“Case famiglia” per non avere più i bambini dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2019 Dopo la tragedia di Rebibbia, avvenuta a settembre del 2018, dove una mamma detenuta ha ucciso due suoi figli piccolissimi reclusi assieme a lei, sembrava che finalmente il governo fosse pronto a metterci mano per risolvere il problema dei bimbi dietro le sbarre. È passato quasi un anno, ma tutto tace. Eppure l’emergenza rimane. Per questo martedì scorso, i deputati del Partito democratico hanno chiesto di rilanciare una proposta di riforma con l’associazione “A Roma Insieme-Leda Colombini”. La proposta è di semplice attuazione: costruire case famiglia con il finanziamento dello Stato - e non “senza oneri per lo Stato”, come previsto dall’attuale norma; utilizzare gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) solo nei casi di lunghe detenzioni e procedere alla comunicazione immediata delle autorità giudiziarie competenti della presenza di un minore al momento dell’arresto. Questa proposta di riforma, come detto, è emersa nel corso della conferenza stampa “Madri detenute e figli minori: normativa vigente e alternative al carcere” organizzata il 2 luglio a Montecitorio dai deputati del Partito Democratico Paolo Siani, Ubaldo Pagano, Carmelo Miceli, Nicola Pellicani, Patrizia Prestipino, Rosa Maria Di Giorgi con l’associazione “A Roma Insieme- Leda Colombini”, alla presenza del Garante dei detenuti della Regione Puglia, Piero Rossi. La proposta è stata spiegata nel corso dell’incontro da Gustavo Imbellone e Giovanna Longo, di “A Roma Insieme- Leda Colombini”, associazione attiva dal 1994 il cui obiettivo principale è che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere. “Non si tratta di aggiustamenti che stravolgono l’ordinamento, ma di misure emendative necessarie perché quella legge realizzi finalmente gli obiettivi che non ha ancora realizzato e per superare alcune contraddizioni”, spiegano gli organizzatori. Ma anche per fare in modo che gli Icam, metà carcere metà casa- famiglia, non vengano considerati come la soluzione al problema. “Avere bambini innocenti in carcere è una cosa insopportabile a dirsi, ma vedersi ancora di più - ha dichiarato all’agenzia Dire Paolo Siani, capogruppo Pd della Commissione parlamentare per l’Infanzia. La Commissione Infanzia è stata nell’Icam di Lauro, in Campania, a vedere come vivono i bambini in queste strutture, che non sono delle vere e proprie carceri. È certo la vita in quell’istituto è meno pesante per il minore, ma non è una famiglia, non è una casa”. L’ipotesi di puntare sulle case famiglia, cosa ben diversa dagli Icam, è stata sempre portata avanti dall’associazione “A Roma Insieme-Leda Colombini”. Nel nostro Paese ne esistono solamente due: una a Roma e l’altra a Milano. La politica ha invece riconosciuto un ruolo primario agli Icam. Mentre per quest’ultimi la responsabilità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (quindi c’è lo stanziamento di fondi), per le case famiglia invece la responsabilità è degli enti locali o privati. Quindi lo Stato non partecipa. La distinzione più importante tra l’Icam e la casa famiglia è proprio il fatto che la prima è una forma detentiva a tutti gli effetti, mentre la seconda è una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari. Ed è proprio questa caratteristica che “giustifica” la mancanza di fondi statali. “Noi sappiamo che gli Icam contengono il danno - ha spiegato durante la conferenza stampa Piero Rossi, Garante dei Detenuti della Regione Puglia - e che il migliore degli Icam possibili sarebbe quella struttura con caratteristiche architettoniche e organizzative in cui prevalgano le esigenze del bambino, ma l’Icam è una soluzione che fa a cazzotti con la prevalenza dell’interesse del minore”. Detenuti radicalizzati nelle carceri italiane. Intervista a Roberto Piscitello (Dap) di Giusy Criscuolo reportdifesa.it, 6 luglio 2019 Sulla base degli ultimi avvicendamenti nazionali ed internazionali, che hanno visto la cattura, l’arresto e la condanna di simpatizzati jihadisti, che hanno tramato in un recente passato su suolo italiano, abbiamo pensato di rivolgerci ad una voce autorevole, che può spiegarci cosa accade negli Istituti Penitenziari italiani con i soggetti in questione. A margine della recente presentazione di React - Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo, Report Difesa ha intervistato il Direttore Generale del Dap, Roberto Calogero Piscitello. Direttore è possibile che all’interno delle carceri avvenga una radicalizzazione? “Non ci sono dati precisi, ma nel tempo e soprattutto negli ultimi anni è stato possibile intercettare in carcere detenuti radicalizzati. Resta da capire se fossero già radicalizzati ovvero se la radicalizzazione sia avvenuta all’interno del carcere. Certo è che l’Amministrazione Penitenziaria, soprattutto dall’esplodere del fenomeno in Europa - attacchi in Francia, Belgio, Germania - ha avuto una particolare attenzione nel monitorare qualsiasi sintomo legato a possibili simpatie jihadiste o di matrice integralista religiosa. Lo abbiamo fatto cercando di monitorare determinati fenomeni. Un esempio pratico, riporta al primo attacco di Charlie Ebdò in Francia, dove qualcuno nelle nostre carceri uscì fuori con delle magliettine inneggianti all’ISIS, mentre altri manifestarono il loro assenso con urla di compiacimento e di vittoria”. Cosa accadde dopo queste manifestazioni? “Hanno costituito il primo approccio a questo tipo di problema, perché ritenute catalogabili e utili per la stesura di documentazione necessaria per lo studio del fenomeno all’interno degli Istituti Penitenziari. Ma questa catalogazione, non ci spiega se questi soggetti siano arrivati in carcere già radicalizzati o se lo siano diventati una volta entrati. Uno dei casi più eclatanti è il caso di un tunisino arrestato in Italia e tradotto in vari Istituti della Sicilia. Il soggetto, durante un diverbio con un suo compagno di cella disse: “Ti taglio la testa come a tutti i cristiani”. Questo precedente, ci permise di monitorare Anis Amri, che dopo aver scontato la pena in Italia e dopo essere stato segnalato agli organi competenti quale potenziale terrorista, si recò in Germania e purtroppo, si macchiò degli attentati ai mercatini di Natale di Berlino, il 19 dicembre 2016, provocando la morte di 12 persone e 56 feriti”. Quali sono le precauzioni che vengono utilizzate nelle nostre carceri, per evitare la radicalizzazione o l’auto-radicalizzazione? “Nelle carceri italiane, da un po’ di tempo a questa parte, si sta cercando di fare qualcosa per evitare che fenomeni come quello della radicalizzazione e dell’auto-radicalizzazione possano trovare spazio. Le diverse attività che stiamo cercando di promuovere all’interno delle nostre carceri, sono volte ad evitare che i soggetti, già