L’astensione di noi penalisti per riportare le carceri nella legalità costituzionale di Riccardo Polidoro* Il Dubbio, 9 luglio 2019 Oggi si svolgerà la manifestazione nazionale nel Palazzo di giustizia di Napoli. L’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria rappresenta per gli avvocati penalisti una modalità di protesta estrema, proclamata quando è necessaria una forte e aspra critica nei confronti di scelte politiche non condivisibili, che destano grave allarme per il futuro della nazione. È un dissenso che mira al bene comune e mai alla difesa dei diritti della professione. Dall’iniziativa, inoltre, l’avvocatura non trae alcun vantaggio: il rinvio del processo non giova né al legale né all’imputato, in quanto sia i termini di prescrizione che quelli della misura cautelare vengono sospesi. L’astensione del 9 luglio, con la manifestazione nazionale nel Palazzo di Giustizia di Napoli, giunge dopo un lungo periodo di forti critiche alla politica del governo in materia di esecuzione penale. La strada imboccata è buia, senza uscita e in contrasto con i principi costituzionali. La detenzione in carcere come panacea di tutti i mali. Si dimentica che l’articolo 27 della Costituzione fa riferimento alle “pene” e non alla “pena”, poiché la reclusione è una delle possibili punizioni, ma non l’unica, e soprattutto deve sempre rappresentare, non solo in materia cautelare, la soluzione estrema. Una scelta, dunque, ideologicamente sbagliata che in diritto non trova alcuna possibilità di riscontro e, nella pratica, è palesemente e drammaticamente pericolosa perché rappresenta il colpo di grazia a un sistema penitenziario già oltre il collasso. La maggior parte degli istituti di pena presenta un sovraffollamento oltre il livello di guardia. La media nazionale, in costante aumento, sfiora il 130%. Al 30 giugno, secondo i dati del ministero della Giustizia, vi erano 60.522 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 50.496 unità. A tale ultima cifra va sottratta quella di 4.000 posti indisponibili perché relativi a spazi allo stato inagibili. Il sovraffollamento è dunque di pari a 14.026 persone recluse in più rispetto alla capienza. A tale drammatico dato si aggiunge quello delle piante organiche insufficienti. Mancano medici, educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, agenti di polizia penitenziaria e personale amministrativo. Gli edifici sono fatiscenti, alcuni addirittura con le mura di cinta pericolanti. Detenuti costretti a vivere in spazi angusti e insalubri, dove il caldo estivo rende la sopravvivenza impossibile. In carcere si muore. Nel 2018, 148 i decessi, 67 suicidi. Quest’anno al 2 luglio i morti sono 67 ed i suicidi 23. Circa un morto ogni due giorni. Nell’istituto di Napoli- Poggioreale, dal 28 giugno al 1° luglio, in tre giorni, vi sono stati due suicidi e un morto per malattia. Ma il filo nero della morte attraversa tutta l’Italia e i detenuti si ribellano. Come a Trento, Rieti, Sanremo, Spoleto, Campobasso, Agrigento, Trapani, Barcellona Pozzo di Gotto e anche a Poggioreale. Pur assuefatti a condizioni di vita disumane, i detenuti sono esasperati per il mancato soccorso di un malato grave, per l’insopportabile caldo, per la mancanza di acqua, per la continua offesa alla loro dignità. Rivolte che hanno visto padiglioni devastati e incendi. Azioni che vanno certamente non condivise ma che meritano un’analisi approfondita, perché sono il chiaro segnale che si è superato il limite della tollerabilità. Il conto da pagare, dopo le proteste, è molto alto: immediati trasferimenti in altri istituti e liberazione anticipata negata, che in termini pratici vuol dire parenti lontani e fare a meno di uno sconto di pena di 45 giorni ogni 6 mesi. Vanno accesi, dunque, ancora una volta i riflettori su un sistema per il quale è necessario trovare immediate soluzioni, mettendo mano a una serie d’iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità. La strada da percorrere è già tracciata ed è quella indicata dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, dai trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese, dagli Stati generali dell’Esecuzione penale, dalla legge delega approvata in Parlamento, dalle commissioni ministeriali per la riforma dell’ordinamento penitenziario, un percorso costituzionalmente orientato che ha visto, invece, il governo andare in direzione contraria, anche rispetto all’ideologia che spinse il legislatore del 1975 a scrivere l’ordinamento penitenziario. Allo stato si è dinanzi a una “contro-riforma di fatto” dell’ordinamento penitenziario. I trattamenti inumani e degradanti che sono costretti a subire molti detenuti in Italia sono destinati a colpire anche le nostre coscienze di uomini “liberi”. È tempo di decidere da che parte stare e manifestarlo. L’avvocatura, come sempre, è dalla parte della Costituzione, e l’astensione per l’emergenza carcere è l’ennesimo tassello di una battaglia di civiltà, non solo giuridica, che ha visto spesso silenti altri componenti del mondo giudiziario. *Avvocato, responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane Bonafede alle celebrazioni del 202esimo anniversario della Polizia penitenziaria di Valentina Stella Il Dubbio, 9 luglio 2019 “Il vostro lavoro è fondamentale anche per chi è fuori dal carcere”. Ieri si sono svolte a Roma, in piazza del Popolo, le celebrazioni del 202esimo anniversario del Corpo della Polizia penitenziaria. In apertura, dopo la sfilata del reparto d’onore, è stato letto il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha sottolineato come: “La polizia penitenziaria opera quotidianamente, spesso in condizioni oggettivamente problematiche, con spirito di servizio e alto senso dell’Istituzione per garantire il mantenimento dell’ordine e la sicurezza dei detenuti. La stessa, in sinergia con gli altri operatori del settore, contribuisce in modo significativo al complesso percorso di rieducazione dei detenuti, in attuazione degli obblighi in tal senso previsti dalla Costituzione. Ad essa spetta il difficile compito di far fronte alle sempre più frequenti situazioni di tensione e di sofferenza proprie della realtà carceraria, acuite dal problema del sovraffollamento”. A seguire l’intervento del capo del Dap, Francesco Basentini: “Le difficili condizioni degli istituti penitenziari, dovute a una presenza di detenuti pari a 60.419 al 4 luglio, la gestione di costoro, con il carico di problematiche personali e sociali, e dei differenti circuiti detentivi relativi al livello di pericolosità, costituiscono il complicato contesto nel quale il nostro personale opera, testimoniando un alto senso di professionalità e umanità all’altezza di una civiltà democratica ed evoluta quale è quella del nostro Paese”. Ha poi aggiunto: “Nel corso del 2018 la polizia Penitenziaria ha tradotto un totale di 295.878 detenuti tradotti: il sistema di video conferenze, già utilizzato in numerosissimi collegamenti, consente di abbattere notevolmente le traduzioni e costituisce uno strumento che, ove implementato ed esteso, permetterà di raggiungere importantissimi livelli di sicurezza, anche processuale, evitando quei gravissimi episodi di violenza che in qualche caso hanno avuto luogo nelle aule di udienza ai danni degli operatori di giustizia”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha voluto subito inviare un “abbraccio commosso” ai familiari degli agenti che hanno perso la vita in servizio. Poi ha sottolineato il “ruolo centrale” del Corpo “per la giustizia italiana”. “Questo patrimonio - ha proseguito Bonafede - non era stato adeguatamente valorizzato. Il mio messaggio è chiaro: è finito il tempo del lavoro nell’ombra; è arrivato il momento di dare alla polizia penitenziaria la luce che merita. È il momento di riconoscere che se un detenuto viene rieducato e non torna a delinquere è soprattutto grazie al contributo fondamentale dato da questo corpo di polizia che vive e lavora letteralmente alla frontiera, in quella delicatissima zona di contatto tra lo Stato e chi ne ha violato le regole. Tutti i progetti di rieducazione e reinserimento dei detenuti a cui stiamo lavorando rimarrebbero sulla carta senza il vostro indispensabile apporto. Per questo il lavoro del Corpo è fondamentale anche per la collettività che è fuori dal carcere”. “In passato - ha continuato il Guardasigilli - qualcuno pensava di risolvere i problemi di sovraffollamento con gli indulti e i provvedimenti svuota-carceri, che minavano alla base il principio della certezza della pena e non risolvevano mai nulla. Per migliorare le vostre condizioni di lavoro e insieme le condizioni di vita dei detenuti abbiamo deciso di affrontare seriamente il problema e avviare tutta una serie di lavori di ordinaria e straordinaria manutenzione nelle carceri esistenti nonché la realizzazione di nuove strutture”. Presenti, tra gli altri, alla cerimonia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, i vicepresidenti del Consiglio, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, i vicepresidenti della Camera, Mara Carfagna e Fabio Rampelli, i Ministri Trenta, Bongiorno, Fraccaro, i sottosegretari alla Giustizia, Ferraresi e Morrone, il vicepresidente del Csm Ermini. In rappresentanza del Consiglio Nazionale Forense ha partecipato la consigliera Isabella Stoppani. Puniti i Pm tardivi, più poteri al Gup, riti alternativi estesi: ecco la riforma di Bonafede di Errico Novi Il Dubbio, 9 luglio 2019 Domani l’ultimo tavolo sul processo penale con avvocati e Anm. Certo è che domani potrebbe essere completata una prima importante tappa del percorso ipotizzato dal guardasigilli. Alle 16 è fissata la riunione conclusiva del “tavolo” con avvocati e magistrati sulla riforma. Bonafede presenterà le pochissime modifiche alla bozza sulla quale c’era stato il consenso di massima già ad aprile, sia da Cnf, Ocf e Ucpi che da parte dell’Anm. Si valuterà se c’è margine per qualche ulteriore minimo correttivo. Dopodiché il ddl delega sarà pronto per essere discusso, forse già entro la fine della settimana, in Consiglio dei ministri. Poi si dovrà consegnare la legge delega alle Camere, ottenere il via libera e rimandare in Parlamento i decreti legislativi, che vanno comunque sottoposti al parere di deputati e senatori. Il tutto entro il 31 dicembre. Possibile? Bonafede è determinato a farlo. E, come fanno notare a via Arenula, “sarebbe paradossale se a rallentare fosse proprio la Lega, che dovrebbe avere tutto l’interesse a completare la riforma penale prima che entri in vigore la nuova prescrizione”. Di sicuro, per accelerare l’iter, si darà precedenza alla parte del ddl delega relativa al processo, sia penale che civile. I decreti che riguardano l’altro capitolo della riforma, dedicato al Csm, saranno definiti dopo. E in ogni caso, quella parte del testo di Bonafede sarà “aperta”. Con pochi dettagli e una semplice indicazione degli obiettivi. Le modifiche alla procedura penale e civile saranno invece richiamate con puntualità, pur senza precludere limature in Parlamento. Ma per il civile la strada pare suscettibile di ben poche correzioni, considerato che la mediazione trovata al tavolo con avvocatura e Anm è stata più faticosa. Nel testo di partenza, via Arenula aveva ipotizzato, per esempio, di cristallizzare l’atto introduttivo con preclusioni e decadenze istruttorie, poi accantonate. Nel processo penale c’è invece ancora qualche margine di oscillazione. Se n’è avuta prova indiretta dal botta e risposta a cui hanno dato vita, nell’ultimo week end, lo stesso Bonafede e il nuovo presidente dell’Anm Luca Poniz. Dietro le obiezioni della magistratura per i tempi troppo stretti lasciati alla discussione finale, c’è in realtà il dissenso del “sindacato” su una norma specifica: il vincolo, per il capo dell’ufficio inquirente, a segnalare a fini disciplinari il ritardo del pm nel chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Dall’altro fronte, però, c’è la richiesta dell’Unione Camere penali, perplessa per il fatto che, allo stato, non è attribuita al gip la facoltà di verificare la tempestiva) iscrizione a registro - da parte del pm delle persone indagate. I penalisti hanno chiesto, finora senza esito, anche di subordinare a un contraddittorio la concessione delle proroghe. Parziali motivi di insoddisfazione su cui si discuterà domani. Resta invece fermo l’innalzamento generalizzato a 12 mesi del termine ordinario per le stesse indagini preliminari. Possibilità di chiedere e ottenere dal gip una proroga “per giusta causa” di 6 mesi, e di ulteriori 6 mesi solo per i reati più gravi e i casi di maggiore complessità. Scoccato comunque il termine invalicabile (di 18 o di 24 mesi, a seconda del reato), il titolare dell’inchiesta ha l’obbligo di esercitare l’azione penale o di chiedere l’archiviazione. Se non lo fa, il fascicolo è messo a disposizione della difesa 90 giorni dopo e nel frattempo, appunto, il pm ritardatario resta esposto alla segnalazione disciplinare. Si tratta della modifica più rilevante. Ce ne sono altre che riguardano sempre la fase preliminare innanzitutto la norma che vincola il magistrato che indaga a presentare “al giudice” la “richiesta di archiviazione” quando “ritiene che gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere utilmente l’accusa in giudizio”. A tale responsabilizzazione corrisponde l’accresciuto potere di “filtro” attribuito al Gup, a sua volta chiamato in modo esplicito a pronunciare “sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Un capitolo importante della riforma penale è dedicato ai riti alternativi, vera chiave dei tempi del processo sia dal punto di vista