Tagli all’istruzione nelle carceri italiane di Andrea Pezzotta ultimavoce.it, 8 luglio 2019 Nonostante qualche timido passo avanti, siamo ancora bloccati alla vecchia idea di carcere punitivo. E mentre i crimini calano sempre più, il tasso di recidività dei criminali è in costante aumento. Raramente il dibattito pubblico tocca la questione delle carceri italiane. Il detenuto è infatti un elemento spinto ai margini della percezione del popolo. Egli è una persona che viene esclusa, per punizione, dalla società. È colui che nessuno vuol vedere, con il risultato che spesso può essere dimenticato. Il dibattito politico, il più delle volte, tenta d’ignorare una questione spinosa e strutturale come quella delle carceri. Con il risultato che gran parte dei problemi si stanno amplificando sempre più. In primo luogo il sovraffollamento ormai ingestibile, provocato non tanto da un aumento dei criminali quanto dal fatto che, chi entra in carcere una volta, ci rientrerà probabilmente poco dopo essere uscito. Questo ci riporta immediatamente al secondo, ingombrante problema delle carceri italiane: non sono presenti veri e propri programmi di riabilitazione dei detenuti. Da parecchi anni, ormai, molti paesi si stanno rendendo conto di come il “carcere punitivo” non sia in grado di ottenere validi risultati nella lotta alla criminalità. Al momento, la modalità di reclusione che sembra più funzionale allo scopo, infatti, pare essere quella del “carcere rieducativo”. Un luogo di detenzione in cui la punizione da infliggere al detenuto passa in secondo piano. In favore di un complesso insieme di strumenti, atti a garantire un soddisfacente reinserimento del detenuto nella società. La logica che si trova dietro a questo metodo è piuttosto semplice. Essa ritiene che il crimine derivi, nella maggior parte dei casi, dai contesti culturali, sociali ed economici in cui le persone vivono. La povertà e l’ignoranza, ad esempio, son considerati due elementi che aiutano la formazione di criminali. Ecco quindi che il carcere deve assumersi il compito di “salvare” i detenuti da simili contesti, impedendo così che, una volta usciti dal carcere, ci rientrino in poco tempo. Il risultato è piuttosto ovvio. Malgrado la costante diminuzione dei crimini, aumentano sempre più i recidivi. La percentuale di detenuti che, una volta usciti dal carcere, finiranno rapidamente per tornarci, raggiunge infatti il 60%. Numero che scende al 19% per chi intraprende percorsi di reinserimento; e all’1% per chi viene reinserito direttamente in un’attività produttiva. Gli svantaggi causati dal carcere punitivo, sotto questo aspetto, sono molteplici. Il detenuto sa bene che, fuori dal carcere, potrebbe trovare “il vuoto”. Sa bene che rischia di ritrovarsi nella stessa vita che, in origine, lo ha portato a delinquere. Sa anche di non poter cambiare la situazione. Egli è infatti isolato, non può dialogare col mondo. Può farlo solo con altri detenuti. Questo ci conduce al secondo problema che provoca la recidività. I detenuti possono rapportarsi solo ad altri detenuti. Una grave limitazione in un paese come il nostro, con un forte problema di criminalità organizzata. Il detenuto che non vuole tornare alle sue vecchie condizioni di vita, infatti, si troverà a chiedere aiuto proprio ad altri detenuti. I quali provengono, a loro volta, da altrettante condizioni disagiate. Spesso e volentieri, l’unica possibilità per il detenuto che non vuol tornare alla sua vecchia vita, è quella di affidarsi alla mafia. Ecco come moltissimi spacciatori o ladruncoli “indipendenti” finiscono per entrare, a pieno titolo, tra le maglie della criminalità organizzata, nel momento in cui escono dal carcere. Il ruolo dell’educazione - Uno dei pochi aspetti positivi nel sistema delle carceri italiane, è (o meglio, era) l’attenzione data all’educazione. Ai detenuti è infatti permesso seguire corsi di formazione all’interno delle carceri, ma non solo. Essi possono scegliere di “riprendere gli studi”, magari per andare oltre la terza media, o anche per laurearsi. L’educazione è infatti una delle armi principali per combattere la recidività. Non solo offre maggiori possibilità occupazionali, ma permette al detenuto di “uscire” dal suo contesto socio-culturale, apprendendo nuove visioni sul mondo e modi alternativi di vivere la vita. Nella prima frase di questo capitolo mi son sentito obbligato all’utilizzo del passato. Mi son sentito obbligato perché tra i vari tagli effettuati da questo governo, spiccano quelli a danno dell’educazione dei carcerati. Non si tratta di tagli ingentissimi, dobbiamo essere onesti, ma son comunque dei tagli. Per darvi un’idea: sulle 40 classi attive a Rebibbia, ne resteranno attive 32. Come potete vedere non si tratta di un taglio particolarmente drastico, ma risulta gravissimo alla luce del sovraffollamento strutturale delle carceri. Risulta inoltre grave alla luce del concetto che vi sta dietro. Tagliare fondi all’istruzione in carcere equivale tornare, ideologicamente, all’immagine del criminale che deve solo esser punito. Rischiando in questo modo di amplificare ulteriormente il tasso di recidività. Ad essere cambiato, nel corso degli anni, è anche il target di questi progetti educativi. Se in passato la maggioranza dei detenuti coinvolti da progetti educativi era di età compresa tra i 30 e i 50 anni, la situazione sta cambiando rapidamente. Sono sempre di più, infatti, i detenuti appena maggiorenni, o che ancora non hanno raggiunto i trenta. Giovani detenuti, che indicano come il disagio sociale venga percepito in maniera sempre più precoce. Cause principali: una dilagante ansia per il futuro, e un’istruzione che, sempre meno, riesce a dare buoni risultati. Per questi giovani detenuti i progetti educativi risultano ancor più importanti. Può essere infatti complicato reinserire nella società dei detenuti adulti, interamente formati e radicati nel contesto sociale che ha generato il crimine. Spesso l’unico modo per “salvare” questi soggetti consiste nel garantir loro un diretto inserimento lavorativo. Tuttavia siamo ben lontani da simili programmi su scala nazionale. Per i giovani, però, l’educazione può fornire davvero un ottimo strumento per il reinserimento in società. Risolvendo alla radice un problema che, sul lungo periodo, potrebbe diventare ancora più grave. Per comprenderlo è sufficiente un semplice ragionamento logico. Un tasso di recidività alto come quello italiano risulta problematico quando riguarda soggetti adulti. Immaginate la gravità di quello stesso tasso relativo a ragazzi, che potrebbero vivere un costante “avanti e indietro” tra crimine e carcere. Non per 30 o 40 anni, ma per 50 o 60. Non combattendo la recidività rischiamo, in poche parole, di veder aumentare sempre più la “longevità media” del detenuto. Con ovvi e ulteriori problemi per il sovraffollamento delle carceri italiane. Università in carcere, una mappa di Monia Melis lettera43.it, 8 luglio 2019 In tutta Italia gli studenti detenuti sono 796, l’1% del totale. Un diritto, quello allo studio, che però non è ancora garantito a tutti. I numeri dell’Associazione Antigone. Farsi la galera a volte coincide con prendersi una laurea. O almeno iniziare un percorso di studi, spesso l’unico filo a cui appigliarsi quando le porte del carcere si chiudono alle spalle. Le interminabili ore trascorse in cella di fronte a un muro “azzurro amministrazione”, possono infatti essere interrotte dallo studio e dagli esami “veri”, gli stessi del “mondo fuori”. In tutta Italia 796 studenti detenuti - C’è chi inizia dalle medie, prosegue con le superiori e infine si iscrive all’università. E chi invece, da diplomato, inizia come una qualsiasi matricola. Gli studenti universitari in carcere nell’anno accademico 2018/2019 sono stati 796, distribuiti in 70 istituti e iscritti a 30 atenei. A tracciare la mappa, non solo geografica, è il XV rapporto dell’associazione Antigone pubblicato a maggio 2019. Maschi e femmine, stessa percentuale - In numeri assoluti ci sono più detenuti studenti maschi rispetto alle donne, ma è solo una questione di proporzioni. La percentuale degli iscritti sul totale della popolazione carceraria è la stessa: circa l’1% del totale (60.476 gli uomini reclusi al 31 maggio, 2.648 le donne). E infatti le studentesse in carcere sono 26, gli studenti detenuti 743. Tra loro c’è chi sta scontando la pena in regimi speciali, più restrittivi, come l’alta sicurezza e il 41 bis (in tutto sono 223). Altri invece usufruiscono di forme di esecuzione della pena esterne (sono 52, di cui due donne). Questo significa che possono frequentare le lezioni in aula, conoscere colleghi e professori, studiare in biblioteca e rientrare la sera in cella. Boom per le discipline politico-sociologiche - Ma cosa studiano gli studenti carcerati? Un quarto degli iscritti (il 25,6%) studia discipline politico-sociologiche. Al secondo posto, con il 18,6%, si piazzano le materie umanistiche (da Lettere a lingue fino al Dams). Seguono Giurisprudenza (15,8% degli iscritti), Scienze naturali, Agraria, Storia (9,2%), Psicologia ed Economia (attorno al 6%) e infine Ingegneria e Matematica. Gli atenei storici e il caso sardo - Tra i poli universitari storici che hanno aperto ai detenuti come Bologna, Padova, Roma Tor Vergata, Milano e Pisa (con circa 60 iscritti ciascuno), spicca il caso di Sassari - seconda università sarda - che vive un boom con i suoi 51 iscritti. Addirittura nella piccola casa di reclusione di Nuchis, a Tempio Pausania, quasi la metà dei detenuti - 149 - frequenta la scuola, altri sono avviati alla laurea. Un diritto ma non per tutti - I detenuti universitari possono anche esser trasferiti durante il percorso mantenendo (come spesso capita) il legame con il loro ateneo d’origine. Osservando la mappa interattiva creata con i dati della Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari) è evidente una distribuzione non omogenea degli iscritti: ci sono infatti regioni senza studenti-carcerati come Sicilia, Basilicata, Puglia e Molise ma anche Friuli Venezia Giulia e Val d’Aosta. Con due detenuti studenti seguono a stretto giro Abruzzo e la Provincia autonoma di Trento. Eppure studiare è un diritto, non uno sfizio. La legge che regola lo studio universitario in carcere esiste dal 1975 (numero 354), anche se ogni istituto ha dei regolamenti interni che fanno la differenza. Nei decreti legislativi di riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 mancano le applicazioni pratiche del diritto, sostengono gli addetti ai lavori. “Ogni istituto può declinare la legge con i suoi regolamenti e manca ancora un’omogeneità nazionale”, conferma a Lettera43.it Emmanuele Farris, delegato rettorale del Polo universitario penitenziario sassarese e membro della Conferenza nazionale dei delegati. “Infantilizzazione” del recluso - Gli esempi pratici vanni dai libri alle dispense, materiale acquistato ma che spesso impiega mesi ad arrivare a destinazione. Farris li definisce “diritti rallentati” che rientrano in un fenomeno noto come infantilizzazione del recluso. A ciò si aggiunge il nodo Internet. In alcune carceri - solo a certi tipi di regime - ne è concesso l’utilizzo a esclusivo scopo didattico. Ossia una pagina bloccata in cui è possibile monitorare esami, date, seguire video lezioni, interloquire con il tutor e i professori, nonché sostenere gli esami. La strada è ancora lunga. “Ma è possibile fare passi avanti”, continua Farris, “pur tenendo conto delle indispensabili misure di sicurezza”. Lo scopo ultimo è quello di rieducare, ricordare al detenuto di essere un cittadino con un pensiero al dopo. “Istruzione dentro”, la storia di Adriano - “Mi mancano due esami, poi la tesi e presto arriverà per me la laurea in Ingegneria a Firenze”. Parla con tono sicuro Adriano Pischedda, cinquantenne, detenuto ad Alghero da cui continua a seguire il suo corso di studi. “Sono entrato in carcere nel 1999, con la terza media”, spiega. “Poi, ho iniziato a studiare per sbaglio, per far qualcosa. Ma non riuscivo, volevo smettere. Non ero convinto dell’utilità, ma soprattutto non ricordavo nulla. Numeri, passaggi, nulla. Non capivo, mi stancavo”. Per sua fortuna educatori e insegnanti hanno insistito “Ti devi solo allenare, mi dicevano”. E così è stato: prima il diploma di Ragioneria, poi quello di perito industriale e ora è a un passo dalla laurea. “Se avessi studiato da ragazzo, forse la mia vita sarebbe stata diversa”, conclude. Ma questa è un’altra storia. Carceri, droni in volo. Più fondi per la sicurezza degli istituti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 8 luglio 2019 Più fondi per la sicurezza degli istituti penitenziari. Ammonta a quasi 3,5 milioni di euro per il 2019 il totale degli acquisti programmati dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) per migliorarne la sicurezza. Una necessità visto che “in carcere riescono ad entrare telefonini che misurano 6 cm x 2 infilati nel canale rettale, portati dai familiari in visita o dagli stessi detenuti al rientro dal lavoro fuori dal carcere”, spiega Francesco Basentini, che il 27 giugno scorso ha compiuto un anno esatto di mandato a capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “A oggi”, dichiara, “il possesso dei cellulari in carcere non costituisce reato, chi viene trovato con un apparecchio in tasca non rischia che una sanzione amministrativa da parte della direzione carceraria, nulla più. Manca una norma penale che punisca l’atto”. Ma intanto, qualcosa si può fare per isolare gli apparati telefonici mobili introdotti abusivamente negli istituti penitenziari. Strumenti per inibire il traffico telefonico di dati e voce - Nel bagaglio della spesa per la sicurezza degli istituti assegnata al Dap peri l’anno in corso, ci sono 80 apparecchi per il controllo radiografico dei pacchi, 74 metal detector a portale e 165 jammer, “disturbatori di frequenza che rendono impossibile o complessa la comunicazione per l’inibizione delle frequenze telefoniche”, definisce Basentini. A completare la dotazione, 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari, anche spenti, 2 apparati Imsi - International Mobile Subscriber Identity - per la cattura di frequenze telefoniche e 65 apparati rilevatori di traffico di fonia e dati. Per tutto il mese di giugno, si sono svolte le sessioni formative per il personale di polizia penitenziaria sul funzionamento dei jammer: curate dalla ditta aggiudicataria dell’appalto, hanno coinvolto dieci poliziotti per ciascun provveditorato istruiti sui principi di funzionamento e sul corretto utilizzo degli apparecchi. Il calendario ha previsto la prima sessione l’11 giugno nel provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria - Prap - di Palermo; poi, a seguire, a Catanzaro il 13, a Padova il 14, a Bologna il 17, a Firenze il 18, a Torino e Napoli il 25, a Milano e Cagliari il 26, a Roma il 27 e per finire, a Bari il 28. “È vero che il numero degli strumenti di controllo è insufficiente rispetto ai 60.476 detenuti nelle carceri italiane ma si tratta di una prima scelta di investimento in sicurezza: ci dedicheremo prioritariamente agli istituti più grandi dove manderemo più apparati per poi pensare anche a tutti gli altri”, conclude Basentini. I droni - Tra le risorse per garantire la sicurezza degli istituti, il ministero pensa anche all’impiego di droni, spiega il Capo dipartimento: “Ne stiamo testando l’utilizzo all’interno degli istituti penitenziari, sarebbe un bel risparmio in termini di impiego di personale. Se pensiamo che un istituto di medie dimensioni deve avere almeno un’autovettura con due persone a bordo che giri in continuazione lungo il perimetro dell’istituto, per turni di sei ore giornaliere servono in media 8 persone al giorno. Senza contare che i droni consentirebbero anche una maggiore