provati dalla detenzione stessa, non aggiungano una ulteriore afflizione o vessazione, come potrebbe essere la necessità di praticare il proprio culto religioso. Parliamo di soggetti che aderendo ad una determinata religione si trovano nella difficoltà di non poterla praticare. È nell’interesse dell’Amministrazione, che l’individuo possa esercitare il proprio credo religioso liberamente e con il favore delle Istituzioni. Sempre ricordando che tale diritto di esercitare il proprio credo fa parte della nostra Costituzione. Il magistrato, affrontando l’argomento nello specifico, ci parla della creazione di spazi adibiti a moschee, dell’ingresso di imam e di mediatori culturali che hanno il compito di attutire i disagi creati dalla detenzione. Interventi finalizzati a non creare un ulteriore sentimento di frustrazione che spesso diventa la base per una radicalizzazione in carcere”. Gli imam che sono chiamati ad intervenire durante questi momenti di preghiera, sono sottoposti a duri controlli prima di ottenere il permesso di entrare negli Istituti Penitenziari? “Da qualche anno abbiamo stipulato un protocollo con organizzazioni che rappresentano le comunità islamiche in Italia. Tramite un dialogo costante con queste organizzazioni, abbiamo chiesto loro di fornirci degli imam che siano in grado di dirigere la preghiera per i soggetti in carcere. Questa attività viene fatta di concerto con il Ministero dell’Interno, che a fronte delle indicazioni girate da queste organizzazioni islamiche, provvede a verificare e certificarne le figure per garantire che siano persone di effettiva affidabilità. Questa realtà, iniziata in via sperimentale qualche anno fa in 8 istituti, inizia a funzionare. A questo si aggiunga che l’Amministrazione Penitenziaria ha investito nel suo personale, iniziando dei corsi basici di lingua araba e con la diffusione di vademecum e libretti utili ad individuare una serie di parole che possono essere significative di un segnale di allarme verso fenomeni jihadisti”. Chi sono gli auto-radicalizzati? “Quando parlo di auto-radicalizzazione, mi riferisco a quei soggetti che a cagione della solitudine, del fatto che non conoscono la lingua, di essere lontani da casa, corrono il rischio di utilizzare la detenzione come un ulteriore fattore di frustrazione rispetto ad una condizione che è già deteriore. La privazione della libertà, la lontananza da affetti potrebbero far valere un sentimento di rivalsa nei confronti di un’istituzione e che potrebbe trovare un suo humus in un integralismo radicale proprio dei fenomeni terroristici. Si parla di auto-radicalizzazione e non di radicalizzazione indotta, perché quei detenuti che sono identificati come radicalizzati, stanno del tutto isolati”. Il numero di radicalizzati all’interno delle nostre carceri è di 42. Chi sono questi detenuti? Si parla solo di soggetti stranieri, naturalizzati o vi sono anche italiani? “In carcere abbiamo, con riferimento a soggetti condannati per questo genere di reato, un numero non particolarmente rilevante. Questi soggetti sono in carcere perché in custodia cautelare o perché condannati a reati efferenti a simpatie terroristiche. Ci sono però, anche detenuti che pur essendo entrati in carcere per fatti differenti da quelli trattati, hanno iniziato a manifestare quei fenomeni di cui ho già parlato e che quindi sono stati oggetto di attenzioni da parte del corpo specializzato della Polizia Penitenziaria. In qualche caso, sono stati coinvolti anche soggetti italiani che in carcere hanno fisicamente mutato atteggiamento, si sono fatti crescere la barba e hanno deciso di convertirsi all’Islam. Ma questo “cambio di abito”, potrebbe anche essere fisiologico, frutto dell’idea di abbracciare una religione diversa da quella originaria. Ne segue che è compito dell’Autorità Penitenziaria tenere d’occhio questi soggetti, sempre nel rispetto dei diritti umani e della libertà del credo”. Come vengono seguiti i detenuti particolarmente a rischio? “I soggetti particolarmente a rischio sono del tutto isolati dal resto dei detenuti. Per impedire a questi fondamentalisti o radicalizzati di effettuare proselitismo religioso nei confronti di soggetti particolarmente deboli. Questi uomini, già “bollinati” come possibili terroristi, sono messi in condizione di non incontrare mai fisicamente gli altri detenuti. Esistono delle sezioni specializzate che si chiamano “Alta Sicurezza 2”. Attigua a questa linea di condotta dell’Amministrazione Penitenziaria, vi è il progetto di de-radicalizzazione, che cerca di porre in essere un’attività trattamentale prevista dall’articolo 27 della Costituzione. Questa attività è finalizzata a fare in modo che questi soggetti si allontanino dalle ideologie jihadiste. Attività più complessa che necessità dell’intervento di più soggetti specializzati, ma sulla quale stiamo ancora lavorando”. In carcere ci sono jihadisti che sono arrivati attraverso gli sbarchi? “Lo stesso Amri, di cui abbiamo già parlato riguardo agli attentati ai mercatini di Natale di Berlino nel dicembre 2016, era un ragazzo tunisino, arrivato in Sicilia durante uno degli sbarchi. Successivamente fu arrestato per futili motivi e solo dopo aver trascorso del tempo negli Istituti siciliani, si scopri che era un fondamentalista, pronto a colpire”. Quanto è importante la cooperazione tra le diverse Polizie su questo fronte? “La cooperazione è fondamentale, anche perché ci troviamo davanti a reati transnazionali. La segnalazione fatta da un Paese membro dell’Unione Europea ad un altro Paese è fondamentale per poter monitorare questi soggetti, che fino a quando sono in numero accettabile, posso anche essere oggetto di una specifica attività di prevenzione, che diventa un po’ più difficile quando il numero di questi individui aumenta. È dovere delle Amministrazioni e delle Polizie, cooperare al fine di evitare che questa gente possa girare impunemente per l’Europa, rischiando di effettuare nuovi attentati”. La Polizia Penitenziaria ha un ruolo di intelligence all’interno delle carceri? “Diciamo che la Polizia Penitenziaria cerca di monitorare questi fenomeni. Qualunque evento, che possa essere identificativo di una adesione o che semplicemente si avvicina ad una simpatia verso fatti di terrorismo, viene immediatamente evidenziato. Vengono fatte relazioni di servizio e gli stessi soggetti vengono inseriti in un quadro complessivo di monitoraggio. Questo quadro viene riservato anche ad altri organi di Polizia in ambito nazionale ed internazionale che hanno il compito di prevenzione. Questo è un modello che in Italia funziona molto bene e quando noi siamo chiamati all’estero con gli omologhi di altri Paesi, apprezzano molto il nostro modus operandi. Modus che da un lato è preventivo, cioè che riduce ogni possibile occasione di radicalizzazione e