Carceri, taglio delle classi scolastiche a Roma e in Calabria di Angela Gennaro open.online, 7 luglio 2019 “Non c’è recidiva per chi va a scuola”. Ma dal carcere di Rebibbia agli istituti penitenziari in Calabria, gli insegnanti sono in mobilitazione per il taglio dei corsi. Di carceri, si sa, poco si parla. Non si parla di sovraffollamento, per quanto tocchi vette record e sia in aumento: secondo i dati aggiornati al 30 giugno scorso dell’ufficio del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono 10mila i detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare degli istituti penitenziari in tutta Italia. Non si parla del fatto che i reati sono sì in calo, ma a diminuire sono anche i numeri di chi dal carcere riesce a uscire. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà, ci sono più di 5mila persone che potrebbero accedere alle pene alternative ma non riescono, e quindi restano in carcere. Non si parla di recidiva, e di come evitarla: eppure, come ricorda Il Dubbio, ha un tasso che supera il 60% tra chi viene detenuto. Vuol dire che più della metà delle persone che escono dalla galera ci rientrano, perché ricominciano a delinquere. Un numero che scende vertiginosamente al 19% tra chi ha accesso alle misure alternative, e addirittura all’1% per chi viene inserito nel ciclo produttivo. A salvare è anche la scuola. Sono tante le storie che lo dimostrano. Come quella di un ergastolano che, nei suoi 28 anni di carcere, ha studiato, è andato all’università, è stato ammesso al lavoro esterno e ora presta servizio al Policlinico di Roma. È stato detenuto nel carcere di Rebibbia, periferia est della Capitale. I tagli delle classi a Rebibbia - Si va a scuola a Rebibbia, e la scuola è “l’unica vera risposta, per questi detenuti, per non tornare in carcere”. Ma - questa è la denuncia di insegnanti e sindacati - “su questi percorsi sta calando la scure dei tagli”. Saranno solo 32 le classi concesse al distaccamento dell’Istituto superiore tecnico-industriale “J. Von Neumann” presente all’interno del carcere romano, sulle 40 necessarie, spiega a Open Barbara Battista, docente e rappresentante sindacale SGB di Rebibbia. “L’ufficio scolastico regionale, insieme a quello provinciale, non ha lasciato spiragli”: e per giustificare il taglio delle classi le iscrizioni vengono, senza spiegazioni, “asciugate”. Solo per la prima classe, l’indirizzo tecnico informatico potrà accogliere solo 100 nuove iscrizioni - e ci sono state 157 richieste, per l’indirizzo economico altri 37 non hanno avuto il diritto neanche di sapere perché la loro iscrizione in prima non è stata conteggiata. “Già lo scorso anno oltre 150 studenti si sono visti negare la classe, alcuni del 3 o 4 anno: solo a metà anno siamo riusciti ad aprire una classe nell’alta sicurezza femminile”. Il nome Rebibbia vuol dire tante cose. È una realtà complessa fatta di più plessi: tre maschili e uno femminile. Sono 1605 i detenuti di Rebibbia nuovo complesso “Raffaele Cinotti” di via Maietti - dedicato a un poliziotto ucciso dalle Brigate Rosse - comprese le 17 persone transessuali detenute nel G8. A loro si aggiungono altri 300 nella casa di reclusione, dove ci sono i collaboratori di giustizia. E 42 sono quelli in custodia attenuata, nella terza casa circondariale: ragazzi tossicodipendenti in via di recupero, con pene di sei-sette anni e che stanno facendo un percorso per arrivare alla comunità. 375 sono al momento le detenute del braccio femminile, in via Bartolo Longo. “Ci sono molte richieste, e siamo costretti a fare vere e proprie classi pollaio, pur di non mandare via le persone”. La capienza di una classe è di una ventina di studenti ciascuna, “noi le riempiamo fino a 35, tra malati di Aids, tossicodipendenti e i comuni. I collaboratori di giustizia non possono essere mischiati con i detenuti comuni, quindi bisogna organizzarsi”, spiegano dal Neumann, istituto presente all’interno di Rebibbia dal 1985. Da qualche anno a questa parte, dicono, “siamo nell’occhio del ciclone, con un taglio molto elevato delle classi”. “Abbiamo 800 iscrizioni in tutti i plessi”, raccontano ancora dal Neumann. “Ma con 32 classi autorizzate non sappiamo dove metterli. Quindi una volta riempite, ci dobbiamo fermare. Come lo spieghiamo alle altre? Si parla di risparmio, ma non può essere quella la ragione. Il carcere non deve essere solo punitivo, serve rieducazione e trattamento, si dice sempre… Alla fine, non importa niente a nessuno”. La politica - Giovedì 4 luglio, la senatrice M5S Bianca Laura Granato, componente della Commissione Istruzione e insegnante, ha ricevuto una delegazione di docenti del sindacato SGB. “È anche lei un’insegnante”, racconta Battista. “Si è impegnata a seguire il caso e presenterà un’interrogazione al ministro Bussetti”. Negli anni gli studenti detenuti sono cambiati: “Non sono adulti di 40, 50, 60 anni: la maggior parte sono ragazzi nati nel 1996, 1997 e 1998. Il prossimo anno avremo anche il ’99. Vengono dalle periferie di Roma, da Tor Bella Monaca e San Basilio, e da tutte le altre città del centro-sud”. Ragazzi che, a 20 anni, “hanno ancora una possibilità. E la scuola per loro fa tantissimo: non c’è recidiva per chi va a scuola”. “La nostra scuola poi ha le sue due sedi esterne al carcere proprio nei quartieri più a rischio della periferia romana”, aggiunge Battaglia. “Questa combinazione con la sezione staccata nel carcere ha creato un legame con il territorio molto forte e la crescita della presenza in carcere ha di fatto, fino ad oggi, sostenuto le sedi esterne che come noi sono in sofferenza per la mancanza di bidelli, tecnici, amministrativi e pure docenti. Le “riforme” hanno colpito tutta la scuola. In certi quartieri la scuola è anche l’unico antidoto per non finirci, in carcere”. Un anno fa, racconta ancora Barbara Battista, “il provveditorato, dopo i nostri scioperi, ci ha mandato una lettera in cui affermava che, qualunque fosse stato il numero di iscrizioni, ci avrebbe dato solo 32 classi. Noi ne chiediamo 40: solo così siamo riusciti a portare la scuola in ogni reparto, visto che, come è logico, non si possono accorpare, per esempio, pentiti e mafiosi”. In alcuni reparti, “se non c’è la scuola, non ci sono attività alternative: significa togliere tutto”. La scelta, dice la sindacalista, “è quella di privatizzare: lo vediamo nella formazione professionale, dentro e fuori dalle carceri. Ci sostituiscono con ipotesi di progetti e ‘progettini’ di pochi mesi. Giustamente legati al lavoro, per carità. Peccato che nel carcere la scuola non sia solo “prendere un diploma”. Ai detenuti serve un tempo-scuola, vivere la scuola. Quasi tutti i nostri diplomati poi si laureano, o trovano un’occupazione”. Da Roma a Cosenza - La linea rossa dei tagli unisce il Centro al Sud. Anche in Calabria i sindacati sono in agitazione per il taglio delle classi (e dei docenti). “Nelle carceri praticamente non ci sono più corsi, hanno lasciato qualche corso al serale”, racconta a Open la professoressa Vanda Salerno, segretaria provinciale Gilda Cosenza. Accade a Paola e Cosenza, ma anche a Rossano e Castrovillari. “Prima della mobilità, l’ufficio scolastico regionale ci ha comunicato che ci sarebbe stata una contrattazione di posti nell’ambito dell’organizzazione dell’organico di rito e del budget di ore e di classi da concedere”, dice Salerno. “Se ci sono insegnanti in più, devono tagliare. E, rispetto all’organico dell’anno precedente, hanno tagliato soprattutto nelle sedi carcerarie e in quelle dell’alberghiero, nel serale”, dice la sindacalista. L’ufficio scolastico regionale “non ci ha dato motivazioni scritte, ma a suo dire ha considerato di troppo questi insegnanti”. Perché? “È necessario garantire copertura delle cattedre al diurno, spiega Vanda Salerno, “anche nelle sedi più decentralizzate. Quindi, per salvaguardare il diurno, hanno optato per la chiusura del serale e delle sedi carcerarie”. Risultato: “215 insegnanti hanno perso la titolarità, in tutta la provincia, soprattutto a Cosenza, Castrovillari, Rossano, Corigliano, Acri”. Ora, nella mobilità, “hanno dato loro cattedre molto lontane dalle sedi originarie. Dicono che hanno operato secondo prossimità, ma abbiamo le prove che ci sono insegnanti che da Cosenza sono stati mandati a Cariati: a oltre 100 km di distanza”. Eppure “per legge, la titolarità va salvaguardata: una volta che un insegnante la perde, poi non la riacquista più per quella scuola e deve girare un po’ per la provincia. Questo è quello che stiamo contestando”. Ora “come sindacato stiamo procedendo a tentativi di conciliazione: poi, chi vorrà, andrà davanti a un giudice del lavoro. Ci sono persone che intendono fare causa: alcuni docenti sono stati avvisati dal giorno alla notte”. Concorso Nazionale di Scrittura “A Scuola di Libertà” Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2019 Ad una studentessa lucana del Liceo “G. Peano” di Marsico il 1° Premio. Si è tenuto a Padova il Consiglio Nazionale della Cnvg, Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che nel corso dei lavori ha ratificato i nomi degli studenti vincitori del concorso di scrittura. Una apposita commissione ha selezionato i 3 migliori testi tra quelli pervenuti da vari Istituti Scolastici, inviati dai numerosi studenti partecipanti al progetto “A Scuola di Libertà: Le scuole incontrano il carcere”. Per il secondo anno consecutivo un premio ad una studentessa lucana, impegnata nel percorso di Alternanza Scuola Lavoro, realizzato dal Comitato Regionale Aics di Basilicata, che ha sposato il progetto Nazionale della Conferenza Volontariato Giustizia. Dopo il secondo posto dello scorso anno alla studentessa Alisia Taddei di Laurenzana, tocca a Debora Fortunato della quarta D del Liceo di Villa d’Agri classificarsi al primo posto di questa edizione con il testo-lettera “caro detenuto”. Gli studenti della quarta D di Marsico e quelli della quarta A di Viggiano, frequentanti il Liceo Scientifico “Peano”, ad indirizzo linguistico i primi e umanistico i secondi, sono stati impegnati nell’approfondimento sui temi della Legalità e della Giustizia, del reato e della pena, della vittima e del reo, attraverso il fare condiviso nei laboratori di scrittura e di ceramica istituiti all’interno della Casa Circondariale e dell’Istituto Penale Minorile di Potenza, ma anche grazie agli incontri presso Istituzioni ed Enti che si interessano di Giustizia e presso la Redazione della Rai di Basilicata. Il meritato riconoscimento si estende anche alla Dirigente, Dott. Ssa Serafina Rotondaro, per la sensibilità verso questi temi, e a tutto il team docenti che ha strutturato il progetto di Istituto per l’A.S.L con Aics, tra i quali, in modo particolare, alla Professoressa Luciana Cimino e al Professor Antonio Ramagnano che hanno sostenuto, seguito e accompagnato il percorso formativo dei loro studenti. Secondo classificato uno studente di Reggio Emilia e prima classificata per le medie inferiori, una studentessa di Bolzano. Nel corso del Direttivo, che dà seguito al momento elettivo dello scorso maggio per il rinnovo delle cariche istituzionali e all’elezione a Vice Presidente Nazionale della Conferenza della lucana Dott.sa Vincenza Ruggiero, sono state pianificate le azioni relative all’ultima parte del 2019 che prevedono l’aspetto formativo con il “Festival della Comunicazione” rivolto in modo particolare a giornalisti della cronaca giudiziaria ed operatori della comunicazione mediatica; l’aspetto informativo, dedicato a studenti e studentesse delle scuole medie e degli istituti superiori; quello assembleare, rivolto a tutte le Organizzazioni che si occupano di Volontariato Giustizia. Fatto, infine, il punto a tutto tondo sulla situazione delle carceri, anche