sicurezza grazie alla visione notturna, a raggi infrarossi”. E l’utilizzo di “aeromobili a pilotaggio remoto” - Apr - da parte del corpo di polizia penitenziaria, è stato proposto di recente in un disegno di legge a firma di un gruppetto di senatori presentato il 6 marzo 2019. Il testo prevede l’istituzione di un nucleo di polizia penitenziaria presso ogni tribunale di sorveglianza e il suo utilizzo degli Apr “ai fini del controllo del territorio per finalità di pubblica sicurezza, con particolare riferimento al contrasto del terrorismo e alla prevenzione dei reati di criminalità organizzata e ambientale”. Possibilità non contemplata dal decreto-legge 4 ottobre 2018 n. 113 convertito in legge del 1° dicembre 2018 n. 132 in materia di “disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica” che ha escluso il corpo di polizia penitenziaria dalle forze di polizia autorizzate all’utilizzo dei droni per finalità istituzionali. Slitta il decreto sicurezza bis. La Lega in pressing sul M55: “La pazienza sta per finire” di Ilario Lombardo La Stampa, 8 luglio 2019 Se c’è un decreto sicurezza bis, ci sono malumori bis. Così è, infatti, e Matteo Salvini lo sa bene. Tanto che sta chiedendo ai parlamentari leghisti di fargli sapere che aria tira alla Camera. Martedì, quando si riuniranno in congiunta le commissioni Affari costituzionali e Giustizia, sarà l’ultimo giorno utile per presentare gli emendamenti. Dopo, toccherà all’Aula. Il testo sarebbe dovuto arrivare il 15 luglio ma, a quanto pare, slitterà di qualche giorno. “Per la mole di emendamenti presentati” è la ragione ufficiale. In realtà, si punta ad andare oltre il 20 luglio, data fatidica, visto che da quel giorno si chiuderà la finestra elettorale per andare a votare a settembre. I5 Stelle non pensano ad altro, ossessionati dal timore che Salvini possa rompere da un momento all’altro. La notizia di un incontro tra lui e Giorgia Meloni, il giorno dopo la convention di Giovanni Toti, che da Forza Italia potrebbe creare un partito-stampella per Salvini, ha scatenato mille sospetti tra i grillini, nonostante le smentite della Lega. La temperatura del conflitto tra il ministro dell’Interno e la ministra della Difesa Elisabetta Trenta si è alzata a tal punto che nel M5S c’è chi pensa che il leader del Carroccio voglia uno scontro sui migranti per testare la tenuta dei grillini. Sull’immigrazione Di Maio, sempre più convinto dalle ragioni di Salvini, è costretto a trovare un equilibrio complicatissimo per evitare di alienarsi le truppe più sensibili al salvataggio dei profughi. Attacca le Ong ma non risparmia critiche al collega vicepremier che in un’assemblea del M5S a Milano, altra tappa del suo tour tra gli attivisti locali, definisce “il principale esponente dello schieramento avverso”, prendendo in prestito la frase di Walter Veltroni, come mostra un video del Fatto.it. Proprio sull’immigrazione il capo politico cede a un’autoassoluzione che suona come una critica alla componente del M5S che insiste a difendere i diritti dei migranti: “Non dico che perdiamo voti per quello ma...”. Alle prese con la riorganizzazione del partito, Di Maio non vuole scherzi in Parlamento, nonostante lui e i suoi uomini pensino che alla fine i grillini voteranno il decreto Sicurezza bis pur di non tornare a casa. Intanto l’emendamento che sgonfiava la legge cara a Salvini, firmata dalle grilline Yana Ehm e Simona Suriano, è stato fatto ritirare. Puntava a preservare le navi coinvolte in operazioni di salvataggio, esattamente quelle che vuole punire il ministro dell’Interno. “L’emendamento non era passato attraverso il filtro politico” è la spiegazione data dal M5S. “Ci saranno proposte di modifiche, ma condivise”. Per esempio, per ammorbidire le pene che si inaspriscono per chi manifesta e, appunto, per chi salva esseri umani in mare. Ma in generale, giurano dal M5S, non si sente un clima di ribellione imminente come fu nel caso del primo decreto Sicurezza, quando la spaccatura si manifestò in una lettera della fronda dei deputati, alcuni dei quali uscirono al momento del voto. Sta di fatto che Salvini chiede l’approvazione prima della pausa estiva. “Perché la pazienza - ha detto ieri alla luce degli attacchi del sottosegretario del M5S Manlio Di Stefano - sta finendo”. Al Senato i numeri restano molto critici. Sulla carta la maggioranza si regge su tre nomi. Ma il soccorso di Fratelli d’Italia e di pezzi di Forza Italia sembra scontato. Certo, l’alleanza non darebbe propriamente un’immagine di solidità se venisse frantumata dal suo interno. Detto questo, in settimana potrebbe arrivare un’altra espulsione nel M5S, del senatore Lello Ciampolillo, sospeso dallo scorso 31 dicembre. Si rifiutò di votare il cosiddetto decreto Genova, che conteneva il mini-condono di Ischia ed è accusato di non restituire da mesi parte dello stipendio al fondo rimborsi. Per un ricalcolo sui seggi a Palazzo Madama arriveranno un altro leghista e un altro eletto 5 Stelle. Ragione in più per Di Maio per procedere con le epurazioni. Decreto Sicurezza, i tormenti del M5S Bloccata (per ora) l’ala “oltranzista” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 8 luglio 2019 Si punta a evitare il voto anticipato superando la finestra del 20 luglio: oltre quel termine non sono più possibili le urne a settembre. In arrivo l’espulsione di Ciampolillo. Il conflitto a bassa intensità tra Lega e 5 Stelle è esploso, non a sorpresa, in occasione dell’ennesimo scontro sui migranti con la vicenda delle navi Alex di Mediterranea e Alan Kurdi. Nel mirino, e non è la prima volta, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta. La replica è stata durissima, ma in fondo il contenuto non era rilevante. Perché lo scopo di Matteo Salvini è quello di far emergere, e possibilmente esplodere, le contraddizioni del Movimento sul tema migranti. E l’obiettivo di Luigi Di Maio è il contrario: sopire, troncare ogni focolaio di ribellione interna e provare a scavallare la finestra del 20 luglio, termine entro il quale, cadendo il governo, si potrebbe tornare al voto a settembre. A quel punto, escluse urne troppo anticipate (visti anche i sondaggi alle stelle della Lega), si potrebbe trattare sui contenuti. Magari inscenando qualche duello mediatico. Ma di fatto, il via libera al decreto Sicurezza bis non sarebbe in discussione. Il Movimento resta però un magma incandescente e imprevedibile. Non è un mistero che l’immigrazione sia una delle faglie sismiche che attraversano i 5 Stelle. Non c’è una minoranza organizzata perché chi potrebbe guidarla, Roberto Fico, si astiene prudentemente dal prenderne il controllo. Il presidente della Camera rappresenta comunque un punto di riferimento importante e la sua voce conta. Solo pochi giorni fa ha spiegato senza troppe cautele che “chiudere i porti ai migranti non è una soluzione”. In occasione del primo decreto, ci fu il caso di una lettera interna di 17 deputati M5S, che chiedevano variazioni al testo. Difficile che si ripeta il caso. Ma i distinguo sono molti. Yana Ehm e Simona Suriano hanno visto un loro emendamento molto poco leghista cestinato dal gruppo (forse i loro nomi convergeranno in altri testi). Solo pochi giorni fa la Ehm ha partecipato a un convegno sui “corridoi umanitari”, presenti Roberto Fico e Giuseppe Brescia. Sono molti i malpancisti, non solo sulla questione migranti, ma anche su altri profili del decreto. Ci sono norme che inaspriscono le sanzioni per chi usa caschi protettivi durante le manifestazioni o lancia oggetti. E sono previste molte aggravanti discutibili. Che infatti non piacciono a molti nei 5 Stelle. Il Movimento affronta spesso le critiche interne con uno strumento piuttosto deciso: le espulsioni. Sono appena state cacciate Veronica Giannone e Gloria Vizzini, che non avevano partecipato al voto sul primo decreto Sicurezza. E non è escluso che si proceda con altre. Finora sono state nove le espulsioni, ma ne sarebbe in arrivo una nuova, stavolta in Senato: nel mirino c’è Lello Ciampolillo, già inviso per le sue posizioni sulla xylella. Il pretesto sarebbe quello dei mancati rimborsi (anche se sono in molti a non averli effettuati). Una mossa che farebbe scendere a due il margine di sicurezza della maggioranza. Se non fosse che, in virtù di ricorsi arrivati a conclusione solo ora nella Giunta per le elezioni, stanno arrivando due nuovi senatori: Stefano Corti (Lega), al posto del dem Edoardo Patriarca, ed Emma Pavanelli (l’umbra m5s che otterrebbe il seggio non assegnato in Sicilia causa eccesso di vittoria del Movimento). Una maggioranza più alta, ma pur sempre a rischio. Comunque sia, si comincia dalla Camera. Domani scade il termine per la presentazione degli emendamenti, che saranno discussi e votati dalle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia. L’arrivo in Aula è previsto per i115, ma tutti danno per scontato che, causa mole degli emendamenti e causa finestra elettorale, si slitti di qualche giorno. Poi, se va tutto bene, si arriverà in Senato verso il 25 luglio. Se la navigazione del governo sarà lontana da bufere, la nuova sicurezza targata Lega, con l’avallo 5 Stelle, sarà legge. Indagini penali, in media occorrono 404 giorni di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2019 Tredici mesi, 404 giorni per la precisione. È questo il tempo medio di durata delle indagini preliminari condotte dalle procure presso i tribunali (sezioni ordinarie e Dda), rilevato dalle statistiche più recenti del ministero della Giustizia, riferite al 2017 e che si concentrano sui reati con autore noto. Tempi che sembrano in linea con i termini dettati dal Codice di procedura penale, che fissa la durata ordinaria in sei mesi, prorogabile (con più proroghe, ognuna al massimo di sei mesi) fino a 18 dal giudice su richiesta del Pm; per reati molto gravi (come l’associazione mafiosa) il termine iniziale è di un anno, prorogabile fino a due. I tempi eccessivi - Analizzando i dati nel dettaglio, emergono tuttavia le anomalie. Infatti, se circa la metà (il 53%) delle indagini 2017 si è chiusa entro il termine ordinario di sei mesi e il 26% entro i due anni, il 20% ha invece sforato i due anni. Tempi lunghi che il Codice sanziona con l’impossibilità di usare gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza dei termini. Senza contare che c’è una fetta di procedimenti (il 4,6% nel 2017) che arrivano a prescriversi nella fase delle indagini preliminari. I tempi variano poi in modo sensibile da una procura all’altra. Nel 2017 è stata Brescia quella in cui le indagini preliminari sono durate di più, con una media di 829 giorni. “Nel 2017 l’organico era la metà dell’attuale - spiega il Procuratore aggiunto Carlo Nocerino - ma grazie all’arrivo nel 2018 di 8 nuovi sostituti, oggi la situazione è molto diversa: nel primo semestre 2019, a fronte di 9.866 nuovi fascicoli siamo riusciti a chiuderne 12.779”. Carenze di organico ma anche ampliamento del bacino di competenza a Nocera Inferiore, dove la durata media 2017 è stata di 651 giorni. “Il Dlgs 155/2012 ha aumentato la popolazione di riferimento del 31% ma l’organico rimase lo stesso - dice il Procuratore Antonio Centore -. Oggi siamo riusciti a tornare a una situazione normale grazie allo spostamento di risorse da altre procure”. Alla Procura di Cosenza, invece, la durata media delle indagini nel 2017 si è fermata a 128 giorni. Un dato che è il risultato, spiega il Procuratore Mario Spagnuolo, “di un grande lavoro sull’organizzazione, anche del personale amministrativo, per evitare colli di bottiglia e tempi morti. Siamo stati poi favoriti - aggiunge - dal basso turnover dei magistrati che ha evitato gli stalli spesso causati dai passaggi di consegne”. I punti chiave della riforma - È in questo quadro che dovrebbe inserirsi la riforma del processo penale su cui il Governo sta lavorando da tempo e che, stando alle dichiarazioni del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, dovrebbe approdare nei prossimi giorni al Consiglio dei ministri, insieme con i progetti di riforma del processo civile e del Consiglio superiore della magistratura. Un intervento che arriverebbe mentre il mondo della giustizia è scosso dallo scandalo che ha investito lo stesso Csm e le Procure. Il progetto - su cui stanno cercando l’accordo Bonafede e Giulia Bongiorno, ministro per la Pa, e che dovrebbe essere contenuto in un disegno di legge delega - punterebbe tra l’altro a irrigidire i termini delle indagini, con sanzioni per chi non li rispetta. Più che incidere sulla durata complessiva, l’intervento dovrebbe mirare soprattutto a rendere più rigidi scadenze e meccanismi. Si pensa infatti a un termine iniziale di un anno, prorogabile una sola volta per sei mesi (salvo casi particolari), con l’obbligo di depositare gli atti entro tre mesi. Chiesta dagli avvocati, la riforma delle indagini preliminari è invece vista con sospetto dai Pm, per i quali il contingentamento dei tempi rischia di compromettere l’accuratezza delle indagini. A essere messe a rischio, secondo i magistrati, sarebbero proprio le inchieste più complesse e che coinvolgono più imputati, come quelle per mafia. “Non c’è bisogno di cambiare le regole - dice Nocerino - poiché il Codice già prevede il controllo del Gip. Nelle proroghe non ci sono automatismi, tant’è che spesso vengono bocciate”. I Pm respingono anche l’accusa di ritardare le iscrizioni delle notizie di reato. Una scelta, secondo gli avvocati, fatta per rimandare il decorso dei termini per le indagini. Per i Pm, invece, non tutte le notizie di reato vanno iscritte ma occorre raccogliere gli elementi per iscrivere in modo motivato. Processo penale. L’intreccio con la prescrizione e il rischio dei vecchi veti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2019 All’introduzione di misure acceleratorie dei procedimenti penali è legato l’accordo politico tra Lega e Movimento 5 Stelle che ha permesso la modifica alla disciplina della prescrizione con il congelamento dei termini all’altezza del giudizio di primo grado, di qualsiasi segno sia. In questa prospettiva, allora, diventano centrali i tempi delle indagini. È proprio in questa fase, infatti, che matura il maggior numero delle prescrizioni ed è chiaro che un intervento elusivo sul punto sarebbe denso di conseguenze. Il nodo - Il nodo da sciogliere però è sia politico sia tecnico. Perché le modifiche al processo penale concordate tra ministero, Camere penali e Anm hanno di fatto trascurato questo aspetto, i tempi delle indagini, limitandosi a un accordo sulla rimodulazione della regola per la presentazione della richiesta di archiviazione, da avanzare quando mancano probabilità di successo dell’accusa in dibattimento. Impasse del resto comprensibile, considerati, da una parte, il favore degli avvocati per misure più stringenti nei tempi e vincolanti nel loro rispetto e, dall’altra, invece l’ostilità della magistratura. Solo pochi giorni fa il neo presidente dell’Anm, Luca Poniz, tornava a sottolineare la perplessità di fondo davanti a possibili sanzioni per il pubblico ministero che non rispetta i termini, in un contesto di scarsità di risorse a disposizione. E non aiuta il precedente della riforma Orlando, con la sostanziale sterilizzazione, anche da parte del Csm, della norma che aveva previsto l’avocazione da parte della procura generale in caso di inerzia del pm nel formulare l’imputazione o chiedere l’archiviazione. Governo diviso - Sul piano politico poi, a oggi, la distanza tra le forze di Governo sul punto è ancora assai forte. Anzi, l’ipotesi di 12 mesi di durata standard più 6 di proroga senza notifica all’imputato appare alla Lega addirittura peggiorativa rispetto all’esistente. Una distanza che, per la verità, allo stato, resta forte su tutta la riforma della procedura penale in discussione. Troppo blanda e poco