di Cnf, Ocf e Ucpi che per l’Anm. Col patteggiamento, in particolare, sarà possibile ridurre la pena “sino alla metà” sia nel caso delle “contravvenzioni” sia per i “delitti” qualora la “richiesta di applicazione della pena intervenga durante la fase delle indagini”. Rimosse le “preclusioni oggettive (al patteggiamento, ndr) previste nell’art. 444 co. 1 bis codice di procedura penale”. Eliminate anche le “preclusioni soggettive”. E soprattutto, è innalzata la pena massima che può essere richiesta dalle parti. Ai due binari principali, indagini e riti alternativi, si aggiungono vari assi secondari ma pure utili: le diverse possibilità, ad esempio, di pervenire comunque alla definizione accelerata del procedimento anche quando il giudice respinge la richiesta di giudizio immediato. Non si tratta di rivoluzioni ma di un restyling mirato. E realizzato, soprattutto, secondo le indicazioni di avvocati e magistrati, cioè con l’apporto di chi davvero conosce le cause che rallentano la macchina. Difficile sapere se basterà, ma le incertezze non paiono giustificare ulteriori esitazioni politiche. Le tre svolte per cominciare a progettare una giustizia all’altezza del ventunesimo secolo di Francesco Grillo* Il Dubbio, 9 luglio 2019 Le vicende che hanno travolto il Consiglio Superiore della Magistratura rischiano di compromettere ulteriormente la residua fiducia che gli italiani hanno nelle proprie istituzioni. E, tuttavia, il problema è antico perché è da quasi trent’anni che in Italia si parla di crisi e di riforma della giustizia. Più o meno da quando è nata la cosiddetta Seconda Repubblica dalle ceneri dell’indagine giudiziaria che segnò una svolta nella storia del Paese. Sulla giustizia l’Italia ha uno dei peggiori tra i suoi (non pochi) problemi. Lo confermano i riscontri delle classifiche della Banca Mondiale che misurano quanto diversamente capaci sono i Paesi del mondo nel far rispettare i contratti tra imprese e tra cittadini: l’Italia, nella classifica pubblicata nel 2019, è al 111esimo posto, subito prima dell’Algeria e precedendo in Europa solo la Grecia; nel 2004, quando le analisi della Banca Mondiale cominciarono ad essere pubblicate in maniera sistematica eravamo nella stessa posizione. Con 1.120 giorni che, in media, ci vogliono per arrivare a una sentenza, scontiamo tempi della giustizia che sono due volte più lenti nei paesi con i quali dovremmo competere (in Germania e Spagna una sentenza arriva mediamente dopo 500 giorni, in Francia e nel Regno Unito ce ne vogliono 400) e che in dieci anni si sono accorciati del 10%. Ciò che è avvilente è il tanto rumore per nulla. Sulla giustizia, così come sulle e grandi riforme di cui l’Italia avrebbe bisogno di tornare ad essere Paese normale, sono state spese montagne di capitale politico e parole, producendo solo topolini di mezze riforme mai davvero capaci di creare l’aspettativa - fondamentale per poter dedicarci a crescere e ad innovare - di tornare a vivere in uno Stato di diritto. Ed anche sulla giustizia è come se fossimo fermi - da decenni appunto - sulla linea del fronte di una guerra di trincea tra due eserciti, due ideologie che, in fondo, hanno un bisogno per giustificare la propria legittimità politica. Tutti fermi mentre nel frattempo ai ritardi dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei si aggiunge, ormai, il ritardo dell’intero Occidente liberale rispetto a tecnologie che possono cambiare profondamente il mestiere di giudici, avvocati, forze dell’ordine. Per uscire dalla paralisi sono necessari almeno tre cambiamenti radicali nell’approccio al dibattito sulla giustizia. Non possiamo più continuare a parlare di giustizia come se fosse una lotta tra poteri (politica e magistratura) alla quale i cittadini assistono come se fosse una saga televisiva senza fine. Il bisogno assoluto di giustizia, invece, riguarda la quotidianità di tutti. A tutti, del resto, capita almeno una volta nella vita, di dover recarsi in un tribunale “civile” e di fare - in primissima persona - una delle esperienze che maggiormente dicono come la civiltà di questo Paese stia scomparendo. In secondo luogo, ed è conseguenza della prima considerazione, dovremmo cominciare a considerare la giustizia, un servizio pubblico. Giustissimo difendere e rafforzare l’indipendenza della magistratura dalla politica, ma il punto vero è trovare gli strumenti - equilibrati - per far “dipendere” la giustizia dal risultato che riesce a garantire a chi ne paga il costo (i contribuenti). Non c’è possibile riforma se essa non utilizza la domanda, l’intelligenza diffusa di una società che se trascurata regredisce. Vanno sperimentati, prima, e istituzionalizzati, poi, meccanismi intelligenti per far arrivare al sistema segnalazioni di problemi; così come deve essere possibile aggregare tali segnalazioni e trasformarle in richieste di miglioramento. Non è più impensabile, del resto, che, persino, alcuni dei componenti degli organi di governo della magistratura siano scelti - tra chi ne possiede requisiti - o confermati attraverso consultazioni popolari. Da disegnare con cautela ma con la consapevolezza che le procedure attuali non funzionano più (e del resto c’è chi - tra gli studiosi delusi di tante riforme a metà - propone il ricorso ai sorteggi). In terzo luogo, se è di un servizio pubblico che parliamo, le riforme di cui abbiamo bisogno non possono essere fatte solo dagli addetti ai lavori (solo dai costituzionalisti, dagli avvocati e dagli stessi magistrati). È così per due ragioni. La prima - banale - sta nei conflitti di interesse che, inevitabilmente, si porta dietro chi sa che dalla trasformazione dipende la propria professione. La seconda - ancora più importante - ha a che fare con il problema cognitivo che, di fronte a modifiche radicali indotte dalle tecnologie, vive, paradossalmente, chi è esperto e ha sempre vissuto in un certo mondo che rischia l’obsolescenza tecnologica. Il cambiamento sarà organizzativo oltre che costituzionale. Sarà fatto di incentivi che regolarmente responsabilizzino gruppi a cercare miglioramenti continui; piuttosto che di punizioni minacciate - in casi assolutamente eccezionali - nei confronti di singoli individui (e, anzi, dovremmo, forse, superare l’idea stessa del giudice che monocraticamente decide). Per governare la trasformazione sarà indispensabile più il contributo di chi è abituato a gestire organizzazioni che processano informazioni per arrivare a decisioni complesse, che giudici che - part time - si improvvisino a governare una macchina che dovrà essere profondamente ripensata. Infine le tecnologie: possono fare moltissimo; ma l’intelligenza artificiale per essere applicata avrà bisogno di leggi molto più chiare (e meno numerose) e di interfacce che consentano all’uomo di poter, infine, usare la propria capacità di giudizio. Abbiamo bisogno di molto meno retorica e di meno ideologia interessata. E di molto più pragmatismo. Di molto più rispetto sostanziale per una società che senza nuovi patti sociali, non ha futuro. Sono questi gli ingredienti di cui avremmo bisogno per cominciare ad articolare un progetto su come adeguare la giustizia al ventunesimo secolo. Giustizia che, persino, Adamo Smith, l’inventore dell’idea che i mercati si regolano da soli, assegnava allo Stato come funzione capace da sola di legittimare l’esistenza dello Stato stesso per evitare che una società degenerasse nell’abuso reciproco. *Visiting scholar a Oxford University, associato al Sant’Anna e direttore del think tank Vision Per sconfiggere la corruzione la scuola conta più dei tribunali di Ottavia Ortolani* Corriere della Sera, 9 luglio 2019 Secondo le elaborazioni dell’ASviS, con riferimento al Goal 16, nel nostro Paese si registra una tendenza negativa fino al 2014, per poi registrare un progressivo miglioramento. Tuttavia molto resta ancora da fare, soprattutto sul tema della durata dei procedimenti civili nei tribunali ordinari, nel 2017 attestata oltre i 445 giorni di media. Per superare questo stato di criticità il Processo civile telematico è stato esteso a nuovi ambiti, incrementandone l’utilizzo e quindi favorendo una riduzione dei costi del sistema. Il target 16.5 si propone di “ridurre sostanzialmente la corruzione e la concussione in tutte le loro forme”, fenomeni che rappresentano una zavorra non solo in termini sociali e giuridici ma anche a livello economico e per l’intera comunità dì cittadini. Sul tema della lotta alla corruzione si evidenzia come positiva la legge sul whistleblowing, a tutela dei lavoratori che segnalano e denunciano condotte illecite. Inoltre l’importanza della trasparenza per garantire “l’accesso alla giustizia per tutti” (target 16.3) “l’accesso del pubblico alle informazioni” (16.10) trova riscontro nei progressi registrati su Open data e accesso al patrimonio informativo dei dati pubblici. In questo ambito un importante strumento di attuazione è rappresentato dal Foia (Freedom of Information Act). i principi di informazione, accesso e trasparenza infatti, se messi in atto attraverso l’uso di adeguati strumenti di innovazione digitale, rappresentano una fondamentale precondizione per evitare l’insorgere di fenomeni di gestione opaca che potrebbero essere complici di atti e comportamenti di natura corruttiva e concussi va. Un crescente impegno delle istituzioni per sviluppare e favorire i principi propri dell’open government, consolidando il percorso avviato con l’Open Government Partnership (Ogp Italia) potrebbe pertanto garantire un migliore rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione. Anche numerose ricerche internazionali, come il recente “Sdg Progress Report 2019” curato e dall’Institute for Economics & Peace, confermano come trasparenza amministrativa, accesso alla giustizia, solidità delle istituzioni e tasso di violenza delle società siano tutti fattori intrinsecamente legati allo sviluppo economico di un Paese e all’attrattività per gli investimenti provenienti da altre parti del mondo. Un’ulteriore riprova non solo dell’impatto dell’Obiettivo 16 sul sistema macroeconomico, ma anche dell’integrazione tra dimensione economica, sociale, istituzionale e ambientale: considerazione che costituisce l’essenza dello sviluppo sostenibile. Infine, per rafforzare la cultura della legalità, l’ASviS propone di accrescere la presenza di questo tema nei programmi scolastici. Va in questa direzione la recente decisione della Camera dei Deputati che lo scorso 2 maggio ha approvato una proposta di legge dal titolo “Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica” come già riportato nella overview del Goal. Naturalmente gli Obiettivi dell’Agenda 2030 costituiscono il fil rouge di questo programma e l’ASviS ha già messo a disposizione degli attori istituzionali l’elevato patrimonio di conoscenza di cui dispone. *Referente per il Gruppo di lavoro sul Goal 16 Desaparecidos “italiani”, 24 ergastoli ai militari sudamericani del Piano Condor di Paolo Brogi Corriere della Sera, 9 luglio 2019 Ribaltata in Appello la sentenza di primo grado: condannati tutti i responsabili delle vittime “italiane”. Tra cui Jorge Troccoli, l’unico che vive nel nostro Paese. La gioia dei familiari degli scomparsi. Ventiquattro ergastoli per i militari latinoamericani del Piano “Condor”. Storica sentenza a Roma nell’Appello del processo ai principali esecutori del piano di intelligence con cui fu data la caccia negli anni 70 agli oppositori dei regimi militari del cono Sud dell’America Latina, dal Cile all’Argentina alla Bolivia all’Uruguay e al Paraguay interessando poi anche il Brasile. La sentenza d’appello della Corte di Assise di Roma ha “riformato” la sentenza di primo grado che si era fermata a otto ergastoli e diciannove assoluzioni. Tutti condannati invece oggi i superstiti del gruppo portato alla sbarra, assottigliato dai decessi che hanno ridotto da 33 a 24 gli imputati. Tra loro numerose figure “istituzionali” come il peruviano Francisco Morales-Bermudez presidente del Paese dal ‘75 all’80, l’ex ministro degli esteri uruguaiano Juan Carlos Blanco e il presidente della Bolivia nel 1980 e 1981 Garcia Meza Tejada. Tra i condannati anche l’uruguaiano Jorge Troccoli che da oltre una decina di anni vive in Italia, l’unico ad affrontare il processo come non contumace. La sentenza della Corte d’appello presieduta da Agatella Giuffrida è stata accolta da un coro di giubilo da parte dei numerosi parenti delle vittime del Piano Condor. Aurora Meloni, vedova di Daniel Banfi “vittima” in Uruguay della repressione golpista, dichiara subito “la grande emozione che le ha trasmesso la sentenza” e aggiunge: “Questo dimostra che si può fare giustizia”. Sulla stessa linea Maria Paz Venturelli, figlia del “desaparecido” italo cileno Omar Venturelli, che ricorda: “Ai due militari condannati in primo grado per l’eliminazione di mio padre, Hernan Jeronimo Ramirez Ramirez e Valderrama Ahumada, ora si sono finalmente aggiunti anche Daniel Aguirre Mora e Orlando Moreno Vasquez. Aspettavo da tempo questo giorno...”