alla luce delle più recenti disposizioni ministeriali. Giustizia al rallentatore, 3 anni per una sentenza di Francesco Lo Dico Il Mattino, 7 luglio 2019 La fotografia scattata dal Rapporto biennale elaborato dalla Commissione europea per la giustizia (Cepej) è una condanna senza appello. Un anno e mezzo per una sentenza di primo grado, due e mezzo per il secondo grado di giudizio, tre anni e mezzo di attesa per il terzo. Finire nelle spirali della giustizia italiana, significa intraprendere un disperante viaggio ai confini della realtà che non ha pari negli altri Paesi d'Europa. Solo la Grecia e la Bosnia-Erzegovina fanno peggio di noi, quando si parla di tempi medi per la celebrazione di un processo. Un anno e mezzo per una sentenza di primo grado, due e mezzo per il secondo grado di giudizio, tre anni e mezzo di attesa per il terzo. Finire nelle spirali della giustizia italiana, significa intraprendere un disperante viaggio ai confini della realtà che non ha pari negli altri Paesi d'Europa. Solo la Grecia e la Bosnia-Erzegovina fanno peggio di noi, quando si parla di tempi medi per la celebrazione di un processo. Per il resto il Belpaese si aggiudica a mani basse la maglia nera tra i 45 Paesi del Vecchio continente che aderiscono al Consiglio d'Europa. La fotografia scattata dal Rapporto biennale elaborato dalla Commissione europea per la giustizia (Cepej) è una condanna senza appello. Nonostante dei timidi segnali di miglioramento tra il 2012 e il 2016, tra l'Italia e il resto d'Europa resta un gap incolmabile, scolpito dai numeri. Qui da noi servono ad esempio in ambito civile 514 giorni per una sentenza di primo grado (ma erano 590 nel 2014), contro i 233 della media europea: tempi più che doppi. E se si raffrontano i tempi del secondo grado di giudizio va di male in peggio, perché la durata quadruplica: ai nostri giudici servono 993 giorni (erano 1161 sette anni fa), ai colleghi europei appena 244. Dati da incubo. Che diventano ancora più inquietanti, quando si tratta di arrivare a sentenza definitiva. Per una sentenza di terzo grado, in media i cittadini europei devono attendere 238 giorni, ovvero otto mesi. Quelli italiani il quintuplo del tempo: 1442 giorni di agonia. Addirittura 130 in più di cinque anni fa. E non molto meglio va nel penale, dove l'Italia, con 310 giorni, ha il primato negativo indiscusso nella speciale categoria dei processi lumaca nel primo grado di giudizio. Nel secondo, arriva una magra consolazione: con 876 giorni siamo penultimi dopo Malta (1025), mentre a salvare l'onore ci pensa la Cassazione, che si prende 191 giorni di tempo contro la media di 143. C'è un problema di organico? Probabilmente sì, a leggere i dati del rapporto Cepej. Nel resto d'Europa ci sono in media a disposizione 22 magistrati ogni 100mila abitanti mentre in Italia ce ne facciamo bastare 11, appena la metà. E il raffronto resta impietoso se si estende lo sguardo al vero asse portante del sistema giustizia nazionale, che smaltisce il 40 per cento dei procedimenti. Qui da noi ce ne sono 6 ogni 100mila abitanti (3.522 in tutto), negli altri Paesi che hanno fornito i dati si sale a ben 94 "giudici di complemento" ogni 100mila persone. E tuttavia le carenze di organico non spiegano tutto. A differenza di quanto potrebbe sembrare, dopo la crisi del 2008 tutti i Paesi europei hanno aumentato le risorse destinate alle spese per la giustizia. Ma se altrove si sono investiti in media 64,5 euro per ogni abitante, il Belpaese ne ha spesi 75, più degli altri. Senza contare peraltro che le somme consegnate ai tribunali amministrativi sono qui da noi conteggiati in un capitolo di spesa a parte. Insomma, ci sono dei buchi d'organico in Italia. Ma ci sono anche problemi di efficienza nei nostri palazzi di Giustizia. Che somigliano a macchine sempre più ingolfate. Più provano ad accelerare, più girano a vuoto. Il quadro clinico fornito dall'Associazione nazionale forense (Anf) lo dice senza mezzi termini: la Giustizia è la grande ammalata d'Italia. E resta tutt'oggi in prognosi riservata. Alla fine del 2018, il numero di procedimenti civili pendenti tra tribunali ordinari, giudici di pace, tribunali per minorenni, corti d'appello e Corte di cassazione ammonta a una cifra mostruosa: 3 milioni e 443 mila, di cui 2 milioni e 900 mila riguardano contenziosi economici, lavorativi e familiari, e altri 527.792 legati a esecuzioni e fallimenti. La maglia nera spetta però ad alcuni distretti giudiziari in particolare. I tribunali ordinari di Roma hanno in sospeso 126.710 cause, seguono Napoli (73.715), Catania (53.752), Milano (48.278) e Bari (45.581).11 risultato? Ben 550mila procedimenti pendenti sono a rischio risarcimento per quella irragionevole durata del processo sanzionata dalla legge Pinto. Sono probabilmente destinati a non finire in tempi accettabili 369.436 cause davanti ai tribunali ordinari, 110.033 davanti alle corti d'appello e 75.206 dinanzi la Corte costituzionale. Ma il vero guaio è che la malagiustizia non costa lacrime, soldi e sangue soltanto a imprenditori, comuni cittadini e amministratori, ma a tutti gli italiani nel complesso. Se Milano sfonda raramente i tempi di un processo ragionevole (86 casi nel 2016, 82 nel 2017), Corti d'Appello come quelle di Roma (1698 ritardi) e Napoli (1354) subiscono ogni anno migliaia di procedimenti per equa riparazione. Per le casse pubbliche un vero salasso. A oggi ci sono stati già più di 700mila procedimenti legati alla legge Pinto. Che ci sono costati quasi un miliardo di euro, tra i 450 milioni già erogati e i 406 già stanziati. E in prospettiva ne spenderemo altrettanti a breve. Più che riformata, la nostra giustizia andrebbe rifondata. Doppio Csm e indagini preliminari la riforma si incaglia sui veti 5Stelle di Francesco Lo Dico Il Messaggero, 7 luglio 2019 Ufficialmente mancano dieci giorni per chiudere la riforma della giustizia. Ma il pacchetto di interventi last-minute che la Lega ha intenzione di recapitare in via Arenula rischia di ingolfare il cammino della legge delega fin qui elaborata dal ministro Bonafede. Se i meccanismi premiali immaginati dal Carroccio per incentivare i magistrati più efficienti e punire con sanzioni quelli più lenti trovano al ministero di Giustizia un gradimento di massima (“Già la riforma del procedimento vincola l'azione dei magistrati a tempi molto stretti che di per sé sono indicativi del suo operato, ma dovremo valutare le proposte nel dettaglio perché ancora non ci è stato sottoposto nulla di scritto”, è il cauto distinguo che arriva dal ministero), l'idea di concedere una sola proroga di sei mesi ai termini previsti per le indagini preliminari e quella di istituire un doppio Csm per giudici e pm registrano tra i 5Stelle una netta chiusura. Ma in attesa del confronto con il ministro Bonafede, previsto per mercoledì, i parlamentari M5S attendono maggiori lumi anche in merito alla stretta sull'accesso ai riti premiali sollecitata dal ministro Bongiorno. “Abbiamo già varato lo stop al giudizio abbreviato per i delitti puniti con l'ergastolo - spiegano da via Arenula - e non abbiamo ben compreso se si tratta di ricomprendere il ddl nella riforma. In ogni caso il vero tema da porre sul tavolo è quello dei collaboratori di giustizia. Vanno premiati soltanto quelli che dimostrano una fattiva cooperazione”. Se in casa grillina c'è già una granitica certezza, è quella legata al contingentamento dei tempi per le indagini preliminari che salvo eccezioni la Lega vorrebbe limitare a una proroga di sei mesi al massimo. “Inammissibile. Un abominio. Un conto è porre delle scadenze a indagini che configurano reati già consumati di tipo bagatellare. Ma come si può pensare di sospendere di colpo un'inchiesta a sfondo mafioso, o un qualunque tipo di indagine che segnala possibili reati in corso di svolgimento?”, ammonisce il senatore grillino Mario Michele Giarrusso, membro della commissione Giustizia. Ma a via Arenula suscita forte perplessità, anche il progetto leghista di istituire un doppio Csm. “Problemi di merito ma anche di metodo, fanno notare”. Innanzitutto, spaccare in due l'organo di autogoverno della magistratura, “equivarrebbe a introdurre la separazione delle carriere tra giudici e pm in modo surrettizio”, fanno notare nel quartier generale M5S. Ma ammesso che il problema fosse superabile, “il vero nodo è che per realizzare un intervento del genere occorrerebbero tempi lunghissimi, parliamo di una riforma di rango costituzionale”. Nessun ostacolo invece sembra frapporsi alla fine delle porte girevoli tra magistratura e politica le nuove regole per arginare le correnti del Csm. Se i laici non potranno più provenire da esperienze politiche elettive, i togati eletti dai magistrati non potranno utilizzare Palazzo dei Marescialli come trampolino di lancio per successivi incarichi direttivi. Pezzi di riforma, questi, sui quali a via Arenula si registra “una certa sintonia” con gli alleati leghisti, al netto della revisione del sistema elettorale del Csm proposto dalla Lega (che prevede 28 collegi elettorali), sul quale il Movimento frena. “Il ministro Bonafede ha già chiarito che il tema sarà affidato ad una norma ad hoc che vedrà protagonista tutto il Parlamento”. Del resto il Guardasigilli ha tutta l'intenzione di tirare dritto. Tant'è che ieri ha replicato a muso duro al neo-presidente dell'Anm Luca Poniz che in vista della riforma si è detto disponibile a discutere ma non “cinque minuti prima” e a condizione che non sia “un'interlocuzione di facciata”. “Parlare di mancanza di interlocuzione - è stata la sferzata del ministro - è totalmente fuori luogo, oltre a dimostrare evidentemente che si vuol partire con il piede sbagliato”. Si tratta di testi - ha aggiunto Bonafede - scritti dopo una lunga e serrata interlocuzione con avvocati e magistrati, questi ultimi rappresentati al tavolo proprio da Anm, nella persona dell'allora presidente Francesco Minisci”. Poi la chiosa piccata: “Non è colpa mia se l'Anm, per accontentare tutte le correnti, è arrivata al punto di prevedere la rotazione del presidente”. Riforma della giustizia, cala il gelo tra Associazione magistrati e Bonafede Avvenire, 7 luglio 2019 L'Anm, che ha riunito ieri il Comitato direttivo, si dice “disponibile” al confronto “ma non 5 minuti prima” del varo. Il ministro ribatte: l'interlocuzione è già avvenuta con i precedenti vertici, così si parte con il piede sbagliato. E' calato il gelo, in vista dell'imminente presentazione del pacchetto di riforme della giustizia, tra l'Associazione magistrati e il Guardasigilli Alfonso Bonafede. L'Anm giudica pochi i dieci giorni entro i quali il ministro vuole portare i provvedimenti in Consiglio dei ministri e chiede più tempo per il confronto. “Le riforme potranno piacere o non piacere, ma parlare di mancanza di interlocuzione è totalmente fuori luogo, oltre a dimostrare evidentemente che si vuol partire con il piede sbagliato”, ha tagliato corto Bonafede. Poi ha ribadito: “Entro dieci giorni conto di portare la riforma del processo civile, di quello penale e del Csm al Consiglio dei ministri. Sono testi scritti dopo una lunga e serrata interlocuzione con avvocati e magistrati, questi ultimi rappresentati al tavolo proprio dall'Anm, nella persona dell'allora presidente Francesco Minisci. Non è colpa mia se l'Anm, per accontentare tutte le correnti, è arrivata al punto di prevedere la rotazione del presidente”. Intervenendo al Comitato direttivo centrale dcll'Anm - che ha deferito ai probiviri dcl prepensionando Pg della Cassazione Riccardo Fuzio indagato per aver rivelato a Luca Palamara particolari dell'inchiesta di Perugia - il nuovo presidente Luca Poniz ha detto ieri che l'associazione è disponibile a un confronto sulle