incisiva, per la Lega. Incapace di dare un effettivo impulso ai procedimenti. L’accordo a tre tra ministero, magistrati e penalisti, al di là delle indagini preliminari, investe infatti alcuni aspetti che però sono giudicati marginali. È il caso, per esempio, dell’udienza preliminare, e dell’anticipo delle questioni che riguardano la competenza per territorio, la costituzione delle parti, il contenuto del fascicolo per il dibattimento. Oppure dei riti alternativi, che dovrebbero uscire incentivati sia sul fronte del patteggiamento (riduzione sino alla metà in caso di contravvenzione o di accordo raggiunto nelle indagini preliminari e innalzamento a 10 anni della pena che può essere richiesta dalle parti, eliminazione delle preclusioni sia soggettive sia oggettive), sia su quello del rito abbreviato. Di certo c’è il concreto pericolo che la riforma della procedura penale si riveli l’ennesimo intervento tampone, dove la somma dei veti incrociati produce uno zero sostanziale quanto a incisività. Ammesso poi che siano proprio gli interventi sulla procedura penale quelli più significativi per il miglioramento dei tempi di durata dei procedimenti. E non invece lo stanziamento di risorse, la formazione dei vertici degli uffici e misure meno glamour, come una drastica modifica del sistema delle notifiche. Sentenze, predittività prudente. Il libero convincimento del giudice è valore primario di Claudia Morelli Italia Oggi, 8 luglio 2019 Tra common law e civil law le distanze in tema di predittività della decisione del giudice sono meno ampie di quello che si potrebbe supporre: in entrambi i sistemi gli operatori temono che un impiego senza un esame approfondito circa le condizioni di partenza e i criteri di machine learning potrebbe compromettere la portata creativa del diritto e mettere in discussione il libero convincimento del giudice. Un confronto, tra opportunità e paure, sull’utilizzo di metodologie e tools operativi in sistemi di civil law e di common law si è svolto nelle settimane scorse a Londra, in occasione dell’incontro a più voci presso Conference Centre Westminster, promosso da Diritto Avanzato per la presentazione del volume Interpretation of the law with a mathematical model dell’avvocato Luigi Viola. Si tratta di un white paper in vista della edizione di un software che illustra la metodologia e i risultati delle sperimentazioni finora condotte con l’applicazione della funzione matematica che traduce l’articolo 12 delle preleggi (che disciplina le fasi della interpretazione della norma), con il proposito di fornire uno strumento che guidi gli operatori ad una interpretazione alla luce del diritto positivo. “L’algoritmo “interpretativo”, lungi dall’idea di poter sostituire l’attività interpretativa del giudice, può diventare uno strumento integrativo e di supporto dell’attività del giurista, che tuttavia - non si può negare - viene richiamato alla necessità di riflettere sul proprio ruolo in un ecosistema digitale”, ha spiegato Viola. Viola ha escluso l’applicazione dell’algoritmo negli ambiti dove le valutazioni “valoriali” del giudice pesano di più: famiglia, buona fede, diligenza del buon padre di famiglia e ne ha sottolineato l’applicazione alla luce dei principi costituzionali e conforme al diritto della Ue. La sfida dunque è quella di individuare una via “temperata” per garantire al contempo maggiore, tendenziale, certezza del diritto e applicazione della norma al singolo caso concreto. E dunque la linea di confine nell’utilizzo di questi sistemi, secondo quanto emerso dal confronto, dovrà porsi in un punto di equilibrio tra maggiore certezza del diritto e forza propulsiva della interpretazione del giudice. Ed in questo, gli ordinamenti di civil law e common law non divergono, alla luce degli interventi susseguitisi nel corso dell’incontro. Iain Grant Mitchell, presidente della Scottish society for computers and law e componente delle commissioni IT del CCbe e del Bar Council, ha evidenziato “l’attuale imperfezione dei sistemi di predizioni delle sentenze dei giudici” (accuratezza raggiunta nel 79% nella sperimentazione condotta dall’Università di Londra sulle sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo), evidenziando i limiti in fatto di completezza e di rischio di pregiudizio. Soprattutto il pericolo di “ossificare” il diritto inglese, visto che “nel sistema di common law anche la regola sostanziale è oggetto di “creazione” nel giudizio”. La funzione Viola, ha detto, potrebbe avere più chance in quanto applicata in un sistema di civil law, dove la norma è codificata. Il magistrato del Massimario della Corte di cassazione, Rosaria Giordano, pur escludendo lo scenario di un giudice robot o di una interpretazione automatica che vada oltre la ricostruzione del fatto e la sua sussunzione nella norma, ha aperto ad utilizzo di sistemi matematici nelle controversie in materia di responsabilità extracontrattuale o nelle fattispecie completamente sussumibili in “precise norme giuridiche preferibilmente di matrice codicistica”. La differenza tra giurisprudenza prevedibile obiettivo specifico di un sistema di common law e giustizia predittiva, che nei sistemi di civil lav applica il ragionamento deduttivo dal principio generale al caso specifico, è stato messo in luce da Michele Filippelli - associato di diritto privato all’università E-Campus - mentre l’avvocato dello Stato Andrea Giordano ha posto in luce il rapporto tra algoritmo e over-ruling (il cambio in corso di processo della norma). Richiamando i rimedi oggi possibili (rimessione in termini, lettura esegetica precedente, l’utilizzo della decisione sulle spese processuali come bilanciamento di interessi confliggenti ex post) ha suggerito lo studio di “un algoritmo di II grado” ove quello “di primo grado sia stato in concreto violato”. Per Pietro Chiofalo, rappresentate di interessi presso la Camera dei deputati, la questione della giustizia predittiva dovrà essere oggetto di consapevolezza e disciplina alla luce dei diritti dei cittadini. Da parte degli operatori del mercato, i grandi studi legali di matrice anglosassone in primis, però la musica è diversa. Non tanto per la assoluta convinzione di una applicabilità a 360°, quanto per un approccio pragmatico e operativo alla predittività in determinati settori legal. Lo ha spiegato bene Simon White, capo Data e Predictive analyst dello studio legale Dwf Law. “L’uso pratico di modelli predittivi è volto alla ricerca di profili comuni nei vari casi e nei dati storici e non all’applicazione della legge maggiormente pertinente. Se un avvocato ritiene di avere prove inconfutabili, non lo utilizzerà nel suo processo valutativo della strategia. I modelli si sono invece dimostrati efficaci quando (nelle cause civili, ndr) non c’è un quadro probatorio schiacciante. L’unico e più grande problema che abbiamo dovuto superare è stato quello di ottenere la fiducia degli avvocati nella esattezza dei risultati del modello predittivo, per una certa specifica loro forma mentis. Nei settori analizzati (frodi, ndr), in media l’80% del modello è convalidato dall’esperienza. Ma la domanda è: qual è la propensione matematica del principio oltre ogni ragionevole dubbio? In realtà è il ruolo dell’avvocato che sta evolvendo, ormai al ritmo delle capacità di dati e tecnologia”. Sulla futura “persistenza” dell’avvocato ha parlato anche Tudor Stoicescu, direttore Regulatory di Payments Compliance: “Le leggi sono ambigue by default ed è difficile insegnare alla macchina l’intenzione del legislatore. Ma l’ulteriore ricerca e adozione di modelli matematici nella interpretazione della legge è uno sviluppo che dovrebbe essere osservato e compreso, poiché credo che influenzerà fortemente il futuro della professione”. Intanto si diffondono le sperimentazioni Prevedibilità della sentenza, la partita è aperta. La Francia ha appena vietato la profilazione dei giudici (articolo 33 della L. n. 2019-222, di programmazione 2018-2022 e di riforma della giustizia) per impedire la progettazione di sistemi predittivi basati non solo sulle decisioni giudiziarie (per le quali la Francia ha optato per un sistema di data open), ma anche su altri scritti, interviste ecc. Profilazione massiva come già accade negli Usa grazie ad alcune piattaforme in commercio. La Law society ha appena pubblicato un corposo rapporto con una mappa che censisce gli algoritmi predittivi (soprattutto di criminal law) in uso nel sistema giudiziario inglese (dalla polizia predittiva, al riconoscimento facciale, alla gestione dei visti, per la gestione delle carceri, per l’analisi delle gangs), denunciando la mancanza di informazioni pubbliche e il rischio per i diritti di libertà e privacy dei cittadini. Nel contempo, si diffondo nei Paesi Ue le sperimentazioni - anche da parte di istituzioni pubbliche demandate al settore giudiziario - di sistemi predittivi, al fine del case management per aumentare l’efficienza dei sistemi giudiziari e per promuovere certezza del diritto. Esempi sono in Francia, Olanda, Estonia; e anche in Italia, con il progetto studiato dalla Corte d’appello e l’Università di Brescia, che al momento prevede la creazione di una data base di decisioni in materia societaria e commerciale (a partire dal 2018) con criteri che permettano la comprensione - da parte dell’algoritmo, non solo dei dispositivi e delle motivazioni ma anche del fatto. Nel frattempo prosegue in Europa, sia a livello di Unione europea che di Consiglio d’Europa il lavoro sulle carte etiche, bussole per gli operatori - sia giuristi, che developer ma anche legislatori e governi, per orientarsi in una tecnologia della quale è alto il rischio di collisione con i diritti fondamentali. Da ultimo, la Commissione Ue ha da poco pubblicato la versione finale delle Linee Guida del gruppo di esperti avviando la fase di sperimentazione dei sette principi guida. Mentre il Consiglio d’Europa ha annunciato un lavoro che dovrebbe portate a standard di certificazione dei tool predittivi utilizzabili nel settore della Giustizia. L’orrore di una repubblica giudiziaria fondata sui pm di Claudio Cerasa Il Foglio, 8 luglio 2019 Lo scandalo del Csm ci ricorda che un paese ostaggio di un falso fuffa. dogma chiamato obbligatorietà dell’azione penale, in cui la classe dirigente non fa nulla per affrancarsi da questa ipocrisia, è un paese destinato a essere governato da una repubblica giudiziaria fondata sul processo mediatico, sulla gogna preventiva e sulla discrezionalità dei pm. Un paese serio dovrebbe ridurre lo spazio della politicizzazione nell’azione della magistratura. Tra i molti spunti di riflessione offerti dalla incredibile guerra tra bande combattuta ormai da giorni attorno agli equilibri del Csm - e alle sue nomine, ai suoi indagati, alle sue fughe di notizie e ad alcuni sconvenienti intrecci con la politica - ce n’è uno molto importante che non è stato ancora considerato e che riguarda un tema cruciale non solo nell’ambito del caso Palamara ma anche nell’ambito della nostra democrazia. Qualcuno ci avrà fatto caso e qualcun altro forse no. Ma se c’è un filo conduttore che merita di essere seguito con attenzione per non perderci tra i mille rivoli del caos del Csm quel filo coincide con un dato che non può essere solo casuale: tra i protagonisti dell’ultimo incredibile cortocircuito della magistratura ci sono solo pubblici ministeri. Significa che i pubblici ministeri hanno una predisposizione naturale a fare zozzerie? Non diciamo stupidaggini. La nostra annotazione punta però a segnalare un tema che non può continuare a essere omesso: la ragione per cui la politica più o meno laica e le correnti più o meno togate si sono ritrovate a scannarsi tra di loro più per influenzare le nomine di procuratori e di sostituti procuratori che per influenzare le nomine di giudici è legata a un fatto difficilmente contestabile che riguarda la falsità assoluta di un dogma della nostra giurisprudenza: l’obbligatorietà dell’azione penale. Non tutti i magistrati sono uguali, naturalmente, e generalizzare sarebbe un errore, perché siamo certi, abbiamo fiducia nella magistratura, che il numero di magistrati che gioca con l’obbligatorietà dell’azione penale è infinitamente più piccolo rispetto al numero di quelli che non giocano con l’obbligatorietà dell’azione penale. Ma la ragione per cui politici e magistrati coinvolti nello scandalo del Csm hanno dimostrato di considerare più importante avere dei procuratori amici che dei giudici amici risiede proprio in un grande non detto presente all’interno della nostra democrazia: un giudice può essere bravo o può essere scarso ma alla fine non ha grande margine di discrezionalità e deve giudicare le prove. Un pm, a prescindere da quanto sia bravo o da quanto sia scarso, ha invece uno strumento discrezionale e arbitrario che il giudice non ha. In teoria, come tutti sappiamo, l’articolo 112 della Costituzione prevede che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale e che tale principio permette di escludere margini di discrezionalità in merito all’avvio delle indagini e impedisce che il pubblico ministero riceva direttive, istruzioni o pressioni atte a incidere sulla sua attività. In realtà, come nessun magistrato faticherà ad ammettere lontano dai taccuini, ogni procuratore ha la possibilità di selezionare a suo piacimento le sue priorità. E la potenziale discrezionalità di ciascun magistrato è stata in qualche modo ingigantita da tutti quei governi che piuttosto che occuparsi di trovare un equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario hanno contribuito a offrire ai magistrati nuovi strumenti per ampliare il proprio potere. Tempo fa Mario Cicala, esponente storico di Magistratura Indipendente, chiacchierando con questo giornale disse che la magistratura italiana, proprio su questo punto, aveva due grossi problemi: “Oltre alla discrezionalità di celebrare i processi, vi è anche una discrezionalità del potere di indagine del magistrato che sceglie lui dove andare a cercare notizie di reato. Soltanto partendo da questa constatazione può iniziare un dibattito che farebbe abbandonare miti vuoti come quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Non si può capire quasi nulla dello scandalo del Csm senza comprendere che il vero peccato originale nascosto dietro al traffico relativo alle nomine dei procuratori più importanti d’Italia riguarda non la presenza di un magistrato un po’ furbacchione e molto disinvolto, non l’anomalia di un politico indagato che influenza le nomine della procura che lo ha indagato, non il marciume di una corrente della magistratura al posto di un’altra. Riguarda qualcosa di più importante: la consapevolezza che ogni magistrato della Repubblica può potenzialmente rallentare o velocizzare un’indagine in modo del tutto discrezionale. “L’idea che qualunque notizia di reato debba determinare l’apertura di un fascicolo - ha detto usando parole sagge Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali - è un fatto fisicamente irrealizzabile. I procuratori devono selezionare delle priorità e tali scelte hanno trasfigurato questi uffici giudiziari in uffici di rilevanza politica perché decidere se iscrivere o meno una notizia di reato, darle una priorità o non dargliela, magari su indagini delicate che riguardano politici e governi, ha conseguenze politiche devastanti. E come tutti sappiamo, la sola iscrizione di un sottosegretario o di un ministro nel registro degli indagati determina immediate conseguenze politiche, a prescindere dalla fondatezza o meno della notizia”. Lo scandalo del Csm, fra le tante cose che ci racconta, ci ricorda che un paese ostaggio di un falso dogma chiamato obbligatorietà dell’azione penale, in cui la classe dirigente non fa nulla per affrancarsi da questa ipocrisia, è un paese