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo - affermano i due legali - con molte pronunce, e in particolare la Torreggiani, ha imposto all’Italia di dotarsi di un adeguato sistema di rimedi giurisdizionali volti a garantire ai detenuti un ristoro di pregiudizi patiti per effetto del trattamento carcerario”. Monza: riapre l’orto del carcere, via alla partnership con la Scuola agraria di Filippo Panza mbnews.it, 10 maggio 2019 Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. È un passaggio dell’articolo 27 della Costituzione italiana. Purtroppo si tratta di un principio non sempre rispettato nei fatti e, a volte, difficile da mettere in pratica. Tanto è vero che nel 68% dei casi i detenuti tornano a delinquere una volta in libertà. Ma se scontano misure alternative questa percentuale scende al 19%. A dimostrazione che creare una seconda chance di vita a chi ha sbagliato una prima volta è il modo giusto di attuare quanto previsto nella nostra Costituzione. Proprio su questa strada sta cercando di muoversi il carcere di Monza. Che ha deciso di riattivare il proprio orto dopo quasi un anno di stop. Sono 11 i detenuti che stanno frequentando le 40 ore di lezione condotte da Pio Rossi, agronomo e coordinatore didattico della Scuola Agraria di Monza. Che, come Centro di formazione professionale, nato nel 1902 e riconosciuto ente di ricerca a livello regionale e nazionale, ha tutte le carte in regola per guidare il team di particolari allievi ai saperi e ai sapori della terra e delle piante. A disposizione dei discenti, all’interno del Casa circondariale di via S. Quirico, due serre e un terreno coltivato ad aiuole. “Il corso andrà avanti fino a metà giugno con dieci lezioni complessive - spiega Rossi - tutti i partecipanti, scelti dopo un colloquio motivazionale, stanno mostrando interesse, anche perché alcuni di loro hanno già trascorsi familiari di orto”. “Abbiamo piantumato una serie di ortaggi, dai pomodori all’insalata, dai peperoni alla cipolla” continua l’agronomo della Scuola Agraria, che già alla fine degli anni Novanta aveva avuto un’esperienza di insegnamento con le detenute di Monza. Il corso, che prevede una certificazione per i partecipanti e gode di un finanziamento di 6mila euro da parte dell’amministrazione comunale, ha anche un obiettivo commerciale. “I prodotti, le verdure, ma anche gli aromi, saranno in parte utilizzati per le esigenze del carcere - spiega Rosario Montalbano (nella foto in basso), dal 2015 Presidente del Consiglio di Amministrazione della Scuola Agraria ed ex Assessore comunale all’Istruzione, Personale e Servizi al Cittadino nella Giunta Scanagatti - ma saranno anche venduti direttamente all’interno della nostra sede, la Cascina Frutteto, in modo che il ricavato finanzi l’iniziativa”. La scelta di riavviare nel carcere di Monza l’attività dell’orto, che nel recente passato aveva prodotto una tonnellata e mezza di verdura interamente devoluta al Banco Alimentare, non è casuale. Anzi, ha anche il valore simbolico di ripartire dalla basi, la terra appunto. “Cerchiamo di essere presenti sul fronte sociale - afferma Montalbano - per fortuna abbiamo un Cda coeso che prende sempre in considerazione questo tipo di iniziative”. D’altro canto la Scuola Agraria e il carcere, ognuno nei propri ambiti, portano avanti da anni progetti che hanno la profonda finalità di essere al fianco dei più deboli e delle persone in difficoltà. Basti pensare ai corsi di ortoterapia (qui l’approfondimento) e alla nascita dello “Sportello del Garante dei detenuti”. Assume, allora, un significato ulteriore il fatto che il prossimo 21 giugno la Scuola Agraria di Monza sarà ufficialmente intitolata alla sua fondatrice, Aurelia Josz, educatrice e scrittrice che ha precorso i tempi nella didattica ed è morta nel 1944 nel campo di concentramento di Auschwitz. “Volevamo da tempo arrivare a questa dedicazione - afferma il Presidente dell’Istituto monzese - finalmente ci riusciamo dopo una serie di problemi burocratici”. Ferrara: Interno Verde al Galeorto, apre a maggio l’orto dei detenuti di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 10 maggio 2019 Interno Verde apre al pubblico il Galeorto, l’orto coltivato dai detenuti. “Sarà un momento importante per promuovere i valori di scambio e condivisione che guidano l’intera organizzazione del festival. Un’occasione per coltivare solidarietà verso realtà che spesso vengono trascurate. L’associazione Il Turco è felice di poter continuare la positiva collaborazione con la Casa Circondariale di Ferrara iniziata l’anno scorso, e proporre al pubblico ferrarese e di altre province un’esperienza di indubbio valore formativo”, raccontano gli organizzatori. L’eccezionale apertura dell’orto - che inaugurerà la quarta edizione del festival dedicato ai giardini segreti del capoluogo estense - si terrà venerdì 10 maggio, dalle 10 alle 11.30. Gli oltre 70 giardini segreti compresi nel programma 2019 invece apriranno al pubblico sabato 11 e domenica 12 maggio, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. La visita guidata all’interno dell’istituto penitenziario sarà curata dall’associazione Viale K, che si occupa di coordinare il progetto educativo: i partecipanti verranno accompagnati in un itinerario guidato dal personale della Casa Circondariale attraverso le varie aree verdi della struttura con la partecipazione detenuti, che racconteranno la loro esperienza lavorativa e formativa. “L’idea di coinvolgere uno spazio così particolare, e rendere accessibile un luogo per definizione inaccessibile, è nata nel 2018 per invitare le persone a conoscere una realtà spesso poco considerata e oggetto di pregiudizio. Interno Verde si propone come un festival di relazioni: l’obiettivo è quello di promuovere, attraverso l’interesse trasversale che la cura del giardino è capace di suscitare, una socialità spontanea e vicina, un’atmosfera inclusiva. In quest’ottica l’apertura del GaleOrto ci sembra possa rappresentare un messaggio importante. Ringraziamo già da ora sia la direzione della Casa Circondariale che il personale della polizia penitenziaria e le educatrici, per la