dall’altro è anche funzionale ad avere sempre presente eventuali segnali di allarme”. Giustizia, regole da rifare di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 6 luglio 2019 Il nostro sistema giudiziario è ormai precipitato in una crisi senza fondo dopo il grave scandalo delle intercettazioni telefoniche divulgate nei giorni scorsi. Un messaggio del Capo dello Stato alle Camere sarebbe lo strumento più adatto per la revisione. Realmente senza fondo appare la crisi in cui è precipitato il nostro sistema giudiziario dopo che le intercettazioni telefoniche divulgate qualche giorno fa dalla stampa hanno tirato pesantemente in ballo anche il procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Vale a dire colui che è secondo solo al presidente della stessa Corte al vertice della gerarchia del sistema giudiziario italiano, che è responsabile di ogni procedimento disciplinare a carico dei magistrati nonché membro di diritto del Consiglio superiore della magistratura. Ciò che le intercettazioni fanno capire del dottor Riccardo Fuzio, che ha annunciato la sua volontà di pensionamento anticipato, è il suo coinvolgimento nella medesima atmosfera ambientale in cui si muovono troppi magistrati, in specie coloro che siedono nel Consiglio superiore della magistratura. Un’atmosfera fatta di pilotaggio correntizio delle nomine, di personalismi e faziosità, di continui scambi e richieste di favori, ma anche di comunicazioni di notizie riservate e di una frequentazione e ricerca di contatti con il mondo della politica e talvolta degli affari, del sotto governo. Quanto emerge è una mentalità, tuttavia, che è difficile credere che i rappresentanti non condividano con i loro rappresentati o perlomeno con molti di essi. Si tratta di modi d’essere evidentemente diffusi. Di una cultura che verosimilmente ha radici in un’ideologia di gruppo che appare l’esito di una lunga vicenda cominciata negli anni 70 del secolo scorso. Fu in quel tempo, infatti, che favorita dall’aria che spirava nel Paese la magistratura cominciò a scoprire nella politica uno straordinario fattore di dinamizzazione e di promozione di ruolo nonché di status economico. Le indagini sul terrorismo e sulla mafia, e le conseguenti rappresaglie sanguinarie dell’uno e dell’altra ai danni dei magistrati, ebbero l’effetto di accentuare al massimo questo rapporto con la politica. Che divenne definitivo con le inchieste di Mani Pulite, le quali ebbero l’effetto perverso di fare dell’ordine giudiziario il protagonista assoluto del massimo rivolgimento politico della storia repubblicana del Paese: e magari di chissà quanti altri rivolgimenti in futuro - si cominciò a temere o ad auspicare da parte di moltissimi. È avvenuto in seguito a tutto ciò un fatto capitale. I magistrati, in misura enorme i pubblici ministeri, si sono trasformati in protagonisti centrali, ricercati, invitati, vezzeggiati, della scena mediatica. Da allora, ad esempio, in nessun altro Paese al mondo come in Italia i talk show televisivi raccolgono si può dire ogni sera opinioni e pensieri di questa o quella star dell’ordine giudiziario. Verso la politica, peraltro, la magistratura si è trovata ancor più sospinta da due fatti. Innanzi tutto perché le istituzioni e la pratica dell’autogoverno di cui godeva la portavano in quella direzione in modo per così dire fisiologico, e in secondo luogo perché in tale corsa essa non ha trovato alcun ostacolo a causa delle categorie di “autonomia” e di “indipendenza” iscritte nella Costituzione, sempre più considerate un intoccabile feticcio dall’ideologia ufficiale del Paese. Il corso del tempo ha così visto la libertà d’azione degli addetti alla giustizia ampliarsi a dismisura, configurandosi alla fine come un’assoluta autoreferenzialità, complice non ultimo il fatto che la magistratura è virtualmente padrona della propria formazione e del proprio reclutamento e domina la struttura del ministero di Grazia e Giustizia, i cui posti chiave (e non solo) sono occupati nella stragrande maggioranza dei casi (non si vede proprio perché) da altrettanti magistrati. Ancora di più ha contato la presenza pressoché totalitaria di rappresentanti dell’ordine giudiziario non solo in tutti gli uffici legislativi dei vari ministeri, ma - quel che forse più conta - anche nei gabinetti di tutti ministri, viceministri e sottosegretari, spessissimo in qualità di capigabinetto. Se poi si tiene a mente il naturale raccordo di colleganza che esiste tra questo insieme di magistrati inseriti nei gangli vitali del governo e quelli operanti nei Tribunali amministrativi e nel Consiglio di Stato - cruciali ai fini del giudizio su ogni atto legislativo e sui relativi effetti - si ha facilmente un’idea della formidabile struttura di influenza e insieme di autotutela che in tal modo è venuta a trovarsi nelle mani della magistratura. Si capisce bene allora come nella psicologia di una parte significativa dei suoi membri sia venuta formandosi la convinzione dell’ovvia, in certo senso “dovuta”, vastità del proprio potere e del proprio altrettanto “dovuto” prestigio, insieme a un’ideologia di tipo castale di sé e del proprio rango. Si capisce come di conseguenza ne sia potuta risultare tanto spesso la perdita del senso del limite di tale ruolo, l’abitudine al privilegio, l’uso di intrattenere rapporti da pari a pari con ogni altra sede del potere stesso. Ci sono com’è naturale le eccezioni - anche numerose, non ne ho il minimo dubbio. Ma in questo caso le eccezioni non contano. Perché politicamente (ossia dal punto di vista dell’interesse collettivo) conta assai di più che in seguito a ciò che è accaduto e sta accadendo gli italiani stiano velocemente perdendo ogni stima in coloro che sono chiamati ad amministrare la legge e da cui alla fine dipendono la loro libertà e i loro beni. La perdita di fiducia nella giustizia è un colpo mortale alla Repubblica. Proprio per questo è il momento di pensare a una revisione coraggiosa di molte delle regole che finora hanno governato questo settore cruciale della nostra vita pubblica. È un’opera che spetta ovviamente al Parlamento, ma che non può essere affidata per intero né alla volontà di una maggioranza, pur larga che sia, né a una contrattazione tra maggioranza e opposizione all’insegna di compromessi per forza di cose il più delle volte insoddisfacenti. È un’opera, io credo, che a cominciare dal momento della sua iniziativa è opportuno sia sottratta per quanto possibile allo scontro tra i partiti. È necessario l’intervento di un “potere neutro” che della revisione di cui sopra si faccia promotore al di sopra di ogni sospetto di strumentalizzazione, indicandone altresì alle forze politiche - pur senza ovviamente interferire nelle loro decisioni - la direzione di massima e le linee maestre. Tale potere non può essere evidentemente che quello