. L’uruguaiano Nestor Gomez fratello di Celica sequestrata in Argentina e poi uccisa in Uruguay si limita a dire: “Finalmente”. All’udienza erano presenti anche rappresentanti istituzionali latinoamericani come il viceministro della giustizia boliviano, Diego Jimenez che ha commentato: “Da Roma parte un grande messaggio per i popoli che lottano contro l’impunità”. Iniziato in aprile il processo di appello si è dunque concluso oggi con una netta correzione di rotta rispetto al processo di primo grado celebrato dal febbraio 2015 al gennaio 2017 nell’aula bunker di Rebibbia. A tanti anni di distanza dai fatti, lontani negli anni 70, non è stato sempre facile raccogliere le prove documentali per le responsabilità degli imputati, accusati di crimini molto violenti e talvolta spietati. La condanna di primo grado sembrava seguire la filosofia della responsabilità generale dei condannati in ordine ai reati invocati. Una responsabilità che ora la Corte d’appello ha rovesciato sull’intero plotone degli accusati. In questo contesto emerge la vicenda specifica del capitano di vascello Jorge Troccoli riuscito finora a sfuggire alle condanne dei tribunali dopo essere fuggito dal suo paese in cui era sotto processo. Troccoli che vive nel salernitano si è presentato in un paio di occasioni in udienza e con una dichiarazione si era dichiarato “innocente”. In precedenza era stato oggetto di un arresto e poi di una scarcerazione. Contro di lui pesa però anche il contenuto di un suo libro di memorie uscito nel 1998, “L’ira del Leviatano”, in cui senza troppi giri di parole ha giustificato il ricorso alla tortura che comunemente veniva eseguito nei luoghi di reclusione giustificando il tutto perché “in guerra”. Troccoli al tempo era il dirigente del servizio segreto Fusna. Al momento Troccoli è a piede libero in attesa che l’iter giudiziario si concluda in Cassazione. Una posizione che sarà oggetto di valutazione da parte della Procura della repubblica. La sorte dei Marò nelle mani dell’Aja. L’Italia sfida l’India di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 9 luglio 2019 Al via l’udienza di arbitrato internazionale. È stato duro l’ambasciatore Francesco Azzarello davanti al Tribunale arbitrale internazionale dell’Aja: “Agli occhi dell’India non c’è presunzione di innocenza: i Marò erano colpevoli di omicidio ancora prima che le accuse fossero formulate”. Si è aperta così ieri l’udienza per decidere se i due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, dovranno essere giudicati in Italia e se la competenza sarà a carico di una corte indiana. Un procedimento che potrebbe durare fino al 20 luglio e una decisione finale entro sei mesi. Da parte sua, il rappresentante dell’India, il sottosegretario agli Esteri G. Balasubramanian, ha insistito che “la giurisdizione è chiaramente indiana perché l’India e i due pescatori sono le uniche vittime della vicenda”. La tesi avanza da New Delhi è che, essendo il fatto avvenuto al largo delle coste del Kerala, la sentenza deve essere pronunciata dai giudici indiani. L’Italia dal canto suo punta soprattutto su considerazioni di natura umanitaria definite rilevanti in quanto i fucilieri di Marina alla fine “saranno stati privati, a vari livelli, della loro libertà senza alcuna imputazione per otto anni”. Dal punto di vista prettamente legale Latorre e Girone sono da considerarsi “funzionari dello Stato italiano nell’esercizio delle loro funzioni in acque internazionali e quindi immuni dalla giustizia straniera. Sulla vicenda è intervenuta anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta che attraverso Facebook ha espresso la sua vicinanza ai militari: “Cari Salvatore e Massimiliano, non siete soli. Ne voi, ne le vostre famiglie. Vi mando un forte abbraccio a nome del governo e di tutta la Difesa”. Si tratta di una vicenda che risale al 2012 quando i due marò, imbarcati come scorta sulla nave mercantile Enrica Lexiè, che navigava in acque a rischio di pirateria, furono accusati di aver ucciso due pescatori indiani, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, al largo della costa di Kerala. I due militari furono fermati e trasferiti nel carcere di Trivandrum per ordine del tribunale di Kollam. Successivamente, nel mese di maggio l’Alta Corte del Kerala concesse la libertà con una cauzione di 10milioni di rupie. Inoltre venne stabilito l’obbligo di firma e il ritiro del passaporto. Il ritorno in Italia avvenne una prima volta in occasione delle festività natalizie, due settimane ma con l’imposizione di un nuovo volo in India. Durante la permanenza vennero ascoltati dal procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldi. Poi ancora in Italia per le elezioni politiche del 2013. In questa occasione il governo sembrava intenzionato a trattenerli ma poi cambiò idea, una vicenda che provocò un terremoto politico con le dimissioni del ministro degli Esteri del governo Monti Giulio Terzi. L’anno successivo la Corte Suprema indiana respinse le istanze di Girone e Latorre per un definitivo ritorno in terra italiana. Una situazione bloccata che fece prendere all’Italia la decisione di ricorrere ad un arbitrato internazionale nel giugno del 2015. Roma si impegnò affinché Latorre rimanesse a casa, dove nel frattempo era già tornato per motivi di salute. Inoltre tre anni fa il Tribunale Arbitrale dispose anche il rientro in patria di Girone fino alla conclusione del procedimento. L’obeso non ha diritto ai domiciliari di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2019 Non ha diritto agli arresti domiciliari il detenuto obeso. Non basta tale “afflizione aggiuntiva” per far considerare disumano il trattamento penitenziario. È quanto hanno deciso gli Ermellini con la sentenza n. 28536/2019. La vicenda finisce all’attenzione della S.C. dopo il no del tribunale di sorveglianza di Milano che aveva respinto l’istanza dell’uomo finalizzata ad ottenere la misura alternativa della detenzione domiciliare, a causa delle sue precarie condizioni di salute. Non soddisfatto del niet ricevuto, il detenuto si rivolgeva alla Cassazione lamentando che il tribunale non aveva compiuto una approfondita valutazione del suo stato di salute, né si era premurato di procedere a perizia. Anche per i giudici del Palazzaccio, però, le sue tesi on reggono. Per la quinta sezione penale, infatti, il tribunale di sorveglianza ha dato atto di quanto emergeva dalle relazioni sanitarie ed ha spiegato che non si evinceva una condizione di incompatibilità tra la situazione clinica del detenuto e la sua restrizione carceraria. E, in questa logica, ha correttamente evidenziato come pur a fronte di alcune patologie le condizioni cliniche dell’interessato non subissero pregiudizio per il protrarsi del regime carcerario. Già in altre occasioni, la Corte ha avuto modo di ribadire come “il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’art. 11 della legge 26 luglio 1975 n. 354 (cfr. Cass. n. 37216/2014)”. Nel caso di specie, invece, le cattive condizioni di salute del detenuto, indotte dalla sua condizione di obesità, pur generando a suo carico “una afflizione ulteriore non necessaria ed aggiuntiva”, ciò non valeva a fare del relativo trattamento in essere una espiazione contraria al senso di umanità. Inevitabile la sofferenza aggiuntiva in carcere. La sofferenza aggiuntiva, ha spiegato quindi la Cassazione, “è, comunque, inevitabile ogni qual volta la pena debba essere eseguita nei confronti di soggetto che non risulti in perfette condizioni di salute. L’espiazione può, tuttavia, assumere rilievo solo quando si appalesi, presumibilmente, di entità tale - in rapporto appunto alla particolare gravità delle condizioni cliniche - da superare i limiti dell’umana tollerabilità”. Seguendo questa logica, dunque, correttamente il tribunale non ha ritenuto di disporre perizia, poiché non si trattava di verificare la consistenza del quadro clinico del detenuto, su cui concordavano le diverse relazioni, ma di verificare piuttosto se lo stesso fosse o meno compatibile con il regime carcerario e se la condizione di obesità fosse tale da rendere il trattamento non conforme al senso di umanità. Per cui il ricorso è inammissibile e l’uomo resta in carcere. Indagini difensive in carcere: giudice può valutare legittimazione del difensore di Michela Anna Guerra altalex.com, 9 luglio 2019 Per la Cassazione (sentenza n. 28216/2019) il giudice deve poter valutare l’esistenza di un interesse concreto, diretto e attuale, al compimento dell’atto. In tema di indagini difensive, sulla richiesta di autorizzazione del difensore all’assunzione di informazioni da persona detenuta ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen., il giudice, senza sindacare il merito dell’atto istruttorio, ha un potere di valutazione del titolo di legittimazione, costituito non dal mero mandato difensivo ma dall’indicazione dell’addebito per il quale si procede e dal legame della persona da sentire con il tema di indagine, in modo da consentire al giudice stesso, e prima ancora al pubblico ministero e al difensore della persona detenuta, di apprezzare l’esistenza di un interesse concreto, diretto ed attuale al compimento dell’atto. È quanto afferma la Prima Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione con sentenza 27 giugno 2019, n. 28216 (scarica il testo in calce). La vicenda - La vicenda nasce a seguito del rigetto da parte del Magistrato di sorveglianza di Avellino della richiesta del difensore di un indagato di autorizzazione all’accesso, ex art. 391-bis, comma 7, cod. proc. pen., alla Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi al fine di svolgere l’esame di un altro detenuto. Un precedente provvedimento dello stesso Magistrato aveva già rigettato la medesima richiesta in ragione dell’omesso adempimento dell’onere di specificazione dell’oggetto, delle ragioni e dell’utilità dell’incombente istruttorio. Rispetto alla nuova richiesta, acquisito il parere della Dda di Napoli, la quale aveva ribadito la necessità che la richiesta specificasse oggetto e utilità istruttoria dell’atto, il Magistrato aveva rilevato che l’esistenza di tale onere si desume dall’art. 391-bis cod. proc. pen., che annovera, tra gli avvisi obbligatori da darsi prima del compimento dell’audizione, anche quello relativo allo scopo dell’atto. Da qui la conclusione che debbano essere esplicitati gli elementi da cui desumere oggetto ed utilità dell’atto. Peraltro, siccome il soggetto da esaminare deve essere avvertito dell’obbligo di dichiarare se è indagato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso o collegato, occorre che sia messo a conoscenza di elementi di merito da cui potersi desumere l’eventuale sussistenza di profili di connessione o collegamento con i procedimenti a suo carico. Osservato che detto onere non è stato adempiuto il Magistrato aveva rigettato la richiesta. Il ricorso per cassazione - Avverso il provvedimento ha proposto ricorso il difensore dell’indagato che deduceva il vizio di abnormità poiché attraverso il provvedimento impugnato si è preteso di esercitare un potere non riconosciuto dalla legge. Il giudice aveva acquisito in modo irrituale il parere della Dda e non aveva considerato che gli atti di indagine del difensore non devono essere autorizzati da alcuna Autorità giudiziaria. L’autorizzazione del giudice è prevista soltanto per legittimare il difensore dell’indagato ad accedere all’Istituto di pena e non per valutare l’utilità dell’atto, che peraltro non può che essere rimessa all’apprezzamento insindacabile della difesa. La richiesta di precisazione dell’oggetto e dello scopo dell’atto si risolve in una indebita violazione del diritto di difesa perché pregiudica l’interesse a non rivelare anticipatamente il risultato atteso dalle indagini. La decisione - La Suprema Corte nel decidere sul ricorso de quo lo rigettava, specificando innanzitutto che il diniego dell’autorizzazione a ricevere dichiarazioni o assumere informazioni da persona detenuta non è impugnabile, perché la legge non prevede la possibilità di esperire contro tal provvedimento alcun mezzo di impugnazione e nel caso di specie non è neppure un provvedimento abnorme (condizione che avrebbe consentito di superare l’inoppugnabilità, per varie ragioni. Innanzitutto, il ricorrente ha proposto richiesta di autorizzazione per conferire con un soggetto detenuto, poi reiterata negli stessi termini, senza indicare i dati essenziali ai fini di una compiuta valutazione di quanto richiesto. L’art. 391-bis cod. proc. pen. al comma 7 prescrive la necessita di una “specifica autorizzazione”. Occorre allora, per dare senso alla previsione di legge, che la richiesta fornisca le informazioni necessarie sia a un utile intervento del difensore dei soggetto detenuto e del pubblico ministero. Una richiesta che si limiti a sollecitare l’autorizzazione, senza nulla dire sul tema di prova entro cui si svolgerà l’atto di investigazione difensiva e, quindi, sulla particolare posizione che, rispetto ad esso, potrà assumere il soggetto da esaminare, non pone il giudice nelle condizioni per esercitare il potere di autorizzazione che la legge gli attribuisce. Così formulata, la richiesta è talmente generica da risultare inammissibile e l’inammissibilità impedisce di valutare l’atto di diniego in termini di abnormità, seppure la motivazione della mancata autorizzazione non sia, per una parte, conforme a diritto. Il giudice, contrariamente a quanto assume il ricorrente, ha dunque un potere di valutazione della richiesta difensiva. Invero, se la legge avesse inteso evitare ogni valutazione sulla richiesta difensiva, non avrebbe certo chiamato il giudice al rilascio dell’autorizzazione e, con ogni probabilità, avrebbe affidato al direttore dell’istituto penitenziario di detenzione il compito di riscontrare la richiesta, a quel punto valutabile soltanto come richiesta di accesso in carcere. Il potere di autorizzazione del giudice non implica però alcun sindacato sul merito dell’atto per il quale è fatta richiesta. La valutazione attiene piuttosto al titolo di legittimazione per lo svolgimento dell’attività investigativa. Entro questi ristretti confini possono interloquire sia il pubblico ministero che il difensore della persona ristretta in