riforme, ma non “cinque minuti prima” del loro varo. L'Anm è pronta a fornire “le più alte e migliori proposte”, ha spiegato Poniz, ma “il tempo di dieci giorni soffocherebbe il nostro intendimento”. Per dimostrare la sua buona volontà, il "parlamentino" delle toghe ha approvato ieri (con il voto contrario di Magistratura indipendente e dell'ex-presidente Pasquale Grasso) regole interne più stringenti in vista delle elezioni suppletive di ottobre del Csm, quando si dovranno scegliere i sostituti di due dei consiglieri togati che si sono dimessi per la bufera provocata proprio dall'inchiesta di Perugia sulle presunte manovre per pilotare le nomine api cali di alcune procure. Si punta, in sostanza, a favorire candidature indipendenti rispetto alle correnti e si prevede l'incandidabilità al Csm di chi attualmente ricopre incarichi negli organi direttivi dell'Anm o delle sue varie componenti, di chi fa parte dei Consigli giudiziari e dei magistrati fuori ruolo. Ma Bonafede tira dritto e non cede sulla tempistica: “Non c'è tempo da perdere”, ha detto, è finita l'epoca “dei gattopardi e di chi intende fare melina”. Roma: Ciani visita Rems Palombara Sabina “importante monitorare superamento Opg” Ristretti Orizzonti, 7 luglio 2019 “La presenza delle istituzioni nei luoghi di fragilità e di cura è fondamentale per monitorare le politiche sanitarie e realizzare l’integrazione socio-sanitaria. Dopo aver inserito alcuni punti specifici sulla salute mentale nel Piano Sociale Regionale, oggi ho visitato personalmente la Rems di Palombara Sabina per ascoltare i malati e gli operatori e capire come sta procedendo il superamento degli Opg”. Lo ha detto Paolo Ciani, vice Presidente della Commissione Salute della Regione Lazio e consigliere di Demos - Democrazia Solidale, in occasione dell’odierna visita alla Rems di Palombara Sabina. “La salute mentale è un grande tema per la Regione e l’intero Paese. Così come lo e’ il rapporto tra salute mentale e giustizia. Dopo la giusta chiusura degli Opg, ora la sfida sono le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Bisogna vigilare sui percorsi terapeutici dei malati internati, valorizzare le competenze degli operatori e capire l’interazione delle strutture con il territorio circostante. Ritengo fondamentale mettere le istituzioni in ascolto e cercare soluzioni efficaci per i diversi bisogni, senza escludere nessuno”. Ha proseguito Ciani: “Questi luoghi rappresentano uno snodo fondamentale per l’integrazione sociosanitaria. Per questo, come vicepresidente della Commissione Sanità ho inserito alcuni punti specifici - continuità terapeutica, mediazione linguistica ove necessaria, strutture residenziali alternative alle Rems - nella stesura del Piano sociale regionale. Ora sto monitorando l’implementazione di queste misure, convinto che il reciproco ascolto e un’effettiva collaborazione fra i diversi soggetti sia fondamentale. L’Italia e’ il paese di Franco Basaglia e, a 40 anni dalla legge 180, dobbiamo costruire percorsi di cura e riabilitazione che siano all’altezza della nostra storia”. Durante la visita il vice presidente Ciani e’ stato accompagnato dal Commissario della Asl Rm 5 Giuseppe Quintavalle, dalla referente regionale per la salute mentale, dai diversi responsabili del Distretto e dei moduli, dell’attigua Casa della Salute, dal vicesindaco e da rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri. Roma: Rebibbia, “4 agenti della Penitenziaria mi hanno pestato” di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2019 La denuncia del pentito di 'ndrangheta. Avviata indagine interna. L'aggressione a Francesco Noblea sarebbe avvenuta il 20 giugno quando il collaboratore di giustizia era stato posto in isolamento in seguito alle sue lamentele per il divieto di incontrare la figlia. Il legale alla direttrice del carcere, al Garante dei detenuti e a Bonafede: "Fare luce". L'uomo con le sue dichiarazioni ha contribuito, negli stessi giorni delle presunte violenze, all'arresto di due agenti di polizia penitenziaria del carcere di Cosenza. Tre mi tenevano e uno menava forte, fino a spostarmi la mandibola”. È la ricostruzione del pentito Francesco Noblea di Cosenza che, nei giorni scorsi, ha denunciato un’aggressione avvenuta a Roma all’interno del carcere di Rebibbia. Stando alla sua denuncia, sulla base della quale la direzione del penitenziario ha avviato un’indagine interna, il collaboratore di giustizia sarebbe stato pestato dagli agenti della polizia penitenziaria. L’aggressione si sarebbe consumata il 20 giugno quando, dopo un colloquio con il suo avvocato, Noblea era stato posto in isolamento intramurario in seguito alle sue lamentele per il divieto, da due anni, di incontrare la figlia che è stata collocata presso una casa famiglia. Recentemente, infatti, il Tribunale dei minori di Catanzaro lo ha autorizzato a sostenere “colloqui telefonici nonché a mezzo Skype” con la figlia minorenne ma ciò, finora, non è stato possibile all’interno del carcere di Rebibbia sprovvisto “degli opportuni mezzi di comunicazione (Skype per l’appunto)”. Questo avrebbe compromesso i rapporti tra il pentito e le guardie fino all’aggressione. Ventisei anni e un passato nelle file della cosca Abbruzzese per conto della quale spacciava cocaina e commetteva altri reati, Francesco Noblea detto “Pozzetto” adesso è stato trasferito in un’altra struttura carceraria mentre è partita un’indagine per individuare gli agenti della penitenziaria che lo avrebbero malmenato. Giudicato attendibile dalla Dda di Catanzaro che ha utilizzato le sue dichiarazioni in diversi procedimenti penali, il pentito dice di ricordare i soprannomi che i poliziotti utilizzavano tra di loro mentre si sarebbe consumata l’aggressione. Anche se nella denuncia parla di un solo agente, stando al racconto fatto al suo avvocato sarebbero stati in quattro i protagonisti del pestaggio: tre di loro lo avrebbero immobilizzato mentre l’ultimo, soprannominato “Waths”, avrebbe sferrato i colpi. L’episodio è emerso durante un’udienza di un processo che si stava celebrando a Cosenza dove era prevista la deposizione del pentito. Noblea, però, è arrivato tardi e a quel punto l’avvocato, Michele Gigliotti, ha informato il giudice che il suo assistito poche settimane fa è stato aggredito. Il legale ha scritto anche al ministro della giustizia Alfonso Bonafede e al Garante dei detenuti della Regione Lazio. Quest’ultimo ha già chiesto informazioni attraverso l’avvocato Simona Filippi. La lettera è arrivata pure sulla scrivania del direttore del carcere di Rebibbia, Nadia Cersosimo, che ha avviato un’indagine interna per ricostruire i fatti descritti dal collaboratore di giustizia. Noblea - si legge nella nota - “mi informava di essere stato pesantemente malmenato da quattro agenti appartenenti al corpo della polizia penitenziaria in forza presso la casa di reclusione di Roma Rebibbia”. “A detta del signor Noblea - denuncia formalmente l’avvocato Gigliotti - in data 14 giugno 2019 (in realtà l’episodio stando alla denuncia sarebbe avvenuto il 20, nda) sarebbe stato posto in isolamento e poi, una volta lì, aggredito dai menzionati agenti. Lo scrivente si riserva di fornire i nomi degli agenti auspicando che lei avvii una indagine interna al fine di verificare quanto detto e successivamente adottare i più opportuni provvedimenti”. Al ministero della Giustizia, in sostanza, il legale del collaboratore chiede pertanto, “attraverso indagini mediche, di voler appurare lo stato di salute fisica e psichica del mio assistito che certamente non sarà il migliore tra i detenuti, ma che è attualmente in un carcere della Repubblica italiana, Paese a democrazia avanzata e che, pertanto, dovrebbe assicurare un copioso novero di garanzie ai detenuti affermando diritti che, diversamente, sono destinati a rimanere su carta”. “Sono certo - conclude l’avvocato Gigliotti rivolgendosi al ministero della Giustizia e al direttore del carcere - che, attraverso i suoi poteri direttivi, saprà far luce efficacemente sui fatti esposti, riaffermando i diritti umani spettanti ad ogni detenuto e le garanzie che ne discendono fugando il rischio, sempre incombente, che la detenzione si trasformi in tortura”. La segnalazione è stata fatta anche al sostituto procuratore di Catanzaro Camillo Falvo, titolare di un’inchiesta che ha portato all’arresto di due agenti della polizia penitenziaria accusati di favorire gli uomini dei clan detenuti nel carcere di Cosenza. Nell’ordinanza di arresto compaiono le dichiarazioni del pentito Francesco Noblea che, ai pm coordinati dal procuratore Nicola Gratteri, ha raccontato della droga che entrava in carcere attraverso gli agenti della penitenziaria e di come questi ultimi si prestavano a portare all’esterno i messaggi dei boss detenuti. L’ordinanza di custodia cautelare è stata eseguita il 19 giugno e, coincidenza, il giorno dopo si sarebbe verificato il pestaggio di Francesco Noblea nel carcere di Rebibbia. Napoli: “Oltre la colpa”, si è concluso ieri un progetto a Poggioreale linkabile.it, 7 luglio 2019 Si è concluso ieri il progetto “Emozioni - Recuperare sentimenti empatici negli autori di reati sessuali”, presso il padiglione Roma della Casa Circondariale di Poggioreale. Un progetto, promosso dal garante campano dei detenuti e realizzato dalla associazione “Oltre le sbarre”. Iniziato nel freddo Febbraio e conclusosi nella calda mattinata di ieri, presso il cortile del padiglione Roma, nel “Giardino dentro”, uno spazio dove curare il verde e lo spirito, che ha permesso di trascorrere due ore in un ambiente, per quello che sia possibile, diverso dalle strette mura del carcere. Alla festa finale, un modo “familiare”, per salutare tutti i 17 detenuti che hanno partecipato con forte coinvolgimento a questo intenso progetto, erano presenti la Direttrice dell’istituto, Maria Luisa Palma, il Garante Campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, tutti gli operatori che hanno lavorato a questo progetto: la coordinatrice Rita, le operatrici Luisa e Dea, il Fantasiologo Massimo e il Fumettista Giancarlo. Dopo un momento conviviale reso possibile anche da un “banchetto” preparato per l’occasione, si è creata l’atmosfera giusta affinché un detenuto leggesse una lettera, frutto di tutti i detenuti, per ringraziare i presenti. “Sono stupita positivamente da queste parole, da questo modo di scrivere , dai sentimenti che sono venuti fuori. Trovo che siano importanti progetti del genere e sarà mia cura fare in modo che ce ne siano di altri”, cosi ha esordito la Direttrice, che ha poi rassicurato che a breve i detenuti del Roma 3°piano, saranno trasferiti in un altro padiglione, di nuova ristrutturazione che potrà migliorare la situazione di detenzione in cui vivono. Per concludere la giornata, il Garante, ha prestato la sua voce per leggere ad ogni detenuto che ha partecipato, un messaggio che è stato scritto in modo accurato per ognuno di loro. Un messaggio contenente impressioni personali ed un consiglio, “un po’ come si fa con l’oroscopo” ha ironizzato il Garante , che ha poi continuato dicendo “sono contento che ci siano momenti del genere , che possano questi non essere casi isolati, qui al terzo piano del Roma è il secondo anno che promuovo un progetto per questi diversamente liberi, a settembre esperienze simili inizieranno nel carcere di Vallo della Lucania, nel reparto destinato ai sex-offenders di Secondigliano e Carinola, attraverso la professionalità e l’esperienza di operatori che aiutano i detenuti a “ritrovarsi”, per evitare la recidiva.” Per Dea Pisano una delle animatrici del percorso trattamentale: “L’obiettivo del progetto è stato quello di garantire ai partecipanti una nuova opportunità trattamentale, anche