destinato a essere governato a lungo da una repubblica giudiziaria fondata sul processo mediatico, sulla gogna preventiva e sulla discrezionalità dei pm. Un paese serio, di fronte alla guerra tra bande dei magistrati, piuttosto che scegliere una banda al posto di un’altra dovrebbe discutere di questo: non di come sostituire una corrente con un’altra, ma di come ridurre lo spazio della politicizzazione nell’azione della magistratura. Il resto, con tutto il rispetto, è fuffa. Mafia e politica, i due pesi tra nord e sud di Isaia Sales Il Mattino, 8 luglio 2019 “Nel marzo del 2014 Peppino venne da me. Mi disse che la famiglia De Novara mi avrebbe appoggiato nella campagna elettorale. Franco De Novara [boss di Cirò Marina] in cambio voleva che la figlia venisse nominata assessore. Loro avrebbero provveduto a farmi prendere i voti. Io sono stato eletto con uno scarto di179 voti rispetto al candidato di centrosinistra e la figlia del boss ha preso 300 voti. Dopo la mia elezione ho effettivamente nominato assessore la figlia. Nella giunta precedente, in cui ricoprivo la carica di assessore all’urbanistica, c’era la sorella di Franco. Lui nel 2009 ne pretese l’assunzione alla Saap (Servizi acqua potabile), poi effettivamente avvenuta”. Il sindaco che sta parlando con il magistrato riferisce anche di una riunione per la costruzione di un supermercato tra alcuni amministratori, imprenditori edili e rappresentanti di diversi clan di `ndrangheta che si conclude con un accordo per una tangente di 11 milioni. Leggendo tutto questo, si pensa immediatamente a vicende relative a un comune meridionale. E invece no. Si tratta di dichiarazioni del sindaco del comune di Lonate Pozzolo, in provincia di Varese. I magistrati ritengono ormai usuale a molte amministrazioni locali del Nord quello che si è verificato a Lonate Pozzolo. Eppure, nonostante tante inchieste giudiziarie, nonostante tanti arresti per 416 bis di diversi sindaci e assessori settentrionali, nonostante tante interdittive antimafia ad imprese che hanno relazioni con i comuni, il numero delle amministrazioni del Nord sciolte per rapporti con le mafie è assolutamente esiguo. Su 314 scioglimenti solo 6 riguardano comuni del Nord, cioè il 2% del totale. Il numero arriva a 10 se si includono quelle del Lazio e di altri territori fuori dalle quattro regioni di storico insediamento mafioso. Questi dati sono stati illustrati nei giorni scorsi a Roma da Avviso Pubblico, l’associazione dei Comuni per la formazione civile contro le mafie, in un dettagliato studio sull’argomento. Ciò può voler dire solo due cose: o che gli allarmi sulla presenza mafiosa al Nord sono stati esagerati, oppure che c’è una diversa utilizzazione della legge a seconda dei territori coinvolti. Leggiamo cosa c’è scritto nella relazione finale della Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura: “Anche se alcune aree sono risultate più accoglienti e attrattive di altre, nessun territorio del Nord può essere più considerato immune. Si tratta di un movimento profondo e uniforme che interessa la maggioranza delle province settentrionali e che è stato favorito da diffusi atteggiamenti di sottovalutazione e rimozione che fino a tempi recenti hanno coinvolto larga parte della popolazione e anche personalità e protagonisti della vita pubblica. L’ampia ricognizione svolta nel corso delle missioni in tutte le regioni settentrionali ha confermato la presenza pervasiva dei clan nel tessuto produttivo delle aree più dinamiche e ricche del Paese. Numerose inchieste hanno in vari gradi coinvolto le amministrazioni locali, segnalando preoccupanti episodi di corruttibilità in seno alla pubblica amministrazione e alla politica, con le quali le mafie si relazionano con estrema spregiudicatezza e senza fare differenze tra schieramenti e partiti politici”. Dunque, come mai, alle luce di queste argomentate considerazioni, gli scioglimenti sono così esigui? Il differente uso dello strumento “scioglimento” a quale logica corrisponde? Sicuramente a una disparità di valutazione delle Prefetture (e quindi dell’indirizzo del ministero degli Interni) sul sistema degli enti locali meridionali e di quelli centro- settentrionali, e a una diversa valutazione dell’impatto sulla opinione pubblica nazionale e internazionale dello scioglimento tra un grande comune e uno piccolo, tra una media città del Centro-Nord e una calabrese, tra alcuni dei capoluoghi lombardi e i comuni campani, tra un capoluogo di provincia emiliano e uno siciliano. L’utilizzo discrezionale di questo strumento fin dalla sua entrata in vigore è stato oggetto di non poche critiche, ma se si vanno ad approfondire le relazioni che sono alla base di tanti scioglimenti si può capire meglio il diverso atteggiamento delle autorità preposte. In molte relazioni, accanto alla descrizione di episodi di sicuro condizionamento mafioso, si fa riferimento a reiterati casi di cattiva amministrazione, di corruzione, di abuso di potere, di clientela, di parentela di diversi amministratori con appartenenti alle cosche criminali. Fenomeni gravi, seri, preoccupanti ma che spesso non hanno alcuna relazione diretta con l’infiltrazione mafiosa. Quasi a voler dimostrare a tutti i costi che la presenza mafiosa è causa dal degrado amministrativo, politico, sociale. Cosa vera nella stragrande parte dei casi, ma non si deve dimenticare che le mafie al Nord riescono a convivere stabilmente con amministrazioni efficienti e con il buon governo locale. Ed è forse proprio questa circostanza che spiega il raro ricorso allo scioglimento per mafia dei comuni del Nord. La loro efficienza, il loro buon governo li lascia ritenere esenti da infiltrazioni mafiose. Niente di più sbagliato. Se è del tutto possibile che ci sia degrado e cattiva amministrazione senza presenza mafiosa, è altresì possibile una infiltrazione mafiosa anche laddove c’è una tradizione di buon governo e un buon funzionamento dei servizi. Tra i tanti motivi che hanno impedito alla società del Nord di prendere atto di ciò che stava avvenendo nel campo criminale, c’è stato un errore di valutazione grave, cioè l’idea delle mafie come fenomeno esclusivo di aree arretrate, di degrado sociale e di cattiva amministrazione, per cui non avrebbero mai potuto attecchire in zone sviluppate e ben amministrate, perché imprenditorialità, benessere e civiltà le avrebbero tenuto lontane. Ma le mafie si sviluppano anche laddove c’è un alto senso civico, perché il loro punto di attacco non è nella cultura ma nell’economia e nelle istituzioni. Le mafie possono convivere con un alto tasso di civismo e al tempo stesso condizionare la vita amministrativa locale. Ed appare del tutto sproporzionato il fatto che in tantissimi comuni meridionali siamo al secondo e al terzo scioglimento mentre non ce n’è nessuno in regioni a velocissimo radicamento mafioso. La Campania e la Calabria sono le regioni più interessate dai plurimi scioglimenti (rispettivamente 22 e 21). In particolare è la Provincia di Reggio Calabria quella in cui si trova il maggior numero di comuni sciolti più volte, seguita da quelle di Napoli, Caserta e Salerno. C’è qualcosa che non va se la presenza ‘ndrangherista viene così massicciamente individuata nei comuni calabresi mentre quando gli stessi clan operano al Nord (utilizzando le identiche modalità di relazioni con gli amministratori locali) sono diversamente considerati dalle prefetture. Il potere discrezionale della legge è troppo ampio, e la sproporzione tra comuni sciolti al Nord e al Sud ne è la più concreta dimostrazione. Cade la sospensione della patente se la pena è sostituita con lavoro di pubblica utilità di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2019 Cassazione -Sezione IV penale - Sentenza 31 maggio 2019 n. 24385. In caso di sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 186, comma 9-bis, del codice della strada, il giudice deve sospendere l’efficacia della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza 24385 del 2019. Ciò per coordinare il momento esecutivo della statuizione penale con i tempi di espletamento del lavoro sostitutivo e dello svolgimento del sub procedimento teso a certificare l’effetto estintivo della pena e quello novativo della sanzione accessoria, come imposto dal citato articolo del Cds, dove si prevede che, in ipotesi di trasgressione agli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice procede al ripristino della pena sostituita e della sanzione amministrativa accessoria, il che presuppone che questa non sia stata ancora eseguita. In termini, Sezione IV, 8 febbraio 2018, Pg in procedimento Ferrarini, secondo cui, in caso di sostituzione della pena detentiva e pecuniaria con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 186, comma 9-bis, del codice della strada, il giudice è tenuto a quantificare la sospensione della patente di guida nei limiti edittali e a disporre - ove prevista - la confisca del veicolo e contestualmente deve ordinare la sospensione dell’efficacia di tali statuizioni fino alla valutazione dello svolgimento del lavoro di pubblica utilità, all’esito positivo del quale potrà essere dichiarata l’estinzione del reato, ridotta della metà la sanzione della sospensione e revocata la confisca. Nello stesso senso, quanto alla necessità di sospendere l’efficacia della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, cfr. anche sezione IV, 27 settembre 2017, Braghetto. Terrorismo: condotta di “arruolamento passivo” con disponibilità a compiere le azioni di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2019 Cassazione -Sezione II penale -Sentenza 27 maggio 2019 n. 23168. Per ritenere integrata la condotta di “arruolamento passivo” prevista dall’articolo 270 quater, comma 2, del Cp,non è necessaria la prova del “serio accordo” con l’associazione, ma è invece sufficiente la prova della integrale disponibilità del neo-terrorista al compimento di tutte le azioni necessarie al raggiungimento degli scopi eversivi propagandati dall’associazione (nella specie, Al Quaeda). Lo prevede la Suprema corte con la sentenza n. 23168 del 2019. Del resto, il segno distintivo della condotta di arruolamento è la sua connotazione “individuale”, che segna la sua differenziazione netta rispetto alla condotta di partecipazione (articolo 270-bis, comma 2, del Cp), che, invece, presuppone l’innesto del partecipe nella struttura organizzata e, dunque, la prova dell’esistenza di un contatto operativo, anche flessibile, ma concreto tra il singolo e l’organizzazione che, in tal modo, abbia consapevolezza, anche indiretta, dell’adesione da parte del soggetto agente. Detto altrimenti, proprio per evitare di sovrapporre la condotta di arruolamento a quella di partecipazione all’associazione, non è necessario che l’accettazione della richiesta individuale di arruolamento avvenga attraverso la stipula di un “serio accordo” tra l’arruolato e l’organizzazione, essendo sufficiente la messa a disposizione incondizionata del neo-arruolato alla commissione di atti terroristici (ciò che nella specie la Corte ha ritenuto essere stato adeguatamente motivato in sede di merito, attraverso la valorizzazione di plurimi indizi, quali, tra gli altri, l’effettuazione di un viaggio in Siria, il tenore di alcune conversazioni intercettate in cui l’imputato non negava che un secondo viaggio in Siria fosse funzionale al congiungimento con le milizie dell’organizzazione terroristica, il rinvenimento di materiale telematico riconducibile alla propaganda jihadista). La Corte prende espressamente le distanze da Sezione I, 9 settembre 2015, Pm in proc. Elezi e altro, secondo cui, invece, in tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce. Peraltro, la sentenza qui massimata chiarisce che la punibilità della condotta di chi si arruola, mettendosi a disposizione dell’organizzazione nei termini sopra riportati, esclude pur sempre la punibilità delle persone che si limitano a condividere la ideologia terroristica (jihadista o altro), ma che appunto non hanno manifestato la concreta disponibilità a compiere atti con finalità terroristica. Ciò che garantisce la compatibilità dell’articolo 270-quater, comma 2, del Cpcon il “principio di offensività”, che deve essere rispettato anche quando si comprendono nell’area del penalmente rilevante condotte che, come quella dell’arruolamento non generano danno, ma solo pericolo. Reato di infanticidio: l’elemento “specializzante” rispetto al reato di omicidio Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2019 Diritto penale della persona e della famiglia - Reati contro la persona - Procurato aborto - Infanticidio - Omicidio - Elementi costitutivi e distintivi. In tema di delitti contro la persona, l’elemento “specializzante” del reato di infanticidio previsto dall’art. 578 del codice penale, rispetto al reato di omicidio disciplinato dall’art. 575 c.p., è costituito dalle condizioni di abbandono materiale e morale in cui versa la madre del neonato (se il delitto si consuma immediatamente dopo il parto) o del feto (se avviene durante il parto). La condotta prevista dall’art. 578 cod. pen. si realizza dal momento del distacco del feto dall’utero materno: con la “locuzione durante il parto” si stabilisce il limite prima del quale la vita del prodotto del concepimento è tutelata da altro reato: il procurato aborto. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 20 giugno 2019 n. 27539. Delitti contro la vita e l’incolumità individuale - Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale - Differente regime sanzionatorio previsto per l’infanticidio rispetto alla generale norma incriminatrice dell’omicidio volontario - Necessità di leggere in chiave soggettiva la situazione di abbandono materiale e morale connessa al parto. La situazione di abbandono materiale e morale connessa al parto, necessaria a integrare l’elemento materiale del delitto di cui all’articolo 578 cod. pen., non deve rivestire un carattere di oggettiva assolutezza, trattandosi di un elemento costitutivo da leggere in chiave soggettiva, nel senso della sufficienza - a determinare la configurazione dello specifico titolo di reato (in luogo di quello di cui all’articolo 575 cod. pen.) - della percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto. Il differente regime sanzionatorio previsto per l’infanticidio - rispetto alla generale norma incriminatrice dell’omicidio volontario - trova la sua ragione giustificativa non già nell’oggetto del reato, trattandosi comunque di un’offesa arrecata al bene giuridico della vita umana, bensì sul piano soggettivo, pervenendo a una valutazione di minore colpevolezza del fatto in base alla considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà, sfavore e solitudine in cui la gestazione prima e il parto poi possono collocarsi, svolgendo un ruolo attivo nel determinismo dell’evento criminoso (e ciò con particolare riguardo alle ipotesi di gravidanza nascosta od osteggiata, nonché alle situazioni di solitudine materiale ed affettiva, di immaturità, di povertà materiale, di deficit intellettivo, in cui la donna possa venire concretamente a trovarsi). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 20 gennaio 2014 n. 2267. Omicidio - Infanticidio - Elemento oggettivo - Condizioni di abbandono - Elemento soggettivo - Stato di solitudine esistenziale della donna - Configurabilità - Individuazione. Ai fini della configurabilità, in luogo della più grave figura di reato costituita dall’omicidio volontario, di quella dell’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale, non può accedersi ad una nozione puramente oggettiva dello stato di abbandono, facendolo coincidere con una situazione di assoluta derelizione ovvero di isolamento tale da non consentire l’intervento o l’aiuto di terzi né un qualsiasi soccorso fisico o morale, ma deve piuttosto preferirsi un’interpretazione della norma in chiave soggettiva, per la quale, pur quando sia possibile, nel contesto territoriale in cui avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto di presidi sanitari o di altre strutture, si riconosca la sussistenza della condizione di abbandono anche nello stato di solitudine esistenziale in cui versi la donna e che impedisca a quest’ultima di cogliere le suddette opportunità, inducendola a partorire in una situazione di effettiva derelizione, quale può derivare anche dall’indifferenza dell’ambiente familiare. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 19 giugno 2013 n. 26663. Reati contro la persona - In genere - Omicidio - Infanticidio - Presupposto che il feto sia vivo - Rilevanza - Presupposti che il feto sia vitale - Irrilevanza. Sia nella fattispecie dell’omicidio volontario che in quella dell’infanticidio costituisce presupposto necessario che il feto sia vivo fino al realizzarsi della condotta che ne cagiona la morte, pur non richiedendosi che esso sia altresì vitale ovvero immune da anomalie anatomiche e patologie funzionali, potenzialmente idonee a causarne la morte in tempi brevi, perché costituisce omicidio anche solo anticipare di una frazione minima di tempo l’evento letale. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 2 dicembre 2004 n. 46945. Abruzzo: dopo 8 anni di attesa si eleggerà il Garante dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 luglio 2019 Martedì prossimo, dopo 8 anni da quando è stato istituito, l’Assemblea legislativa d’Abruzzo procederà all’elezione del Garante dei detenuti. Martedì prossimo, dopo 8 anni da quando è stato istituito alla regione, l’Assemblea legislativa d’Abruzzo procederà all’elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Sì, perché nonostante la legge istitutiva del 31 agosto 2011 n. 54, a tutt’oggi l’Abruzzo - assieme alla Calabria - è la seconda Regione italiana a non aver provveduto, complice una legge regionale che richiede la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli. Nico Di Florio e Valerio Federico, rispettivamente coordinatore di + Europa Pescara e componente della Direzione Nazionale, il mese scorso avevano chiesto un immediato incontro con il presidente del Consiglio regionale Lorenzo Sospiri e la calendarizzazione dell’elezione, così come richiesto dall’esponente radicale Alessio Di Carlo. Più volte, nel corso di questi anni, il consiglio regionale si è riunito, ma sempre fumata nera. Fino a poco tempo fa, la candidata più gettonata era l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Ma ora non è più in lista. E lo ha deciso lei di non ripresentarsi, visto i continui ostruzionismi da parte di alcuni consiglieri, soprattutto grillini. Al riguardo si è espresso l’ex consigliere regionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo: “Come autore della legge, approvata con grande ritardo dopo una lunga battaglia, non posso che esprimere amarezza per il fatto che il Consiglio Regionale non sia stato capace di convergere nella passata legislatura regionale sulla nomina di Rita Bernardini proposta dallo scomparso Marco Pannella”. Acerbo poi sottolinea: “La mediocrità del ceto politico abruzzese, dal PD al centrodestra al M5S, ci ha privato del contributo di una delle maggiori esperte di problemi carcerari che ci sia nel nostro paese. In particolare demenziale che il M5S abbia negato il proprio voto favorevole perché Rita era stata condannata per la disobbedienza civile contro il proibizionismo sulla cannabis Un’occasione persa per la nostra regione. Spero che ora non si proceda a una nomina con logica spartitoria di maggioranza ma venga scelta una persona che nel carcere e con i detenuti abbia lavorato sul serio e che possa effettivamente svolgere il ruolo che la legge assegna al Garante. Il grado di civiltà di un paese si giudica dalle sue galere, insegnava Voltaire”. Ma non mancano polemiche in vista di martedì. “Il nuovo avviso pubblico per istituire il garante dei detenuti in Abruzzo, non è stato non solo pubblicizzato dalla Regione Abruzzo, come sarebbe dovuto accadere per un tema così importante, ma solo l’ultimo giorno un concorrente lo ha reso pubblico, il tempo era scaduto”, denuncia Giulio Petrilli che ha scontato sei anni di carcere prima dell’assoluzione della Cassazione dall’accusa di essere tra gli organizzatori della banda armata Prima Linea “per presunte cattive frequentazioni da me avute” e che nei mesi scorsi si è rivolto al Parlamento Europeo in quanto “vittima di una detenzione ingiusta”. “Avrei voluto chiedere - denuncia sempre Petrilli - dove se ne era venuto a conoscenza. Io personalmente la sera stessa sono andato sul sito delle Regione e non ho trovato nulla e come tanti non ho potuto fare la domanda in quanto il tempo era scaduto. Chi ha concorso dove lo ha appreso?”. Petrilli sottolinea infine: “Se hanno deciso già chi nominare avrebbero dovuto avere la coerenza di dare un incarico fiduciario e non inventarsi un avviso pubblico fantasma”. Nella lista dei ‘ papabili’, tra tutti spiccano i nomi della pescarese Fiammetta Trisi, dirigente penitenziaria, e dell’avvocato Fabio Nieddu, figura di riferimento della Croce Rossa pescarese. Sono comunque nove in tutto i candidati in corsa. Forse martedì prossimo la regione Abruzzo avrà finalmente un Garante. Abruzzo: Garante dei detenuti, il giallo del “bando fantasma”, trovato per caso online di Alessia Centi Pizzutilli abruzzoweb.it, 8 luglio 2019 “Non è stato facile trovare il bando per la nomina del Garante dei detenuti: sono riuscito a concorrere solo dopo una lunga ricerca sono e posso dire di averlo scovato per puro caso”. Così l’ex giornalista de Il Messaggero, ora direttore responsabile di “Voci di dentro”, Francesco Lo Piccolo, tra i nove candidati che ambiscono al posto di garante dei detenuti in Abruzzo, conferma ad AbruzzoWeb quanto riferito nei giorni scorsi da Giulio Petrilli, aquilano che ha scontato 6 anni di carcere, prima dell’assoluzione della Cassazione dall’accusa di essere tra gli organizzatori della banda armata Prima Linea e che nei mesi scorsi si è rivolto al Parlamento Europeo in quanto “vittima di una detenzione ingiusta”. Per Petrilli, “il nuovo avviso pubblico non è stato non solo pubblicizzato dalla Regione Abruzzo, come sarebbe dovuto accadere per un tema così importante, ma solo l’ultimo giorno un concorrente lo ha reso pubblico, il tempo era scaduto”. Il concorrente di cui parla l’aquilano è proprio Lo Piccolo che, dirigendo un giornale che nasce proprio per dare voce ai detenuti, appena ha saputo del bando, dopo aver fatto domanda, ha deciso di pubblicare la notizia, “passata quasi inosservata”. “Cercavo già da qualche giorno sul sito della Regione Abruzzo, ma non trovando nulla ho deciso di continuare in modo più approfondito, scoprendo con mia grande sorpresa che il bando non era presente sul sito istituzionale, o comunque io a tutt’oggi non l’ho trovato, ma sulla pagina del Consiglio regionale, precisamente nelle news che si aggiornano in continuazione”, spiega ad AbruzzoWeb il giornalista. Il bando arriva in un momento difficile per il sistema carcerario abruzzese, che nelle scorse settimane è stato al centro di diverse proteste da parte di gruppi di anarchici, associazioni ed esponenti politici, che hanno mostrato solidarietà ad Anna Beniamino, 46 anni, e Silvia Ruggeri, 32 anni, imputate per reati di matrice anarchico insurrezionalista, rinchiuse nel carcere “Le Costarelle” di Preturo (L’Aquila) in sciopero della fame dal 29 maggio scorso, contro le restrizioni imposte dal regime carcerario del 41bis. Sciopero interrotto solo qualche giorno fa. Inoltre, l’Abruzzo è l’unica regione italiana a non aver provveduto all’elezione del Garante. Nella lista dei “papabili”, tra tutti spiccano i nomi della pescarese Fiammetta Trisi, dirigente penitenziaria, e dell’avvocato Fabio Nieddu, figura di riferimento della Croce Rossa pescarese. In base all’istruttoria condotta dal dirigente della Regione Abruzzo, Giovanni Giardino, sono risultati non in possesso dei requisiti richiesti sia l’aquilano Marco Fanfani, ex presidente della Fondazione Carispaq, che la celanese Rosa Pestilli. Il casertano Emilio Enzo Quintieri invece rientra in una cosiddetta “causa ostativa”, mentre hanno presentato in ritardo le loro domande Carla Cotellessa e Gabriella Sacchetti, entrambe escluse. Restano in corsa dunque: Salvatore Braghini, avezzanese di 53 anni, docente in una scuola superiore; Gianmarco Cifaldi, 55 anni aquilano, professore universitario alla D’Annunzio; Leonardo Colucci, 63 anni di un paese del Potentino e prossimo alla pensione; Edda Giuberti, 40 anni di Prato; Teresa Lesti, anche lei 40enne ma di Chieti; il giornalista Lo Piccolo, 69 anni, L’avvocato Nieddu, di 46 anni; Alessandro Sirolli, 68 anni dell’Aquila e infine la dirigente del Ministero della Giustizia Fiammetta Trisi, di 59 anni. Il nome del garante sarà scelto tra questi nove attraverso il voto in Consiglio regionale. Martedì prossimo l’Assemblea legislativa d’Abruzzo procederà all’elezione dei componenti della Commissione regionale per la realizzazione delle pari opportunità e della parità giuridica e sostanziale tra uomini e donne e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il direttore Lo Piccolo spiega i motivi che lo hanno spinto a candidarsi: “Mi sono candidato alla carica di “Garante in Abruzzo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” perché è il giusto sbocco del mio percorso: sono giornalista, sono stato consulente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo per la Carta di Milano, quindi membro della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Abruzzo, poi sono stato indicato anche referente dei detenuti per i Radicali Abruzzo - sottolinea. Ma soprattutto sono volontario nelle carceri di Chieti e Pescara da almeno undici anni, e per cinque anni volontario anche negli Istituti di Vasto e Lanciano, dove ho ideato progetti, organizzato laboratori, tutto per favorire il reinserimento delle persone finite in carcere. Di fatto sono stato sempre un garante dei loro diritti, convinto che i diritti, come salute, istruzione, famiglia, lavoro, siano innati e connessi alla persona. Sempre”, aggiunge. L’uomo conosce bene il mondo delle carceri abruzzesi, proprio grazie all’esperienza di Voci di dentro: “Per poter essere veramente utile come volontario nelle carceri ho sentito la necessità di lavorare in gruppo con altri, e per questo ho fondato l’Associazione Voci di dentro. Ovviamente come giornalista ho portato e porto in carcere la mia esperienza e ho fondato e dirigo il magazine Voci di dentro scritto dai detenuti. L’ultimo numero, 2 mila copie, è uscito il 25 aprile, giorno della Liberazione”, prosegue. Ma l’impegno personale e professionale non si limita solo al giornale: “Personalmente e con l’associazione promuovo diverse iniziative dentro il carcere e fuori per eliminare le condizioni che determinano situazione di disagio. In carcere teniamo laboratori di scrittura, fotografia, musica, abbiamo realizzato corsi di Pc e teatro. Fiore all’occhiello dell’associazione è stato lo spettacolo “quando si spengono le luci-una notte d’ottobre” da un testo di Erika Mann e portato in scena grazie all’impegno di una ventina di detenuti-attori al Circus a Pescara, al Marrucino, nei teatri di Atri e Ortona, al rettorato della d’Annunzio. Fuori dal carcere in sede ospitiamo ex detenuti, o persone in affidamento con i quali avviamo percorsi su legalità, rispetto delle persone, giustizia”, spiega ancora. Chi sono i detenuti e perché è così importante la figura del garante? Individui marginati e marginali: molti tra loro non hanno avuto chance, altri scientemente (chi più e chi meno) hanno compiuto scelte sbagliate e hanno fatto violenza, altri ancora o non sono stati capaci di vedere altre scelte, o non avevano che una sola scelta, o sono finiti nel circuito penale (sempre più invasivo) per un errore di un momento. Persone che hanno sì fatto soffrire, ma che a loro volta soffrono. Disuguali in un mondo ingiusto, dove al primo posto ci sono l’utilitarismo, il profitto, il dominio, per apparire, avere. Le persone che ho conosciuto in carcere, centinaia, sembrano cloni l’uno dell’altro, come fatti con lo stampino: etichettati e auto-etichettati, bloccati nello stereotipo del criminale, deumanizzati, vittime di una istituzione totale che li spoglia dei loro diritti, applicando sistemi infantilizzanti, deresponsabilizzandoli e rinchiudendoli tutti assieme (piccoli ladruncoli alle prime armi, mafiosi e camorristi, poveri e ricchi, stranieri, giovani e vecchi, malati e sani, dipendenti da sostanze, alcool, gioco, colletti bianchi, eccetera) in sezioni e celle molto spesso per 16 ore al giorno dove si ripropongono ancora le stesse dinamiche sociali del fuori (discriminazione, sopraffazione, violenza). Dunque, come descriverebbe il carcere? “Un luogo dove la vista si ferma a pochi metri dai loro occhi, dove per anni i detenuti si relazionano solo tra loro e solo con persone che ordinano e dove la disparità di potere è regola. Un luogo dove chi è rinchiuso vede il mondo attraverso una grata, dove vengono proibiti gli affetti. Un luogo nel quale si entra piccoli ladri e dal quale si esce esperti criminali. Così com’è non funziona: sette detenuti su dieci ritornano in carcere”. Quali sarebbero le prime cose che farebbe se venisse eletto? “In carcere la rieducazione e le attività risocializzanti sono solo parole a causa di una organizzazione-burocratizzazione che privilegia innanzitutto la sicurezza, il contenimento, la punizione fine a se stessa. In media negli istituti penitenziari italiani ci sono un agente ogni due detenuti, mentre c’è un solo educatore ogni 60 detenuti. Pena non è punizione, le pene hanno un’altra finalità e soprattutto non sono in opposizione ai diritti delle persone. Come Garante, se eletto, continuerei a incontrare i detenuti giorno dopo giorno, uno ad uno, per garantire i diritti di tutti, quei diritti sociali (istruzione, salute, lavoro) che in carcere sono solo parole… e oggi purtroppo non solo per le persone detenute”. Volterra (Pi): il Garante regionale dei detenuti in visita a carcere e Rems quinewsvolterra.it, 8 luglio 2019 Corleone: “Mio digiuno per dare risposte alle tante emergenze delle carceri toscane. Sarebbe da pazzi iniziare una guerra tra poveri”. Il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, torna in visita al carcere e alla Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Volterra martedì 9 luglio. Conclusa la nuova iniziativa, i tre giorni di digiuno sostenuti questa settimana per ottenere risposte sulle tante questioni urgenti che riguardano gli istituti di detenzione nella nostra regione, Corleone ha programmato il sopralluogo a Volterra. Una visita, spiega, che “sarà l’occasione per verificare anche le denunce fatte dai dipendenti dell’amministrazione penitenziaria”. Alle loro sollecitazioni, che gli sono giunte attraverso una lettera inviata al ministero di giustizia, Corleone replica: “Colgono l’occasione di un mio digiuno per nulla coraggioso per denunciare una situazione di difficoltà strutturale della Fortezza di Volterra. Voglio chiarire che dopo il mio primo digiuno e questo in corso hanno come obiettivo di sollecitare le questioni bloccate da troppo tempo”. E ricorda come gli obiettivi “erano e sono il superamento dello scandalo dei bagni a vista della sezione femminile di Pisa, il ritardo della destinazione del Gozzini a istituto femminile, valorizzando la differenza di genere e la mancata attivazione della seconda cucina a Sollicciano e nella sezione dell’alta sicurezza a Livorno”. Ancora, “la richiesta di apertura della sezione trattamentale a Lucca, la denuncia delle condizioni di