rappresentato dal capo dello Stato. Chi meglio di lui, che tra l’altro è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura? Dall’alto del suo riconosciuto prestigio il Presidente Mattarella potrebbe manifestare appieno il proprio incitamento, accompagnandolo magari anche all’indicazione di alcuni orientamenti generali, adoperando per l’occasione la forma solenne, prevista dalla nostra Costituzione, del messaggio alle Camere. Uno strumento, questo, pochissimo (a torto secondo me) utilizzato nella nostra storia, ma che in una circostanza importante del genere appare quanto mai adatto. Giustizia. Lega: sanzioni ai giudici lumaca e via libera al doppio Csm di Simone Canettieri Il Messaggero, 6 luglio 2019 Bonafede annuncia entro 10 giorni ddl delega su processo penale, civile e nuovo Consiglio. Pressing del Carroccio: premi legati all’efficienza. Dieci giorni per chiudere. La riforma della giustizia - una legge delega che comprenderà i processi penali, civili e il Csm - arriva alla stretta finale. E la Lega è pronta a chiedere al Guardasigilli Alfonso Bonafede una serie di punti che ritiene “irrinunciabili”, perché già frutto della mediazione di queste ultime settimane anche con i rappresentanti delle categorie toccate (avvocati e magistrati). Il primo punto riguarda la possibilità di sanzioni per i giudici “inerti”: punizioni disciplinari o processuali per i procedimenti lumaca che non arrivano a sentenza. Allo stesso tempo, si discute della volontà di inserire un meccanismo di premi per quelli efficienti. Un incentivo per tutti gli altri. Il Carroccio, che è rappresentato dal ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno in qualità di responsabile giustizia, spinge anche su un’altra riforma, sempre del processo penale: la riduzione di accesso ai riti premiali (giudizio abbreviato, il patteggiamento ed il giudizio per decreto). La settimana prossima è in programma un altro incontro del tavolo governativo per arrivare poi al Consiglio dei ministri decisivo la settimana dopo ancora. Il restyling della giustizia dunque sarà pronto non più entro l’estate, ma a brevissimo, prima che il Parlamento vada in vacanza: “Entro dieci giorni la legge delega andrà in Cdm”, ha annunciato infatti ieri Bonafede. La riforma si intreccia con lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio destinato a entrare in vigore dal primo gennaio 2020. Ecco perché il mantra della Lega è: i processi devono correre. Altrimenti, come disse Bongiorno, la nuova prescrizione sarà una “bomba atomica sui processi”. A questo proposito è allo studio, tra le altre cose, una stretta sulla durata delle indagini preliminari. A via Arenula si ragiona sulla possibilità di concedere solo una proroga di 6 mesi, salvo casi eccezionali, con una messa a disposizione degli atti dopo 3. Anche in questo caso: sono in programma sanzioni per chi non rispetta i tempi. In questo cantiere ancora aperto pende però il caos scoppiato nel Csm. Obiettivo: arginare il potere delle correnti e dare nuove regole per le carriere dei magistrati. In questo senso è al vaglio l’idea di un doppio Csm, per pm e giudici. Per la Lega un compromesso verso la divisione delle carriere, un’ipotesi che non lascia affatto entusiasti i grillini. Per la composizione degli organismi di discute infine sulla proposta di suddividere il Paese in 28 collegi territoriali (corrispondenti delle Corti d’Appello). Un modo, per la Lega, per arginare appunto la forza delle correnti. I fronti sono talmente tanti - ci saranno novità di sostanza anche nel processo civile, i cui meccanismi sono definiti deleteri dagli investitori - che la riforma delle intercettazioni è destinata a scomparire. Anche in questo caso gli alleati sono più che divisi sull’uso e la trascrizione degli ascolti. Una riforma non più rinviabile, perché c’è da rimettere le mani all’ultima legge firmata dall’ex ministro Orlando e già prorogata. Giro di vite anche sul rientro dei giudici dalla politica, e stop alle nomine negli incarichi direttivi per quattro anni a chi è stato componente del Consiglio. Previsto anche un limite ai compensi entro i 240mila euro. “Ci saranno delle novità molto importanti perché anche sul Csm bisognerà intervenire con determinazione in vista di una maggiore tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”, ha aggiunto il Guardasigilli. Esclusi gli intenti punitivi. “Abbiamo una magistratura che è di qualità altissima - ha infatti sottolineato Bonafede - ed è giusto tutelarla, tutelare i tanti magistrati che ogni giorno portano avanti la macchina della Giustizia”. La prossima settimana la Lega farà arrivare a Bonafede, e ai tecnici del M5S che sono al lavoro, le proposte, nero su bianco. Poi ci sarà un vertice politico a tre - Conte, Salvini, Di Maio - prima del via libera del Consiglio dei ministri. Ma il sorteggio mortifica il Csm di Mariarosaria Guglielmi* La Repubblica, 6 luglio 2019 I fatti emersi dall’indagine di Perugia pongono tutta la magistratura di fronte a un’enorme responsabilità: restituire alla collettività la certezza di una Giustizia affidata a un’istituzione sana; dare risposte credibili allo smarrimento che ha colto l’opinione pubblica, e gli stessi magistrati, di fronte a un così grave tradimento del senso più profondo dei valori di indipendenza e di imparzialità che devono guidarci nell’esercizio della nostra funzione. La magistratura ha sempre dimostrato di saper esercitare un controllo di legalità al suo interno con lo stesso rigore che ne guida l’azione rispetto a tutti i fenomeni di illegalità che deve affrontare. E la gravità dei fatti emersi non può far dimenticare che tutti i giorni, negli uffici e in realtà territoriali difficili, i magistrati, moltissimi di prima nomina, operano con impegno per rendere giustizia, animati dalla passione e dall’etica che derivano dalla cura per il lavoro che svolgono. La magistratura è un corpo sano. Per questo oggi si interroga criticamente sugli effetti della regressione culturale prodotta da vecchie e nuove forme di carrierismo, rivendica rigore e trasparenza nella gestione consiliare, esige un cambio di passo rispetto alle logiche che ne hanno spesso condizionato le scelte. E attraverso le ferme reazioni dell’Anm, la magistratura si mostra determinata ad andare fino in fondo nell’analisi severa di fatti e comportamenti e nel richiedere, ai soggetti coinvolti, una immediata assunzione di responsabilità per la ricaduta dei loro comportamenti sulla credibilità dell’istituzione. Ma a fronte di questo complesso travaglio interno, il dibattito pubblico e politico si è orientato senza incertezze, con sorprendente uniformità e trasversalità, verso la messa sotto accusa delle “correnti” indicate come causa di tutti i mali e responsabili di un “sistema” ormai strutturalmente deviato dalle sue finalità istituzionali. E, con