grande disponibilità che anche quest’anno hanno dimostrato accogliendo con entusiasmo la proposta di far parte della manifestazione”, concludono gli organizzatori. Per visitare le coltivazioni nascoste tra le mura di cinta che circondano la struttura di via Arginone, e assaggiare le fragole che crescono protette tra le torrette di guardia e il filo spinato, è necessario prenotare la propria partecipazione, che dovrà essere effettuata entro domenica 24 aprile, comunicando via mail all’indirizzo info@internoverde.it i propri dati (nome, cognome, residenza, data e luogo di nascita, codice fiscale), allegando una scansione del proprio documento d’identità. L’ingresso è riservato a un gruppo di massimo 30 persone. Lo stesso indirizzo mail sarà a disposizione per dubbi o domande inerenti l’iniziativa. Interno Verde è patrocinato dal Mibac, dal Comune e dall’Università degli Studi di Ferrara, con l’adesione dell’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio. Per informazioni e iscrizioni: internoverde.it. Nuoro: giustizia riparativa, tre giorni di eventi La Nuova Sardegna, 10 maggio 2019 L’iniziativa, nella parrocchia di Beata Gabriella, coinvolgerà anche i detenuti. Si parlerà del tema “Giustizia riparativa: Riannodare i fili tra vittima-reo-comunità” nel corso delle tre giornate di attività culturali e di confronto, promosse dalla cooperativa sociale Ut Unum sint che da ieri e fino a sabato compreso animeranno la parrocchia di Beata Maria Gabriella, nel rione di Badu ‘e Carros. L’iniziativa, come spiega il parroco e presidente della cooperativa sociale, don Pietro Borrotzu, “vuole essere una continuità delle tappe di riflessione realizzate negli anni scorsi. Alle giornate saranno presenti, oltre ai detenuti e alle loro famiglie, una vittima e gli studenti dell’Istituto “Chironi”che hanno già percorso un tratto di strada nel progetto”. Il programma delle giornate è piuttosto articolato. Si è cominciato ieri, alle 15.30, con l’accoglienza dei detenuti di Mamone, l’introduzione al tema delle giornate, una breve sintesi delle tappe del progetto, e un momento di condivisione fraterna tra i detenuti e i volontari. Oggi, invece, alle 9, è prevista l’accoglienza dei detenuti di Badu ‘e Carros e dei loro familiari. Seguirà l’introduzione ai lavori fatta da don Pietro Borrotzu, presidente della cooperativa sociale Ut Unum sint. Poi è in programma la proiezione di un film e un successivo momento di riflessione insieme alla giornalista e scrittrice Angela Iantosca. Sempre oggi, dopo il film e la riflessione, si discuterà del tema “Giustizia riparativa e dipendenze: è possibile metterle insieme?”. Alle 13.30 ci sarà il pranzo a buffet. La giornata di domani, infine, comincerà alle 9 con l’incontro e restituzione dei laboratori. Conduce, la giornalista Angela Iantosca, modera don Pietro Borrotzu. Poi ci sarà un momento definito “azione riparativa” che coinvolgerà i detenuti, le loro famiglie e gli studenti: tutti insieme ripuliranno un angolo della città degradato dagli stili di vita sbagliati di tante persone. Nella stessa occasione sarà messa a dimora una pianta come segno di cura verso l’ambiente. Roma: “Il carcere secondo la Costituzione”, presentazione del XV Rapporto di Antigone pressenza.com, 10 maggio 2019 Il prossimo 16 maggio si terrà la conferenza di presentazione del XV Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, “Il carcere secondo la Costituzione”. L’iniziativa è prevista a Roma, presso la Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro del Senato (piazza Capranica 72), a partire dalle ore 10.00. Il rapporto di Antigone costituisce una fotografia indipendente del sistema penitenziario italiano, condotta attraverso l’attività di osservazione che l’Associazione svolge dal 1998 in tutti gli istituti penitenziari del paese. Il documento contiene dati, numeri, analisi e storie sul sistema carcerario e le sue condizioni. Oltre agli esponenti di Antigone parteciperanno: Mauro Palma (Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale), Gemma Tuccillo (Capo del Dipartimento della Giustizia minorile e Comunità). Si è inoltre in attesa delle conferme di Francesco Basentini (Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e dell’On. Alfonso Bonafede (Ministro della Giustizia). Per accreditarsi è necessario inviare un fax direttamente al Senato al numero 06.6706.2947. L’accesso alla sala - con abbigliamento consono e, per gli uomini, obbligo di giacca e cravatta - è consentito fino al raggiungimento della capienza massima. Pozzuoli (Na): Vincenza Purgato in concerto per le detenute pupia.tv, 10 maggio 2019 “Acqua”, un ritorno al grembo, l’acqua che cura e sana, nel Mese Mariano per alleviare le sofferenze. “Acqua ca ce ‘nfonn acqua, ca ce spoglia e ce spezza ‘e catene e cchiù liberi ce fa sentì”, è il ritornello del brano scritto dalla cantautrice Vincenza Purgato, originaria di Aversa, contenuto nel suo disco tutto al femminile “Anima di Strega”. Ad intonarlo questa volta saranno le donne della casa circondariale femminile di Pozzuoli. Il recital della cantautrice sarà accompagnato dal maestro Edo Puccini alla chitarra, voci narranti di cinque ragazze detenute. In realtà, vi era anche una sesta detenuta, ma la stessa mattina ha ricevuto la libertà domiciliare. “Un piccolo miracolo già è avvenuto”, commenta l’artista aversana. L’evento è stato reso possibile grazie alla direttrice del penitenziario, Carlotta Giaquinto, e sotto la sorveglianza dell’educatore. “L’incontro con le ragazze per le prove - spiega Purgato - è stato emozionante, cinque ragazze bellissime e giovanissime. Sono stata aiutata dall’educatore e dalla mia collaboratrice e amica Carlotta a gestire il tutto, perché io mi lascio prendere troppo dal lato emotivo, sentimentale. Sarei stata ore a parlare con loro e devo dire c’è stata una bella connessione, un vero scambio di energie, ho visto la luce nei loro occhi brillare di gioia, hanno scelto i testi in prosa da interpretare ed ognuna ha manifestato la felicità nel sentire quanto le parole che leggevano fossero dirette a loro, questo mi ha commossa molto. Bisogna tornare un po’ alla