attraverso il riconoscimento delle proprie responsabilità e l’assunzione emotiva della persona e della sensibilità della vittima e del danno ad essa arrecato. Si è ritenuto necessario utilizzare un metodo di approccio “più sfumato”, che partisse soprattutto dai vissuti dei singoli detenuti e ne valorizzasse i contenuti empatici e, soprattutto, tenesse conto in maniera prioritaria della condizione di “quasi” emarginazione che i sex-offenders vivono all’interno della struttura detentiva.” In altre parole: i partecipanti al Progetto riconoscevano la loro “specialità”, ma chiedevano di distaccarsene, mettendosi in gioco come persone complessive e sottraendosi ad un giudizio preconcetto e, talvolta, viziato da esemplificazioni valutative. Per Rita Crisi, dell’associazione “Oltre le sbarre”:” nessuno dei partecipanti individuati dall’area educativa si è tirato indietro, qualcuno è partito schivo ma con il tempo ha permesso a noi operatori, e ai compagni di gruppo, di condividere storie, vissuti , sensazioni, emozioni”. L’associazione “Oltre le sbarre Onlus” ha ringraziato l’ufficio del Garante dei detenuti per la realizzazione di questo progetto. Roma: il senso di portare Eschilo a Rebibbia di Agnese Moro La Stampa, 7 luglio 2019 Forse non tutti sanno che il nostro sistema pubblico di istruzione - scuole e università - è impegnato anche nelle carceri a garantire ai detenuti, tra mille difficoltà, il diritto allo studio. E' un compito davvero importante per un Paese come il nostro che, dalla nascita della Repubblica in poi, ha considerato la crescita culturale di tutti parte integrante della lotta per la dignità delle persone e fondamento della partecipazione democratica. Idea che si sposa perfettamente con la funzione riabilitativa e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione affida alle pene. Mano mano, a fianco degli insegnamenti curriculari, sono nate ulteriori esperienze formative, che traggono la loro forza dalla possibilità di una riflessione personale e corale tra docenti di diverse discipline, studenti detenuti e non, patrimonio culturale, esperienze. In questo ambito mi sembra sia particolarmente significativo il progetto "Leggere Eschilo a Rebibbia", proposto dalla professoressa Cristina Pace, docente di Drammaturgia antica alla facoltà di Lettere dell'Università di Tor Vergata di Roma e a Rebibbia. "Lo spunto iniziale - dice - è venuto dal progetto dei "Classici Contro", iniziativa dell'Università Ca' Foscari di Venezia, che propone annualmente un tema sociale su cui gli studenti delle superiori sono invitati a lavorare a partire d ai te sti degli autori classici". "Leggere Eschilo a Rebibbia" è un progetto originale, che ha visto diverse componenti lavorare separatamente, condividendo poi in un incontro i diversi risultati. Filo conduttore: l'Orestea di Eschilo. Protagonista nel laboratorio di lettura nel reparto G12 di Alta sicurezza del carcere di Rebibbia, con la partecipazione di studenti detenuti e del gruppo di studenti esterni "Vietato l'ingresso" dell'Università di Tor Vergata. Ma anche oggetto di una proposta rivolta agli studenti dei Licei Foscolo di Albano, Cicerone di Frascati e Russell di Roma; sostenuta da attività teatrali e da lezioni di diritto penale. Esito del progetto è un dialogo a distanza, ma intenso. Con Eschilo che ci mette in guardia dal confondere la giustizia con l'obbedienza ai sentimenti o alla volontà divina. Con gli studenti del Foscolo che non esprimono odio o disgusto, ma tristezza e desiderio di un recupero; di un ritorno; fiducia nel cambiamento; condanna perle condizioni di detenzione. Con i detenuti desiderosi di capire fino in fondo quello che hanno fatto. Proseguendo quella riflessione che da 2.500 anni ci impegna a cercare la giustizia e la sua essenza. Il buio sotto la divisa: l'escalation di suicidi tra poliziotti e carabinieri che lo Stato non vede di Sara Lucaroni L'Espresso, 7 luglio 2019 Oltre 250 casi dal 2010: tra marzo e aprile di quest’anno uno a settimana. Ecco le storie di agenti che hanno scelto di togliersi la vita. E la battaglia di parenti e amici contro il silenzio. Mai mostrare debolezze, sempre essere forti, far rispettare le regole. Ma il supereroe è per prima cosa un uomo o una donna, non un costume, una divisa. Indossarla non ti rende supereroe, conta come la indossi e come a lei permetti di indossare te. Palma Dalessio, ispettore capo della Polizia Scientifica a Roma e delegato provinciale del sindacato Siap cerca di spiegare certi punti di rottura in chi veste la divisa. Ne ha fatto una battaglia personale di fronte al dolore dell’amica che ha perso il marito poliziotto, morto suicida. “Se un poliziotto dice: ok, ho bisogno di aiuto psicologico, gli vengono tolte subito pistola e manette e rimane lì. Mi aggrediscono quando dico che la divisa è una corazza che ti distrugge quando ci nascondi dentro i problemi e poi ci impedisce di parlarne”. Vale per agenti, Carabinieri, Finanza: nessuno veda il buio che hai addosso o capisca a che grado di disperazione puoi arrivare per puntarti la pistola alla tempia o al cuore. Tabù transitati dai trafiletti in cronaca locale ai tavoli di lavoro in cui le Amministrazioni escono da un imbarazzo silenzioso per ascoltare, e i sindacati suggeriscono incidenze, concause, coincidenze, laddove ogni storia è a sé. 252 casi dal 2010 allo scorso anno. Tra marzo e aprile 2019 la media è stata di uno a settimana, 22 suicidi di agenti di forze dell’ordine da gennaio a oggi: 4 carabinieri, un agente di polizia locale, uno della Guardia di finanza. Ma ben 7 erano agenti della Polizia penitenziaria, 9 quelli della Polizia di Stato. Tra questi ultimi c’era anche Nazareno. “Il giorno dopo dovevano partire per Roma, per un servizio. Ci siamo ritrovati muti, qui in silenzio a guardarci. Chi lo ha trovato ha presentato un certificato medico e non è venuto”, raccontano al Reparto mobile di Firenze dove lavorava. Era il 5 aprile. Alla spicciolata sono arrivati una decina di certificati medici, quelli di chi lo conosceva meglio. Motivo, il suicidio di Nazareno Giusti, 29 anni, giornalista delle pagine culturali di Avvenire, appassionato di storia, disegnatore di graphic novel per il Corriere della Sera e soprattutto agente all’VIII Reparto mobile di Firenze. “Perdonatemi, mamma e papà, siete meravigliosi”, scrive in un foglietto. I genitori, anche il padre è poliziotto, lo aspettavano a casa. Staccava dopo 16 ore di lavoro, non arrivava, non rispondeva al telefono. Chi era di turno è andato al residence degli alloggi per gli agenti. Lo ha trovato nella sua stanza. La regola del 48 - “Dopo il fatto, apprendo che non si sarebbe proceduto a chiamare il sostegno degli psicologi da Roma”, racconta Antonio Giordano, agente dello stesso Reparto e sindacalista di Silp Cgil. “Ho chiesto di averlo io per me, perché non me la sentivo di lavorare, ero sotto shock e avevo dentro una grande rabbia. L’ho fatto anche per avere la sicurezza che sarebbero venuti ad aiutare quanti erano rimasti coinvolti”. Coinvolti, sconvolti ma timorosi della “procedura”, quella prevista dall’articolo 48 del Dpr n. 782 del 1985, il Regolamento di servizio dell’amministrazione di pubblica sicurezza. L’Amministrazione previene un pericolo applicando legittimamente una norma. Ma per molti lo fa non come “famiglia” ma come un “ingranaggio” in cui si è solo un numero da gestire. Il “48” stabilisce le modalità di ritiro del tesserino. Nell’ufficio sanitario di ogni provincia c’è un medico: appartiene alla gerarchia dei funzionari competenti nella gestione del personale e qualora un agente manifesti un disagio psicologico o una situazione di stress, questi con un colloquio stabilisce entità del problema e l’applicazione della norma che prevede ritiro di tesserino, pistola e manette. È la sospensione di ogni attività lavorativa. Può durare mesi, in attesa delle successive valutazioni della commissione medico-militare a Roma, la quale stabilisce di volta in volta ulteriori periodi di sospensione. “Io sono stato fortunato, è durata solo due mesi perché legata a un evento specifico, ma c’è chi rimane fuori per un anno o non esce più dalla procedura. Se ritieni di doverti far curare, vai privatamente tu da uno psicologo. Sei privato della tua identità, senza tesserino”, spiega Giordano. “Entri in un periodo sospeso. E i colleghi che sanno che sei al 48, cominciato a diffidare di te. Sei un “fuori di testa”, sei emarginato”. La Grande Amministrazione - “Non esiste un’Amministrazione dove si sta meglio o peggio, ma esistono correttivi sulle norme di legge da applicare”, spiega il brigadiere capo dell’Arma Antonio Serpe, segretario generale del Sim, il Sindacato italiano militari, il primo sindacato autorizzato in ordine temporale tra tutte del forze armate, nato pochi mesi fa. Se mancano i requisiti minimi l’arma va tolta, ma le Amministrazioni, una volta che giudicano non idoneo un soggetto, si attivano e lo seguano dalla mattina alla sera. Non puoi mettere qualcuno in convalescenza e dire “non è più un problema mio”. Serpe spiega che il 99 per cento dei casi è riconducibile a problemi esterni al luogo di lavoro, e che l’Arma e le altre Forze lavorano col ministero della Difesa soprattutto sull’impatto dello “stress correlato”: fattori esterni, come pendolarismo o orari prolungati, burnout, che ognuno porta e vive dentro la propria attività lavorativa. E aggiunge: “Problemi privati o familiari, come separazioni, problemi economici entrarci è importante, perché se sommati allo stress correlato, possono innescare una bomba. Quanto incide una situazione di disagio esterna sull’attività lavorativa: è di questo che si parla ai tavoli di lavoro”. I sindacati di Polizia sottolineano anche l’incidenza di problemi strutturali interni: organico ridotto (108 mila agenti nel 2008, oggi sono 89 mila). Stipendi inadeguati (molti vivono in famiglie monoreddito). Turni massacranti, ore di straordinario aumentate del 22 per cento, indennità sottopagate: la notturna vale 4,10 euro lorde. 