il dichiarato scopo di ridurre il peso delle correnti nel Csm, avanzano radicali progetti di riforma oggi purtroppo meno avversati anche da quella parte di magistrati che traduce il rifiuto delle distorsioni correntizie nella richiesta di passi indietro dei gruppi dai luoghi della rappresentanza. È bene che, nel confronto sul merito di queste proposte, si faccia chiarezza sulla vera posta in gioco: normalizzare la magistratura, mortificando il ruolo dell’associazionismo giudiziario e del confronto dei gruppi sulle diversità di opzioni culturali e ideali, e mutare la fisionomia costituzionale del Consiglio Superiore, organo elettivo e rappresentativo, neutralizzando le sue potenzialità democratiche, alimentate dalla sua politicità e dal pluralismo. Già la riforma elettorale del 2002 ha introdotto un sistema per un’ investitura del consigliere fondata su rapporti personali, interessi di categoria e legami territoriali. Ora la proposta di sorteggio dei componenti togati del Csm sovverte del tutto il senso della rappresentanza come aggregazione su idee e visioni diverse (dal ruolo del magistrato nella società, alla modalità di amministrazione della giurisdizione, dal concetto di carriera a quello di dirigenza) e annulla ogni principio di responsabilità (a chi e come risponderanno delle loro scelte i “sorteggiati”?). È il passo decisivo verso una riduzione del ruolo del Consiglio che, trasformato in organo tecnico-amministrativo e di mero governo del personale, è destinato inevitabilmente a essere subalterno alla sfera politica esterna e funzionale alla ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario. Le vicende di questi giorni dimostrano che proprio in assenza di un ruolo autorevole dei gruppi si aprono i coni d’ombra dove si muovono i singoli sulla base di logiche di potere personale. Ecco perché difendo le correnti. Riconoscere le degenerazioni correntizie, e impegnarsi a contrastarle, deve essere la premessa per rivendicare e difendere il ruolo che storicamente i gruppi hanno svolto nel creare una magistratura consapevole, in grado di portare nell’autogoverno il risultato di elaborazioni culturali collettive e di ritrovarsi unita, attraverso il confronto plurale e aperto, nella difesa dei valori costituzionali della giurisdizione. *Segretaria generale di Magistratura Democratica Il ruolo dei whistleblower contro la corruzione di Maria Chiara Vinciguerra* Corriere della Sera, 6 luglio 2019 Il caso Assange e la tutela degli informatori. Per alcuni patriota dell’umanità e ingiusto martire nella promozione di trasparenza e libertà, per molti altri truffatore, spia o cospiratore, con il suo recente arresto Julian Assange ha rivelato ancora una volta le contraddizioni intrinseche del dibattito sui whistleblower (cioè gli informatori), polarizzato tra promotori o critici della tutela degli stessi. Antoine Deltour (WikiLeaks), Andrea Franzoso (caso Ferrovie Nord) ed Edward Snowden sono solo alcuni tra i tanti altri whistleblower che pagano giornalmente il prezzo delle proprie segnalazioni a livello personale e professionale. L’attacco ai danni di Assange e la sua categoria viene giustificato sulla base di presunta cospirazione, faziosità e spionaggio. Eppure, le principali organizzazioni sovranazionali e internazionali - non ultimi il Consiglio d’Europa, l’Ue e l’Ocse - da anni lodano il coraggio e il valore societario dei whistleblower come strumento chiave nella lotta internazionale contro la corruzione. Secondo il Consiglio d’Europa (2014), la protezione dei medesimi rappresenta un aspetto cruciale della libertà d’espressione e di coscienza, mentre per l’Ocse i whistleblower facilitano l’individuazione di malefatte organizzative, frode e corruzione. La tutela legislativa dei whistleblower è ormai da decenni divenuta realtà nei Paesi anglofoni (in Uk nel 1998, negli Usa nel 1989), laddove solo una recente innovazione nel contesto dell’Europa continentale. Secondo la Commissione Europea, solo 10 Paesi membri hanno introdotto meccanismi esaustivi per la tutela dei whistleblower. Tra questi, l’Italia ha introdotto nel novembre 2017 dei provvedimenti legislativi a tutela dei whistleblower in modifica del decreto legislativo del 20 marzo 2001, mentre il Parlamento Europeo ha raggiunto la maggioranza per l’introduzione di una direttiva a protezione dei whistleblower lo scorso aprile 2019, previo consenso a breve del Consiglio dei ministri. Una volta entrata in vigore, i Paesi Ue avranno due anni per armonizzare la propria legislatura secondo la nuova direttiva. Il paradigma secondo cui la tutela dei whistleblower sia uno strumento chiave nella lotta contro la corruzione segue il modello teorico della modernizzazione dello stato, ovvero l’introduzione graduale di leggi anti-corruzione, integrità o whistleblowing che vadano a individuare episodi di corruzione una volta verificatisi, invece che prevenirne l’occorrenza a priori. Tuttavia, secondo Rose-Ackerman tale paradigma risulta efficace solo laddove la corruzione non sia condizione sistemica di un Paese. In studi empirici recentemente condotti con la professoressa Mungiu-Pippidi, abbiamo confermato tale logica, in quanto la sola introduzione di una legge a tutela dei whistleblower non è stata trovata statisticamente correlata a una migliore governance o controllo della corruzione. Se la tutela legislativa dei whistleblower non comporta né un miglior controllo della corruzione né quantomeno una migliore governance, perché proteggere la categoria dei whistleblower? Le sole leggi a tutela dei whistleblower non possono essere uno strumento efficace anticorruzione. Tuttavia, leggi altamente esaustive (vedi Whistleblower Index) sono state provate avere una maggiore efficacia nel cambiare i livelli di corruzione in un Paese. Solamente laddove episodi di corruzione siano circostanza rara, non la norma, e dove ci sia totale libertà di stampa, ci si può aspettare che le leggi a tutela dei whistleblower diventino un efficace strumento deterrente anticorruzione. I provvedimenti recentemente adottati nel contesto europeo e italiano a tutela dei whistleblower vanno in ogni caso accolti con favore in quanto incentivano una cultura di trasparenza organizzativa e responsabilità collettiva: riprova di ciò viene data dall’incremento sostanziale in denunce di casi di corruzione in Italia dall’introduzione del decreto nel 2017 (dalle 384 segnalazioni nel 2017 alle 783 nel 2018, secondo Agi). Nondimeno, fino a quando il focus della lotta alla corruzione e ai fenomeni di criminalità organizzata consisterà in una cura a posteriori, e non in misure preventive, cambiamenti sostanziali nella qualità della governance e nel controllo della corruzione saranno difficilmente plausibili. *University of Cambridge Napoli: Poggioreale e la nuova “rivolta delle