semplicità, a saper sognare, ad aiutare chi non ha più fiducia in se stessi e nel prossimo, a credere che i sogni con la determinazione e la fede si avverano. Essere portatrice di sogni penso sia la cosa più bella, meritiamo tutti una seconda possibilità, “guardare gli errori di speranze future” come canto nel “Il nuovo tempo”, che aprirà la kermesse”. Un concerto nel luogo dove la libertà è sospesa. “La mia voce, - continua la cantautrice - insieme a quella delle ragazze, perché amo definirle ragazze, giungerà come un grido di speranza, di cambiamento e di libertà che solo l’amore genera. Ho scelto maggio per fare un dono, il Mese Mariano, partendo da questo luogo, la casa circondariale femminile di Pozzuoli, dove regna la sofferenza di anime in cerca di valori dimenticati, al fine di poter portare un messaggio di rinascita attraverso il perdono”. Il progetto di Vincenza Purgato proseguirà in altri luoghi troppo spesso dimenticati, dove, sottolinea l’artista, “vi è bisogno di amore”. Per l’occasione la Pasticceria “Pelosi” di Aversa donerà la tradizione “Polacca Aversana”. Radio Radicale: la nonviolenza non fa notizia di Valter Vecellio Il Dubbio, 10 maggio 2019 Maurizio Bolognetti da settanta giorni è in sciopero della fame per il diritto alla conoscenza ma nessuno ne parla. Nei giorni della morte e del funerale di Massimo Bordin, di Radio Radicale voce storica, sono fioccate promesse, impegni, riconoscimenti. Di concreto? Dopo tanti discorsi, cosa si fa, si intende fare? Non si chiede nulla di rivoluzionario: “solo” di dare corpo al liberale enunciato di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”. Di consentire ai cittadini, di sapere, e di poter giudicare. Qualcosa di concreto, per ora, cerca di farla, nella più desolante solitudine, un tipo strano che vive in Basilicata. Il suo nome è Maurizio Bolognetti; da decenni, lui, la moglie Antonietta e pochi altri militanti del Partito Radicale, sono promotori di decine di iniziative politiche in difesa dei diritti civili e umani, e per la salvaguardia dell’ambiente, che in quella piccola regione - come un po’ ovunque in Italia, del resto - è quotidianamente minacciato da ogni sorta di speculatori e speculazioni. Questo tipo strano da una settantina di giorni si nutre solo del contenuto di tre cappuccini e di molta acqua. Ultimamente ha deciso di razionare anche questi liquidi. Se cercate le sue fotografie in internet, questo tipo strano vi apparirà a torso nudo più che incavato, lo sguardo lucido e il viso smagrito: quasi un reduce di un campo di concentramento. Perché questo tipo strano sta conducendo questa lotta richiamandosi a Gandhi e a Marco Pannella? Chiedeteglielo. Vi risponderà: per il diritto alla vita e alla conoscenza; per il diritto al diritto; perché Radio Radicale possa continuare, come ha sempre fatto, le sue trasmissioni, e assicurare conoscenza e verità; perché il governo Conte-Salvini-Di Maio receda dalla decisione di tagliare i finanziamenti previsti dalla convenzione stipulata da anni e che prevede un servizio pubblico come nessuna altra emittente ha saputo e voluto assicurare. Ne avete mai sentito parlare di questo tipo strano? Uno che si denutre da settanta giorni non merita un colonnino di informazione? La cosa pone un problema, tra i problemi. Poniamo il caso che questo tipo strano, invece di fare scempio del suo corpo, faccia violenza a qualcun altro: violenza concreta, o semplicemente la minaccia di farla: ne avrebbero sicuramente parlato e scritto tutti. La sua causa verrebbe conosciuta e “propagandata” fino alla nausea. Che “lezione” se ne dovrebbe ricavare? Per “pubblicizzare” una causa, occorre compiere un qualcosa di violento. La nonviolenza, non paga. Quel tipo strano, non accetta questa logica cinica; si ribella, e, duro di cervice, si “consuma”, si “auto- consuma”, bergsonianamente convinto che la durata è la forma delle cose. È normale che questo tipo strano, il Bolognetti, venga ignorato e mortificato, e un violento invece sia esaltato e conosciuto? Se ci pensiamo è una bestialità. Una bestialità “normale”. Da un certo punto di vista, si può capire che Radio Radicale, tanto lodata, in realtà dia fastidio: ha la pretesa di far conoscere, integralmente, tutto quello che accade nelle aule parlamentari, nelle commissioni, nelle aule giudiziarie, nei congressi e nelle manifestazioni politiche. In tanti si mostrano basiti per il fatto che si voglia spegnere un tale servizio. È, invece, assolutamente “normale”: nulla di più pericoloso, per il potere, i poteri, della conoscenza. Non è un caso che la Bibbia cominci con un una donna e un uomo cacciati dall’Eden, colpevoli di aver voluto gustare il famoso pomo della “conoscenza”. Era l’unico divieto posto dal padreterno, il potere di allora: rinunciare alla “conoscenza”. Dunque, voler chiudere Radio Radicale” ha una sua logica. Non ci si deve stupire. Stupisce, invece, la sostanziale inerzia e passività di quanti dicono di beneficiare dei “servizi” assicurati da Radio Radicale. In tanti hanno sottoscritto un appello: “Radio Radicale da 40 anni trasmette in diretta le sedute del Parlamento e segue le attività di tutte le istituzioni, dalla Corte Costituzionale al Consiglio Superiore della Magistratura, i più grandi processi giudiziari e le più importanti attività culturali e sociali. Negli ultimi 20 anni questo è stato possibile grazie a una convenzione con lo Stato italiano. Il governo ha deciso che dal 21 maggio la convenzione non sarà rinnovata. Mancano pochi giorni per convincere il governo a rivedere la sua decisione. Il diritto alla conoscenza è un diritto fondamentale affinché il cittadino possa farsi liberamente una opinione e non sia condizionato da una informazione distorta e di parte”. Carcere per i giornalisti e querele bavaglio, Fnsi in audizione al Senato articolo21.org, 10 maggio 2019 “Modifiche necessarie subito”. Procedere con celerità all’approvazione di una legge organica che elimini la pena del carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa e intervenga altresì sulle liti temerarie contro i giornalisti. Temi di cui si dibatte da anni ma che in Parlamento non hanno