vita di tutta la comunità penitenziaria a causa della calura estiva”. Riguardo al progetto del teatro di Volterra, rivendica l’iniziativa: “Certamente ho posto l’urgenza di definire finalmente il progetto per la costruzione del Teatro stabile che ha avuto un finanziamento già alcuni anni fa”. E mette in guardia: “Sarebbe da pazzi iniziare una guerra tra poveri o mettere in alternativa esigenze e priorità diverse. Assicuro - ha concluso Corleone - che aggiungerò negli obiettivi del mio prossimo digiuno alcune delle questioni segnalate nella lettera. Sarò felice, di avere accanto se non tutti almeno alcuni dei 53 firmatari”. Volterra (Pi): “nel carcere pochi agenti e problemi strutturali” quinewsvolterra.it, 8 luglio 2019 Il segretario Uil-Pa Grieco: “Non siamo contrari al nuovo teatro ma è il caso di valutare tutte le necessità primarie del penitenziario”. Una delegazione della Uil-Pa Polizia Penitenziaria è stata nel carcere di Volterra per “ascoltare il grido di allarme che giunge dai poliziotti penitenziari, circa la mancanza di personale e di figure professionali come ragionieri, e collaboratori amministravi”. A parlare è il segretario generale regionale della Uil-Pa polizia penitenziaria Eleuterio Grieco: “Purtroppo, non solo la struttura Volterrana è carente di personale ma vi sono seri problemi strutturali bisognevoli di urgenti interventi come impianti idrici, elettrici e fognari le cucine sono obsolete, in particolare nella Mensa Agenti è presente e in molti ambienti sono necessari interventi di ammodernamento per il benessere del personale”. Molti agenti hanno partecipato all’assemblea “dove sono emerse varie esigenze di cui la Uil - ha ripreso Grieco - si farà portavoce nei prossimi mesi tra cui quella di avere un accordo locale decentrato (nuovo PIL) sull’organizzazione del lavoro, conoscere il progetto d’istituto 2019, garanzia nella remunerazione delle ore di lavoro straordinarie effettuate e applicazione concreta della sicurezza sui luoghi di lavoro D.lgs. 81/2008”. “Il personale di Volterra ha dimostrato in assemblea professionalità e conoscenza del mandato costituzionale auspicando che vi sia più attenzione e rispetto del tipo di circuito penitenziario Volterrano da parte del PRAP Toscana Umbria come vi è la necessità di implementare urgentemente l’assistenza sanitaria al fine di lenire il carico di lavoro per le visite esterne sempre più numerose cui il personale non può più far fronte, considerato che la maggior parte delle scorte per visite ospedaliere vengono effettuate dalla stessa sede volterrana e non dal NTP San Gimignano titolato”. “Singolare apprendere - ha concluso Grieco - che il garante dei detenuti, fa lo sciopero della fame per la costruzione di un teatro nuovo nel penitenziario, di cui il costo si aggirerebbe in un milione di euro di soldi pubblici, la Uil-Pa non ha nessuna preclusione affinché sia costruito tale teatro, ma forse sarebbe il caso di valutare e considerare contestualmente e globalmente tutte le necessità primarie del penitenziario di Volterra (impianti idrici-elettrici e fognari - cucine abbattimento barriere architettoniche ecc.) che come sopra accennato sono al limite onde evitare di edificare una cattedrale nel deserto”. Torino: i giudici di pace lasciano le Vallette di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 8 luglio 2019 Trasloco in corso Vittorio Emanuele II. Lunedì al via le prime udienze del tribunale civile, dal 16 luglio i dibattimenti in penale Ex carcere Le Nuove, braccio quattro. Le celle dove un tempo venivano rinchiuse le donne ospitano oggi la nuova sede dei giudici di pace di Torino. Il trasloco dalle Vallette è iniziato lo scorso 10 giugno. Ma ci vorranno ancora un paio di settimane prima che tutto sia a posto e funzionante. A quel punto la cittadella giudiziaria di cui si parla dalla fine del secolo scorso sarà completata. C’è ottimismo, perché la tabella di marcia stilata dalla dirigente degli uffici giudiziari Rita Coletta è rispettata. “Stiamo procedendo a ritmo serrato - racconta - ed è quasi pronto. Durante questo periodo di smobilitazione il lavoro dei giudici di pace non è stato interrotto”. La sede è in parte già aperta al pubblico. L’ingresso principale è al civico 127 di corso Vittorio Emanuele II. Domani, sciopero dei giudici permettendo, si celebreranno le prime udienze del civile. Mentre bisognerà attendere fino al 16 luglio per i dibattimenti in sede penale. Un trasloco atteso, soprattutto dagli avvocati che adesso non dovranno fare la spola tra il Palagiustizia Bruno Caccia e viale dei Mughetti. I nuovi uffici sono collocati su tre piani e occupano un’area di circa 2.400 metri quadrati. Negli ex sotterranei ci sono le tre aule dove si svolgono i processi: arredi moderni e sedie di colore blu elettrico. Qui troverà spazio anche l’archivio, in gran parte ancora nella ex sede. “Al pian terreno - spiega Coletta - ci sono gli uffici di front office come le cancellerie per le iscrizioni al ruolo o per i decreti ingiuntivi, con sportelli dedicati ai cittadini e agli avvocati. Al piano superiore ci sono le stanze dei magistrati e del personale amministrativo”. Sono sessanta i dipendenti che hanno dovuto fare i bagagli e trasferirsi alle Nuove. E sono 21 i giudici di pace, nove del civile e dodici del penale, che a breve occuperanno le ex celle. Ciò che resta del carcere - di proprietà del Comune - sono la struttura esterna e la rotonda da cui partivano i bracci della prigione. L’interno ha subìto molte modifiche, ma l’edifico è sottoposto ai vincoli della sovrintendenza dei Beni Culturali. Per questo le finestre sono rimaste quelle di un tempo: piccole e strette, ma senza sbarre. “Un po’ le Vallette ci mancheranno - sottolinea la dirigente - ma sono convinta che anche qui lavoreremo bene. Conta la professionalità del personale, e quella non manca. Con una piccola parte del mobilio abbiamo traslocato anche la nostra filosofia, che è di ascoltare i cittadini. Questi uffici sono e restano luoghi di sofferenza e preoccupazione. E le persone hanno bisogno di essere capite e aiutate a risolvere i loro piccoli e grandi problemi”. Napoli: a Poggioreale concluso progetto “Emozioni”, per “recuperarsi” istituzioni24.it, 8 luglio 2019 Si è concluso sabato scorso il progetto “Emozioni - Recuperare sentimenti empatici negli autori di reati sessuali”, presso il padiglione Roma della Casa Circondariale di Poggioreale. Un progetto, promosso dal garante campano dei detenuti e realizzato dalla associazione “Oltre le sbarre”. Iniziato nel freddo febbraio e conclusosi nella calda mattinata di ieri, presso il cortile del padiglione Roma, nel “Giardino dentro”, uno spazio dove curare il verde e lo spirito, che ha permesso di trascorrere due ore in un ambiente, per quello che sia possibile, diverso dalle strette mura del carcere. Alla festa finale, un modo “familiare”, per salutare tutti i 17 detenuti che hanno partecipato con forte coinvolgimento a questo intenso progetto, erano presenti la Direttrice dell’istituto, Maria Luisa Palma, il Garante Campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, tutti gli operatori che hanno lavorato a questo progetto: la coordinatrice Rita, le operatrici Luisa e Dea, il Fantasiologo Massimo e il Fumettista Giancarlo. Dopo un momento conviviale reso possibile anche da un “banchetto” preparato per l’occasione, si è creata l’atmosfera giusta affinché un detenuto leggesse una lettera, frutto di tutti i detenuti, per ringraziare i presenti. “Sono stupita positivamente da queste parole, da questo modo di scrivere, dai sentimenti che sono venuti fuori. Trovo che siano importanti progetti del genere e sarà mia cura fare in modo che ce ne siano di altri”, cosi ha esordito la Direttrice, che ha poi rassicurato che a breve i detenuti del Roma 3°piano, saranno trasferiti in un altro padiglione, di nuova ristrutturazione che potrà migliorare la situazione di detenzione in cui vivono. Per concludere la giornata, il Garante, ha prestato la sua voce per leggere ad ogni detenuto che ha partecipato, un messaggio che è stato scritto in modo accurato per ognuno di loro. Un messaggio contenente impressioni personali ed un consiglio, “ un po’ come si fa con l’oroscopo” ha ironizzato il Garante, che ha poi continuato dicendo “ sono contento che ci siano momenti del genere, che possano questi non essere casi isolati, qui al terzo piano del Roma è il secondo anno che promuovo un progetto per questi diversamente liberi, a settembre esperienze simili inizieranno nel carcere di Vallo della Lucania, nel reparto destinato ai sex-offenders di Secondigliano e Carinola, attraverso la professionalità e l’esperienza di operatori che aiutano i detenuti a “ritrovarsi”, per evitare la recidiva”. Per Dea Pisano una delle animatrici del percorso trattamentale: “L’obiettivo del progetto è stato quello di garantire ai partecipanti una nuova opportunità trattamentale, anche attraverso il riconoscimento delle proprie responsabilità e l’assunzione emotiva della persona e della sensibilità della vittima e del danno ad essa arrecato. Si è ritenuto necessario utilizzare un metodo di approccio “più sfumato”, che partisse soprattutto dai vissuti dei singoli detenuti e ne valorizzasse i contenuti empatici e, soprattutto, tenesse conto in maniera prioritaria della condizione di “quasi” emarginazione che i sex-offenders vivono all’interno della struttura detentiva”. In altre parole: i partecipanti al Progetto riconoscevano la loro “specialità”, ma chiedevano di distaccarsene, mettendosi in gioco come persone complessive e sottraendosi ad un giudizio preconcetto e, talvolta, viziato da esemplificazioni valutative. Per Rita Crisi, dell’associazione “Oltre le sbarre”: “nessuno dei partecipanti individuati dall’area educativa si è tirato indietro, qualcuno è partito schivo ma con il tempo ha permesso a noi operatori, e ai compagni di gruppo, di condividere storie, vissuti, sensazioni, emozioni”. L’associazione “Oltre le sbarre Onlus” ha ringraziato l’ufficio del Garante dei detenuti per la realizzazione di questo progetto. Milano: il caldo rende più difficili i gesti della vita quotidiana dei detenuti La Repubblica, 8 luglio 2019 La calura fa soffrire tutti, soprattutto i più deboli. Ma se c’è un posto dove il fresco di un temporale si aspetta come una benedizione, questo è San Vittore. La vita in cella non è mai facile, e con il termometro a 37 gradi si complica ancora di più. Ci sono celle dove vivono in sei o sette, dove già normalmente c’è bisogno di molta pazienza nei rapporti con i compagni: turni in bagno e in cucina, tutti in piedi insieme non si sta né si passa fra una branda e l’altra, bucati da stendere eccetera. Con il caldo micidiale di questi giorni la sofferenza e il nervosismo aumentano. E ogni contrattempo, in galera i contrattempi sono pane quotidiano, diventa un ostacolo. Per esempio: l’ascensore, che si usa solo per portare ai piani i carrelli dei pasti e la spesa, si ferma di frequente. A volte resta bloccato per un po’; ma comunque tocca portare a piedi per le scale i contenitori del cibo caldo, per quattro piani. Egli ostacoli possono essere di diversa natura. Si sospendono i colloqui la domenica pomeriggio. Le telefonate di dieci minuti non possono essere recuperate, se per caso dall’altra parte non risponde il familiare che si sta cercando. Da qualche tempo esiste la possibilità di spedire e ricevere mail (ovviamente controllate per sicurezza, così come le telefonate), ma a prezzi stratosferici che molti non si possono permettere, sempre che la mail quel giorno funzioni. La spesa ha, per regolamento, i prezzi del più vicino supermercato. Ma se l’Esselunga di viale Papiniano ha delle offerte vantaggiose, non si può approfittarne. Possono sembrare cose da niente, ma non è così. Spoleto (Pg): al Festival lo spettacolo itinerante dei detenuti di Massimo Colonna umbria24.it, 8 luglio 2019 Alla Rocca di Spoleto pienone per lo spettacolo itinerante dei detenuti di #sinenomine: viaggio tra realtà e percezione. “Non si può arrivare al punto di meraviglia col naso lungo e le bretelle, prima o poi bisogna svegliarsi”. Un lungo viaggio tra percezione e realtà, una odissea che muove il primo passo dal Campo dei Miracoli di Collodi per chiudersi nel ventre della balena. Questo quanto accade nell’intreccio della storia. Ma la “vera” traversata è tutta nella testa del protagonista, Pinocchio. E quindi dello spettatore. Lo spettacolo “Storia vera, ‘e capit comm’è!” riempie la Rocca Albornoziana anche nella terza e ultima uscita, non solo per l’esplosività introspettiva dell’opera diretta da Giorgio Flamini, ma anche per l’alto valore sociale. Sul palco ecco la compagnia #Sinenomine, nata nel 2014 e composta da una quarantina di detenuti della Casa di Reclusione di Maiano, i quali hanno accompagnato il pubblico quasi per mano in uno show itinerante, carico, ma non eccessivamente, di performer più o meno strambi. Il campo dei miracoli Tutto parte da una bugia: quella che il gatto e la volpe raccontano a Pinocchio: “Se sotterri le tue monete al Campo dei miracoli, le ritroverai raddoppiate, triplicate!”. E qui inizia il viaggio di Pinocchio che via via si confronta con personaggi cari (Geppetto e il Grillo Parlante) o destabilizzanti e provocatori (ispirati dal Gatto e dalla Volpe). Fino a ritrovarsi nel ventre della balena. Il tutto in una visione quasi onirica, che a tratti ricorda i contorni confusi di David Lynch, tra percezione della realtà e realtà stessa. Il viaggio A quel punto parte la seconda parte dello show, in cui il protagonista Luciano scrive un diario di bordo di un viaggio fantastico, a occidente delle colonne d’Ercole e fino a raggiungere il nuovo continente, la terra predetta da Radamanto. Durante la traversata l’equipaggio è costretto a fronteggiare numerosi pericoli, fino a piombare nel ventre della balena: qui incontra non solo il popolo degli “Sgranchiati” e dei temibili “Piedisogliole”, “che sono più di mille e soprattutto armati di spine di pesce”, ma anche Scintaro e suo figlio, inghiottiti 27 anni prima (alter ego di Geppetto e Pinocchio). È questo l’elemento narrativo che riporta un barlume di luce nella mente dello spettatore, almeno in quello che la cerca. Ma lo show più che altro punta a disturbare. E ci riesce benissimo. Anche se, come spiega Pinocchio, “non si può arrivare al punto di meraviglia col naso lungo e le bretelle, prima o poi bisogna svegliarsi”. Oppure no? La dedica Lo spettacolo, prodotto dalla Casa di Reclusione di Spoleto, insieme all’istituto Iis Sansi Leonardi Volta, Ufficio di sorveglianza di Spoleto, Museo Nazionale del Ducato di Spoleto, le associazioni Teodelapio e Euno, compagnia#SIneNOmine e Fondazione Antonini, è stato dedicato a Mauro Bronchi, il noto attore spoletino scomparso nell’agosto 2018. Insieme alla direzione di Flamini, ecco l’aiuto regia di Sara Ragni e Pina Segoni, le coreografie di Laura Bassetta e Mariolina Maconio, il direttore del Coro Francesco Corrias, la cantante solista e violino Lucia Napoli, il coro AdCantus Ensemble Vocale, le danzatrici Euno (Francesca Bonanni, Anna Borini, Margherita Costantini, Stefania Dell’Aquila, Valeria Di Loreto, Alexandra Kadilova, Martina Pannacci, Serena Perna), i costumi firmati Pina Segoni e Giorgio Flamini. Spoleto (Pg): “SIne NOmine” e il luogo necessario costruito con la materia dei sogni di Fabio Gianfilippi* Ristretti Orizzonti , 8 luglio 2019 “Il pubblico si è incamminato col sole ancora alto verso la Rocca Albornoz, sperimentando il miracolo di ritrovarsi, dopo l’ultima curva, con lo sguardo perso nei verdi e nei gialli della campagna, come se Spoleto non ci fosse più. Da questa lontananza parte la nuova tappa del viaggio della Compagnia SIne NOmine e della sua instancabile guida, Giorgio Flamini. Appoggiati alle mura medievali