carcere; ed è questo il parametro a cui il giudice deve rapportarsi per la decisione. Occorre, pertanto, che siano indicati l’imputazione o l’addebito per il quale si procede nei confronti della persona assistita dal difensore che intende esaminare la persona detenuta, e che sia descritto il legame con quel tema di indagine della persona da sentire, in modo che si possa apprezzare l’esistenza di un interesse meritevole di tutela e valutare un interesse diretto, concreto ed attuale al compimento dell’atto. Nel caso de quo la richiesta è stata disattesa perché il difensore non ha specificato “l’oggetto e l’utilità istruttoria dell’atto”. La motivazione del rigetto è solo in parte conforme alla disciplina processuale si come prima tratteggiata. Il giudice può richiedere l’indicazione del tema investigativo in termini ampi ma non può invece pretendere che sia illustrata la ragione per la quale il difensore richiedente ritiene che quell’atto sarà di utilità per la posizione processuale del suo assistito. Il fondato timore che il Magistrato di sorveglianza abbia inteso aprire ad un controllo di tal fatta è avvalorato dall’osservazione che ha ritenuto di interpellare la Direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo della Procura della Repubblica di Napoli, che non pare, da quel che risulta agli atti, essere il pubblico ministero dell’esecuzione. Ha allora pensato di dover arricchire il bagaglio di informazioni utili a valutare la richiesta. L’irritualità di siffatto interpello, che in ogni caso non si risolve in una nullità o in altra patologia della decisione, è profilo assorbito dalla valutazione di inammissibilità della richiesta, condizione che non impedisce la riproposizione della stessa con l’indicazione delle informazioni necessarie alla valutazione della legittimazione al compimento dell’atto di investigazione. Proprio la possibilità di riproposizione della richiesta, che per quanto prima indicato era certo inammissibile, preclude la valutazione di abnormità del provvedimento impugnato, seppure limitatamente alla parte in cui ha imposto un onere di illustrazione dell’utilità istruttoria dell’atto da compiersi. L’assenza del carattere di abnormità segna, prima ancora che l’infondatezza, l’inammissibilità dell’impugnazione, atteso che il provvedimento, se non abnorme, non è impugnabile per il fatto che la legge non lo qualifica tale, e l’inoppugnabilità oggettiva da luogo all’inammissibilità dell’impugnazione ai sensi di quanto disposto dall’articolo 591, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. Alla declaratoria d’inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Tuttavia, la Corte non ritiene equo data la complessità della questione di diritto sottesa al ricorso, condannare il ricorrente anche al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende. Per questi motivi la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al solo pagamento delle spese processuali. Confisca per equivalente, conta il prezzo del reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 29533/2019. A seguito della condanna per un reato tributario, la confisca per equivalente del profitto è sempre obbligatoria anche se in precedenza non sia stato operato alcun sequestro. L’individuazione dei beni da apprendere compete al Pm e non al giudice, con l’unica limitazione che deve trattarsi di beni già nella disponibilità del condannato e non di beni futuri. A confermare questi principi è la Corte di Cassazione, sez. 3 penale con la sentenza nr. 29533 depositata ieri. A seguito dell’applicazione della pena concordata tra le parti per il delitto di indebita compensazione di crediti non spettanti, un tribunale disponeva anche la confisca per equivalente dei beni dell’imputato fino all’ammontare dell’imposta evasa. La difesa impugnava la sentenza ritenendo illegittima la confisca in assenza di un precedente sequestro e per il mancato accertamento di disponibilità di beni in capo all’imputato senza cioè l’individuazione di cosa materialmente apprendere. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso - I giudici di legittimità ricordano che la confisca per equivalente del profitto del reato deve essere disposta obbligatoriamente anche con sentenza di applicazione della pena ex articolo 444 del Codice di procedura penale e nonostante non abbia formato oggetto di accordo tra le parti. Stante poi la sua natura sanzionatoria non può riguardare beni futuri non individuati né individuabili ma solo quelli che già esistono nella sfera di disponibilità dell’imputato. In tale contesto, il giudice che emette il provvedimento non è tenuto a individuare concretamente i beni da sottoporre alla misura ablatoria, potendosi limitare a determinare la somma di denaro che costituisce il profitto o il prezzo del reato. Tale individuazione dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore a quello indicato nel provvedimento è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero. Nella specie il provvedimento non conteneva alcuna indicazione di confisca di beni futuri con la conseguenza che eventuali doglianze in ordine alla natura dei beni ed al loro valore, possono essere manifestate dall’interessato solo una volta che il Pm abbia proceduto alla materiale apprensione dei beni. Da qui il rigetto del ricorso Riparto di competenze tra Pm e Gip sulle modalità esecutive del sequestro preventivo Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2019 Misure cautelari - Reali - Sequestro di immobile - Riparto di competenze del Pubblico ministero e del giudice di esecuzione - Individuazione. Nel rispetto del riparto delle competenze, al giudice che procede spetta emettere o meno la misura cautelare reale, potendo nella fase genetica, anche determinare le modalità di esecuzione della cautela, e successivamente compete al giudice che procede di mantenerla o revocarla mentre al p.m. spetta, superata la fase genetica di applicazione della misura, di eseguirla. Pertanto è abnorme il provvedimento del giudice procedente che paralizzi l’efficacia del provvedimento emesso dal p.m., potendo intervenire, se investito, il giudice dell’esecuzione esclusivamente ad esercitare il controllo di legittimità in relazione alle modalità di esecuzione della misura cautelare. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 26 giugno 2019 n. 27979. Edilizia - Diritto processuale penale - Sgombero dell’immobile sequestrato - Presupposti e controllo sull’indispensabilità - Verifiche da parte del pubblico ministero - Giurisprudenza. Il pubblico ministero può, se ciò costituisce una indispensabile modalità di attuazione del sequestro, ordinare lo sgombero dell’immobile sequestrato, esercitando così il potere di determinare le modalità di esecuzione della misura cautelare ai sensi dell’articolo 655 cod. proc. pen. In sede esecutiva il controllo sull’indispensabilità non esclude il sindacato sulle modalità di attuazione del provvedimento che, tra quelle possibili, devono essere le meno gravose per i diritti di libertà reale, se ed in quanto idonee a salvaguardare gli effetti per i quali il provvedimento è stato disposto ed alla cui cura deve provvedere il pubblico ministero, quale organo dell’esecuzione penale. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 18 luglio 2016 n. 30405. Misure cautelari - Reali - Sequestro preventivo - In genere - Esecuzione - Utilizzo di immobile sottoposto a sequestro preventivo - Competenze del pubblico ministero e del giudice - Individuazione - Fattispecie. In tema di sequestro preventivo, le modalità di esecuzione del provvedimento cautelare adottato sono di competenza esclusiva del pubblico ministero, a norma dell’articolo 655 cod. proc. pen., e a questi, pertanto, è riservato il potere di disporre o meno lo sgombero di un immobile sottoposto a vincolo, mentre al giudice procedente è demandato il compito di verificare, su impulso di parte, la sussistenza dei presupposti, così come la permanenza degli stessi, in ordine alla misura reale in corso di esecuzione. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto abnorme il provvedimento del GIP che, paralizzando l’efficacia del provvedimento emesso dal P.M., aveva autorizzato i detentori di un appartamento sito in un immobile sottoposto a sequestro preventivo a continuare ad abitarvi e a fruire dei servizi comuni). • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 29 ottobre 2015 n. 43615. Edilizia - In genere - Costruzione abusiva - Sequestro preventivo dell’immobile - Potere del p.m. di ordinare lo sgombero dei locali - Natura giuridica - Impugnabilità - Limiti - Fattispecie. L’ordine di sgombero del pubblico ministero costituisce una modalità di attuazione del decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice ed è sindacabile in sede esecutiva esclusivamente sotto il profilo dell’inesistenza del titolo e della sua indispensabilità al fine di dare esecuzione al provvedimento giurisdizionale. (Nella specie, la Corte ha annullato il provvedimento del g.i.p. che, quale giudice dell’esecuzione, aveva sospeso l’ordine di sgombero per ragioni di opportunità ed, in particolare, in base alla ritenuta modestia dell’abuso ed al minimo carico urbanistico). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 novembre 2013 n. 45938. Attività del pubblico ministero - Potere di ordinare lo sgombero di un immobile sottoposto a sequestro preventivo - Sussistenza - Condizioni - Rimedi - Fattispecie. Il pubblico ministero può, se ciò costituisce una indispensabile modalità di attuazione del sequestro, ordinare lo “sgombero” dell’immobile sequestrato, esercitando così il potere di determinazione delle modalità di esecuzione della misura cautelare ex articolo 655 del Cpp. Avverso tale provvedimento può attivarsi la procedura dell’incidente di esecuzione, nella quale è possibile censurare il provvedimento con cui il pubblico ministero ha dato esecuzione al sequestro preventivo solo deducendo l’inesistenza del titolo ovvero contestando l’indispensabilità dello sgombero quale modalità di esecuzione del sequestro. (Fattispecie in cui il pubblico ministero, relativamente a un immobile edificato in violazione della normativa edilizia e paesaggistica, relativamente al quale si era realizzata anche una violazione dei sigilli, ottenuto il provvedimento di sequestro preventivo, in sede di esecuzione di detto provvedimento aveva ordinato lo sgombero del manufatto abusivo; il Gip, peraltro, quale giudice dell’esecuzione, aveva invece sospeso il provvedimento di sgombero ritenendo l’aggravio urbanistico minimo e sopportabile dal territorio: la Corte, accogliendo il ricorso del pubblico ministero, ha annullato con rinvio tale provvedimento, evidenziando come il giudice dell’esecuzione avesse esorbitato dai suoi poteri, non limitandosi a riscontrare l’illegittimità del titolo o a confutare l’indispensabilità dello sgombero come modalità di esecuzione). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 15 novembre 2013 n. 45938. Torino: “carceri fuorilegge”, gli avvocati disertano le aule per un giorno di Claudio Laugeri La Stampa, 9 luglio 2019 Le carceri sono fuorilegge. Da tempo. Ma il problema non viene risolto. E così, gli avvocati della Camera Penale di Piemonte e Valle d’Aosta hanno aderito all’astensione di un giorno dalle udienze organizzata per oggi. “Un gesto simbolico”, si affrettano a spiegare gli avvocati Agostino Ferramosca, Antonio Genovese, Mirco Consorte e Davide Mosso, assieme a Mariella Ceretto, dell’ufficio comunale del Garante per i detenuti. Per spiegare le motivazioni delle Camere Penali, hanno organizzato un incontro nel bar del tribunale, gestito da un cooperativa sociale che fa lavorare gli ex detenuti: “È uno dei pochi esempi che le misure alternative possono funzionare. Quale posto migliore di questo?”