12 euro un festivo, 40 un super festivo. “Non possono più nascondersi dietro la scusa del fenomeno Werther, ovvero l’emulazione dopo averne parlato, ora c’è attenzione reale al problema e va fatto un plauso all’Amministrazione, in quanto mio datore di lavoro deve avere cura di quella che è la mia storia”, dice Michela Pascali, segretaria nazionale di Silp Cgil e vice presidente di “Polis Aperta”, associazione che riunisce personale Lgbt delle forze armate e di pubblica sicurezza. “Sono diminuite alcune forme di reato ma è aumentato il femminicidio, quindi il lavoro di intelligence. È aumentato il servizio di ordine pubblico, quindi le manifestazioni di piazza. E purtroppo la gente ci dipinge aprioristicamente come fascisti, violenti per certe mele marce che indubbiamente abbiamo, e per gli errori di taluni. Ma questo fa sì che chi fa bene il proprio lavoro e lo fa per aiutare le persone non si senta riconosciuto. Sei un numero per l’Amministrazione e per il cittadino uno squadrista”. Psicologi e no - “In questo l’Arma è stata la prima a muoversi: ogni regione amministrativa ha uno, due, tre psicologi, a seconda della grandezza”, spiega Serpe del Sim. C’è anche lo psichiatra. Si accede al servizio per richiesta diretta e privata o su segnalazione del Comandate. “Dovremmo aiutarci l’uno con l’altro di più. I primi che si accorgono di qualche disagio sono i colleghi di turno, ad esempio. Dobbiamo parlare, parlarci. I primi che sanno e vedono qualcosa sono i colleghi. Se non si accorgono loro, come possiamo pretendere che se ne accorga la scala gerarchica. I vertici hanno una responsabilità che è quella di gestire bene e meglio quelle norme che permettano una fase terapeutica durante il tuo disagio”. A Firenze dicono che per il caso di Nazareno è arrivata assistenza psicologica agli agenti dopo una settimana. A Ragusa, dopo il suicidio del poliziotto 42 enne Simone Cosentino, che prima aveva ucciso la moglie, il 29 aprile, i due psicologi inviati sono rimasti solo due giorni. Sono 40 in Polizia e si trovano quasi tutti a Roma, col compito di somministrare i test psico-attitudinali nei concorsi. Effettuano la valutazione medico-neurologica e poi quella psico-attitudinale: se la seconda manca, non puoi entrare in Polizia. “Solo 6 Questure su 110 hanno in organico uno psicologo: Roma (sono 2) Bolzano, Milano, Bologna, Frosinone, Foggia e Messina. Non è regolamentato il supporto psicologico in Polizia. La salute mentale è affidata a un medico che lo tratta dalla prospettiva medico-neurologica e psichiatrica. “Anche sotto il “48” non vai dallo psicologo, non ti curano”, spiega Dalessio. “Il 3 maggio è stato pubblicato un concorso per l’assunzione di altri 19 psicologi con limite di 40 anni, ma sopperiranno alle carenze di organico per i concorsi”. “Anche la procedura di sostegno d’urgenza non è standardizzata con procedure definite. Serve un’attivazione automatica destinata a colleghi, amici e famigliari”, dice Giordano. “Negli Stati Uniti i poliziotti vengono seguiti stabilmente. Da noi questo e l’idea di prevenzione non ci sono. Si deve intervenire ogni volta che si verifica un episodio traumatico: un soccorso in un incidente stradale, una sparatoria, un suicidio sui binari”. Tra le ipotesi di modifica dell’articolo 48 c’è il mantenimento del tesserino e la ricollocazione del personale in esame, impiegandolo in incarichi non operativi ma di ufficio. I Carabinieri già da alcuni anni hanno un Tavolo interno che studia le concause del fenomeno suicidi. Un “Tavolo per la prevenzione e la gestione delle cause di disagio per il personale della Polizia di Stato”, al quale siedono Amministrazione e sigle sindacali, si riunisce invece ogni due settimane dallo scorso 9 aprile: studia piani preventivi, formazione, progettualità condivise. Il 9 febbraio il capo della Polizia Franco Gabrielli aveva firmato anche un altro decreto, quello sulla nascita dell’”Osservatorio permanente interforze sul fenomeno suicidario tra gli appartenenti alle forze di polizia”: si riunisce ogni quattro mesi, monitora dati, compie analisi statistiche su documenti e casistiche raccolte da Polizia di Stato, penitenziaria, Guardia di finanza, Carabinieri. Numeri - In Francia sono stati 28 i casi solo quest’anno. Nel 2018, si sono contati 35 suicidi di agenti di polizia e 33 di gendarmi. 51 nel 2017. In Spagna tra il 2000 e il 2017 un poliziotto si è ucciso ogni 43 giorni. Il 15 settembre 2016 l’allora sottosegretario all’Interno Domenico Manzione risponde a un’interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle presentando per la prima volta dei numeri: dal 2009 al 2014 si sono suicidati 92 carabinieri, 62 poliziotti, 47 agenti della Polizia Penitenziaria, 45 della Guardia di Finanza, 8 del Corpo Forestale dello Stato. E precisa che “la valutazione delle singole fattispecie esclude che gli eventi siano riconducibili a problematiche di disagio lavorativo o comunque a situazioni critiche connesse all’attività svolta” e che le “risultanze preliminari di uno studio sistematico del fenomeno almeno allo stato attuale non forniscono elementi di allarme”. Lo ribadisce oggi anche una relazione della Direzione centrale di sanità della Polizia di Stato diretta da Fabrizio Ciprani: “Nessuna emergenza o trend. 290 suicidi in Polizia dal 1995 a maggio 2019. A parte fluttuazioni inspiegabili, il dato medio di 12 casi annuali su 100.000 dipendenti”. Altri dati aggiornati sono quelli di Cerchio Blu, una Onlus che organizza seminari di formazione e fornisce un modulo anonimo per segnalare i casi. Il picco dei morti è stato il 2014 con 39 casi. L’età va dai 45 ai 64 anni, ma nel 37 per cento chi si toglie la vita sta tra i 25 e i 44 anni. C’è il sommerso dei tentati suicidi, che non rientrano in nessuna statistica. L’86 per cento delle volte lo si fa con la pistola di ordinanza e con quella non c’è scampo. “Il giorno di Natale sotto la Questura a Latina ci siano ritrovati in due. Io e un pregiudicato che era corso e piangeva come un bambino. Sul tetto c’era il nostro amico. Si era sparato forse la sera prima. Non lo trovavano, è rimasto solo lassù per ore, a Natale”, racconta chi conosceva da 20 anni Antonio D’Onofrio, ispettore, convalescente dopo un problema al cuore, che si è sparato con la pistola di ordinanza a 58 anni lo scorso 24 dicembre. “Svolgeva un compito molto delicato, lavorava a stretto contatto con criminali e soggetti difficili era il loro tramite con la giustizia. Lo rispettavano tutti perché era sé stesso sempre, era leale. Non so se abbia voluto lanciare un messaggio compiendo quel gesto in Questura, ma so che il suo lavoro era la sua vita, che viveva per il lavoro 24 ore su 24”. 19 giorni prima la stessa decisione l’aveva presa un agente scelto di 43 anni, da poco rientrato da Milano per prendere servizio sempre a Latina, dove vivevano i genitori. Il deserto dei Tartari - “Indagini chiuse, dicono che è suicidio. Ma io non ci credo. Mio figlio era anche mio amico, un complice, lo conoscevo bene. Qui a Monopoli non ci crede nessuno”. Aveva assunto lo Xanax, il proiettile gli è entrato dal mento. Gianfranco Brescia ricorda il figlio Francesco, morto a 24 anni nel suo giorno di riposo. Lavorava a Venezia da appena 15 giorni, suo padre l’ha accompagnato l’ultima volta in aeroporto il 17 aprile 2018, un mese prima della morte. “La Polizia ci ha offerto subito un aiuto psicologico, sono una famiglia. Se ne sentono tante, non so se ci sono problemi in questi ambienti, ma lui era felice di lavorare. Do la colpa a chi aveva vicino, ma io una risposta non so darmela”. “Vorrei far capire che nessuno è solo, ci sono i sindacati ma anche la stessa Amministrazione, siamo uniti, diffondiamo la cultura dell’aiuto”, dice Michela Pascali. Tre mesi prima di uccidersi Nazareno sulla sua pagina Facebook aveva trascritto un passaggio del Deserto dei Tartari: “Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”. Sotto i suoi post scrivono: “Perche?”. A un ragazzo che odia Carola di Luigi Manconi La Repubblica, 7 luglio 2019 Caro giovane odiatore di Carola. Mi rivolgo a te perché nel furore dei commenti online trovo anche le tue parole, tra una emoticon con un dito medio alzato e due manine gialle che applaudono. “Cialtrona” la chiami. Oppure: “Fottuta pirata straniera”, “Cessa troia”, “Riccona comunista”. In qualche caso invochi lo stupro, in altri il carcere, sempre ti auguri che venga punita per aver commesso un crimine intollerabile: quello di soccorrere in mare delle vite che non ti somigliano per nulla. E tu, cara giovane odiatrice che scrivi “Ma i vestiti non se li cambia mai?”, “La ceretta questa sconosciuta”, “Faccia da culo”. Frugando tra i profili Facebook di quella estesissima fascia di linciatori verbali di Rackete, si rintracciano i dati biografici di tanti giovani e giovanissimi che considerano la comandante della Sea-Watch 3 un nemico da odiare. Le loro parole non sono diverse da quelle utilizzate dagli adulti e dagli anziani (numerosissimi), ma emerge una peculiarità anagrafica: gli insulti e ciò che si intravede delle loro motivazioni tradiscono un’aggressività molto personale, fortemente soggettiva e meno partecipe degli umori dell’ostilità collettiva. Per questo, viene voglia di approfondirle, quelle motivazioni, e di trovare uno spiraglio dove insinuarsi per opporre loro qualche diversa argomentazione. Dunque, cari giovani odiatori: parliamone. Detesto qualsiasi forma di retorica giovanilista e, di conseguenza, preferisco, invece che blandirvi, proporre una qualche verità non contestabile. Dico subito che tanto astio minaccia di rivelarsi un serio pericolo per il vostro futuro. E penso che, alla base del disprezzo per chi soccorre e chi viene soccorso, ci sia la negazione di un dato di realtà molto semplice: i flussi migratori non si possono fermare. Non lo dico io, ma la storia del mondo. La gonfia declamazione di Matteo Salvini sostiene che i migranti mettono in pericolo i vostri futuri posti di lavoro, la vostra sicurezza e la vostra stessa identità di italiani. La risposta sovranista è quella in apparenza più logica: chiudere i porti, serrare i confini, presidiare i valichi attraverso i quali passerebbero gli invasori. Semplice, vero? Sì. Lo è. Semplice e sciocco quasi quanto credere che la chiusura degli Sprar (e il conseguente abbandono in strada di migliaia di persone) e l’azzeramento dei fondi per i corsi di italiano e di educazione civica, possano contribuire a proteggere la sicurezza nazionale. Semplice e sciocco come pensare che l’economia di un Paese che invecchia e regredisce, non abbia bisogno di forza lavoro manuale e intellettuale straniera, da tutelare sotto il profilo sociale e sindacale e da incrementare anno dopo anno. Ma i vostri genitori e i vostri nonni non vi hanno parlato di un dato che Tito Boeri e Vittorio Emiliani, inascoltati, si adoperano per far conoscere? Ovvero che, ad esempio, la sola Lombardia avrà bisogno nel prossimo decennio di altri 73.000 tra badanti e colf; e che attualmente, in questo settore del mercato del lavoro gli stranieri rappresentano l’82,9% degli occupati regolari. Senza di loro, chi assisterà i nostri vecchi (noi vecchi) e i pochi, pochissimi neonati? Insomma, non si può ignorare che l’ufficio studi della Confindustria parla di un fabbisogno annuo di manodopera straniera di almeno 170.000 unità. Mentre qualcuno cancella questi dati, voi disprezzate Carola perché la sua immagine sembra costruita ad arte - i capelli rasta, l’abbigliamento dimesso, il tratto spigoloso - per negare il vostro desiderio di normalità. Certo è anche colpa di quegli adulti che, dopo aver celebrato la retorica del Risorgimento, della Resistenza e del Sessantotto, ora sono dediti ad allestire una mitologia dei diritti umani: quasi non potessero fare a meno di una ricorrente epopea e delle sue icone. E questo inesauribile bisogno di eroi e di santi può indurre, per reazione, l’irresistibile desiderio di abbatterli, magari partendo proprio da un taglio radicale. Quello dei capelli rasta di Carola. Ma voi che, con naturalezza, oltrepassate le frontiere, che riuscite a parlare una lingua comune con i coetanei di gran parte del mondo e che siete abituati a mangiare il kebab a Edimburgo e il cous cous a Varsavia, potete immaginare il ritorno dei confini inaccessibili e delle comunità dalle porte sbarrate? Se avrete la voglia di curiosare su Google scoprirete che i brevetti ideati nelle migliori università americane si devono, per tre quarti, a ricercatori immigrati; e che oltre la metà delle nuove imprese della Silicon Valley è il frutto della cooperazione tra autoctoni e stranieri e che un aumento dell’1% della quota di immigrati tende a far incrementare il reddito pro capite. Dunque, se non per amore dell’umanità (quando c’è la parola amore, è forte il rischio di una truffa), se non per solidarietà verso 53 naufraghi, smettete di odiare Carola - o cercata di odiarla un po’ meno - per voi stessi e per quello che immaginate come il vostro futuro. Salvini, migranti e Ong nel Mediterraneo: parole (grosse) e numeri (bassi) di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 7 luglio 2019 Lo scontro politico si è acceso attorno alla sorte di poche decine di persone. Ma nei giorni più acuti della crisi gli sbarchi si contavano a migliaia al giorno. Il confronto tra l’Italia e gli altri paesi dell’Europa. C’è una guerra (verbale) in atto sui migranti; ci sono parole grosse che rimbalzano da una