stanno il Gatto e la Volpe, un bozzetto brigantesco che sembra uscito da un quadro di Hackert, e più in là il coro, che dal loggiato inizia il suo costante dialogo con gli attori, tra musiche antiche e sottolineature dei passaggi principali della trama. Quest’anno dalla Casa Reclusione di Spoleto un nutrito gruppo di detenuti, grazie all’art. 21 dell’ordinamento penitenziario, ha lasciato le mura del carcere per allestire le scene e preparare lo spettacolo che ieri è stato proposto (con due repliche e circa seicento spettatori ogni sera) nell’ambito del Festival dei Due Mondi: Storia Vera. E capit cumm’è. Gli attori liberi e detenuti si sono cimentati in un lavoro complesso, che intreccia le storie di Pinocchio, il cui simulacro chiudeva lo spettacolo dello scorso anno, e il viaggio immaginifico descritto da Luciano di Samosata, sottolineandone le similitudini e le citazioni esplicite. Sontuoso, nella sua essenzialità, l’allestimento nei Cortili. La Rocca sembra guardare benevola questa folla, attori e spettatori, che affronta il suo viaggio tra le miserie e le bugie dell’umanità, grazie all’ironia che non fa sconti di Collodi e Luciano. E accoglie, ancora una volta, come nei secoli del suo passato carcerario, prima della sua splendida attualità di Museo e polo culturale, i sogni e i dolori degli uomini. Il coro ricorda che la storia è cimitero in cui trovano pace i giusti e gli ingiusti. “Finisce tutto, finisce...” ripete, evocando la scritta che campeggia in un lacerto di affresco nel Salone del piano nobile. E il carcere pure finisce, deve finire con un risultato utile per tutti: collettività e reclusi, perché le pene tendono alla risocializzazione, secondo il mandato costituzionale. Nel fantastico finale, affidato specialmente alla bravura di Sara Ragni e di Roberto D.S., campeggiano le eleganti silhouette di una moltitudine di uomini: sono i detenuti rimasti ancora dentro le mura, ci ricorda il professor Flamini. E l’applauso, in ogni senso liberatorio, della platea e degli attori, è tutta per quel mondo invisibile, fatto di tanti operatori che lavorano nel silenzio perché chi ha commesso un reato possa tornare a dare il suo positivo contributo alla società, e di tanta umanità che soffre la privazione della libertà, che dal reato deriva, senza che possa mai togliere a ciascuno la dignità di essere persona e quei sogni grandi che il Direttore del carcere, Giuseppe Mazzini, ha giustamente ricordato nel suo saluto finale. Tra scenografie e costumi che nell’essenzialità non perdono la favola di cui abbiamo bisogno, vivono la Lumachina e il Grillo parlante, la ciurma di impavidi esploratori dei mondi di Luciano, le guardie d’ebano e oro che ci aprono la strada e la chiudono alle nostre spalle, perché la Rocca è in questa serata un’arca in cui si parla una lingua di umanità e d’arte, di ascolto dell’altro e di amore per il diverso, un luogo marziano per il nostro contemporaneo diffidente ed egoista. Un luogo necessario, costruito per noi, con la materia dei sogni, dalla Compagnia SIne NOmine.” *Magistrato di Sorveglianza di Spoleto Torino: “San Vittore”, il carcere con gli occhi dei bambini di Elisa Cassissa La Stampa, 8 luglio 2019 L’opera di Yuri Ancarani debutta a Rivoli: fa parte della trilogia “Le radici della violenza”. Bambini perquisiti, sottoposti a controlli di sicurezza per entrare e uscire dal carcere quando vanno a trovare i genitori dietro le sbarre. Un luogo di costrizione capace di trasformarsi con l’immaginazione infantile in una fortezza fatta di torri e inferiate e di tramutarsi, nei disegni, in un castello abitato da re e regine, padri e madri. Yuri Ancarani descrive nella sua opera filmica “San Vittore” il mondo carcerario visto dai bimbi di 7, 8 anni. L’opera è parte della trilogia “Le radici della violenza”, presentata per la prima volta a Rivoli da domani fino al 10 novembre. È infatti un’estate all’insegna dell’arte contemporanea quella che s’inaugura al museo del Castello oggi alle 19, per poi aprire ufficialmente al pubblico domani. Quattro nuove mostre si uniscono a quella in corso di Hito Steyerl “La città dalle finestre rotte”, prorogata fino al 1 settembre, tutte visitabili con un solo biglietto. Un mix di arti che va dalla pittura alla scultura, dall’installazione alla video arte. Se da una parte Ancarani invita a riflettere sulle condizioni vissute dai figli dei reclusi, dall’altra si sofferma sullo scopo di tutelare i rapporti con i propri cari. Con “San Siro” e”San Giorgio” completa la sua indagine. In “San Siro”, l’omonimo stadio di Milano, il divertimento è monitorato da un pull di tecnici che agisce come un’anima invisibile per sorvegliare l’energia e le tensioni che si sprigionano durante un evento; in “San Giorgio”, invece, il controllo passa dal rigoroso protocollo seguito dalle banche per la distruzione di dati sensibili. Il sapere umano che supervisiona e cerca di contenere la vitalità della natura fa parte anche del nuovo percorso espositivo “Aria fiori sale”, con le opere recentemente acquisite dal Castello: 16 lavori per osservare la forza generatrice, spontanea e autonoma, della natura. Gilberto Zorio mette in primo piano la creazione di paesaggi di sale che l’acqua di mare è in grado di comporre. Ingela Ihrman riprende nella sua scultura le forme del panace gigante, una pianta ornamentale, bella ma velenosa, che rappresenta una minaccia naturale per la biodiversità. L’esposizione “D’après Leonardo” celebra i 500 anni dalla morte di Leonardo con due capolavori, “Madonna col Bambino” (1516) di Marco d’Oggiorno, suo allievo e “Senza titolo (La Gioconda)” (1992) di Gino De Dominicis, a dimostrazione di come ancora oggi gli artisti contemporanei siano influenzati dall’iconografia di da Vinci. Infine c’è “Commissions”, progetto voluto dalla direttrice del museo Carolyn Christov-Bakargie: 20 artisti omaggiano l’attività legatoria di Francesco Federico Cerruti e la sua collezione con opere commissionate dal Castello. Nel video “Il dolore degli altri” di Nalini Malani le tavole “Los Caprichos” di Goya, della collezione Cerruti, sono sovrapposte con le immagini del pestaggio che ha portato alla morte di un giovane indiano perché definito “fuori casta”: un grido di denuncia di una società in cui violenza e soprusi sembrano ripetersi senza fine nonostante il passare dei secoli. Sassari: l’Asinara, a lezione nella cella di Totò Riina di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 8 luglio 2019 Da super carcere a Centro di formazione, la nuova vita dell’isola. L’opprimente grigiore del super carcere e, dietro l’angolo, la bellezza di un mare cristallino, di una natura selvaggia, antica. Da qui sono passati i più illustri uomini di legge e i più pericolosi criminali. C’è la casa rifugio di Falcone e Borsellino e, nello stesso borgo, la cella bunker di Riina... La storia dell’Asinara è la storia di un’isola che non ha mai conosciuto le mezze misure. E ora che il penitenziario è chiuso, ecco l’ultima iperbole: i luoghi della prigionia, del buio, diventano spazi di luce, dove si fa ricerca, formazione, dibattito. Lo testimonia la seconda edizione di “The Photo Solstice”, tre giorni di seminario interdisciplinare che ha messo al centro di tutto la fotografia. Lecture, proiezioni e laboratori per venti fotografi “studenti” con filosofi, scrittori e registi come Edoardo Albinati, Giorgio Agamben e Giovanni Columbu, giunti per l’occasione all’Asinara, oggi Parco nazionale. Obiettivo: mappare i 52 chilometri quadrati di territorio, in parte riqualificato nelle strutture. Un esempio? Il carcere di Tumbarino, uno dei dieci disseminati nell’isola. Nelle celle dove venivano reclusi i violentatori oggi ci sono Danilo Pisu, sua moglie Cristina e la sua bambina che scorrazza fra falchi pellegrini e gabbiani sardi. Pisu, ornitologo, ha creato un centro di ricerca sulla sauna selvatica per monitorare le migrazioni degli uccelli. Li cattura, li anella e li libera. Con il risultato che, per contrappasso, “dove scontavano le loro pene i pedofili ora passano migliaia di bambini”, sorride Pisu. Nell’isola ritorna dunque qualche intraprendente abitante dopo l’abbandono di oltre 15o anni fa, quando le famiglie storiche di pastori sardi e pescatori liguri se ne andarono per fare posto a una colonia penale agricola e ad una stazione sanitaria di quarantena. Oltre a Pisu, ci sono uno scultore, Enrico Mereu, formalmente il solo residente dell’isola, e un’ex guardia del carcere, Gianmaria Deriu, che ha scelto di rimanere all’Asinara dopo la chiusura del 1998 “perché ne sono innamorato”. Amore che sembra aver contagiato anche Marco Delogu, direttore dell’Istituto italiano di Cultura a Londra e “regista” di Photo Solstice: “Qui tutto è forte, estremo, unico. Può diventare il miglior posto al mondo per scuole di formazione di varie discipline”. Grazie al seminario è stato riaperto per un giorno anche il mini carcere bunker di Cala d’Oliva, dove era recluso Totò Riina, e dove Maurizio Caprara, editorialista del Corriere della Sera, ha tenuto una lecture sulla storia del carcere: “Regno di paradossi, di antinomie. Di terrorismo rosso e terrorismo nero. Qui c’erano Renato Curcio, Alberto Franceschini e c’erano pastori sardi, culture, lingue, approcci diversi...”. Anche per le evasioni. Come quella di massa dei brigatisti del 1979, fallita, e come quella del bandito Matteo Boe, anno 1986, riuscita. L’Asinara era un’isola di sbarre, di barriere e di volti duri come le pietre. Oggi ci sono ponti, rampe, percorsi per disabili e il sorriso dolce della bambina di Tumbarino. Scelte sull’immigrazione: l’equilibrio che non c’è di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 8 luglio 2019 Maggioranza e opposizione difendono posizioni fra loro antitetiche ma che hanno una caratteristica comune: sono entrambe insostenibili nel medio periodo. L’impressione di chi scrive è che, in materia di immigrazione, si sia aperta un’autostrada elettorale. Prima o poi qualcuno sarà tentato di percorrerla. Al momento l’opinione pubblica è polarizzata, sospinta verso posizioni estreme dal governo e dai suoi oppositori. Essi difendono politiche fra loro antitetiche ma che hanno una caratteristica comune: sono entrambe insostenibili nel medio periodo. La politica del governo può essere così riassunta: “Non passi lo straniero”. In nome del “Prima gli italiani” e “Difendiamo la nostra cultura” (qualunque cosa tale parola - cultura - significhi). Dell’opposizione, oltre al Pd, fanno parte vari esponenti, laici e cattolici, della cosiddetta società civile. Alcuni sembrano anime belle: tanti buoni sentimenti, poco discernimento. La loro posizione può essere così sintetizzata: “Armiamoci e accogliete”. In nome del Vangelo, dei diritti umani, nonché del rovescio - pardon, volevo dire del diritto - internazionale. Finché gli unici piatti che gli elettori trovano nel menu sono questi due - ormai lo sappiamo - una netta maggioranza sceglie il piatto offerto dal governo. Quello cucinato dall’opposizione è ordinato da un numero assai inferiore di italiani. Si noti che all’opposizione importa solo fino a un certo punto di essere in minoranza. In regime di proporzionale il calcolo dell’uomo politico medio non riguarda le chance di vittoria elettorale della propria parte o degli avversari. Il calcolo è un altro: la mia politica serve oppure no a garantirmi il consenso di quei quattro gatti di elettori di cui ho bisogno per essere rieletto? Se serve la difenderò a tutti i costi. E pazienza se le mie scelte contribuiranno a fare vincere gli avversari. “Non passi lo straniero” e “Armiamoci e accogliete” sono entrambe politiche suicide. Per quanto riguarda le scelte del governo, anche a prescindere dal fatto che viviamo ancora - grazie a Dio e in barba al signor Putin - in una società aperta, incastonata in una rete di interdipendenze internazionali e transnazionali, basta semplicemente ricordare che siamo un Paese in declino demografico per capire che chiudere il flusso migratorio non è possibile. Abbiamo bisogno, oggi e in futuro, di mano d’opera straniera, di forza lavoro giovane e fresca. Anche la posizione opposta è irrealistica. Non si può mandare nei più remoti territori dell’Africa, come di fatto fa l’opposizione, il messaggio: venite pure, accoglieremo chiunque. Non è solo che chi sostiene questa posizione è un complice involontario dei trafficanti d’uomini. È soprattutto che il risultato è una profezia che si auto-adempie, si può generare una formidabile pressione migratoria, un flusso inarrestabile di barconi carichi di disperati in rotta verso l’Italia. Anche solo l’ipotesi che ciò possa avvenire suscita reazioni durissime da parte degli indigeni (gli italiani) per la percepita insostenibilità economica, sociale e politica di una simile eventualità. I seri difetti della politica del governo (o della Lega) sono due. Il primo è che chi governa non ha ancora rimosso gli ostacoli che creano difficoltà all’immigrazione regolare e all’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro: cose per noi economicamente e socialmente necessarie. Il secondo difetto è che, quali che siano i benefici elettorali immediati della politica dei porti chiusi, non c’è possibilità di proteggere, nel medio termine, le coste italiane, di ridurre la pressione della migrazione clandestina, se non si danno due condizioni: se non si ottiene, in primo luogo, la cooperazione dell’Unione europea nel controllo del Mediterraneo e se non si riattivano, in secondo luogo, quegli accordi stipulati dall’Italia ai tempi di Minniti e Gentiloni con governi, ma anche con gruppi tribali, che, controllando i vari territori (nel Vicino Oriente e nell’Africa subsahariana) possono bloccare le catene migratorie create e gestite dai trafficanti d’uomini. Ma la cooperazione dell’Europa, evidentemente, non può essere ottenuta da un governo antieuropeo. Inoltre, quella politica di accordi, oltre a richiedere expertise, una notevole capacità diplomatico-politica, per sua natura può produrre buoni risultati (nel contenere l’immigrazione clandestina) ma non è spettacolare quanto basta - a differenza della politica dei porti chiusi - per garantire benefici elettorali immediati a chi la pratica. In una lettera al Foglio di alcuni giorni fa un politico fine e competente, Umberto Ranieri, criticava l’irrealismo e l’insostenibilità delle posizioni del suo partito, il Pd, in materia di immigrazione. Osservava Ranieri che per battere Salvini (la cui posizione, nel medio termine, si risolverà comunque in un fallimento dato che egli non è in grado di coinvolgere l’Europa), occorre una postura diversa da quella assunta recentemente dal Pd, si tratti dell’atteggiamento sulle Ong o della politica verso la Libia, le cui sorti sono intrecciate con la questione migratoria. In questo momento è in discussione in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da Emma Bonino e dal suo gruppo, e sponsorizzata da molte associazioni, tesa a dare una nuova regolamentazione ai canali di promozione, e dell’inclusione lavorativa e sociale, degli immigrati regolari. Chi scrive non è un esperto della materia ma il provvedimento proposto gli sembra ben costruito e meditato (e comunque una buona base di discussione). Potrebbe rappresentare un tassello di una nuova politica dell’immigrazione (“politica”, in questo contesto, significa regolamentazione e controllo). Ma sarebbe solo un tassello, sia pure indispensabile. Il secondo tassello dovrebbe essere rappresentato da una seria proposta (che vada al di là della politica dei porti chiusi) di inflessibile contrasto all’immigrazione clandestina e ai connessi traffici. Tra i due poli del “Non passi lo straniero” e “Armiamoci e accogliete” c’è, in mezzo, una vasta prateria elettorale. Occorre qualcuno che abbia voglia di cavalcarci dentro. Migranti. In 