. Per la Camera Penale, “non c’è proporzione tra i soldi spesi per riempire le carceri e quelli spesi per sviluppare l’aspetto rieducativo dei detenuti. Parliamo di qualcosa previsto dalla Costituzione e recepito nell’Ordinamento penitenziario, legge che risale al 1975”. Una normativa “perfetta, è tutto spiegato in modo chiaro. È una legge in linea con la Costituzione e condivisibile. Peccato che sia disattesa, violata in continuazione”. Gli avvocati notano come “non sono bastate le condanne della Corte di Giustizia Europea per ottenere il rispetto della legge”. In particolare, il problema considerato più grave è quello del “sovraffollamento. Le carceri ospitano il 30-40 per cento di detenuti in più di quanto potrebbero”. Qualche volta, però, le statistiche sono inquinate da “cattiva comunicazione. Facciamo un esempio. Nei dati del ministero, per il carcere di Alba risulta una capienza di 142 posti, ma non è così. Due sezioni sono state chiuse per un’epidemia di “legionella” e per ristrutturazioni. Così, restano soltanto 50 posti”. Al “Lorusso e Cutugno” di Torino, i posti disponibili sono mille e 62, ma i detenuti sono mille e 476. “Oltre a questo, ci sono i problemi di igiene”, aggiungono. E fanno qualche esempio: “Nella sezione femminile del carcere torinese, le detenute devono portare di peso i carrelli ai piani superiori, perché il montacarichi è rotto. Denunciano un cibo immangiabile, hanno segnalato situazioni di topi e blatte”. Per la Camera Penale, “c’è una sistematica violazione dell’Ordinamento penitenziario, nonostante le condanne per trattamento disumano e degradante della Corte di Giustizia Europea”. Ma gli avvocati puntano anche il dito contro il governo, per “la spettacolarizzazione degli arresti, sostenute da espressioni come “marcire in galera”, indegne della nostra Costituzione”. Ferrara: gli avvocati “scioperano” per i diritti dei detenuti estense.com, 9 luglio 2019 Oggi, 9 luglio, i legali ferraresi si asterranno dalle udienze penali per chiedere soluzioni al governo sui problemi delle carceri. Gli avvocati ferraresi in “sciopero” per protestare contro le condizioni dei detenuti nelle carceri italiane. Ad annunciarlo è la Camera Penale di Ferrara presieduta dall’avvocato Pasquale Longobucco, che annuncia l’adesione “all’astensione dalle udienze penali e da ogni attività giudiziaria nel settore penale, con esclusione dei processi con imputati detenuti in custodia cautelare, proclamata dalla Unione Camere Penali Italiane per la giornata del 9 luglio”. “Scopo dell’astensione - spiega la Camera Penale - e quello di puntare, è il caso di dirlo, per l’ennesima volta i riflettori sulla situazione carceraria in Italia, invitando in primis il Governo a prendere coscienza e conoscenza della reale portata del problema. L’esecuzione penale in Italia ha oramai imboccato un vero e proprio vicolo cieco, ove le violazioni dei diritti umani sono quotidiane. L’atteggiamento dell’attuale Governo appare confuso e distruttivo sui temi della detenzione, destando, pertanto allarme e preoccupazione, perché in totale contrasto con i principi costituzionali e con le più elementari regole di un Paese civile”. Secondo i rappresentanti della Camera penale ferrarese, “in nome di una idea sgrammaticata di “certezza della pena”, si insegue un consenso popolare costruito sulla sollecitazione delle emotività più rozze e violente della pubblica opinione: il detenuto “marcisca in carcere”. Una visione “carcero-centrica” che si pone in netta antitesi con il dettato contenuto in Costituzione, che non certo a caso fa riferimento alle “pene” (art. 27) e non alla “pena”: dunque non solo carcere, ma anche altre sanzioni e misure che possano responsabilizzare il condannato in un percorso punitivo-rieducativo che consenta il suo recupero. La Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, chiesta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza “pilota-Torreggiani” dell’8 gennaio 2013, dopo l’irresponsabile battuta d’arresto causata dal precedente Governo, è stata definitivamente affossata dall’attuale maggioranza. I Decreti Legislativi emanati hanno reso operativa solo una minima parte del lavoro delle Commissioni Ministeriali chiamate ad indicare percorsi di modernizzazione del sistema detentivo. E quel poco che è rimasto non potrà trovare concreta applicazione perché non si è intervenuti per eliminare la cronicità del sovraffollamento”. È per questo che “i dati statistici del Ministero della Giustizia ci rendono un quadro impietoso. La quasi totalità degli istituti penitenziari presenta un sovraffollamento oltre il livello di guardia. La media nazionale, in continuo aumento, sfiora il 130%. Non è esente dalla situazione attuale la Casa Circondariale di Ferrara, dove i numeri sono tornati a salire: ad oggi vi sono 355 detenuti a fronte di una capienza di 244, con un capienza tollerabile di 464. Un solo medico di base ogni 315 detenuti invece di un medico ogni 150. Piante organiche del tutto insufficienti con solo 930 assistenti sociali e 999 educatori per circa 60.000 detenuti. Sono cifre allarmanti che denunciano la materiale impossibilità di assicurare quel trattamento individualizzato che deve consentire il reinserimento sociale del condannato”. E secondo la Camera Penale, le soluzioni prospettate dal governo rischiano di non migliorare la situazione: “Quanto viene annunciato sia dal Ministro della Giustizia che dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nelle loro linee programmatiche e nei loro interventi pubblici - più carcere, meno misure alternative - è dunque contrario al percorso di riforma che si era intrapreso e che ci veniva chiesta dall’Europa. Inoltre, la proposta sbandierata della costruzione di nuove carceri, come risposta al sovraffollamento, non solo è ideologicamente errata, ma certamente non è attuabile in tempi brevi. Essa, infatti, necessita di risorse enormi che notoriamente non ci sono e soprattutto non risulta nemmeno genericamente abbozzata dal Governo”. Nel 2018 nelle carceri italiane sono morti 148 detenuti, tra questi ben 67 suicidi. Nel 2019, ad oggi, 60 morti, tra questi 20 suicidi. La media è quella di un decesso ogni tre giorni. “L’assistenza sanitaria è negata quasi dovunque - proseguono i rappresentanti della Camera Penale ferrarese - e per i ricoveri urgenti in ospedale spesso non vi è possibilità di effettuare le traduzioni. La forzata convivenza di più persone in piccoli ambienti umidi, malsani, in pessime condizioni igieniche, alimenta virus e malattie, che con l’attuale caldo estivo trovano ulteriore possibilità di propagarsi mentre il Dap si preoccupa di diramare una circolare sull’uso della televisione (7 ore per notte), che tuteli la quiete negli istituti penitenziari per incentivare “salubri ritmi sonno-veglia”. Se la pena deve consistere quasi esclusivamente nella perdita o nella drastica riduzione della libertà, essa non può certo pregiudicare la dignità, il diritto alla salute ed il diritto alla vita del detenuto, quale che sia la gravità del delitto commesso, come ribadito di recente dalla sentenza “Viola c. Italia” della Cedu sull’abnormità dell’ergastolo ostativo”. “In una situazione così come descritta - conclude la Camera Penale - occorre con prepotente urgenza metter mano ad una serie di iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale come ci viene richiesto anche dalle giurisdizioni sovranazionali”. Roma: ventunenne suicida in carcere, a giudizio psichiatra e 7 agenti di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 9 luglio 2019 Sarà un processo per valutare se riguardo alla morte di Valerio Guerrieri - il 21enne romano che si è impiccato a Regina Coeli il 24 febbraio 2017, dove tra l’altro, non doveva essere neanche recluso - ci siano state delle omissioni di chi lo avrebbe dovuto assistere. Ieri il gip Flavia Costantini ha rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio colposo una delle due psichiatre che ha visitato il detenuto senza allenarsi e i 7 agenti della penitenziaria addetti al controllo ogni quarto d’ora e che invece non si erano nemmeno accorti che già dal giorno prima Guerrieri aveva annodato un lenzuolo col quale si è lasciato andare nel bagno della cella. Nella stessa udienza il giudice ha disposto l’assoluzione della seconda psichiatra per cui, invece, il pm Attilio Pisani aveva chiesto 6 mesi di carcere in abbreviato. Valerio Guerrieri lo aveva detto al giudice, tre giorni prima, che in carcere non ce l’avrebbe fatta: “Regina Coeli è un caos. Soffro mentalmente, mandatemi a casa”. Il giudice così accertata l’incapacità ne aveva disposto la scarcerazione, con l’assegnazione a una Rems, da dove in passato era scappato più volte. Il trasferimento, invece, non era “Per me tutti avevano una responsabilità - dice Ester, al madre. L’assoluzione della psichiatra mi ha sconvolto. Era palese che mio figlio avesse problemi. Aveva già tentato il suicidio e episodi di autolesionismo”. Nel mirino delle indagini, su sollecitazione dell’avvocato Claudia Serafini che assiste il padre della vittima, sono finiti anche il direttore del carcere e i vertici del Dap. A sollecitare il supplemento d’inchiesta è stato qualche mese fa il gip Claudio Carini. Milano: sostenibilità e integrazione, i progetti di reinserimento nati in carcere greenplanner.it, 9 luglio 2019 Nelle carceri milanesi sono partiti all’inizio del mese di luglio due progetti, che hanno come obiettivo di fondo migliorare le prospettive future di integrazione dei detenuti. In occasione della presentazione del primo progetto, che vede la collaborazione dei tre istituti carcerari della città, ha commentato l’assessore al lavoro del comune di Milano Cristina Tajani: “Malnatt è un progetto tipicamente milanese sin dal nome, che coniuga alcuni dei tratti distintivi della nostra città come l’attenzione alla ricerca della qualità attraverso l’uso di materie prime a filiera corta e la capacità di saper intuire le tendenze del mercato, rappresentate dall’attenzione alle birre artigianali. Infine una peculiarità tutta meneghina, fare del lavoro la più importante occasione di riscatto e di attenzione verso gli altri”. Malnatt significa in dialetto milanese nato male, proprio in questa definizione troviamo il concetto da cui nasce questo progetto. Fondamentale è stata la collaborazione dell’azienda agricola La Morosina, che ha permesso la coltivazione in loco delle materie prime, questa caratteristica fondamentale fa della birra Malnatt la prima birra agricola e a chilometro zero. Alla base del progetto però c’è il riscatto per dieci tra detenuti e ex detenuti delle tre principali carceri lombardi che hanno ora la possibilità di reinserirsi nella società e nel mondo produttivo. Ma non solo: l’obiettivo atteso, a 24 mesi dal lancio del progetto sostenuto anche con il supporto del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e del Comune di Milano, è anche quello di generare risorse per sostenere ulteriori progetti che procurino ricadute positive sul sistema di esecuzione penale. Attualmente in fase di distribuzione presso il canale Horeca (Hotellerie-Restaurant-Café) e Moderno (e in altri locali che si sono già resi disponibili), le birre Malnatt hanno la peculiarità di essere prodotti ad alta fermentazione, non pastorizzate, non filtrate e rifermentate in bottiglia o in fusto. Totalmente opposto il progetto avviato presso il carcere di Bollate, nonostante le identiche finalità di formazione e integrazione. Realizzato in collaborazione con A2A, l’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici darà la possibilità ad alcuni detenuti di rimettersi in gioco attraverso il lavoro, che smaltendo rifiuti possiede una notevole utilità sociale. “L’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici arricchisce il carcere di Bollate di un’ulteriore opportunità per potersi rimettere in gioco attraverso il lavoro. Si tratta anche di un progetto virtuoso che unisce l’attenzione all’ambiente al terzo settore, dimostrando come una proficua collaborazione tra pubblico e privato possa, come fine ultimo, approdare all’inclusione sociale in un’ottica di vera sostenibilità” afferma Cosima Buccoliero, direttore aggiunto della Casa di Reclusione Milano Bollate. La struttura occupa una superficie di circa 3.000 mq e ha l’autorizzazione al trattamento di 3.000 tonnellate all’anno di rifiuti elettronici, inoltre è dotata di un impianto fotovoltaico per l’autoproduzione di energia green. “L’impianto presentato oggi al carcere di Bollate, oltre al contributo in termini di economia circolare, rappresenta un esempio di integrazione e un’opportunità di sviluppo professionale per le persone coinvolte nel progetto: per questa ragione la componente umana del lavoro vuole essere adeguatamente valorizzata rispetto all’automazione del processo” dichiara Valerio Camerano, amministratore delegato del Gruppo. Questo progetto è uno dei tanti tasselli che compongono il nostro modello A2A per l’economia circolare: un sistema basato sulla gestione integrata dell’intera catena ambientale, dalla raccolta al trattamento e che prevede che tutti i rifiuti siano avviati a recupero di materia o energia evitando così il ricorso alla discarica”. Taranto: i detenuti svolgeranno lavori di pubblica utilità in Tribunale giustizianews24.it, 9 luglio 2019 È stata firmata a Taranto una convenzione che prevede detenuti al lavoro anche in Tribunale e in Procura, puntando a farli vivere “non più come luoghi in cui viene unicamente amministrata la giustizia e comminata la pena, ma dove poter ‘ripararè al danno provocato alla collettività con la commissione di reati, attraverso lavori di pubblica utilità”. La convenzione, firmata il primo luglio in Tribunale a Taranto, è stata sottoscritta dalla presidente pro tempore del Tribunale, Anna De Simone, dal procuratore della Repubblica Carlo Maria Capristo e dalla direttrice pro tempore della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, che ha diffuso una nota. I firmatari, “in linea con la recente Riforma dell’Ordinamento penitenziario in materia di lavori di pubblica utilità”, hanno condiviso l’iniziativa, “in sinergia con la Magistratura di Sorveglianza e con gli enti territoriali”, puntando a “percorsi di riabilitazione e reinserimento che trovano nello svolgimento di attività lavorative a beneficio della collettività il loro punto cardine”. Sondrio: Garante dei detenuti, aperte le candidature giornaledisondrio.it, 9 luglio 2019 C’é tempo fino al 30 settembre per presentare la propria candidatura. Pubblicato sul sito internet del Comune di Sondrio l’avviso relativo all’elezione del garante per i diritti delle persone limitate nella libertà personale. I cittadini interessati, che siano in possesso dei requisiti previsti dall’art. 3 del Regolamento, possono presentare le proprie candidature, accompagnate da dettagliato curriculum, inoltrando apposita istanza - come da modello disponibile tra gli allegati e pubblicato sul sito comune.sondrio.it sezione Albo Pretorio online - al Presidente del Consiglio Comunale, Maurizio Piasini, entro il giorno 30 settembre 2019, con una delle seguenti modalità: consegna a mano presso l’ufficio protocollo in piazza Campello 1 piano terra negli orari di apertura al pubblico dalle 09:00 alle ore 12:00 e dalle ore 14:30 alle 16:30; via fax al n. 0342.526333; per posta ordinaria o raccomandata; tramite Posta Elettronica Certificata nell’osservanza delle seguenti modalità: dovrà essere spedita da una casella