trovato finora spazio per diventare legge. Nel frattempo i dati indicano nelle azioni legali temerarie uno dei bavagli contro la libertà di stampa, strumento di pressione legittimo in questo ordinamento ma profondamente iniquo. È stata dunque particolarmente importante l’audizione della Federazione Nazionale della stampa in Senato. Una delegazione della Fnsi ha infatti partecipato all’audizione informale nella sede dell’Ufficio di Presidenza della Commissione Giustizia del Senato nell’ambito dell’esame dei due disegni di legge in materia di diffamazione e liti temerarie che hanno come primi firmatari, rispettivamente, Giacomo Caliendo e Primo Di Nicola. La delegazione, composta dal presidente Giuseppe Giulietti, dal segretario generale aggiunto Vittorio Di Trapani e dall’avvocato Ottavia Antoniazzi, ha auspicato la rapida approvazione delle norme di contrasto alle liti temerarie ed evidenziato l’urgenza di intervenire sui temi della cancellazione della pena del carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa e della responsabilità dei giornalisti di testate fallite. “Si è finalmente aperto il confronto fra giornalisti e Parlamento sulle questioni della diffamazione e delle querele bavaglio. Ringraziamo i senatori per l’attenzione e la sensibilità dimostrati e confidiamo che, dopo vent’anni di occasioni perdute, si possa ora giungere in tempi rapidi a dare risposte concrete in difesa della libertà di stampa e del diritto dei cittadini ad essere informati”, si legge nella nota della Fnsi. Inoltre anche nel corso di questa audizione il sindacato dei giornalisti ha ribadito la necessità di scongiurare la mannaia dei tagli ai contributi di sostegno all’editoria e la chiusura imminente di Radio Radicale. Linguaggio politico e brutalità di Juan Luis Cebrián* La Stampa, 10 maggio 2019 Quando il quotidiano danese Jyllands-Posten pubblico una caricatura di Maometto con una bomba al posto del turbante, in Occidente si aprì un dibattito senza fine: era una provocazione, un insulto alla comunità musulmana o si trattava di libertà d’espressione? Fu forse il Financial Times in un suo editoriale a dare la risposta migliore, affermando che questa libertà, pilastro indiscutibile della democrazia liberale, non consente di gridare “Al fuoco” in un teatro gremito di spettatori. Per decine, centinaia di anni, giornalisti, scrittori, artisti hanno insistito sulla necessità di controllare il potere, per obbligarlo a non mentire e a chiamare le cose con il loro nome, rifuggendo dal politicamente corretto. Che, infine, è uscito di scena, non come conseguenza della trasparenza e della sincerità dei leader, ma a causa del loro uso del linguaggio emotivo per galvanizzare la volontà degli elettori. Quindi dal linguaggio politicamente corretto, pieno di eufemismi e ambiguità, siamo passati alla brutalità più assoluta. Il rischio è che la violenza verbale si traduca in violenza fisica e che la fiducia dei cittadini nel sistema democratico continui a deteriorarsi. Il vandalismo oratorio, a volte ammantato di satira umoristica, è stato anticipato da Beppe Grillo, quando ha lanciato il Vaffanculo- day. Altri da allora hanno seguito le sue orme. Alcuni letteralmente, come un giovane e inesperto sindaco del Partito Popolare spagnolo, a capo di una città vicino a Madrid che, dopo aver negato la parola a un rappresentante dell’opposizione, ha chiuso il consiglio comunale con un plateale: “La seduta è aggiornata, andate a farvi fottere!”. Ciò evidenzia come non siano solo i populisti ad avere degradato la lingua in nome del loro falso amore per la gente comune. La malattia del linguaggio scurrile, violento e maleducato ha contagiato anche i leader degli ex partiti istituzionali. Un campione di cattivo gusto è il presidente degli Stati Uniti che ha attaccato la sua rivale, Hillary Clinton, chiedendosi “se non può soddisfare suo marito, come pensa di soddisfare l’America?”. Per concludere descrivendola come “un vero diavolo, rappresentante del capitalismo più corrotto”. Le battute da macho rivaleggiano con il suo ego assurdo e primitivo, come quando ha detto di avere dita lunghe e belle come “altre parti del mio corpo”. Ha aggiunto che questa caratteristica è documentata, anche se non ha mai spiegato in che modo. E poi ci sono la xenofobia e il razzismo di cui ha dato abbondanti testimonianze, così come Matteo Salvini quando ha affermato di voler ripulire il paese dagli immigrati e dagli zingari, deplorando tuttavia che “sfortunatamente gli zingari italiani ce li dobbiamo tenere”. In quanto a razzismo, però, la palma va al presidente della Generalitat catalana, l’indipendentista Quim Torra, che in un famoso articolo descrisse gli spagnoli come “bestie da carogna, vipere, iene, con una tara nel dna”. Salvini e Trump si segnalano anche per essere tra i pochi politici democratici che usano sfacciatamente citazioni di Mussolini nei loro discorsi e dichiarazioni. Il primo quando ha ripetuto la frase del duce “Molti nemici molto onore”, per esprimere il suo disprezzo verso chi lo criticava. Da parte sua, l’inquilino della Casa Bianca ha dichiarato che “è meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora”; e quando gli hanno fatto notare che si trattava di una frase attribuita al fondatore del fascismo, ha risposto: “So chi l’ha detto, e allora?” Ad ogni modo, per quanto si possa tingere la chioma di giallo, Donald Trump non potrebbe fare la parte del leone nemmeno in un musical di Disney. Quando il linguaggio politico brutale s’infiltra nel dibattito parlamentare e nei centri di governo è una minaccia per la sopravvivenza della democrazia. Nella recente campagna elettorale spagnola sono stati i partiti di destra, e non solo quelli di estrema destra, ad avere maggiormente abusato dell’uso dell’invettiva contro gli avversari. Insulti come traditore o criminale indirizzati al presidente del governo dal capo dell’opposizione hanno fatto degenerare il dibattito politico, così come le accuse di mentire restituite dal capo dell’esecutivo a chi lo attaccava. La crescita dell’estrema destra e della sinistra radicale in Europa hanno incoraggiato questi