parte e dall’altra. Salvini accusa le ong di essere “criminali”, le organizzazioni umanitarie restituiscono il messaggio al mittente nel mentre decine di naufraghi rimangono bloccati per settimane in mezzo al Mediterraneo. Poi ci sono i numeri. E i numeri sembrano dire che la virulenza delle parole non è commisurata alle dimensioni del fenomeno in atto, almeno in questo momento. Si può discutere a lungo sull’importanza del fenomeno “percepito”, sull’opportunità o meno di una linea di fermezza. Resta che attualmente l’Italia e l’Europa intera sono lontane dalla situazione vissuta nella fase più acuta della crisi tra il 2015 e il 2017. E l’Italia non è nemmeno l’epicentro del fenomeno. Il quadrante del Mediterraneo - Il sito dell’Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, fotografa in tempo reale la situazione dei movimenti migratori di tutto il pianeta; il “quadrante” del Mediterraneo dice che dall’inizio del 2019 a oggi gli sbarchi in Italia sono stati 2.779. Nello stesso periodo gli arrivi via mare in Grecia sono stati 18.300 e quelli in Spagna 13.260. Soltanto Malta ha fatto i conti con un numero di migranti inferiore all’Italia (1.048) ma con una popolazione di appena 460.000 abitanti. In totale gli arrivi nell’area sono stati circa 36.000 con una stima di 666 morti. Per fare un confronto, nell’intero 2018 nei cinque paesi affacciati sul Mediterraneo (Spagna, Italia, Malta, Grecia e Cipro) gli sbarchi furono 141.472, in calo drastico rispetto agli anni precedenti. La punta massima nel 2015, con oltre un milione di arrivi. Decine contro migliaia - I numeri di questi giorni (i 42 della Sea Watch, le poche decine della Alex e della Alan Kurdi) impallidiscono di fronte a quelli che l’Italia dovette affrontare nei periodi più drammatici dei flussi migratori, quando gli arrivi si contavano in migliaia al giorno. Nel giugno del 2017, punto di svolta della crisi (dopo il quale scattarono gli accordi con la Libia) barconi e gommoni portarono sulle coste italiane 29.000 migranti. Su base annuale il grafico degli arrivi segna la punta più alta nel 2016 quando fu toccata quota 181.000. Il record della Svezia - Attualmente la rete dell’accoglienza nazionale ospita circa 150.000 stranieri; anche in questo caso numeri più bassi ad esempio a quelli della Turchia dove sono fermi nei campi di accoglienza circa 3 milioni e mezzo di profughi. Secondo dati elaborati dall’Ispi (istituto studi politica internazionale), da anni al lavoro sul fenomeno migratorio, l’Italia accoglie 3 migranti ogni 1.000 abitanti contro i 24 della Svezia, i 12 della Germania, i 17 di Malta, i 13 dell’Austria, i 5 della Francia. "La Libia ha deciso: stop ai campi per i migranti" di Vincenzo Nigro La Repubblica, 7 luglio 2019 “Ho discusso il piano di chiusura dei campi di detenzione dei migranti con le Nazioni Unite, è qualcosa su cui andremo avanti, perché ormai è solo un danno politico per la Libia. Nei nostri centri ci saranno 7.000 migranti illegali, fuori ce ne sono centinaia di migliaia. E allora a che cosa servono questi centri se non a scatenare polemiche contro di noi? Responsabilizziamo di più la comunità internazionale, affrontiamo insieme questo tema, smontiamo queste polemiche e guardiamo in faccia la realtà: qui c'è una guerra che colpisce 7 milioni di libici, voi ci chiedete solo dei migranti e non fate nulla per fermare la guerra”. Alle 11 del mattino Fathi Bishaga compare puntuale nella hall dell'albergo di Misurata, la sua città. Il ministro dell'Interno del governo Serraj da 3 mesi è il capo delle operazioni militari della guerra contro Khalifa Haftar. È un ex pilota da caccia, e dopo la rivoluzione è diventato un politico attivissimo, vicino al suo elettorato, ai capi delle milizie, ai capi tribali. Non essendoci un ministro della Difesa nel governo (Serraj ha l'interim) di fatto coordina buona parte delle operazioni. Ministro, quindi la sua non è una provocazione, una dichiarazione ad effetto? “No, è un piano motivato da ragioni politiche. E le aggiungo: io sono esterrefatto, ogni volta che vengono inviati europei, ci chiedono solo dei migranti. Non si interessano della Libia, delle condizioni del popolo, del fatto che Haftar sta polverizzando quel che rimane delle strutture di questo paese. Nulla. Silenzio. Complicità politica con un capo-milizia che il presidente Macron ha sollevato al livello di leader politico forzando Serraj a incontrarlo”. Ma chiudendo i campi molti più migranti vorranno partire? “Migliaia sono già pronti. Il tema dei migranti è solo uno dei problemi della Libia: contrabbando, corruzione, terrorismo. La sola soluzione è stabilizzare il Paese. La soluzione dei migranti sta dentro questo”. L'altro giorno ha fatto sensazione l'attacco a Tajoura. Lei crede davvero sia stato un F16 degli Emirati? “Dal rumore dell'aereo, dal tipo di bombe, noi crediamo sia un jet. E gli F16 li hanno gli emirati e gli egiziani. E se non è un F16 è un drone. Emirati ed Egitto stanno continuando a sostenere Haftar in questa guerra che lui ha scatenato attaccandoci mentre stavamo trattando con l'Onu. I paesi del Golfo stanno trasferendo i loro scontri sul nostro terreno, alle porte dell'Europa. Sfidano i paesi europei: e voi oltre a essere divisi e incerti forse neppure capite cosa sta succedendo sotto casa vostra”. Un grosso aiuto politico a Haftar lo sta dando il presidente americano Trump, su suggerimento dell'egiziano Sisi. “Trump ha una visione economica degli interessi del suo paese. Guardi allo Yemen, alla Siria. Lascia spazio ai paesi del Golfo che sono capaci di dirottare grossi investimenti negli Usa. Noi rispettiamo Trump, guardiamo agli Stati Uniti come al paese che difende la legge, i diritti umani. C'è un governo riconosciuto dall'Onu, che non viene difeso, per ora prevalgono gli interessi economici e una visione sbagliata”. Quale visione? “Quella che Haftar sia la soluzione. Sia l'uomo forte. Haftar, con il sostegno sbagliato degli egiziani, non separerà la Libia in due: rischia di smembrarla definitivamente. Perché lui a Tripoli non vincerà mai. Il comportamento di Trump ci preoccupa, perché favorisce una Libia divisa in cui il terrorismo non sarà controllabile”. A proposito di terrorismo: ci sono informazioni sul fatto che jihadisti presenti in Siria, a Idlib, stiano passando in Libia, per esempio richiamati dall'ex al Qaeda Abdelhakim Belhaji. “Quando Putin ha lanciato questo allarme aveva ragione al 100%. Stanno arrivando, li usa Haftar come ha fatto con l'Isis quando li ha lasciati passare verso Sirte. Noi abbiamo liberato Sirte dall'Isis. Il terrorismo è un cancro, ci colpisce, noi lo combattiamo. Ma imploro i leader europei: non restate seduti sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere di uno dei due contendenti in Libia. Se la Libia si frantuma vedrete che il terrorismo farà cadaveri in Europa”. Il capitano Tommy, ex skipper di Soldini: scendo solo con i migranti di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 7 luglio 2019 L’attivista: “Nella mia vita di skipper sono stato sulle barche più belle del mondo, ma sono di origini umili e mi sono sempre sentito dalla parte di chi è povero”. “Non dormo e non mi lavo da una settimana, ma adesso mi sento un uomo felice, perché abbiamo salvato 54 persone, le abbiamo aiutate a fuggire dall’inferno della Libia, anche queste nella vita sono soddisfazioni”. Tommaso Stella, 46 anni, milanese, skipper di successo e navigatore in solitaria, protagonista di mille regate transoceaniche, a lungo nell’equipaggio di Giovanni Soldini, è il comandante del veliero Alex: “Nella mia vita di skipper sono stato sulle barche più belle del mondo, ma sono di origini umili e mi sono sempre sentito dalla parte di chi è povero e di chi soffre. Per questo ora mi trovo qui e mi ci trovo benissimo, malgrado tutto”. Alle nove di sera del giorno più lungo, dopo aver forzato anche lui il blocco del governo italiano come fece la capitana Carola, la barca è ormeggiata al molo Favarolo. E poiché il ministro Salvini non ha ancora autorizzato lo sbarco dei migranti, il comandante Tommy, com’è chiamato a bordo, chiarisce agli uomini della Guardia costiera: “La nostra linea è questa, molto semplice: anche noi dell’equipaggio restiamo a bordo, da qui non sbarca nessuno, noi scenderemo solo in compagnia di queste altre persone che da più di 50 ore condividono questo spazio con noi”. Il comandante Stella non è sposato e non ha figli, “è un vero lupo di mare”, racconta Francesca Zanoni del legal team della ong italiana “Mediterranea”, qui a bordo non percepisce un euro, è un semplice volontario come gli altri undici membri dell’equipaggio. Giovedì scorso, nella zona Sar libica, a nord delle piattaforme petrolifere, c’era un gommone di appena quattro metri, azzurro come il mare, con i migranti alla deriva, il suo motore ormai non marciava più. E quando dal veliero Alex li hanno visti, il comandante Stella non ci ha pensato un solo minuto: ha lasciato il timone a un altro e si è calato sul rhib, il canottino da soccorso, per andare verso di loro. È stato lui ad abbracciare per primo i neonati e le donne incinte e a issarli con i suoi muscoli sempre molto allenati sullo scafo. In salvo. La prima cosa che ha letto nei loro occhi è stata la paura, quella di tornare indietro, in Libia. “Meglio passare cent’anni sulla vostra barca che un solo secondo in Libia”, dicevano tutti in un inglese stentato. La cosa più bella capitata a bordo in questi tre giorni? Il comandante Tommy non ha dubbi: “Quando una delle donne incinte è stata visitata dai medici e ha visto dall’ecografo che il feto era vivo. Non potrò mai dimenticarlo”. Il mondo diviso da 70 barriere: ma nessuna è inespugnabile di Danilo Taino Corriere della Sera, 7 luglio 2019 La corsa a creare muri al confine tra gli Stati sembra inarrestabile. Alla caduta della Cortina di Ferro si contavano 15 muri di confine. Oggi sono 70 (più 7 in costruzione). “Una reazione alla globalizzazione”. Al confine con il Bangladesh, la polizia indiana ha la mano pesante. Le statistiche dicono che almeno un centinaio di persone vengono uccise ogni anno mentre cercano di passare illegalmente, o con poca attenzione, il muro di filo spinato che divide i due Paesi. Felani Khatun, una ragazza di 15 anni, bangladese, lavorava come domestica a Delhi. Il padre le aveva organizzato un matrimonio in patria ed era andato a prenderla nella capitale indiana. Non avevano documenti regolari e, tornando, decisero di scavalcare il muro con una scala a pioli. Era il 7 gennaio 2011: il padre passò per primo; Felani, seguendolo, rimase impigliata nel filo spinato; le guardie indiane la notarono e aprirono il fuoco. La fotografia della ragazza crivellata di colpi, a cavallo della barriera, camicia rossa e pantaloni blu, fece il giro del mondo. Era l’International Border 947, nella parte Nord del Bengala Occidentale: il corpo rimase appeso agli uncini per un giorno intero. Storie di muri, come ce ne sono tante. Qualche anno prima, sempre nel West Bengala ma più a Sud, nella zona di Basirhat, mi capitò di incontrare un contadino: indiano ma in realtà abitante di una terra di nessuno. Il confine tra India e Bangladesh, al tempo Pakistan Orientale, fu tracciato con pressapochismo da Cyril Radcliffe, che al momento dell’indipendenza del subcontinente dall’impero britannico presiedeva il comitato che tracciò le linee di frontiera nella Partition tra India e Pakistan. A Est, la Radcliffe Line ha diviso intere comunità, addirittura famiglie. Ma fino agli Anni Ottanta attraverso la linea di frontiera si circolava con non troppa difficoltà. Poi, però, Delhi ha deciso di costruire il muro, la fence di filo spinato: gli accordi erano che non si poteva tirarla su se non a 