di posta elettronica certificata alla casella protocollo@cert.comune.sondrio.it. Verona: clochard trovato in fiamme in stazione a Villafranca, è gravissimo di Davide Orsato Corriere della Sera, 9 luglio 2019 Il ritrovamento in un punto non “coperto” dalle telecamere. Indagini in corso, si cercano i responsabili. Ma potrebbero non esserci state aggressioni, l’uomo aveva un tasso alcolemico altissimo. L’hanno trovato sul ciglio del binario con il volto tumefatto e ustioni di diverso grado dal bacino in giù, in condizioni gravissime. Ma su quanto è successo nella notte fra domenica e lunedì a Villafranca, all’interno della stazione ferroviaria, non c’è ancora alcuna certezza. L’uomo, un clochard di nazionalità romena, 42 anni, ora è ricoverato all’ospedale Magalini di Villafranca, in attesa di essere trasferito al centro grandi ustionati di Villafranca. Sul fatto sta indagando la questura di Verona. Non è esclusa nessuna ipotesi, nemmeno quella dell’aggressione, anche se finora la polizia non ha confermato questa ricostruzione. Il 42enne, al momento dei soccorsi, chiamati dal personale della stazione, risultava completamente ubriaco, con un tasso alcolemico attorno ai 3 grammi per litro, ossia al limite del coma etilico. Gli ultimi aggiornamenti che arrivano dalla polizia parlano di indagini a tutto campo: nessuna ipotesi rimane esclusa, compresa quella, estremamente difficile da spiegare, di un incidente. Gli investigatori (sul posto anche gli specialisti della scientifica) stanno esaminando fotogramma per fotogramma le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza: il punto in cui è stato trovato l’uomo, però, non sarebbe coperto dagli obiettivi, un dettaglio che complica non di poco le immagini. Il clochard viveva a Villafranca da circa un anno, spesso dormiva in stazione. Era noto ai servizi sociali del Comune, che - a quanto riferisce il sindaco, Roberto Dell’Oca - gli avevano offerto diversi aiuti, sempre rifiutati. “Non sappiamo ancora quanto è successo - afferma il primo cittadino - se venisse confermato che si tratta di un’aggressione sarebbe gravissimo: episodi di questo genere non appartengono alla comunità civile villafranchese che, da sempre, ha una tradizione di accoglienza”. Quanto accaduto a Villafranca ricorda un caso risalente a dicembre 2017, quando un cittadino marocchino, Ahmed Fdil, anche lui senza fissa dimora, morì carbonizzato. Aveva preso fuoco l’auto in cui dormiva. La verità, terribile, è emersa nel giro di pochi giorni: i responsabili erano due minorenni (un tredicenne, nemmeno imputabile e un diciasettenne) della zona, entrambi non italiani, che avevano lanciato dei fazzoletti di carta a cui avevano dato fuoco. “Lo abbiamo fatto per noia”, ha spiegato il più grande ai giudici del tribunale minorile di Venezia. Lauro (Av): le deputate M5S in visita alle detenute-madri adnkronos.com, 9 luglio 2019 “Oggi abbiamo visitato l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri di Lauro, una struttura penitenziaria che ospita, attualmente, 15 detenute-madri con 17 bambini per rinnovare il nostro impegno verso le persone che vivono uno stato di detenzione”. Le deputate 5 Stelle Maria Pallini e Gilda Sportiello fanno tappa ad Avellino presso il centro di detenzione di Lauro, struttura inaugurata tre anni fa e unica nel suo genere in tutto il Mezzogiorno. “I figli delle detenute - proseguono le deputate - tutti in età infantile o adolescenziale, sono inseriti nei programmi di scolarizzazione, previsti dalle istituzioni scolastiche del posto, e frequentano le scuole della zona”. All’interno della struttura operano anche associazioni e volontari impegnati in progetti per favorire l’interazione con l’esterno. “Un aspetto importante delle attività che si svolgono riguarda l’attenzione rivolta ad evitare danni allo sviluppo psico-fisico e relazionale dei bambini ospitati”, spiegano Pallini e Sportiello aggiungendo che “nonostante la struttura di Lauro sia una realtà in cui la condizione carceraria è resa più compatibile con la dignità delle detenute, vi è bisogno di un forte sostegno da parte di tutte le Istituzioni per un lavoro più sinergico che coinvolga anche i Comuni e le strutture scolastiche. Inoltre è necessario garantire una maggiore presenza sanitaria e medica”. Le parlamentari assicurano che l’attenzione del M5s sull’Icam rimarrà elevata come già dimostrato in passato. “Ci siamo già interessati alla struttura, grazie ai componenti della Commissione parlamentare bicamerale per l’Infanzia e l’Adolescenza e con l’iniziativa del portavoce regionale Luigi Cirillo. Continueremo la nostra attività per migliorare le condizioni di vita di chi oggi sconta la propria pena nelle nostre strutture detentive”, concludono Sportiello e Pallini. Roma: presentazione IV report carceri del Forum Giovani avantionline.it, 9 luglio 2019 Ieri alla Camera dei Deputati è stato presentato “L’universo dimenticato” il IV report, patrocinato dal Ministero della Giustizia, prodotto dal Forum Nazionale dei Giovani sulla condizione dei giovani detenuti. Il Report con la prefazione del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e l’introduzione dell’Avv. Luigi Iorio vede i contributi di idee del Prof. Pasquale Bronzo dell’Università La Sapienza, dell’Avv. Riccardo Polidoro Camere Penali, dell’Avv. Andrea Conte dell’associazione italiana giovani avvocati e del Consigliere del Fng, Michele Masulli. “Il report è un’analisi dettagliata sulla condizione dei giovani detenuti. Il sistema carcerario italiano, contrariamente al dettame costituzionale, sembra non avere più una vera funzione riabilitativa soprattutto tra i giovani”, dichiara Maria Cristina Pisani, Presidente Forum Nazionale dei Giovani. “In questi anni - ha continuato Pisani - come Forum Nazionale dei Giovani abbiamo fatto visita a numerosi istituti penitenziari e attualmente stiamo lavorando, mediante la stesura di progetti, alla realizzazione di attività all’interno delle carceri grazie alla collaborazione avviata in questi anni con le Istituzioni competenti”. “Siamo felici che anche quest’anno il report Carceri abbia potuto avvalersi di contributi di spessore indiscusso e che l’evento di presentazione abbia rappresentato un momento di discussione di alto profilo. Le condizioni degli istituti penitenziari e i diritti dei detenuti parlano all’esterno delle mura delle carceri: rappresentano la cartina al tornasole della società che si costruisce e dei valori che la animano. Guardiamo con preoccupazione agli alti tassi di recidiva, all’emergenza sovraffollamento, alla frequenza dei suicidi di detenuti e guardie penitenziarie, al debole ricorso, anche rispetto ai maggiori Paesi europei, a misure alternative e ad esperienze di formazione e lavoro che possano sostenere la riabilitazione e il reinserimento del detenuto” ha aggiunto il membro del direttivo Michele Masulli. “È importante l’impegno dei giovani nella costruzione di una cultura del penale che sappia tenere conto della tradizione di garanzie del nostro Paese e dei valori che il Costituente ha sancito, anche indicando esplicitamente la funzione che ogni pena deve avere. Per questo guardo con favore e interesse alle riflessioni che questo Rapporto consegna a tutti noi” ha dichiarato il Garante dei detenuti Mauro Palma, a margine della presentazione. All’evento, patrocinato dal Ministero della Giustizia, camere penali e Aiga hanno preso parte inoltre alla presentazione anche l’Avv. Riccardo Polidoro, Camere Penali, l’avv. Antonio De Angelis segretario nazionale Aiga, Michele Masulli membro del direttivo Forum nazionale giovani, l’Avv. Luigi Iorio, la giornalista di La7 Flavia Fratello. Padova: l’estate perfetta di Salvo e Nik al lavoro per dipingere il Fermi di Serena De Salvador Il Mattino di Padova, 9 luglio 2019 I due detenuti del carcere Due Palazzi hanno iniziato a rimettere a nuovo le aule: “È un’occasione unica per restituire qualcosa di buono alla società”. Il riscatto comincia salendo su un autobus, mangiando un panino al bar, indossando un paio di scarpe antinfortunistiche. Azioni semplici, ma che assumono un sapore incredibile per chi ha passato gli ultimi anni dietro le sbarre. È cominciato ieri il progetto che vede Salvatore e Nik, detenuti del Due Palazzi, impegnati per due mesi a tinteggiare gratuitamente le aule del liceo Fermi. Palermitano di 53 anni il primo, albanese di 45 il secondo, hanno negli occhi la frenesia di due bambini mentre con piglio chirurgico analizzano ogni centimetro dei quattro locali al quarto piano dello stabile di proprietà della Provincia. Quelle aule sono la base di partenza, ma tempo permettendo potranno anche passare ad altre zone. E a giudicare dall’entusiasmo, c’è da scommettere che anche i piani inferiori beneficeranno dell’intervento. “È un’occasione unica per restituire qualcosa di buono alla società”, spiegano in coro. La sfida più grande, vera prova di fiducia, è lo spostamento in bus dal carcere a scuola e ritorno. Da soli, con una libertà che sa di impagabile. Il lavoro sarà duro, perché lo stabile è vetusto e non basta una passata di vernice. Nik e Salvatore hanno già studiato la situazione: “Per fare un bel lavoro dobbiamo rimuovere lo zoccolo di pittura lavabile, levigare e ridipingere tutto. Aspettiamo l’autorizzazione, ma soprattutto speriamo non ci rallenti troppo”. Vogliono davvero rimettere a nuovo la scuola, fermarsi alle quattro aule pattuite sembra fuori discussione: “Le faremo splendere. Meglio fare solo queste ma farle perfette, però se riuscissimo a completare anche altre stanze sarebbe fantastico”, spiegano. In attesa dell’arrivo di tutto il materiale, fornito dall’associazione Operatori Carcerari Volontari col contributo di Ca.Ri.Pa.Ro., hanno tolto i banchi e coperto le superfici. “È un progetto utilissimo per il nostro liceo che deve fare i conti con gli anni che passano”, spiega il professor Antonio Trivellato. “Loro sono motivati ed è un messaggio educativo importante”, gli fa eco la preside Alberta Angelini, che sta vagliando anche una possibilità ulteriore: “Metteremo a disposizione dei fondi scolastici per portare avanti il progetto. Investiremo su una nuova aula-laboratorio e il rinnovamento grazie in collaborazione con il carcere è un’occasione d’oro”. Degli oltre mille studenti, almeno cento staranno nelle aule messe a nuovo. “Dobbiamo lavorare bene, niente lavori abbozzati. Siamo solo in due, ma ci metteremo tutto l’impegno possibile”, dichiara Nik. Per arrivare fin qui hanno frequentato un corso di edilizia e superato la rigida selezione interna: delle decine di detenuti che hanno partecipato alle lezioni solo loro due sono risultati completamente idonei. Milano: il film sui detenuti visto a San Vittore di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 luglio 2019 Proiettato il “Viaggio nelle carceri”, poi l’incontro con la vicepresidente della Corte. Che succede se il film, con cui il regista teatrale di “Cesare deve morire” (Fabio Cavalli) racconta il rivoluzionario “Viaggio nelle carceri” compiuto dai giudici della Corte Costituzionale, viene proiettato per la prima volta in un carcere proprio davanti ai detenuti? Succede che a San Vittore la vicepresidente Marta Cartabia e i detenuti scoprano di condividere la sensazione di essersi sentiti “spiazzati” dalla reciproca conoscenza, che è poi premessa del potenziale cambiamento in ogni autentico incontro. E succede, soprattutto, che i detenuti chiedano conto dello scarto percepibile tra i principi della Costituzione e la loro attuazione nella realtà. Uno scarto che Cartabia non nega certo, ma invita a rileggere con le parole del collega Coraggio fuori dal carcere di Terni: “Ho ricevuto domande talmente drammatiche che ho scoperto di avere solo risposte inadeguate”. E quella di Cartabia è che, “di fronte allo scarto, bisogna lavorare per cambiare questa realtà, non rassegnarsi a rinunciare a quei principi”. Cagliari: corso di scrittura creativa nel carcere con l’autore Cristiano Cavina youtg.net, 9 luglio 2019 Venerdì 12 luglio lo scrittore romagnolo Cristiano Cavina incontrerà i detenuti di Uta per una lezione di scrittura creativa. Libri, storie e personaggi saranno al centro del confronto tra l’autore di Casola Valsenio (Ravenna) - vincitore di diversi premi letterari - e i reclusi che nel corso dell’anno hanno lavorato su testi e letture. L’associazione Tusitala - da anni impegnata in attività con detenuti ed ex, in laboratori di lettura scrittura e messa in scena, attualmente nella Casa Circondariale di Uta con un nuovo corso su memoria e narrazione a partire dal quadro “Giochi di bambini” di Pieter Bruegel - ha invitato Cavina, presente in Sardegna per partecipare a Street Books, il festival del libro di Dolianova, a incontrare i detenuti della Casa Circondariale Ettore Scalas. Lo scrittore, che ha subito accettato, sarà impegnato assieme all’organizzatore del Festival Gianni Stocchino in un dialogo su tecniche e contenuti della scrittura. Cristiano Cavina è nato a Casola Valsenio (Ravenna) nel 1974 ed è cresciuto con la madre e i nonni materni. È scrittore per talento e pizzaiolo per passione. Parla di letteratura e scrive impastando farina, ha scritto otto romanzi più due dedicati ai ragazzi. “Alla grande” (2002) è stato letto e messo in scena in tutte le scuole d’Italia. Cavina ha vinto numerosi premi come scrittore. “Fare le pizze è una disciplina della teoria del caos più che dell’arte culinaria. Non sempre le cose vanno come ci si aspetta. È impossibile prevedere in anticipo l’esito finale, anche partendo esattamente dagli stessi presupposti: stesso impasto, stesso forno e stesso condimento non producono la