pentole” cronachedellacampania.it, 6 luglio 2019 Poggioreale si appresta a vivere un nuovo “12 luglio” (come quello del 1968) annunciano i movimenti napoletani solidali con le persone detenute, che ieri sera si sono dati appuntamento nel centro “O Sgarrupato” in vico Lepre per preparare la mobilitazione convocata per venerdì prossimo alle 18,30 davanti al carcere in lato piazzale Cenni. I parenti dei detenuti di Poggioreale chiamano a raccolta tutte le persone che solidarizzano con i detenuti e li invitano a portare delle “pentole e cucchiai di legno per farci sentire il più possibile dai detenuti”. La protesta nasce dall’esigenza di portare ancora una volta all’attenzione dei media nazionali le estreme condizioni di degrado in cui versa la struttura di Poggioreale e dopo gli episodi che si sono verificati il mese scorso nella casa circondariale, dalla morte di tre detenuti (2 sono i casi di suicidio) in soli tre giorni alla rivolta del 16 giugno scorso che ha interessato tutti i reclusi, oltre 200, nel padiglione Salerno che chiedevano il ricovero di un altro detenuto. “A fronte di circa 1600 posti - denunciano i parenti dei detenuti di Poggioreale - sono rinchiusi circa 2400 detenuti; a questo si aggiungono condizioni sanitarie inaccettabili, l’assoluta mancanza di un’assistenza medica. Oggi ci sembra ancora più urgente lottare contro l’istituzione carceraria, in particolare in una fase in cui giustizialismo e populismo penale invadono ed egemonizzano il discorso pubblico”. Di “emergenza carcere”, intanto, si discuterà a Napoli anche il 9 luglio, nel corso di una iniziativa convocata nel giorno dell’astesione dei penalisti italiani, nel palazzo di giustizia dalle 10. Oltre alle relazioni del Garante Palma e del coordinatore della commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento penitenziario Glauco Giostra, sono previsti tra gli altri anche gli interventi della direttrice del carcere di Poggioreale Maria Luisa Palma, del presidente della Corte di Appello di Napoli, Giuseppe De Carolis di Prossedi, Luigi Riello, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli, del procuratore di Napoli, Giovanni Melillo e dei rappresentanti di Ristretti Orizzonti, giornale di informazioni sul carcere, e dell’associazione Antigone per i diritti dei detenuti e di altri rappresentanti istituzionali e del mondo forense. Venezia: Camera penale “giornata di protesta e di astensione a tutela dei diritti violati” Ristretti Orizzonti, 6 luglio 2019 La Camera Penale Veneziana “Antonio Pognici” aderisce alla manifestazione di protesta e alla conseguente astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziale indetta per la giornata del 9 luglio 2019 dall’Unione Camere Penali Italiane per sensibilizzare l’opinione pubblica, oltre che i Giuristi, circa la drammatica situazione attuale in cui versano gli Istituti di Pena in tutta Italia. L’umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per “trattamento inumano e degradante” (sentenza “Torreggiani”) sembrava costituire un’occasione di riscatto: la novellazione che ne è seguita, gli Stati generali dell’esecuzione penale, la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario si muovevano in questa direzione. Ignavia politica prima, miopia culturale, dopo, hanno bruscamente interrotto questo percorso. Peggio: si è imboccato un tornante di civiltà giuridica, e forse di civiltà tout court, in cui la minaccia del carcere sembra costituire l’unica risorsa di una politica incapace di farsi carico dei reali problemi della società, rimuovendone o contenendone le cause, ma abilissima se non nel fomentare, certo nello strumentalizzare le ansie collettive. Si è accentuata la vocazione “carcero-centrica”, in totale dicotomia con i principi della Costituzione. Tale spinta si pone del resto anche in contrasto con le statistiche che registrano, in modo continuo e costante, un calo del numero di reati ormai da oltre 10 anni (-34,8% per gli omicidi volontari, -33,3% per le rapine, - 8,5% per i furti in casa). La questione, quindi, non è solo “penitenziaria”: una società che affida le sue sorti alla risposta penale, è una società che si consegna ad una democrazia autoritaria, che vagheggia uno “Stato penale”, perché incapace di crescere nel rispetto dei diritti e delle garanzie di uno Stato di diritto. I dati statistici del Ministero della Giustizia sugli istituti di pena sono impietosi e preoccupanti, invero, si è raggiunto il numero esorbitante di 60.476 detenuti (9.948 in più rispetto alla capienza massima consentita). La media nazionale, in continuo aumento, sfiora il 130%, rispetto alla capienza disponibile. Vi è un solo medico di base ogni 315 detenuti anziché un medico ogni 150, come previsto. Le piante organiche sono totalmente insufficienti. Nel 2018 sono morti 148 detenuti, dei quali ben 67 sono stati suicidi. Nel 2019, siamo già arrivati a 60 morti, di cui 20 suicidi. Con una media di un decesso ogni 3 giorni. Nella Casa Circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia, come risulta dalla relazione sull’amministrazione della giustizia del Tribunale di Sorveglianza, il sovraffollamento è costante e la capienza è superiore a quella “tollerabile”. Nell’ultimo anno vi sono stati tre tentativi di suicidio e 102 atti di autolesionismo. Una problematica continua a essere la difficoltà di applicazione dell’istituto di cui all’art. 148 c.p., il quale prevede che nel caso in cui nel corso dell’esecuzione della pena sopravvenga al condannato una infermità psichica, il giudice ne dispone il ricovero; purtroppo la chiusura delle corrispondenti strutture (ospedali psichiatrici giudiziari), unitamente alla impossibilità di utilizzare le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), pone oggi rilevanti interrogativi in ordine all’opportunità o meno di disporre che tale forma di ricovero sia comunque attuata presso un istituto penitenziario. Infine per quanto riguarda la concessione delle riduzioni di pena ovvero di risarcimenti del danno, ex art. 35 ter O.P., conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati, l’Ufficio di Sorveglianza di Venezia per l’anno 2018 ha accolto ben 94 richieste, con soli 10 rigetti e 41 inammissibilità, mentre per il primo semestre dell’anno 2019 vi sono state già 56 richieste accolte, 2 soli rigetti e 15 inammissibilità. La situazione negli altri Istituti di pena del Veneto è analoga, se non peggiore, come per le Case Circondariali di Verona e Treviso. Ciò a dimostrazione del fatto che, nonostante le pesanti condanne e censure pervenute in sede europea, le condizioni dei detenuti in Italia sono sempre peggiori e vengano palesemente ignorate dal nostro legislatore. I detenuti, seppur abituati loro malgrado a condizioni di vita disumane, sono esasperati per la mancanza di acqua o di adeguate cure mediche in relazione a