eccessi verbali che in molti casi finiscono per tradursi in violenza fisica. La bassa qualità della leadership politica che si manifesta quotidianamente, la debolezza istituzionale, frutto della frammentazione delle opzioni e del decadimento delle classi medie che sostengono il sistema, inducono molti elettori a desiderare leader forti che diano solidità allo Stato e sicurezza ai cittadini, a scapito del rispetto dei diritti individuali e della separazione dei poteri. L’Ungheria, la Polonia, la Russia, la Turchia, sono solo alcuni esempi di questa tendenza. Quando si tratta di incoraggiare il voto dettato dalle emozioni, a volte dimentichiamo che non c’è forse sentimento più forte e duraturo della paura. La Storia dell’Umanità è in gran parte una storia di paura ed è proprio questo a cui fanno appello i nuovi guru del nazionalismo e del suprematismo: la paura dell’immigrato, identificato come delinquente, e la rivendicazione del diritto a usare le armi come mezzo di difesa individuale. In Brasile Bolsonaro ha condotto la sua campagna con in mano un fucile mitragliatore e la Rifle Association rimane una potentissima lobby in quella che un tempo era stata definita la prima democrazia del mondo. È passato quasi un anno da quando George Shultz, allora a capo del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), denunciò la minaccia posta alla libertà dal linguaggio politico brutale. Da allora le cose non hanno fatto altro che peggiorare. Hans Magnus Enzersberger ha scritto un saggio memorabile in cui consigliava ironicamente di compatire i politici piuttosto che denigrarli, perché “la perdita della parola è una delle tante perdite associate con la loro professione”. E come si sa, dopo la crisi del 2008 la classe dirigente occidentale ha cercato di correggere questo declino con una sovrabbondanza prolissa che non riesce a compensare il vuoto delle proposte. Enzersberger insiste sul fatto che l’isolamento a cui va incontro il politico di professione in mezzo a un attivismo inutile e assordante, “lo porta a subire la tipica perdita del senso della realtà che spiega il motivo per cui, a prescindere dalla sua capacità intellettuale, in genere è l’ultimo a capire che cosa sta succedendo nella società. “Oggi molti coltivano l’illusione che sbraitare di fronte allo specchio sia un modo per avvicinarsi alla verità. Ma la buona retorica esclude la maleducazione e ama il silenzio: quello che consente agli altri di ascoltare. *Traduzione di Carla Reschia La guerriglia tra poveri che nasce dall’ipocrisia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 maggio 2019 Anche la politica ha responsabilità della rivolta contro i rom a Casal Bruciato. Ma fino a prova contraria la legge è uguale per tutti, non è etnica. Non nasce dal nulla la rivolta di Casal Bruciato, l’ennesima contro i rom. C’è un micidiale cocktail di insipienza amministrativa e ipocrisia politica nel veleno di questa nuova guerriglia di poveri contro poveri. Virginia Raggi è diventata di colpo l’eroina della sinistra dopo esserne stata bersaglio per tre anni: effetto della sua presa di posizione, del tutto condivisibile, a favore di una famiglia bosniaca legittima assegnataria di una casa popolare in via Satta e assalita da residenti come sempre aizzati da militanti di CasaPound. I toni e i modi di quella protesta sono infami e c’è da domandarsi in quale altro caso, se la parte offesa non fosse stata rom, la polizia non sarebbe intervenuta immediatamente contro chi, sotto gli occhi degli agenti, avesse minacciato e insultato (“tr..., ti stupro”) una madre con una bimba di due anni in braccio. Serve appena ad attenuare l’imbarazzo la notizia che lo squadrista in questione e alcuni suoi accoliti sarebbero stati infine identificati e denunciati per violenza privata e istigazione all’odio razziale. Ciò detto, la rivolta di Casal Bruciato dell’altro giorno ha una causa recente nella rivolta di Torre Maura di un mese fa. In quella occasione la Raggi riuscì a inanellare tre errori, salvo scaricarli poi sulle burocrazie comunali. Il primo fu decidere, senza trattative con il comitato di quartiere e senza compensazioni per i residenti (necessarie a smussare gli angoli) il collocamento di rom in un centro d’accoglienza già in parte popolato di migranti, dentro un quartiere già esasperato e privo di servizi, cui stavano persino togliendo in quei giorni una vitale linea di autobus. Il secondo fu pensare che fosse accettabile un numero così elevato di nuovi ospiti, 70 in un sol colpo. C’è da domandarsi con onestà come la prenderebbero ai Parioli o in San Babila se si trovassero d’improvviso 70 rom per vicini. Il terzo errore fu decidere, per effetto della rivolta fomentata da CasaPound, di cedere senza ritegno, mostrando il volto fragile dello Stato, ritirando subito quei 70 poveretti (di cui 33 bambini e 20 donne) e ricollocandoli a piccolissimi gruppi. Strategia inutile, perché da Torre Maura è cominciato un gioco a rimpiattino tra i fascisti del terzo millennio, che infiammano i quartieri popolari romani, e i rom da collocare legittimamente, in case di proprietà pubblica loro assegnate. Dopo Torre Maura è toccata a Casalotti, poi a Tor Vergata e già un mese fa a Casal Bruciato (a 200 metri dalla rivolta di queste ore) venne impedito l’ingresso in un alloggio a un’altra famiglia di nomadi. È passato il micidiale messaggio secondo cui basta vomitare due contumelie e dar fuoco a due bidoni (meglio se in diretta tv) per averla vinta. L’insostenibile situazione non dipende ovviamente solo dalla Raggi. Il tasso di tolleranza del Viminale al tempo di Matteo Salvini è piuttosto alto nei confronti degli estremisti di destra e in piazza lo si percepisce (incomprensibile, riguardo CasaPound, la decisione del ministro di non considerare una “priorità” lo sgombero del palazzo romano di via Napoleone III occupato da un decennio dall’organizzazione neofascista a fronte della sua pur giusta dichiarazione di guerra verso tutte le occupazioni abusive). La rivolta di Torre Maura, nella sua componente facinorosa (incendi di auto e cassonetti), andava subito repressa, i manifestanti violenti andavano