stessa pizza. Anche minuscole variazioni portano a risultati completamente diversi. Un battito d’ali di farfalla in cucina potrebbe scatenare un uragano in Asia; figurarsi lo sbalzo di dieci gradi nella temperatura del vostro forno a gas. L’importante è saperlo, non prendere le cose troppo seriamente, ed essere pronti a metterci una toppa quando serve” - dal romanzo “I frutti perduti”. Palermo: i ragazzi del carcere Malaspina alla “scoperta” del Brasile sicilianews24.it, 9 luglio 2019 All’Istituto Penale per i Minorenni di Palermo appuntamento con la cultura brasiliana, alla scoperta della storia e delle tradizioni del Paese sudamericano. Il Consolato Onorario del Brasile in Palermo ha presentato il Brasile ai ragazzi del Malaspina, con la collaborazione dell’Ambasciata del Brasile di Roma e di artisti brasiliani che hanno scelto Palermo come città di adozione. L’incontro è avvenuto nell’ambito del progetto “Attraverso le culture: a scuola con i consoli”, l’iniziativa promossa dal Malaspina, in collaborazione con il Centro Diurno e con il coinvolgimento del Corpo Consolare di Palermo, destinata ai ragazzi ospiti delle due strutture (Istituto penale e Centro diurno). All’incontro erano presenti il direttore del Malaspina Clara Pangaro, la console onoraria del Brasile, Rosalia Calamita, Isabella Russo, referente per le attività connesse all’area “Diritti e interculturalità” per l’Istituto Penale per Minorenni di Palermo, Michelangelo Capitano, direttore del Centro Diurno Polifunzionale. Presenti anche il console onorario della Costa d’Avorio, Ferdinando Veneziani, Meire Cerveira Jarra, Membro del Consiglio dei Cittadini Brasiliani di Roma, sezione di Palermo, il cittadino brasiliano Jamir Marino e gli artisti Edimar Macêdo Costa, Marileide Silva dos Santos, José Carlos da Silva. Ragazzi del carcere Malaspina, viaggio virtuale alla scoperta del Brasile attraverso i suoni, la musica, il folklore ed i sapori I ragazzi sono stati condotti in un viaggio virtuale alla scoperta del Brasile anche attraverso i suoni, la musica, il folklore ed i sapori. Molto spazio è stato dedicato alla musica, anche attraverso strumenti a percussioni suonati da José Carlos, che hanno accompagnato le danze di Marileide e di Edimar. Particolarmente toccante la testimonianza di Edimar sulle difficoltà incontrate dall’infanzia fino ai giorni nostri, difficoltà che hanno accompagnato Edimar lungo gli anni fino al raggiungimento di una pace interiore, che ha voluto trasmettere ai ragazzi. Vari sono stati i momenti in cui i ragazzi sono stati coinvolti, come il canto dell’inno nazionale dei due Paesi, l’ “adozione” di uno degli Stati brasiliani attraverso la consegna di una stella simbolica, la consegna dei “nastrini di Bonfim”, per esprimere tre desideri da avverarsi, l’assaggio delle “coxinhas de galinha”, tipica rosticceria del Brasile, la consegna di opuscoli sul Brasile e di un piccolo souvenir. L’incontro è culminato in un samba eseguito dagli artisti, durante il quale i ragazzi hanno potuto suonare vari strumenti a percussione. Aiuto al suicidio assistito, il pm Zuccaro indaga il presidente di Exit-Italia di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 luglio 2019 Il magistrato anti Ong accusa Emilio Coveri per il sostegno concesso dall’Associazione ad una donna che lo aveva richiesto. Emilio Coveri, fondatore di Exit-Italia, l’associazione impegnata ad informare i cittadini italiani che vogliono raggiungere la Svizzera per ottenere assistenza al suicidio, è indagato dalla Procura di Catania e il prossimo 25 luglio sarà interrogato dai pm titolari del fascicolo insieme al procuratore capo Carmelo Zuccaro, salito agli onori delle cronache per la sua ossessione anti Ong che lo avvicina al ministro Salvini. Il reato è lo stesso che venne ipotizzato a suo tempo nei confronti di Marco Cappato, quando il tesoriere dell’Associazione Coscioni si autoaccusò di aver accompagnato Dj Fabo in Svizzera a morire nel febbraio 2017: istigazione e aiuto al suicidio punito in forza dell’articolo 580 c.p. contemplato dal Codice Rocco di ispirazione fascista. Fu proprio grazie al processo che si aprì in quell’occasione che l’art. 580 finì, insieme all’assoluzione parziale di Cappato, davanti alla Corte Costituzionale. La quale, nell’ordinanza emessa nell’ottobre scorso, ha dato tempo un anno al parlamento affinché legiferi sul fine vita per tutelare adeguatamente “determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione”. Il 24 settembre prossimo scadrà il tempo, e la Consulta si riunirà di nuovo per decidere - a questo punto al posto della politica e degli organi legislativi - se è legittimo aiutare un aspirante suicida che lo chiede espressamente. È il caso di Emilio Coveri, accusato dalla magistratura etnea di aver “rafforzato”, “nella sua decisione di togliersi la vita”, la volontà di una donna di 47 anni, affetta da tempo di una grave forma di depressione, che si era rivolta ad Exit per ottenere l’assistenza di una clinica svizzera dove poi si è recata ed è morta il 27 marzo scorso. Nella lente di Zuccaro ci sarebbero alcune frasi scritte dal presidente di Exit per dare suggerimenti - come ha riferito ieri lo stesso Coveri intervistato da Radio 24 - alla donna che gli chiedeva consigli su come aggirare l’opposizione dei famigliari. E i 7.000 franchi, versati dalla 47enne in qualità di socia a Exit-Italia, che la procura ritiene la prova del “fine egoistico, come quello finalizzato ad appropriarsi dei beni materiali di chi viene istigato o aiutato al suicidio”, contenuto nell’art.580. Che a settembre, forse, non esisterà più. Papa Francesco a messa con i migranti: “Gli ultimi sono i torturati nei campi di detenzione” di Luca Kocci Il Manifesto, 9 luglio 2019 Nell’anniversario del suo viaggio a Lampedusa. Il papa: Signore Gesù, benedici i soccorritori nel mar Mediterraneo e le persone soccorse in questi anni. Guidale affinché siano accolte da tutti noi con amore. Fuorilegge da arrestare, come i comandanti della Sea Watch 3 Carola Rackete e del veliero Alex Tommaso Stella, per il vicepremier ministro dell’Interno Matteo Salvini. Soccorritori da benedire per papa Francesco. C’erano anche gli operatori delle organizzazioni umanitarie impegnate nel mar Mediterraneo alla messa che ieri il papa ha voluto celebrare a San Pietro, nel sesto anniversario del primo viaggio del suo pontificato a Lampedusa. Erano in 250: migranti e rifugiati arrivati in Italia con i corridoi umanitari, i ricongiungimenti familiari, ma anche con i barconi partiti dalla Libia; e gli operatori e i volontari della Caritas, del Centro Astalli, delle parrocchie e delle organizzazioni che salvano i migranti alla deriva nel Mediterraneo. Fra loro don Mattia Ferrari, viceparroco a Nonantola (Mo), che ha partecipato ad una missione della nave Mar Ionio, della Ong Mediterranea: “Una celebrazione per riaccendere la luce sull’umanità, quando sembra essere messa a rischio”, spiega al manifesto. Un gesto semplice quello di Francesco, per ricordare “quanti hanno perso la vita per sfuggire alla guerra e alla miseria e per incoraggiare coloro che, ogni giorno, si prodigano per sostenere, accompagnare e accogliere i migranti e i rifugiati”, spiega la nota della sala stampa vaticana. Ma che, nella contingenza del momento - Sea Watch e Alex che forzano il blocco della Guardia di Finanza per sbarcare i migranti a Lampedusa, Salvini che sbraita come un indemoniato e invoca pene infernali -, assume un significato forte. Un po’ come quando due mesi fa Francesco invitò ed incontrò a San Giovanni in Laterano Imer e Semada Omerovic, la famiglia rom legittima assegnataria di una casa popolare a Casal Bruciato aggredita dai fascisti di Casa Pound. “In questo sesto anniversario della visita a Lampedusa, il mio pensiero va agli ultimi che chiedono di essere liberati dai mali che li affliggono”, ha detto Francesco nell’omelia, specificando chi sono gli ultimi: gli “ingannati e abbandonati a morire nel deserto”, i “torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione”, coloro “che sfidano le onde di un mare impietoso” e che vengono “lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea”. “Non si tratta solo di migranti”, ha concluso, “sono prima di tutto persone umane, e che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata”, come titola L’Osservatore Romano di oggi. Nelle preghiere dei fedeli c’è il ringraziamento per i “fuorilegge”, come li chiama Salvini: “Signore Gesù, benedici i soccorritori nel mar Mediterraneo”. E per i salvati: “Signore Gesù, benedici le persone che sono state soccorse in questi ultimi anni e guidale affinché siano accolte da tutti noi con amore”. La messa a San Pietro arriva il giorno dopo l’Angelus di domenica, quando il papa aveva ricordato le vittime del centro di detenzione per i migranti - che in passato aveva esplicitamente chiamato “lager” -adiacente alla base militare di Dhaman, nell’area di Tajoura, in Libia: “La comunità internazionale non può tollerare fatti così gravi”. E nello stesso Angelus Francesco aveva auspicato “che siano organizzati in modo esteso e concertato i corridoi umanitari per i migranti più bisognosi”. Una soluzione politica, peraltro praticata anche in Italia con due diversi progetti - uno della Federazione delle Chiese evangeliche, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio e l’altro di Caritas e Comunità di Sant’Egidio -, ma con numeri troppo esegui (circa tremila migranti arrivati in tre anni) per fare fronte alla situazione. Migranti. Salvini schiera la Marina militare a difesa dei porti di Carlo Lania Il Manifesto, 9 luglio 2019 Il ministro annuncia nuove misure per fermare le navi delle Ong e bloccare le partenze dei barconi. Domani vertice a palazzo Chigi. Matteo Salvini può essere soddisfatto. La guerra contro le ong adesso potrà contare anche sull’aiuto delle navi della Marina militare e della Guardia di finanza chiamate a “difendere” i nostri porti. Una misure decisa ieri nel corso di una riunione del Comitato nazionale ordine e sicurezza convocato d’urgenza dal ministro dell’Interno per discutere come impedire alle navi delle organizzazioni umanitarie l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Tra le altre misure adottate anche un incremento dei controlli per ridurre le partenze dai barconi dalla Libia e dalla Tunisia grazie all’utilizzo di radar, aerei e droni in modo da accelerare, rispetto a quanto accade oggi, l’intervento della cosiddetta Guardia costiera libica e di quella tunisina. Ma anche la fornitura al governo di Tripoli di altre dieci motovedette (lo stesso annuncio il Viminale lo aveva fatto anche l’11 giugno scorso al termine di un’altra riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza). “A me non serve un’operazione di trasporto di immigrati in giro per il Mediterraneo. A me serve un’operazione di protezione e tutela e oggi gli esponenti della Difesa hanno dato suggerimenti utili non per distribuire i problemi in giro per ‘Europa ma per bloccarli alla radice”, ha commentato Salvini al termine della riunione. Per la propaganda leghista le nuove misure rappresentano sicuramente un successo. Resta da vedere quanto la loro applicazione porterà realmente ai risultati sperati dal governo gialloverde. Per adesso i tecnici del ministero della Difesa sono al lavoro per capire quante navi serviranno nel prossimo futuro per aumentare la nostra presenza nel Mediterraneo. Il piano prevede che la competenza sulle acque nazionali spetti ai mezzi della Guardia di finanza, mentre alla Marina militare va il compito di vigilare in acque internazionali. Ma cosa accadrà quando verranno intercettati un barcone in difficoltà o la nave di una Ong Salvini non lo spiega, ma sul punto fonti della Difesa non lasciano spazio a dubbi: “Tutto avverrà nel rispetto delle normative internazionali”, è la risposta. Il che significa che non verranno effettuati respingimenti delle imbarcazioni con i migranti verso la Libia, vietati dal diritto internazionale, ma anche che non saranno messe in atto manovre tese a ostacolare il cammino della nave della Ong che ha tratto in salvo uomini, donne e bambini e che sta cercando di raggiungere un porto sicuro. “Cosa che, come ha ricordato anche il ministro dell’Interno, la Libia non è”, ricordano sempre dalla Difesa. Al massimo, quindi, si può ipotizzare che potranno essere svolte delle ispezioni a bordo in modo da ritardare il tragitto delle imbarcazioni, ma è difficile che un comandante della Marina militare - la stessa che nel 2014 diede vita alla missione Mare nostrum “salvando l’onore dell’Europa”, come riconobbe il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker - possa decidere di forzare più di tanto la situazione. La questione sbarchi continua intanto ad agitare i rapporti tra alleati, al punto che il premier Giuseppe Conte ha convocato per domani un vertice a palazzo Chigi al quale, oltre a Salvini, sono stati chiamati a partecipare anche i ministri Trenta, Toninelli, Tria e Moavero. Scopo dell’incontro è quello di coordinare gli interventi dei vari ministeri per “evitare - spiegano a palazzo Chigi - che possano ingenerarsi sovrapposizioni o malintesi che finirebbero per nuocere all’efficacia dell’azione del governo”. Un’ulteriore conferma delle tensioni esistenti, ammesso che ce ne sia il bisogno, arriva dalla battuta fatta ieri da Luigi Di Maio e servita a liquidare le parole con cui Salvini si è lamentato di essere astato lasciato da solo a fronteggiare le navi delle Ong. “Se il ministro dell’Interno si sente solo, e non gli possiamo neanche dire che ci sono strade alterative per risolvere questo problema per sempre, vuol dire che manderemo un peluche”, ha detto il vicepremier grillino difendendo la ministra Trenta a sua volta attaccata dal leghista. Migranti. 