gravi malattie, hanno posto in essere delle forme di proteste molto forti e violente, spesso distruggendo interi padiglioni e/o appiccando incendi, come avvenuto negli istituti di pena di Trento, Rieti, Sanremo, Spoleto, Campobasso, Agrigento, Trapani, Barcellona, e Poggioreale. Il venir meno di ogni speranza di cambiamento e di poter concretamente contare su misure alternative o quantomeno sulla finalità rieducativa della pena stanno creando sempre più situazioni di disagio e di disperazione all’interno della carceri italiane, con gli inevitabili rischi che tutto ciò inevitabilmente comporta. Appare assolutamente necessario riattivare, con la massima urgenza, un percorso virtuoso volto a umanizzare la pena in modo da ricondurre l’esecuzione penale nell’ambito della legalità costituzionale. Ne discutiamo, dunque, il 9 luglio p.v. alle ore 12,00 presso l’Aula della Corte d’Assise (Aula “C”) del Tribunale Penale di Venezia. La Presidente Il Consiglio Direttivo La Commissione Carcere della Camera Penale Veneziana Ferrara: la situazione del carcere è allarmante, protesta della Camera penale estense.com, 6 luglio 2019 Il 9 luglio si asterrà dalle udienze e dalle attività giudiziarie: “Il Governo prenda coscienza della reale portata del problema”. Gli ultimi episodi avvenuti presso la Casa circondariale di Ferrara (due tentativi di suicidio e un incendio appiccato da un detenuto) hanno destato la preoccupazione del direttivo della Camera Penale Ferrarese. Preoccupazioni che hanno portato l’organismo a emanare un comunicato in cui si dichiara che “detti episodi costituiscono purtroppo un connotato sempre più frequente nei nostri istituti di pena”. Ci si riferisce a quanto avvenuto il 3 e 4 luglio con il tentato suicidio di Eder Guidarelli e quello del giorno successivo. “Luoghi che, per loro natura e destinazione - prosegue il direttivo della camera Penale Ferrarese - dovrebbero essere di garanzia anche per l’incolumità di chi abitualmente li frequenta ed invece costituiscono un rischi quotidiano”. Proprio sulla questione carcere, è stata proclamata dalla Unione Camere Penali Italiane per la giornata del 9 luglio un’astensione dalle udienze penali e dalle attività giudiziarie, “a cui la Camera Penale Ferrarese aderisce con convinzione”. “Lo scopo di questa iniziativa - conclude il comunicato - è quello di puntare l’attenzione carceraria in Italia, invitando in primis il Governo a prendere coscienza e conoscenza della reale portata del problema”. Firenze: Sollicciano oltre l’afa, creiamo un ponte tra carceri e città di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 6 luglio 2019 Le vampate di caldo africano di questi giorni hanno portato di nuovo l’attenzione sul carcere di Sollicciano. Il neo presidente del Consiglio comunale fiorentino ha simbolicamente iniziato il suo mandato proprio da lì, mentre il garante regionale dei detenuti ha avviato un digiuno per assicurare, finalmente, l’avvio della seconda cucina interna. Due esempi che sono solo la punta di un lodevole tessuto connettivo sociale e politico che sotto l’effetto dell’emergenza caldo riesce a far parlare dell’”emergenza Sollicciano” sui mezzi di informazione. Il caldo afoso e opprimente fa anche scherzi utili. Sappiamo, poi, che il direttore del carcere ha ripristinato eccezionalmente le aperture delle celle e il libero movimento nelle sezioni del penitenziario. Una decisione giunta a seguito della protesta pacifica del popolo ristretto, che ha deciso di far capire all’universo mondo, o almeno agli addetti ai lavori, che se è legittimo parlare di rieducazione del condannato, quando si è ristretti in celle sovraffollate e a 40 gradi, senza poter avere una bottiglia di acqua fresca per via dei guasti ai frigoriferi, l’esecuzione della pena sfuma in una forma intollerabile di tortura “civile”. Il detenuto, conviene ricordarlo, è una persona consegnata nelle mani dello Stato che si assume la responsabilità della sua integrità fisica e su di lui veglia. I simboli in una città sono importanti, solo dai simboli, infatti, si può capire meglio l’ordito di un’intera comunità. Sollicciano è un carcere, a Firenze tutti sanno che è stato costruito da fantasiosi architetti che vollero modellarlo a forma di giglio, simbolo dell’antica Fiorenza, anche se ai più sembra piuttosto un carciofo. Ha stanze che definire celle è un insulto all’architettura, le docce sono coperte di muffa verde e i cessi s’intasano di continuo; i corridoi, però, sono ricchi di opere del surrealismo con i vetrocementi esplosi. Un tempo il carcere era in città alle Murate, prima ancora alle Stinche e, andando a ritroso nei secoli, al Bargello e nelle sotterranee Burella. Ma sempre dentro le mura e parte tangibile della città. Ora, invece, come a vergognarsene, si trova a Sollicciano, su un’antica palude tra l’Arno e la Greve: lontano, espulso dalla vista di tutti, scollegato dalla vita di Firenze, idealmente messo a riposare sul lato invisibile e inaccessibile della città fragile. Quando l’afa smetterà di mordere, il rientro nella normalità farà tornare l’emergenza Sollicciano una cosa lontana, adeguata solo a chi ne fa punto di osservazione metaforica. Affinché ciò non accada, propongo allora che, passata la stagione canicolare, il sindaco metta in cantiere una giornata di riflessione sugli stati generali dell’esecuzione di pena a Firenze, per creare un ponte tra i tre istituti penitenziari nel nostro territorio comunale e la cittadinanza. Una giornata non solo per far parlare dell’emergenza Sollicciano, ma per costruire, tutti insieme, le soluzioni per un nuovo modello di relazioni tra chi è in esecuzione di pena e chi deve fare il massimo per tutelare la nostra civiltà giuridica e il rispetto per l’integrità della persona. *Associazione Progetto Firenze Bollate (Mi): in carcere un polo per i rifiuti elettronici di Roberta Rampini Il Giorno, 6 luglio 2019 Il concetto di recupero con un doppio significato, ambientale e sociale. Nel primo caso perché vengono recuperate ogni anno fino a 3.000 tonnellate di rifiuti elettronici, nel secondo caso perché si recuperano persone, cioè si dà un’opportunità lavorativa ai detenuti. È questo l’impianto di trattamento dei rifiuti elettrici ed elettronici realizzato all’interno del carcere di Bollate, con un finanziamento di 2 milioni di euro di Regione Lombardia, e gestito dalla società LaboRaee del Gruppo A2a. In funzione dall’aprile 2018, oggi impiega cinque detenuti ma a pieno regime i lavoratori-detenuti saranno 10-15. La struttura occupa una superficie di circa 3.000 metri quadrati, è dotata di un impianto fotovoltaico per l’autoproduzione di energia green. Dopo un anno di sperimentazione ieri mattina è stato presentato ufficialmente: “Si tratta di un progetto virtuoso che unisce l’attenzione all’ambiente e al terzo settore, dimostrando