arrestati e sgomberati. Così non è stato. Si consente dunque di gonfiare ad uso propagandistico quella che è soprattutto una questione di legalità (non formale, davvero sostanziale). Carla Osella, presidente di una associazione di sinti, rimproverò la Commissione periferie due anni fa sostenendo che noi italiani siamo razzisti perché non applichiamo la legge e non reprimiamo i reati di rom e sinti pensando “tanto sono zingari”. L’analisi della Osella è tra le più lucide di un fenomeno che tocca soprattutto Roma (ma anche Napoli, Torino e Milano), che in termini numerici è marginale (su 180 mila nomadi in Italia, quelli in condizione di disagio abitativo - di cui ci accorgiamo, insomma - sono trentamila), ma sul piano simbolico è devastante in tempi nei quali i sistemi politici vivono e muoiono di simboli moltiplicati in tempo reale dalla Rete. Il piano Raggi di superamento dei campi è sacrosanto (in quei campi il 90% dei bambini non va a scuola e i roghi tossici avvelenano i quartieri attorno) ma senza una cornice generale appare davvero velleitario. Vanno rivisitati di certo i criteri di assegnazione delle case popolari (si danno più punti per chi è più fragile e ha più figli, normalmente migranti e rom, a evidente svantaggio dei residenti storici) magari immaginando graduatorie diverse per nomadi o rifugiati da ricollocare. Ma soprattutto è indispensabile il gioco di squadra tra governo centrale e governi dei territori. Perciò appare assai fuori luogo la posizione attribuita al ministro Di Maio, “Virginia pensi prima agli italiani”, evidentemente preoccupato dal contraccolpo elettorale delle feroci contestazioni subite dalla Raggi a Casal Bruciato. La legge, fino a prova contraria, non è etnica ma è uguale per tutti. E, al netto dei calcoli politici, il primato della legge è il primo mattone su cui ricostruire la nostra convivenza, anche (e soprattutto) in periferia. La crociata leghista sulla cannabis light è lo spot per le europee di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 maggio 2019 A Macerata sigillati due negozi con merce fuorilegge. Salvini esulta e promette di chiuderli tutti. Conte: “Non è nel programma”. Di Maio all’alleato di governo proibizionista: “Pensi a chiudere anche le piazze di spaccio delle mafie”. La war on drug di Matteo Salvini è cominciata. Quarantotto anni dopo quella inventata (e persa) da Richard Nixon, il leader del Carroccio la rispolvera come uno smoking per la festa della campagna elettorale. Ma neppure Trump - che pure è stato un supporter di quella guerra ma recentemente sembra aver cambiato idea sulla legalizzazione della marijuana adottata da molti Stati, sarebbe capace di tanto. Perché la personale crociata proibizionista del titolare del Viminale si accontenta di attaccare - per i prossimi 16 giorni, inshallah - i negozi che vendono cannabis light. E non certo le 100 nuove sostanze psicoattive perfettamente legali censite ogni anno dall’Istituto superiore di Sanità, come chiede invece il Coordinamento nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) che venerdì ha partecipato all’incontro con lo stesso Salvini e con il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. Incontro che aveva aperto le danze attorno al totem della droga. Ieri, per dare corpo al suo annuncio, il questore di Macerata Antonio Pignataro è riuscito a trovare due cannabis light shop a Civitanova Marche che vendevano 25 prodotti con un Thc di 0,8%, con un principio attivo cioè superiore allo 0,6% consentito per legge. E li ha chiusi. Aggiungendo un giudizio che dimostra la sua fede politica: “Si possono vendere shampoo e saponi ma non le infiorescenze di canapa, senza le quali però questo tipo di negozi non coprirebbe le spese - ha affermato Pignataro - Comunque, la cannabis legale non esiste e il limite di Thc di 0,6 è ingannevole”. Un regalone. Il vicepremier leghista esulta e brandisce la notizia come una clava: “Complimenti al questore e alla magistratura, lo Stato dimostra di non essere complice di chi vende prodotti che fanno il male dei nostri figli. Da oggi comincia una guerra via per via, negozio per negozio, quartiere per quartiere, città per città. Sono sicuro che il modello Macerata può essere replicato con successo in tutta Italia, oggi stesso manderò una direttiva con questa indicazione”. Un annuncio che è bastato a far scattare comunque i malumori degli esercenti che vendono prodotti a base di canapa, gadget o attrezzature per la coltivazione (779 Grow shop in tutta Italia, 2.087 punti vendita di cannabis light e oltre 10 mila negozi, compresi i tabaccai, che vendono legalmente infiorescenze di canapa non psicoattiva, con un fatturato annuo complessivo minimo di 44 milioni di euro). Tanto che il Festival Internazionale della Canapa, in programma dal 17 al 19 maggio al Pala Alpitour di Torino è stato annullato dagli stessi organizzatori (vedi intervista in pagina). “La droga fa male. Meglio un uovo sbattuto”. Anzi no, “se bisogna legalizzare o liberalizzare qualcosa, parliamo invece della prostituzione, visto che far l’amore fa bene sempre e farlo in maniera protetta e controllata medicalmente e sanitariamente è meglio”. Salvini è un fiume in piena. Ha trovato la vena d’oro e non intende mollarla fino al 26 maggio. Ancora verde di bile per la ritirata sul caso Siri, provoca gli alleati/sfidanti di governo: “Mi aspetto che il senatore dei 5 Stelle Mantero ritiri la proposta sulla droga libera (ma si tratta di un ddl per la legalizzazione della marijuana, ndr). Non è nel contratto di governo e non voglio lo Stato spacciatore”. Luigi di Maio ribatte: “La lotta alla droga è come la pace nel mondo: la vogliamo tutti. Non vedo perché si debbano creare tensioni nel governo per una cosa che noi sosteniamo. Il ministro Salvini vuole chiudere i negozi irregolari che vendono queste sostanze? Ben venga, perché se sono irregolari non possono stare aperti. Però lo pregherei anche di chiudere, ad esempio, le piazze di spaccio della camorra, della mafia, perché quando ci sono queste piazze di spaccio ci vanno di mezzo nelle loro guerre bambine di tre anni, come a Napoli”. Il timeout lo batte