32enne bengalese morto nel Cpr di Torino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 luglio 2019 Ieri mattina un migrante di origini bengalese è deceduto presso il Centro di permanenza e rimpatrio di Torino. La morte risalirebbe addirittura nella notte, ma se ne sono accorti la mattina. Secondo le indiscrezioni trapelate dalla campagna Lasciate-CIEentrare, l’uomo, 32enne, era stato posto in isolamento, dopo le denunce degli altri trattenuti che avevano segnalato l’abuso sessuale che avrebbe subito da altri migranti. Alla notizia della morte, alcuni migranti hanno inscenato una dura protesta, perché non è stato subito chiaro quali fossero le cause. Secondo il medico legale la morte sarebbe per cause naturali, anche se le indagini sono ancora in corso. La protesta, poi rientrata, aveva causato piccoli incendi in alcuni moduli del Cpr. Ma come sono le condizioni di questa struttura e come vivono i migranti trattenuti? Qualche tempo fa, Radio blackout ha raccolto e diffuso la denuncia di un trattenuto al dodicesimo giorno di sciopero della fame recluso nel Cpr. “In questo centro ci trattano malissimo, peggio degli animali: il cibo ci viene somministrato in scatole di plastica dopo diverse ore dalla sua preparazione, quindi freddo, e non abbiamo alcun modo di poterlo consumare se non sul pavimento”, ha raccontato il ragazzo. “Perdo ogni giorno un kg, non so se sopravvivrò, ma voglio lanciare questo messaggio: ho perso tutte le mie energie, siamo discriminati in Italia e a nessuno interessa nulla, non venite in Italia!”. Ha concluso chiedendo di essere mandato in qualsiasi altro posto, purché fuori da quella prigione il prima possibile. Non è però un caso isolato. Ad esempio, l’estate scorsa, il centro è stato danneggiato da un incendio doloso. Alcune delle persone recluse nel Cpr sono salite sui tetti, in segno di protesta per le condizioni nelle quali sono costrette a vivere. Due mesi dopo invece sono andati distrutti diversi moduli abitativi, dati alle fiamme da cittadini magrebini reclusi da oltre un mese e mezzo nel centro. Ma non sono mancati problemi burocratici non esattamente di poco conto. A maggio scorso, l’avvocato Cristiano Prestinenzi di Bologna, ha parlato di “una grave violazione di diritti inalienabili dell’individuo riconosciuti dalla Costituzione, dai trattati internazionali e, più in generale, dai principi basilari su cui si regge uno Stato democratico”. Si riferiva ad un suo assistito trattenuto da oltre un mese al Cpr di Torino, che non riusciva ad avere la documentazione sanitaria che lo riguarda. “Il mio assistito mi ha riferito di avere un problema serio di salute e che sarebbe necessario un intervento chirurgico urgente, per cui avrebbe già effettuato tre accessi in strutture ospedaliere, ma dall’amministrazione del centro mi hanno risposto che per chiedere la documentazione sanitaria devo fare richiesta alla prefettura di Torino e, solo quando ci sarà il consenso, mi verrà rilasciata. È inaccettabile”, ha denunciato l’avvocato Prestinenzi. Anche considerando, prosegue, “che la stessa coop che ha in gestione il centro il 4 aprile mi ha inviato senza nessuna autorizzazione documentazione relativa al mio assistito”. In generale, la condizione di vita dei vari Cpr è deplorevole. A dirlo recentemente è stata l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, perché, a distanza di alcuni mesi dalle ultime visite, ha effettuato nuove visite in quattro dei sei Centri per il rimpatrio presenti sul territorio italiano. Ricordiamo che i Cpr sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno. L’autorità del Garante denuncia che la situazione degli ospiti rimane molto dura e preoccupante, sia dal punto di vista della vita quotidiana, che scorre senza nessuna attività, con evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica delle persone ristrette (fino a sei mesi o anche più), sia per quanto riguarda le condizioni materiali degli ambienti, spesso danneggiati o incendiati da precedenti ospiti ma mantenuti in tali condizioni di deterioramento e di assenza di igiene. Stati Uniti. Bachelet (Onu): “Migranti detenuti in condizioni sconvolgenti” di Marina Catucci Il Manifesto, 9 luglio 2019 L’alta commissaria delle Nazioni Unite inorridita, ma Trump incolpa i media mainstream. Michelle Bachelet, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, in un comunicato si dice inorridita dalle condizioni in cui sono detenuti rifugiati e migranti, inclusi i bambini, dopo essere entrati negli Stuti Uniti attraversando il confine meridionale con il Messico. Bachelet ha aggiunto che i bambini non dovrebbero mai essere separati dalle famiglie o trattenuti per immigrazione, pratiche che sotto l’amministrazione Trump sono diventate prassi comune. “Come pediatra, ma anche come madre ed ex capo di Stato - ha dichiarato Bachelet - sono profondamente scioccata dal fatto che i bambini siano costretti a dormire sul pavimento in strutture sovraffollate, senza accesso a un’assistenza sanitaria o alimentare adeguata e con condizioni igieniche inadeguate. Detenere un bambino anche per brevi periodi in cattive condizioni può avere un grave impatto sulla sua salute e sullo sviluppo”. L’alto commissario ha ricordato che gli organismi Onu che si occupano di diritti umani hanno fatto sapere che la detenzione di minori migranti costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante vietato dal diritto internazionale. Riguardo gli adulti Bachelet ha proseguito: “Qualsiasi privazione della libertà di migranti e rifugiati dovrebbe essere una misura di ultima istanza, per un periodo più breve possibile, con le dovute garanzie per un giusto processo e in condizioni che soddisfino tutti gli standard internazionali sui diritti umani”. E se gli Stati hanno la prerogativa di decidere le condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini stranieri, le misure di gestione delle frontiere devono rispettare gli obblighi in materia di diritti umani e non essere basate su politiche che mirano solo all’individuazione, detenzione ed espulsione rapida di migranti irregolari. La dichiarazione di Bachelet arriva pochi giorni dopo la pubblicazione di un rapporto sulle condizioni del centro di detenzione al confine col Texas da parte dei controllori del Dipartimento della sicurezza nazionale Usa, dove si conclude che la situazione “urgente” richiede “attenzione e azioni tempestive”, e si consiglia il governo di “prendere provvedimenti immediati per alleviare il pericoloso sovraffollamento e la detenzione prolungata di bambini e adulti”. Secondo l’Associated Press, il rapporto include nuovi dettagli sui centri della valle del Rio Grande e si afferma che almeno tre strutture hanno negato ai bambini l’accesso alle docce, che “alcuni bambini sotto i 7 anni sono stati trattenuti nei centri per più di due settimane e le celle erano così anguste che gli adulti sono costretti a stare in piedi per giorni”. Nonostante le evidenze nel rapporto, Trump ha incolpato i media mainstream, accusandoli di “scrivere notizie fasulle ed esagerate”. E i funzionari del Dipartimento per la sicurezza interna hanno difeso le condizioni dei centri. Ma il Segretario provvisorio per la sicurezza interna, Kevin McAleenan, in un’intervista a Abc news ha definito la situazione “straordinariamente impegnativa”. Bachelet ha invitato gli Usa a far fronte alle cause che costringono i migranti a lasciare le loro case (insicurezza, violenza sessuale e di genere, discriminazione, povertà, degrado ambientale…). Il Dipartimento per la sicurezza interna ha risposto facendo sapere di avere aggiunto al confine tre tende con una capacità di circa 2.000 detenuti per smaltire il sovraffollamento dei centri. Stati Uniti. La sfida di Pompeo: “I diritti umani devono essere rivisti” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 9 luglio 2019 Sarà creata una Commissione ad hoc per riformularli. Il segretario di Stato Usa: “Non tutto quello che è tutelato dallo Stato è buono”. L’amministrazione Trump riscopre l’importanza dei diritti umani per indirizzare la propria politica, oppure si mobilita per tornare indietro nel tempo e limitarli. Sono i due punti di vista, chiaramente opposti, con cui è stato accolto ieri l’annuncio del segretario di Stato Pompeo relativo alla creazione di una “Commission on Unalienable Rights”, una commissione sui diritti inalienabili. Il capo della diplomazia ha spiegato che il nuovo organismo avrà un ruolo consultivo, cioè non determinerà le linee politiche, ma “fornirà la forza intellettuale per quello che io spero sarà uno dei più profondi riesami dei diritti inalienabili nel mondo dalla Dichiarazione Universale del 1948”. La Commissione sarà guidata da Mary Ann Glendon, giurista di Harvard che ha lavorato tanto per la Santa Sede, quanto per il governo Usa, come ambasciatrice in Vaticano dell’amministrazione Bush. Con lei ci saranno 10 membri, con competenze che spaziano dalla filosofia al diritto. Annunciando l’iniziativa al dipartimento di Stato, Pompeo ha detto che il primo obiettivo sarà chiarire quali sono effettivamente i diritti inalienabili dell’uomo, e quindi se a partire dalla Seconda Guerra Mondiale sono stati allargati eccessivamente, includendo questioni che “spesso suonano nobili e giuste”, ma non rientrano in questa categoria. “Non tutto ciò che è buono, o garantito dallo Stato, può essere un diritto universale”. Il segretario poi ha aggiunto: “La causa dei diritti umani un tempo univa popoli di nazioni e culture diverse, nello sforzo di assicurare le libertà universali e combattere mali come il nazismo, il comunismo e l’apartheid. Oggi abbiamo perso questo focus. Le rivendicazioni dei diritti sono spesso mirate a soddisfare i gruppi di interesse e dividere l’umanità. Regimi oppressivi come l’Iran e Cuba si sono approfittati di questa richiesta cacofonica dei diritti, fingendo di essere protettori della libertà”. I sostenitori dell’amministrazione hanno apprezzato l’iniziativa, perché ci vedono la volontà di restituire importanza ai diritti umani. Ad esempio anche negli ambienti conservatori i neocon, che sul piano intellettuale avevano guidato il governo di Bush figlio, hanno criticato la pochezza di Trump su questo punto. Gli avversari dell’amministrazione denunciano un obiettivo opposto. Se l’amministrazione fosse davvero intenzionata a rilanciare il tema dei diritti, dovrebbe cominciare dalla condanna degli alleati che li violano, come l’Arabia Saudita o l’Egitto, e sollevarli come problema con interlocutori tipo Russia, Cina o Corea del Nord. Il vero scopo della Commissione invece è rilanciare i “diritti naturali”, parola in codice usata per indicare quelli tradizionali, e penalizzare quelli moderni come l’aborto o il trattamento dei gay. “Parole come “diritti” - ha infatti sottolineato Pompeo - possono essere usate dal bene o dal male. Alcuni hanno dirottato la retorica dei diritti umani per impiegarla a scopi dubbi o maligni”. Francia. Computer in cella per i detenuti ansa.it, 9 luglio 2019 Ma niente contatti col mondo, non avrebbero accesso a internet. Secondo Le Parisien, l’amministrazione penitenziaria avrebbe infatti l’intenzione di dotare le oltre 50.000 celle delle carceri nazionali di terminal digitali a disposizione dei condannati. Obiettivo? Permettere di interagire con l’amministrazione penitenziaria attraverso uno speciale sistema intranet. L’internet esterno resterebbe, dunque, inaccessibile. Grazie a questo sistema, i detenuti potranno effettuare acquisti, ordinare ticket per la mensa, prenotare il parlatorio. I computer consentirebbero anche alle famiglie di approvvigionare direttamente i loro conti. Previsti, tra l’altro, anche servizi culturali. Tra questi, la possibilità per i detenuti stranieri di tradurre le loro richieste o seguire corsi di formazione online. Dal 2018, il dispositivo viene già testato in tre carceri della Francia, a Digione e nei penitenziari di Meaux e Nantes. Tagikistan. 14 detenuti muoiono per intossicazione alimentare sputniknews.com, 9 luglio 2019 Nel sud del Tagikistan durante il trasporto di un gruppo di reclusi in una colonia, 14 detenuti sono morti a causa di un’intossicazione alimentare nel giro di poche ore. L’organo competente all’interno del Ministero della Giustizia ha comunicato a Sputnik la notizia. Tre veicoli speciali stavano effettuando il trasporto di 128 detenuti (di cui otto donne) dalle città di Xuçand e Istaravshan a Dushanbe e Norak, nel sud del Tagikistan, nuovi luoghi di reclusione. I mezzi si sono fermati sei volte durante il tragitto, nel rispetto delle normative vigenti. “Nella località di Majkhura del distretto di Varzob, vicino a Dushanbe, la sera, uno dei detenuti ha distribuito tra 16 altri detenuti tre pagnotte. Mezzora dopo aver mangiato il pane, le 16 persone, che si trovavano nel furgone, hanno cominciato ad accusare, nausea, giramenti di testa e vomito. Dopo mezzora, quando il veicolo è entrato nel territorio del centro di detenzione, tutti e 16 hanno perso conoscenza”, riporta il Ministero della Giustizia. I medici sono riusciti a salvare solo due dei 16 detenuti intossicati. La Procura generale ha aperto un fascicolo penale e incaricato delle indagini un gruppo investigativo. È stata fissata una perizia medica. Le indagini si svolgono sotto il controllo del procuratore generale Jusuf Rakhmon. Secondo le fonti di Sputnik in procura, il pane conteneva muffe tossiche createsi a causa della mancata osservanza delle norme di conservazione del pane al caldo.