13 fuggono dal Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria di Michela Allegri e Alessia Marani Il Messaggero, 8 luglio 2019 Clamorosa rivolta, venerdì sera, al Centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, a Roma: decine di stranieri hanno dato fuoco ai materassi, hanno sfondato le porte e scavalcato la recinzione, dileguandosi tra le campagne. Fra i tredici in fuga dalla struttura a sud di Roma e a due passi dall’aeroporto internazionale di Fiumicino, c’è anche un pericoloso algerino, monitorato dall’Antiterrorismo. Il suo nome è inserito nei database interforze e compare nelle informative e nella lista dei 478 soggetti da vigilare per rischio terrorismo compilata dal Nic, il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Lo straniero, infatti, aveva appena finito di scontare la pena in carcere per altri reati, ma nel corso della sua permanenza in una prigione romana si sarebbe radicalizzato alla causa dell’Is, lo Stato islamico, abbracciandone credo e dettami. Per questo sulla vicenda la Digos capitolina ha subito avvisato il procuratore aggiunto Francesco Caporale che coordina il pool di magistrati che si occupa di terrorismo. La prima informativa sul caso verrà depositata agli inquirenti questa mattina. Ma che cosa è successo venerdì scorso nell’ala maschile appena riaperta a maggio dopo un restauro costato 2 milioni di euro? Intorno alle 21,30 gli stranieri in attesa di essere espulsi, hanno cominciato a bruciare materassi, tagliarsi con le lamette, poi in forza hanno sfondato le porte, scardinando gli infissi (non blindati) e danneggiando gli arredi. “Il cibo non è buono e abbiamo pochi cellulari a disposizione”, hanno rivendicato, mentre tra loro c’era già chi studiava la fuga. In 17 hanno raggiunto l’esterno dell’edificio, scavalcato il muro di cinta e si sono dileguati per le campagne lungo la Portuense. Alcuni sono stati bloccati dagli agenti nell’area di Commercity. Gli altri da allora sono uccel di bosco e tra questi l’algerino sospettato per la radicalizzazione violenta e il proselitismo in carcere. A rendere noto l’episodio è stato il Sap, Sindacato autonomo di polizia, che in un comunicato ha espresso “solidarietà ai colleghi del Reparto mobile e dell’Ufficio immigrazione che si sono trovati a fronteggiare le violente intemperanze degli ospiti del Cpr”. Intemperanze che, spiega Massimiliano Cancrini, della segreteria provinciale, “si erano registrate già nelle settimane precedenti. I dormitori vennero chiusi nel 2015 dopo che un incendio appiccato dagli stranieri li rese inagibili ed è già tutto di nuovo danneggiato - aggiunge - Incontrerò il questore e gli chiederò di separare meglio gli ambienti interni dall’esterno, di rinforzare e rendere più asettica la struttura e di evitare che gli ospiti possano raggrupparsi troppo facilmente”. All’interno del Cpr prestano servizio gli agenti dell’Ufficio immigrazione con personale militare e alcuni carabinieri e finanzieri. All’ordine pubblico all’esterno ci pensa, invece, il Reparto Mobile. E non è un caso, secondo Andrea Cecchini di Italia Celere, che “la rivolta sia esplosa proprio venerdì quando una squadra era stata distolta da quel compito e dirottata nel centro di Roma per una manifestazione per la Sea Watch a cui hanno partecipato sì e no 30 persone”. Intanto, la procura aprirà un fascicolo d’indagine, probabilmente per danneggiamento, visto che non è possibile contestare il reato di evasione: i tredici fuggiti non erano detenuti, ma erano in attesa di espulsione. Oltretutto si rischia il paradosso: che per rispondere dei guai di un procedimento giudiziario, l’espulsione sia rimandata, se non evitata. La finta democrazia dei nuovi despoti di Nadia Urbinati Corriere della Sera, 8 luglio 2019 Le società dispotiche sono una fiera di modernità architettonica, di lusso e di innovazione tecnologica. Intorno a Roma si muovono con agio le potenze anti-democratiche. In poco più di tre mesi, l’Italia ha accolto Xi Jinping e Vladimir Putin. L’Europa (la sua debolezza in primo luogo) interessa entrambi (come interessa al loro amico-nemico Donald Trump); soprattutto il Mediterraneo, crocevia per l’Africa e il Medio Oriente, appetibili alle due potenze continentali con ambizioni imperiali, Cina e Russia. Che sono, insieme all’Arabia Saudita, alla Turchia, al Tagikistan, agli Emirati Arabi, al Vietnam, all’Iran e a Singapore (con un fronte che si spinge fin dentro l’Europa con l’Ungheria di Orbán) i rappresentanti di un modello socio-economico e politico che sfida nemmeno tanto timidamente la democrazia. Di recente Putin ha tuonato contro le democrazie costituzionali, giunte secondo lui al capolinea; qualche anno fa commentando una risoluzione del Parlamento europeo contro le ingerenze russe nei media, aveva dichiarato: “Tutti ci fanno scuola di democrazia mentre vediamo il degrado in cui versa l’idea stessa di democrazia”. Per definire questi sistemi di potere si sono ideate le più fantasiose formule, come per esempio quella di “democrazia illiberale” (amata molto anche da Orbán oltre che da Erdogan) che però non significa nulla poiché una democrazia con diritti civili sotto sorveglianza dell’esecutivo e senza una pubblica e libera competizione politica non può esistere, anche quando usa elezioni e un sistema sofisticato di media. Recentemente John Keane, uno studioso di politica dell’Università di Sidney ha scritto che questi sistemi molto radicati in Asia possono essere rubricati nella categoria di “nuovo dispotismo”. Evidente l’eco dei classici, di Aristotele e di Montesquieu, che situavano nel continente asiatico i fondamenti di un sistema di negazione della politica di cui intuivano la capacità attrattiva e di penetrazione ben oltre i confini di casa loro. Il nuovo dispotismo, che gli amici della democrazia dovrebbero cercare di conoscere meglio, ha tutti i requisiti per far fortuna anche dentro le nostre democrazie perché si alimenta di un cibo di cui conosciamo bene gli ingredienti: l’ideologia del popolo, la manipolazione dei media, il capitalismo e l’oligarchia, la corruzione e il clientelismo. Sostenuti da un sistema multiplo di piramidi di potere, i leader del nuovo dispotismo coltivano la loro egemonia sia mediante un esteso sistema di corruzione che stratifica amici e nemici, sia mediante l’uso di elezioni fantasma che devono celebrare le vittorie invece di dar voce alle preferenze. Intimidiscono i votanti e comprano i voti - ma vogliono lo show delle elezioni perché vogliono presentarsi con l’aura della legittimità popolare. Questo sistema gelatinoso non usa con plateale dispendio di mezzi la repressione violenta (anche la ‘ndrangheta del Varesotto comprende del resto il ruolo della pubblicità!) né alimenta ossessivamente la paura, come il despota tratteggiato da Montesquieu. È come un enorme organismo nel quale si tengono insieme la ricchezza stratosferica dei pochi, il benessere delle classi medie e la promessa di riuscita delle classi lavoratrici. Meticolosamente attenti ai dettagli, a come il popolo vive e a che cosa pensa, si regge su un’oligarchia dotata di un potere insindacabile che accumula fantastiche ricchezze, genera vere e proprie dinastie, e non si cela agli occhi del pubblico come gli antichi despoti, ma si presentano anzi come role models per tutti. Il successo è la miglior forma di controllo sociale auto-generato. Non è neppure vero che il nuovo dispotismo sia puro arbitrio: è vero invece che usa la legge secondo una regola che conoscono bene anche i populisti: dolce e gentile con i sostenitori e gli amici, arcigna con gli oppositori. Amministrano la paura con regolarità e senza bisogno di inutili show di violenza. Tutto sommato i fascismi erano come la scuola elementare dei nuovi dispotismi. Ma vi è un fatto nuovo, che né il fascismo storico né il sovietismo totalitario conoscevano: l’ideologia dell’edonismo consumistico. La seduzione del pubblico invece della repressione è oggi resa possibile dal sistema capitalistico che consente ai nuovi despoti di usare a piene mani l’argomento del successo economico e del benessere. Le nuove società dispotiche sono una fiera di modernità architettonica, di lusso e di innovazione tecnologica. Ed è proprio su questo argomento che la sfida alle democrazie occidentali si fa fatale, le quali sono risorte nel secondo dopo guerra con la promessa di un benessere diffuso che fosse non fine a sé stesso ma condizione per una vita dignitosa e libera. I nuovi despoti promettono (e sono generosi a sostenere istituti di ricerca e media che diffondono i dati sulle grandi conquiste dei loro popoli) quello che nelle nostre società pochi ormai possono promettere: un futuro in cui i figli vivranno meglio dei genitori. Proprio questo successo economico induce studiosi e analisti occidentali a concedere che si tratti in effetti di “democrazie”, magari “delegative” o “illiberali” o “semi-democratiche”. La filosofia sociale della felicità consumistica viene premiata con la medaglia della “democrazia”: una scelta ben poco saggia, visto che per premiare i nuovi despoti facendoli entrare nel Pantheon democratico si finisce per sdilinquire la democrazia, facendone una parola così lasca che alla fine perde di senso, proprio come i nuovi despoti vogliono che sia. Putin e il progresso senza diritti di Emanuele Felice La Repubblica, 8 luglio 2019 Russia, Cina e Usa cercano di imporre un capitalismo sfrenato senza democrazia: l’Europa deve opporsi. L’isolamento in Europa, il viaggio di Salvini in America, le visite di Xi Jinping e Putin. Il nostro paese è oggi al centro di una partita globale che ha un’enorme portata geopolitica: l’Italia ventre molle per accedere all’Unione e, soprattutto, per dividerla. Putin l’ha capito molto bene, come evidenziato da Scalfari nell’editoriale di ieri. Se l’Europa si sfasciasse, i giganti mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina) avrebbero il vantaggio di trattare con le singole nazioni una per una. Di sicuro ci perderemmo tutti, nel Vecchio continente. Ma va detto che ci perderebbe soprattutto l’Italia, particolarmente esposta perché esporta molto (e nei trattati commerciali del nuovo mondo muscolare sarebbe infinitamente più debole), oltre che per il suo debito pubblico e la posizione geografica, che ne fa naturale punto di approdo dei migranti. Altro che interesse nazionale! Flirtare con Trump e Putin, autoemarginarsi dal motore dell’integrazione europea alleandosi con Orban, è il modo migliore per danneggiare il nostro paese, pressoché in ogni ambito. Tutto Salvini fa, insomma, fuorché gli interessi dell’Italia (con buona pace della propaganda sovranista). E forse l’opposizione dovrebbe cominciare a battere su questo tasto, se vuole davvero risalire la china. Ma il flirt con Putin e Trump rischia di aprire a scenari ancora più preoccupanti, perché non riguardano solo l’economia, ma le nostre libertà fondamentali e forse il destino stesso delle società in cui viviamo. La questione di fondo è se la democrazia (la nostra democrazia, quella fondata sulla separazione dei poteri, che si chiama liberale ed è l’unica che può tutelare i diritti dell’uomo) deve governare il capitalismo, e lo sviluppo tecnologico. Oppure no. Fino a non molto tempo fa pensavamo che la risposta fosse scontata, oggi non è più così. Si fa strada nel mondo un’idea della società che considera i diritti dell’uomo come un ostacolo verso l’unico obiettivo che realmente conta: la crescita economica. Quando Putin dichiara che il liberalismo (non il liberismo!) è obsoleto, punta esattamente in questa direzione: a che servono i diritti umani, a che pro tutelare le minoranze? Non sono che intralci. Il capitalismo neo-liberale non ha più bisogno della democrazia. Questo è il grande non-detto di tutta la narrazione putiniana e, a ben vedere, lo ha sottolineato forse meglio di tutti Gad Lerner (“Putin, il guru dei sovranisti e del capitale”, su La Repubblica dell’i luglio). È una narrazione radicalmente e coerentemente di destra, da ogni punto di vista, e che infatti si ritrova perfettamente in quella di Salvini. E di Trump. Ma è un’ideologia che possiamo ormai rintracciare in ogni angolo del pianeta, a sostegno dei nuovi regimi autoritari, dall’immensa Cina fino alla piccola Dubai. Che cosa c’è in gioco? Praticamente tutto. Ancorare il capitalismo alla stella polare dei diritti umani è vitale, nel nostro tempo perfino più che in passato, date le sfide che abbiamo davanti. Lo è per gestire i cambiamenti tecnologici, dall’intelligenza artificiale ai big data, in modo da preservare la coesione sociale e anche le libertà fondamentali. Per l’ambiente, dato che sono i più deboli a pagare le maggiori conseguenze dei disastri ecologici. Senza contare che il rischio di conflitti aumenta enormemente fra regimi autoritari ammantati di retorica identitaria, rispetto alle democrazie. Davvero, è questo il tema del nostro tempo. Riusciremo a salvaguardare il grande ideale del progresso, che tiene insieme benessere, libertà e diritti? O dovremmo rassegnarci a un mondo distopico, dove la dignità umana e l’ecosistema sono calpestati dall’indifferenza degli oligarchi? Beninteso, il problema non è tanto il fascismo che ritorna. Metterla in questi termini può anzi risultare fuorviante, perché ne trarremmo la conclusione (vera, sul piano storico) che Salvini non è Mussolini. Ma in questo modo rischiamo di sottovalutarlo per quello che realmente rappresenta, qui e ora. Al fondo c’è l’idea di un capitalismo sfrenato che non ha più bisogno dei diritti. Di un liberismo che recide il cordone ombelicale con la democrazia liberale, cioè con il liberalismo da cui è nato. Un totalitarismo di tipo nuovo, semmai (intravisto in passato da Hannah Arendt, Herbert Marcuse, o Pasolini, fra i risvolti della società di massa: ma la cui portata è oggi molto maggiore). Di questa idea, di questo mondo distopico, Salvini è oggi il più pericoloso alfiere, in Europa. E proprio l’Europa invece, pur con tutti i suoi difetti, ne incarna l’alternativa, nel mondo. Siria. Sono 6.000 i miliziani dell’Isis nelle carceri curde di Francesco Bussoletti analisidifesa.it, 8 luglio 2019 Sono circa seimila i miliziani Isis, prigionieri nei campi delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) nel Nord Est della Siria tra Hasakah e Deir Ezzor. Lo ha confermato la milizia curdo araba siriana assistita dalla Coalizione a guida statunitense. Circa 5.000 sono membri dello Stato Islamico di origine irachena o siriana. I restanti, invece, provengono da 54 paesi in tutto il mondo. Le forze arabo-curde continuano a chiedere alle nazioni di origine di riprendere i loro foreign fighters. La maggior parte di queste, però, si rifiutano o prendono tempo mentre i loro cittadini rischiano di essere condannati a morte. L’unica corte che, infatti, sta processando i jihadisti dell’Isis è quella di Baghdad, dove vige ancora la pena capitale. Peraltro, non sono solo i fondamentalisti IS locali a essere condannati ma anche quelli stranieri che hanno commesso crimini nello Stato mediorientale. Le Sdf continuano periodicamente a trasferire miliziani Isis stranieri prigionieri dalla Siria all’Iraq. L’ultima estradizione è di pochi giorni fa e riguarda circa un centinaio di jihadisti dello Stato Islamico, tra cui alcuni alti leader. Finora sono stati deportati in tutto oltre 500 fondamentalisti. Questo tipo di operazioni nell’ultimo periodo si sta intensificando nel timore che i miliziani rimasti in Siria possano tentare di liberare i loro compagni attaccando le carceri oppure che questi ultimi tentino sommosse a scopo di fuggire. Le forze arabo-curde, seppur in crescita, non sono sufficienti truppe per monitorare quotidianamente tutti i prigionieri dell’Isis e allo stesso tempo dare la caccia alle cellule ancora attive tra Raqqa e Deir Ezzor.