questa volta il premier Giuseppe Conte: “Ho un’agenda molto fitta. Non mi stravolgete l’agenda: questo (la chiusura dei cannabis light shop, ndr) non è all’ordine del giorno”. All’ordine del giorno ci sono in effetti le elezioni europee. Quell’Europa dove, se si esclude la Romania e poco altro, la vendita di prodotti a base di canapa non psicoattiva è il minimo sindacale. Perché, come fa notare il segretario Pd Nicola Zingaretti, che ridà un filo di voce all’opposizione, “sembra che questa rete di negozi abbia casomai sottratto al traffico illegale diverse risorse”. Cannabis, la manipolazione della verità di Marco Perduca Il Manifesto, 10 maggio 2019 “Da oggi comincia una guerra via per via, negozio per negozio, quartiere per quartiere, città per città. Via gli spacciatori, la droga fa male”. Chi parla è il Ministro dell’Interno Salvini, l’oggi o le misure previste per questo rigurgito proibizionista non sono (per ora) noti. Ferma restando la necessità della Lega di distrarre l’opinione pubblica dalle vicissitudini giudiziarie di molti suoi esponenti, non è la prima volta - né sarà l’ultima - che Salvini rilancia, anche se per ora sempre a chiacchiere, l’italica guerra alla droga. E lo fa applicando in pieno lo storico armamentario proibizionista: mischiare quanto legale con quanto illecito, elevare a norma aneddoti drammatici difficilmente verificabili, lanciare allarmi sulla pericolosità dei consumi senza differenziare tra sostanze, non citare studi sui rischi e danni permanenti che le “droghe” potrebbero comportare, lanciare la parola d’ordine che “non si può abbassare la guardia” e che “vinceremo!”. Se a destra persiste questa sistematica manipolazione di mezze verità - Forza Italia e Fratelli d’Italia sono compatti su questi temi -, dall’altra, sia che si tratti dei 5 Stelle o del “rinnovato” Partito Democratico, il silenzio è la risposta ufficiale: “abbassare i toni”. Tutti sedicenti “anti-proibizionisti” senza alcuna proposta o lotta politica riformatrice. Quando, non senza qualche problema logico, alla fine si arriva a decifrare cosa Salvini stia proponendo, ci troviamo di fronte al classico messaggio da “stato di polizia”. Un membro del governo ritiene che qualcosa abbia da fare e quindi usa quanto di sua (teorica) competenza, le forze dell’ordine, per dare seguito fattivo ai suoi ordini senza considerare il rispetto della Legge o delle procedure. Certo nessun governo dal 1990 ha messo mano alla legge sulla droga, come nessun esecutivo negli ultimi 30 anni ha modificato il Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive, Daspo, arrivando a consegnare a polizia e prefetti ampi margini di manovra per gestire fenomeni lontani dalle pericolosità paventate, ma qui stiamo parlando della chiusura manu militari di negozi con regolare licenza in virtù di una legge nel 2016, che anche la Lega ha votato, e che consente la commercializzazione di prodotti a base di cannabis per “uso tecnico o da collezione”. Tra l’altro alla Camera sono in corso audizioni per chiarire quale in effetti sia la destinazione d’uso di questi prodotti, mentre per il 31 maggio è attesa una decisione della Cassazione in merito alla possibile “frode in commercio” avanzata da alcuni. “Ringrazio le forze dell’ordine e la magistratura per la chiusura di cannabis shop a Macerata, Porto Recanati e Civitanova Marche su decisione della Questura. Sono sicuro che il ‘modello Macerata’ può essere replicato con successo in tutta Italia”. Ecco, il “modello Macerata” l’abbiamo già visto in azione, per l’appunto alla vigilia di altre elezioni, un modello che prevede da una parte chi fomenta l’odio, senza prendere chiaramente le distanze dalla violenza che ne segue, e pratica la mistificazione politica miscelando fatti marginali con banali e bieche malvagità, dall’altra l’immobilismo di chi non si assume la responsabilità di opporsi (anche in piazza) o proporre riforme radicali di fronte a leggi criminogene come quelle sulle “droghe”. Contro questo stato di cose occorre la politica e non la comunicazione o “abbassare i toni”, occorre chiarire quali siano le proposte per governare fenomeni antichi, globali e complessi ma, soprattutto, occorre praticare il modello di Stato che si vuole perseguire sempre e comunque. Droghe, la controffensiva di Di Maio di Ilario Lombardo La Stampa, 10 maggio 2019 Salvini attacca i cannabis shop: da oggi è guerra. Il M5S lo gela: prima chiuda le piazze dello spaccio. La misura tra la possibilità e l’impossibilità di chiudere un negozio di cannabis light, come vorrebbe Matteo Salvini, è contenuta in questa piccola cifra: 0,6 per cento. Una legge del 2016 stabilisce il commercio di prodotti a base di canapa, il cui contenuto di Thc sia inferiore allo 0,6 per cento. Dunque, la direttiva del Viminale annunciata ieri dal ministro dell’Interno andrebbe a sbattere contro una norma dello Stato già esistente. Tutto il resto è un altro giorno di ordinaria campagna elettorale. Un altro giorno di botta e risposta, di dispetti e ripicche a distanza. L’agenda delle lacerazioni è lunga. La cannabis è solo uno dei tanti campi di confronto mentre il rumore delle inchieste, soprattutto quella di Milano in cui risulta indagato il governatore leghista Attilio Fontana, interrogano i gialloverdi sul futuro della maggioranza. Salvini ha bisogno di nuove frontiere di lotta politica per riguadagnare il terreno perso nel corpo a corpo sulla revoca della carica al sottosegretario Armando Siri, indagato per corruzione. Per la Lega molto - o tutto - si giocherà su due proposte che trovano le resistenze del M5S: autonomia e flat tax. Ma non solo. Sul tavolo imbandito di tutte le fratture con i grillini, rispunta anche la Tav: “L’opera sta andando avanti, non prendiamoci in giro” spiega il viceministro leghista Massimo Garavaglia. Sono diversi temi che dopo il voto potrebbero causare il divorzio tra i soci di governo. Nei 5 Stelle non c’è troppa voglia di rimettere tutto in discussione, ma la campagna elettorale esige comunque una reazione. Luigi Di Maio per la prima volta in un anno parla gongolando per una vittoria sul fronte interno contro Salvini. E