150 metri dal confine, e così fecero gli ingegneri indiani. Successe però che nella striscia tra il muro di ferro acuminato e il confine con il Bangladesh rimasero una quantità di abitazioni: ancora oggi almeno 90 mila persone vivono in questa striscia, interrotta solo quando il confine è segnato dai fiumi. “Ogni giorno che devo andare al mercato o dal medico devo presentare i documenti alle guardie dei cancelli”, raccontava il contadino. E, naturalmente, nella terra di nessuno niente servizi, niente acqua e niente elettricità.Il governo di Delhi spiega l’infinito muro - 3.287 chilometri e non è mai terminato - con la necessità di controllare l’immigrazione, di bloccare i terroristi e di impedire il contrabbando di bovini. Quanto funzioni e quale ne sia il costo, in termini di manutenzione e di vite umane, è questione controversa. È che ogni barriera di confine non è solo un manufatto inerte: mette in moto dinamiche politiche, sociali, economiche, ambientali difficili da prevedere e controllare. Ciò nonostante, la corsa a tirare su i muri è in pieno svolgimento. La dichiarazione d’intenti più recente e più vicina è quella del ministro Matteo Salvini che non ha escluso la necessità di alzare “barriere fisiche” sulla frontiera tra Italia e Slovenia per fermare l’immigrazione incontrollata. Il progetto più discusso è invece quello di Donald Trump al confine tra Stati Uniti e Messico. È che viviamo tempi nuovi. Nel 1987, a Berlino Ovest, il presidente Ronald Reagan pronunciò il famoso discorso “Mister Gorbaciov, tiri giù questo muro”. In effetti, due anni dopo il Berliner Mauer si sgretolò: sembrava che tutti i muri dovessero crollare, che le frontiere si annullassero, che il mondo fosse finalmente piatto, senza ostacoli da superare. Che la Storia fosse finita, come decretò Francis Fukuyama. Non è stato così. Nel 1990, alla caduta della Cortina di Ferro (il più grande muro politico e fisico mai visto), si contavano 15 barriere di confine, una decina in più di quelle in essere alla fine della seconda guerra mondiale. Oggi ce ne sono settanta e almeno altre sette sono in via di realizzazione o già finanziate. Non è finita la Storia e non è finita nemmeno la geografia: il mondo non è piatto, è sempre più punteggiato da frontiere dure, di cemento e filo spinato, e tecnologiche, telecamere e droni. Elisabeth Vallet, docente di Geografia all’università del Québec a Montréal ha condotto quello che è probabilmente lo studio più approfondito sulla moltiplicazione dei muri, sulle ragioni per cui sono eretti e sulla loro efficacia. È lei che ne ha contati settanta più i sette in preparazione (sono solo le barriere non mobili, puntualizza). Ed è il suo studio che è stato citato da Trump per dire che tutto il mondo alza muri, non si capisce perché lui non dovrebbe farlo. In realtà, chiarisce Vallet, il presidente ha omesso la seconda parte del suo studio, cioè che queste barriere non funzionano, che sono “una reazione alla globalizzazione”. Fatto sta che la mappa dei tanti muri di confine è sorprendente, per dove sono e per le ragioni per le quali sono stati alzati. Il Botswana, per dire, ha costruito uno sbarramento elettrificato lungo 500 chilometri con lo Zimbabwe dopo un’epidemia di afta epizootica che nel 2003 ha colpito centinaia di allevamenti e forse veniva dal Paese vicino. Vicino che, invece, accusa il Botswana di averlo tirato su per fermare i migranti. Come che sia, la corrente elettrica non è mai stata attivata ma la barriera rimane. Sul filo spinato tra il Sudafrica e il Mozambico, invece, l’elettricità correva a 3.500 volt - localmente era chiamato “serpente di fuoco” - e negli Anni Novanta ha ucciso centinaia di mozambicani che fuggivano dalla guerra civile. Più a Nord, il Sahara Occidentale è attraversato da un muro alto tre metri e lungo 2.600 chilometri formato da sabbia e attrezzato con filo spinato, radar, bunker, chilometri di campi minati e guardato da centomila soldati. Lo ha voluto il Marocco per frenare gli attacchi del Fronte Polisario. Poco si sa anche della barriera a cinque file che l’Arabia Saudita ha eretto sul confine con l’Iraq dopo il 2014, per bloccare i terroristi dell’Isis. Un altro lo sta costruendo alla frontiera con lo Yemen. A rovescio è invece il muro di una decina di chilometri che l’Egitto ha costruito, con l’aiuto di Washington, per isolarsi dalla striscia di Gaza: si sviluppa sotto terra, per bloccare i tunnel che Hamas ha costruito a scopo di contrabbando e per importare armi. Qualcosa del genere sta facendo Israele sul suo di confine con la Striscia di Gaza, per impedire il rifornimento ad Hamas e per fermarne le infiltrazioni militari nel suo territorio. Molti altri sono stati costruiti negli anni: il più famoso e maggiormente militarizzato, quello che divide Nord e Sud della Corea sul 38° parallelo. Tutto questo, per molti versi è storia. Qualche volta con risultati decenti, altre volte con fallimenti totali: la Grande Muraglia rallentò ma non fermò gli assalti mongoli alla Cina; la Linea Maginot, il complesso di difese che la Francia innalzò negli Anni Trenta come barriera difensiva contro la Germania, fu superata a Nord dagli eserciti di Hitler. I muri più recenti sono però cronaca, attualità. E a guardare il complesso di quanto è successo e sta succedendo le sorprese sono ancora maggiori. Dagli Anni Novanta a oggi, gli Stati membri dell’Unione europea e dell’Area Schengen hanno tirato su quasi mille chilometri di muri (senza contare le operazioni di pattugliamento e respingimento in mare), secondo uno studio dello spagnolo Centre Delas. Nel primo decennio dopo la caduta del Muro di Berlino, le barriere alzate sono state due; nel 2015, anno della grande ondata di immigrati, il salto fu da cinque a 12; fino alle 15 del 2017. Dei 28 membri della Ue, dieci hanno alzato muri: Ungheria, Bulgaria, Slovenia, Austria, Grecia, Spagna, Lituania, Estonia, Lettonia, Regno Unito. Se si escludono i tre Paesi Baltici, che stanno costruendo barriere di difesa ai confini con la Russia (la Lituania con l’exclave di Kaliningrad), tutte le altre costruzioni sono state giustificate dalla necessità di fermare o rallentare i flussi di migranti. Prima quelli in arrivo dalla ex Jugoslavia, poi quelli spinti dalle guerre in Siria, Iraq, Libia, molti dei quali arrivavano dalla rotta dei Balcani. Fino agli immigrati che tentano di passare in Gran Bretagna da Calais - dove i britannici hanno alzato una barriera - attraverso il tunnel sotto la Manica. Fortezza Europa, dice lo studio del centro Delas: sigillata alle frontiere esterne. I movimenti migratori, insomma, sono diventati la ragione principale per la quale i governi alzano muri o - come in Australia in modo inflessibile e nel Mediterraneo con meno determinazione - schierano le navi. Gli esperti per lo più sostengono che, così come in guerra i muri sono serviti a poco e al giorno d’oggi servono a nulla, anche per fermare gli immigrati non funzionano molto. In realtà, la rotta balcanica è stata chiusa. È però vero che chi vuole arrivare in Europa cerca altre strade. E qui c’è un punto importante: più è difficile passare un confine, più chi lo vuole superare deve prendere dei rischi. Se il motivo per il quale ha deciso di emigrare è forte - fuggire da una guerra o dalla miseria - calcolerà il pericolo che corre rispetto a quanto rischia rimanendo nel luogo di partenza. La questione muri che si moltiplicano è dunque complicata. Non sono particolarmente efficienti. In gran parte dei casi sono un’iniziativa di propaganda dei governi per mostrare che fanno qualcosa: si tagliano nastri. Al contrario di quanto dice Trump del “beautiful wall” con il Messico, non sono una visione edificante. Sono però un elemento ricorrente nella storia quando le popolazioni si sentono insicure: ingenuo rigettarli su basi ideologiche. Raphael Cohen, un esperto dell’americana Rand Corporation e insegnante alla Georgetown University di Washington, sostiene che in alcuni casi sono utili in quanto “ostacoli di rallentamento”. Ma “nessun muro storico si è dimostrato inespugnabile”, aggiunge. Possono essere strumenti tattici: ad alto costo, come racconta la sorte della giovane Felani. La strategia, però, è un’altra cosa. Pena capitale, in Iran almeno 110 esecuzioni nel 2019 La Repubblica, 7 luglio 2019 Il report di Nessuno Tocchi Caino. A Washington l'Annuale digiuno e veglia di 4 giorni degli abolizionisti davanti alla sede della Corte Suprema degli Stai Uniti. Secondo l’organizzazione Iran Human Rights (Ihr) sarebbero almeno 110 le esecuzioni compiute in Iran nella prima metà del 2019, un numero in crescita rispetto alle 98 registrate nello stesso arco di tempo un anno fa. Lo si apprende da Nessuno Tocchi Caino, lega internazionale di cittadini e di parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che orbita nella "galassia" del Partito Radicale. L' IHR precisa che, tranne che per i casi annunciati da fonti filogovernative, pubblica le notizie delle esecuzioni solo dopo averne ricevuto conferma da almeno due fonti attendibili. Per questo motivo il numero effettivo di esecuzioni potrebbe essere ben più alto. Di fatto, il data base compilato da Nessuno tocchi Caino che raccoglie informazioni da diversi siti indica, nello stesso arco di tempo, 124 esecuzioni. L'IHR ha calcolato che delle 110 esecuzioni, solo 37 sono state riportate da fonti filogovernative, le altre sono state tenute “segrete”. Le altre esecuzioni, tra le quali quella di un minorenne. Ottantatré esecuzioni sono state effettuate per “qisas”, ossia la legge del taglione islamica, per cui ogni omicidio viene punito con un altro omicidio; 13 persone sono state giustiziate per stupro, 9 per reati di droga, e 4 per “Moharebeh”, ossia “offesa a Dio” (la formula usata per sanzionare le rapine a mano armata). Una persona è stata giustiziata per spionaggio. IHR ha registrato che due degli impiccati erano minorenni all’epoca del reato attribuito. IHR ha ricevuto informazioni circa l’esecuzione di un terzo minorenne, ma è in attesa di riscontrare la notizia. Sri Lanka - La decisione di riprendere le esecuzioni contraddice gli impegni. L'Unione Europea il 27 giugno 2019 ha criticato la decisione dello Sri Lanka di riprendere le esecuzioni, affermando che sarebbe in contraddizione diretta con l'impegno del Paese a mantenere una moratoria di 43 anni sulla pena di morte, preso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite l'anno scorso. L'UE ha dichiarato che le esecuzioni pianificate dallo Sri Lanka invieranno segnali sbagliati alla comunità internazionale e agli investitori. L’UE ha detto che monitorerà gli impegni dello Sri Lanka nei confronti delle convenzioni internazionali su cui si basa un accordo commerciale preferenziale con il Paese. Lo Sri Lanka ha un accesso vantaggioso al mercato dell'UE attraverso il Sistema di Preferenze Generalizzato Plus. Le concessioni erano state ritirate in seguito a presunti abusi subito dopo una lunga guerra civile, conclusasi nel 2009. Il governo del presidente Maithripala Sirisena ha fatto passi su riforme e impegni in materia di diritti umani per riportare il programma, quando è stato eletto nel 2015. Firmate le condanne a morte per 4 detenuti. Tuttavia Sirisena ha detto questa settimana di aver firmato le condanne a morte di quattro detenuti riconosciuti colpevoli di traffico di droga e che saranno giustiziati presto. Il Presidente ha detto di aver deciso la ripresa delle esecuzioni per salvare i giovani dai narcotici, spiegando la sua posizione al capo delle Nazioni Unite Antonio Gutteres durante una conversazione telefonica la sera del 27 giugno. L’ultima esecuzione nello Sri Lanka risale al 1976. Usa - Il digiuno abolizionista davanti alla Corte Suprema. E’ iniziata il 1° luglio 2019 a Washington DC la 26° edizione della “Annual Fast & Vigil to Abolish the Death Penalty” un “digiuno e veglia” di 4 giorni, dal 1° al 4 luglio, davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Sul marciapiede davanti alla Corte si raduneranno i cosiddetti “sopravvissuti al braccio della morte”, ossia le persone prosciolte, assieme a parenti delle vittime che non sono favorevoli alla pena di morte, a familiari di detenuti del braccio della morte, e abolizionisti provenienti da oltre 20 stati. Indossando magliette, portando cartelli e fornendo informazioni ai passanti, i manifestati vogliono sollecitare una presa di posizione netta della Corte Suprema contro la pena di morte. La manifestazione viene tradizionalmente organizzata in questo periodo. Prende spunto dalla sentenza del 29 giugno 1972, denominata Furman v. Georgia, con cui la Corte Suprema dichiarò incostituzionali in quanto “arbitrary and capricious” le leggi capitali allora in vigore nei vari stati. La seconda sentenza che i dimostranti vogliono simbolicamente ricordare è quella del 2 luglio 1976 con cui la stessa Corte Suprema considerò sufficienti i cambiamenti apportati alle varie legislazioni, e autorizzò la ripresa dell esecuzioni. Myanmar - Pena capitale per un omicidio durante una rapina. Il tribunale distrettuale di Mandalay il 27 giugno 2019 ha condannato a morte un uomo per una rapina a mano armata che provocò la morte di una donna nella township di Chan Mya Tharsi nella regione di Mandalay. L'imputato, Khun Kaw Lar, è stato condannato a 10 anni di prigione con lavori forzati per il tentato furto e a morte per l'omicidio della donna. Il processo ha richiesto 10 giorni. L'imputato ha sette giorni per presentare appello contro il verdetto. "Abbiamo contattato la sua famiglia in relazione alla presentazione dell’appello. Sono molto poveri Non ho nulla da dire riguardo al verdetto perché è stato esaminato dal tribunale", ha detto un avvocato. Nell'agosto 2018, un uomo e una donna erano in motocicletta quando furono urtati dall'accusato, anche lui in motocicletta, all'angolo tra la 55a strada e Hninsi road nel settore di Tun Done. L'imputato aprì il fuoco, uccidendo la donna e ferendo gravemente l'uomo. La polizia disse che il bandito aveva cercato di rubare i soldi che i due avevano prelevato da una banca. L'autore del reato era stato precedentemente condannato dal tribunale di Chan Mya Tharsi a tre anni di detenzione per possesso illegale di un'arma da fuoco. Nigeria - Tre liberati dopo 14 anni nel braccio della morte. Tre detenuti, tra cui un uomo di 86 anni, sono stati liberati dal braccio della morte in Nigeria 14 anni dopo essere stati condannati a morte per un omicidio che non hanno commesso. Azubuije Ehirio, 86 anni; suo figlio Ehiodo Azubuije, 33; e il cugino Ngozi Onyekwere erano stati condannati a morte nel 2005, ma il Comitato Presidenziale della Nigeria sulla Riforma delle Carceri e il Decongestionamento li ha ritenuti non più colpevoli di omicidio. Un altro dettaglio interessante è che se questa Commissione non fosse stata istituita, i tre sarebbero rimasti nel braccio della morte, soprattutto perché la famiglia non aveva la forza finanziaria adeguata per impugnare la condanna loro inflitta dall’Alta Corte dello Stato di Abia. I prigionieri sono stati rilasciati senza condizioni dal Carcere di Massima sicurezza di Enugu. Nel suo ordine, il presidente del Comitato, il giudice Ishaq Bello, ha detto che dopo aver esaminato le circostanze che hanno portato alla loro incarcerazione e alla successiva condanna, il Comitato si è convinto che dovessero essere liberati. Libia. Diteci se questo per voi è un porto sicuro di Francesca Mannocchi L'Espresso, 7 luglio 2019 Torturati e sotto le bombe: così muoiono i migranti in attesa di un’evacuazione umanitaria, immediata, che non c’è. Mentre l’europa tace e Salvini accusa Ong e magistrati. Martedì 2 luglio sera, Carola Rackete, la comandante della Sea Watch 3 è tornata libera. La Gip di Agrigento Alessandra Vella ha smontato le accuse della Procura, non convalidando l’arresto della trentunenne tedesca che ha infranto il divieto di entrare nel porto di Lampedusa, decidendo di forzare il blocco della Guardia di Finanza, per far sbarcare 40 migranti, a bordo della nave da 16 giorni. L’ordinanza della Gip ha ribaltato l’ipotesi della Procura: “Il decreto sicurezza bis non si applica alle situazioni di salvataggio”. Secondo la Gip il reato di resistenza a pubblico ufficiale sarebbe stato giustificato da una “scriminante” legata all’avere agito “all’adempimento di un dovere”, quello di salvare vite umane in mare. Ancora, sostiene il giudice, la scelta del porto di Lampedusa non è stata strumentale ma obbligata: non è possibile ritenere scali sicuri i porti della Libia e della Tunisia. Lo stesso giorno, il Procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha parlato alle commissioni parlamentari riunite di Affari Costituzionali e Giustizia, smontando, con l’efficacia dei numeri e dei dati, il teorema Salvini. Di nuovo, nelle parole di Patronaggio, “la Libia non può ritenersi un porto sicuro” e il decreto Sicurezza bis non ha i requisiti di urgenza perché non esiste alcuna crisi migratoria: “Le finalità del decreto Sicurezza bis sono assolutamente condivisibili per quanto riguarda il contrasto al traffico di esseri umani”, ha detto Patronaggio, ma non vi erano “le condizioni di straordinaria necessità” che giustificano la decretazione di urgenza. E - sottolinea il Procuratore di Agrigento - non esiste una sola prova di “collusione tra trafficanti di esseri umani e Ong”. Insieme al teorema Salvini crolla anche il teorema Zuccaro. Era il 22 marzo 2017 quando il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, davanti al comitato parlamentare Schengen riunito a Montecitorio parlò per la prima volta di possibili connivenze tra le Ong e gli scafisti. A distanza di due anni, e a criminalizzazione ormai avvenuta degli aiuti umanitari nel Mar Mediterraneo, è sempre in aula di Montecitorio che le sue teorie vengono, per l’ennesima volta, sconfessate. La campagna mediatica (senza prove) di Zuccaro contro le Ong durò mesi, finendo per sostenere la criticata strategia di Marco Minniti, allora ministro dell’Interno, e le argomentazioni della propaganda anti immigrazionista che anima il ministro attuale, Matteo Salvini. Nell’aprile del 2017, Zuccaro, intervistato nel corso di una trasmissione di Rai 3, disse: “A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti, sono a conoscenza di contatti. Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante. Si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi”. Ma non c’erano prove. E dopo due anni la procura di Catania si è arresa: non esistono elementi a dimostrare i legami tra Ong e trafficanti. L’ultima archiviazione in ordine di tempo è arrivata a maggio, quando il gip di Catania Nunzio Sarpietro ha accolto la richiesta formulata dallo stesso Zuccaro: nessuna prova per portare a processo Open Arms, nessuna prova contro Marc Reig e Ana Isabel Montes Mier, comandante e capo missione della nave che nel Marzo 2018 soccorse e salvò circa 200 migranti a largo della Libia portandoli a Pozzallo. Erano accusati di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non si tratta dell’unica archiviazione su un procedimento aperto nei confronti delle Ong: a giugno dello scorso anno, la procura di Palermo aveva già archiviato un’indagine analoga aperta nei confronti di Sea Watch e di Proactiva Open Arms. Ancora Patronaggio, in audizione alla Camera, ha sostenuto che gli arrivi sulle nostre coste “riferiti ai salvataggi delle ong sono una porzione assolutamente minore e, per quanto riguarda quest’anno, sono statisticamente insignificanti”. Insignificanti, dati alla mano - I dati dell’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) sugli arrivi dei primi mesi del 2019 sono molto chiari. Nei primi sei mesi dell’anno sono arrivate in Europa, via terra e via mare 26 mila persone, 2400 in Italia, 17 mila in Grecia, 12.500 in Spagna. Anche Malta ha fatto la sua parte: 1.048. Nonostante l’isola abbia una popolazione di 450 mila persone e accolga ovviamente più persone in proporzione dell’Italia, che ne ha 60 milioni. Sono dati che raccontano molte cose. La prima è che l’Italia non è l’unico Stato dell’Europa meridionale a farsi carico del fenomeno migratorio e degli arrivi dal Nordafrica. Elemento confermato ulteriormente dai dati di un recente rapporto Unhcr “Desperate Journeys”, Viaggi Disperati, che analizzava i dati dello scorso anno, il 2018. La diminuzione drastica degli sbarchi in Italia è andata di pari passo con l’aumento esponenziale degli arrivi su altre rotte: nel 2018 gli arrivi in Spagna sono aumentati del 131% e gli arrivi in Grecia del 45 per cento. Chiudere una rotta non significa risolvere il problema, né combattere i traffici. Chiudere una rotta significa assecondare ansie elettorali e ha un costo umano altissimo. Significa che i trafficanti, come accaduto in passato, corrano ai ripari, cambiando percorsi e strategie e che di conseguenza i migranti siano costretti a rischiare di più. Di nuovo, parlano i dati. Sulla rotta libica il rapporto tra chi tentava le partenze e incontrava la morte era di 1 a 38 nel 2017. Lo scorso anno invece è morta una persona ogni 14. E, in assenza di testimoni nel Mediterraneo, è sempre più difficile raccogliere dati, come sottolinea Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi esperto di migrazioni, che da mesi studia la relazione tra la presenza in mare delle Ong e gli arrivi. Villa ha elaborato i grafici dell’Unhcr e dell’Oim (organizzazione internazionale per le migrazioni), tra il 1 Maggio e il 21 giugno di questo anno, con i dati delle presenza delle Ong. In questo intervallo di tempo sono partite dalla Libia 3.926 persone, 62 persone al giorno in presenza delle navi umanitarie, 76 quando le navi non c’erano. L’inesistenza del “pull factor” è ancor più evidente se si scorporano i soli dati di giugno: sono partite 26 persone al giorno quando c’era la Sea Watch in mare, 94 quando la Sea Watch non c’era. Quattro volte tanto. I dati statistici di Villa provano che non vi sia relazione tra la presenza delle navi umanitarie in mare e le partenze dalla Libia. Ovvero: non esiste “il pull factor”. Russia: la politica delle frontiere nel Caucaso e le sue conseguenze sui diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 luglio 2019 Consultando i motori di ricerca, la parola inglese "borderization" chiama essenzialmente in causa la politica russa nel Caucaso. Traducendo e spiegando in italiano, significa che a partire dal 2011 le forze russe presenti nelle due regioni che, dopo il conflitto dell’agosto 2008, si sono separate dalla Georgia - Abkhazia e Ossezia del Sud - hanno iniziato a installare marcatori di frontiera, filo spinato, trincee e barriere lungo le cosiddette Linee amministrative di confine, in precedenza poco più di un’indicazione sulle mappe. Amnesty International ha analizzato le conseguenze di questa politica che, di fatto, istituisce un confine internazionale: gravi limitazioni alla libertà di movimento, famiglie separate, mezzi di sussistenza che finiscono “dall’altra parte”, strutture sanitarie non più accessibili, minacce d’arresto per chi cerca di varcare la frontiera senza permessi ufficiali sempre più difficili da ottenere. Secondo le autorità della Georgia, alla fine del 2018 i villaggi divisi in due erano almeno 34 e tra 800 e 1000 famiglie avevano perso i loro terreni agricoli. L’impatto è stato letale anche su quello che una volta era un vivace commercio transfrontaliero, poiché i produttori locali non hanno più accesso ai mercati.