dopo aver fatto ritirare le deleghe a Siri contrattacca: “Gli ultimi sondaggi danno in ripresa il M5S e nella Lega sono andati in paranoia. Provocano e sparlano di tutto per prendere qualche voto in più”. Da parte sua, il vicepremier Salvini individua nella lotta alla droga un nuovo orizzonte di conflitto con i 5 Stelle. Decide di partire però dalla rete legale di vendita dei cannabis shop, quella serie di negozietti che commercializzano shampoo, creme, e altri prodotti a base di canapa. “Da oggi è guerra” annuncia Salvini con riferimento alla chiusura già realizzata di tre negozi nelle Marche. In realtà però in tutti e tre i casi le saracinesche sono state abbassate proprio perché dai controlli è risultata una infiorescenza di cannabis superiore allo 0,6 per cento. Andavano chiusi già per la legge esistente. Il testo della direttiva, infatti, si limita a chiedere “una puntuale ricognizione di tutti gli esercizi e le rivendite presenti sul territorio”. Le nuove aperture di “simili esercizi commerciali” dovranno prevedere “una distanza minima dai luoghi considerati a maggior rischio”, tipo scuole, ospedali, centri sportivi, parchi giochi. Mantero: avanti con la mia legge - Ma la campagna di Salvini ha un obiettivo politico a breve termine molto più preciso. È un senatore del M5S e il vicepremier gli punta il dito contro con tanto di nome e fotografia sui canali social. Matteo Mantero è l’autore di un disegno di legge per la legalizzazione della marijuana che prosegue il lavoro dell’intergruppo parlamentare della scorsa legislatura. “Non voglio uno Stato spacciatore” accusa Salvini, invitando Di Maio a far ritirare la proposta al suo parlamentare. Il capo politico del M5S però ribatte: “Mi auguro che questo non sia il solito tema di distrazione di massa che Salvini usa per coprire il caso Siri. Si occupi delle piazze dello spaccio”. E dalla Romania il premier Giuseppe Conte aggiunge: “Ho un’agenda con un ordine del giorno molto fitto, questo non è all’ordine del giorno”. Mantero conferma che non ritirerà la proposta e spiega : “La Costituzione dice che i parlamentari hanno la loro indipendenza dal governo. Inoltre Salvini dovrebbe chiarirsi. Ora ce l’ha con i negozi che vendono i fiori di canapa industriale, la cosiddetta cannabis light. La definisce droga: un po’ come se dicesse che il succo d’uva è uguale alla grappa”. Libi. L’Unhcr chiede di portare al sicuro i rifugiati detenuti a Tripoli articolo21.org, 10 maggio 2019 L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha lanciato un appello affinché i rifugiati e i migranti bloccati nei Centri di detenzione delle zone di Tripoli interessate dal conflitto siano immediatamente evacuati verso aree più sicure, dopo che un attacco aereo ha colpito un edificio a meno di 100 metri dal Centro di detenzione di Tajoura, in cui sono detenuti oltre 500 rifugiati e migranti. Le persone detenute attualmente a Tajoura sono più di 500, due delle quali sono ferite e richiedono assistenza medica. Con l’intensificarsi delle ostilità durante la notte di martedì, rifugiati e migranti sono rimasti intrappolati all’interno senza poter fuggire e mettersi in salvo. Date le violenze ininterrotte in corso a Tripoli e i rischi evidenti per le vite dei civili, è ora più che mai necessario che i responsabili dei Centri interessati autorizzino il rilascio immediato dei detenuti affinché possano essere portati in salvo. “A questo punto, i rischi sono semplicemente inaccettabili”, ha dichiarato Vincent Cochetel, Inviato Speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo Centrale. “Le persone detenute nei Centri di Tripoli sono minacciati da pericoli sempre maggiori, pertanto è di vitale importanza che siano evacuate immediatamente e messe in salvo”. Dallo scoppio del conflitto avvenuto lo scorso 4 aprile a Tripoli, l’Unhcr ha ricollocato oltre 1.200 persone da località ad alto rischio verso aree più sicure. Tuttavia, restano circa 3.460 ?rifugiati e migranti in Centri di detenzione che si trovano in prossimità di zone interessate dal conflitto. Non sono state effettuate nuove evacuazioni dalla Libia da quando, il 29 aprile, 146 persone sono state portate in Italia. L’Unhcr sollecita la comunità internazionale a mettere nuovamente a disposizione di rifugiati e migranti programmi quali corridoi umanitari e ricollocamento. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati esprime, inoltre, preoccupazione per l’utilizzo dei Centri di detenzione quali depositi di armi e attrezzature militari. Un simile utilizzo delle infrastrutture civili costituisce una violazione del diritto umanitario internazionale e deve essere assolutamente evitato. Emirati Arabi. Italiano in carcere ad Abu Dhabi per traffico di droga riceve la grazia L’Unione Sarda, 10 maggio 2019 L’italiano che l’anno scorso è stato arrestato negli Emirati arabi con l’accusa di essere un trafficante di droga è stato graziato e presto tornerà in patria. Massimo Sacco ha ricevuto il provvedimento di clemenza dall’emiro Khalifa bin Zayed al Nahyan anche grazie all’impegno dell’ambasciata italiana ad Abu Dhabi, in stretto raccordo con il ministero degli Esteri. Qualche mese fa, dal carcere di Abu Dhabi dove era rinchiuso, aveva lanciato un disperato appello alla compagna, che si era poi rivolta ad alcune trasmissioni tv italiane consegnando una registrazione audio. “Sto morendo”, diceva Sacco, le cui condizioni di microcitemia avevano provocato un aggravamento della situazione generale. “Rischio che a breve - diceva - la mia malattia si trasformi in una leucemia. La situazione è diventata drammatica e solo adesso stanno cercando di metterci una toppa. Vorrebbero curarmi dandomi del ferro, ma questo equivarrebbe a condannarmi a morte. I dottori degli Emirati Arabi non sanno neanche cosa sia la microcitemia, che pur essendo una grave forma di anemia non va in nessun modo curata con il ferro. Non ho più parole”. L’imprenditore era stato trovato in possesso di 10 grammi di cocaina e accusato di traffico internazionale di stupefacenti “senza nessuna prova oggettiva, hanno fatto di tutto per farmi confessare. Ho subito ricatti e botte atroci”.