come una proficua collaborazione tra pubblico e privato possa approdare all’inclusione sociale in un’ottica di vera sostenibilità”, dichiara Cosima Buccoliero, direttore aggiunto della casa di reclusione. Anche Pietro Buffa, nuovo direttore del Provveditorato per la Regione Lombardia dell’amministrazione penitenziaria, ha sottolineato la bontà del progetto, mentre l’assessore a Mobilità e Ambiente del Comune di Milano, Marco Granelli, ha evidenziato l’impegno del carcere nella raccolta differenziata. Il trattamento dei rifiuti viene effettuato su due linee di smontaggio, la prima dedicata a tv, monitor e grandi elettrodomestici come lavatrici e lavastoviglie, l’altra per i piccoli prodotti come telefoni cellulari, personal computer e periferiche, apparecchiature audio e video, utensili e giocattoli elettrici. I detenuti smontano i rifiuti e vengono recuperati metalli ferrosi e non ferrosi (rame, ottone, bronzo, stagno), componenti informatiche come schede elettroniche, hard disk, processori e alimentatori. “Questo impianto rappresenta un esempio di inclusione e un’opportunità di sviluppo professionale per le persone coinvolte nel progetto: per questa ragione la componente umana del lavoro vuole essere valorizzata rispetto all’automazione del processo”, ha dichiarato Valerio Camerano, amministratore delegato del Gruppo A2a. “Il recupero della materia, ma ancor di più il recupero delle persone. A partire dall’ottica dell’economia circolare si realizza un progetto che ha come fondamento la valorizzazione dell’uomo, che non è più guardato come scarto, ma come un soggetto che mette in gioco la sua umanità - commenta Raffaele Cattaneo, assessore regionale all’Ambiente. Auspico che questa idea possa ampliarsi ad altri territori e istituti della Regione, al fine di valorizzare le buone pratiche che qui si stanno sperimentando in tema di recupero e riuso delle materie”. Altri partner del progetto sono Eni e Ecodom. Roma: Skype nelle carceri, primo colloquio tra detenuta e familiari a Rebibbia giustizianews24.it, 6 luglio 2019 Primo colloquio effettuato con la piattaforma “Skype for Business” nella Casa Circondariale femminile di Roma Rebibbia “Germana Stefanini”. Si è svolto il 3 luglio scorso, dalle ore 13:15 alle ore 14:15 e a beneficiarne è stata una detenuta italiana che per un’ora ha potuto videochiamare i propri congiunti residenti a Napoli. Lo rende noto il Ministero della giustizia. “Il colloquio si è svolto nei luoghi e con le modalità stabilite dalla circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del gennaio scorso. Tutto è filato liscio sotto ogni aspetto e non si sono verificate criticità legate ad anomalie tecniche o di collegamento. Nei prossimi giorni si sperimenteranno i primi colloqui con familiari residenti all’estero, attraverso videochiamate in Europa e intercontinentali”, conclude la nota. Padova: dieci detenuti fuori dal carcere per suonare e cantare in coro di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 6 luglio 2019 “Questo posto è tanto bello ma dopo andiamo a fare una passeggiata fuori, perché qui mi ricorda tanto il carcere”. E non ha torto il detenuto K., giovane ma nei guai fin da ragazzino: niente di clamoroso ma con il cumulo delle pene si sta facendo un bel po’ di anni. È uno dei dieci “ragazzi” che martedì sera, dotati di permesso del magistrato di sorveglianza, sono usciti dal carcere Due Palazzi per partecipare al concerto organizzato dall’associazione Coristi per Caso nel cortile del Castello Carraresi, appunto carcere fino a 30 anni fa. Non usciva da quasi nove anni, il giovane K., che ha voluto essere accompagnato in tabaccheria ad acquistare cartoline e biglietti da spedire ai suoi compagni del carcere, che avrebbe rivisto poche ore dopo. Vedersi arrivare posta in cella è una gioia, e lui lo sa bene. Lui che, senza famiglia, è arrivato a Padova da ragazzino, scatenato e incontrollabile. Prima la comunità per minori non accompagnati e poi i guai, il carcere. Appena fuori dal Due Palazzi una cosa voleva fare, una sola, con insistenza, telefonare a Tina Ceccarelli dell’associazione Famiglie contro la droga, che per qualche anno l’ha ospitato in comunità. “Le voglio bene, mi ha aiutato tanto e io le ho combinato tanti di quei casini. Ma le ho sempre detto la verità e lei lo sapeva: hai fato questo, è vero? Sì, l’ho fatto. A lei dicevo tutto”. Accordata la telefonata, lunghi minuti in cui condensare anni di vita e di carcere, in cui esprimere gratitudine e tanto affetto. Dieci detenuti hanno avuto il permesso di uscire dal carcere alle 17 e rientrare alle 23 per partecipare al “loro concerto” al Castello. Quello del coro e del laboratorio musicale del Due Palazzi. Alle 18 le prove, un gran caldo, tutti sul palco, già emozionati, la voce potente di A. in una canzone con testo georgiano e musica araba, poi tutti in coro (assieme ai coristi volontari che una volta alla settimana vanno al Due Palazzi a fare le prove di quello che è ufficialmente diventato un vero coro), poi di nuovo il solista S. con le modulazioni vocali della musica montenegrina. Poi ancora in coro, diretti da Giulia Prete, a cantare canzoni popolari dal mondo. Non sono potuti uscire tutti i componenti del coro Due Palazzi e nemmeno del laboratorio musicale che da quest’anno impegna una ventina di detenuti nel rapporto a tu per tu con uno strumento. Manco a dirlo i magrebini e gli africani pestano sui tamburi come non ci fosse un domani. A tirare le fila, senza impazzire, tre musico-terapeuti della cooperativa Universi musicale, Daniele, Wilson ed Elena, tre eroi a tirar fuori musica da quelle sedute iniziali in cui pareva di essere nel manicomio dei suoni. Soddisfatto il direttore del carcere, Claudio Mazzeo, che si era incaponito nel voler il concerto e si è fatto in quattro per facilitare le cose. Un’energia speciale si è involata da quel palco e sono piovuti calorosi applausi. Livorno: tre detenuti realizzano tre violini di Giulia Bellaveglia quilivorno.it, 6 luglio 2019 Ottantatré detenuti partecipano a quattro laboratori musicali all’interno del carcere e tre di loro realizzano a mano tre violini grazie all’aiuto del liutaio Giovanni Pasquali. Pomeriggio speciale alle Sughere quello di venerdì 5 luglio alle 14 negli spazi della struttura. Ben ottantatré detenuti in regime di massima sicurezza hanno preso parte ai quattro laboratori musicali realizzati all’interno del carcere grazie al progetto Musica, arte, scienza finanziato dal Miur. “Quando sono arrivato ho trovato questo splendido progetto già avviato - ha spiegato Carlo Mazzerbo, direttore della casa circondariale - Ragion per cui non ho potuto far altro che supportarlo”. In particolare, tre delle ottantatré persone hanno realizzato a mano grazie all’aiuto del liutaio Giovanni Pasquali tre violini, uno dei quali sarà suonato al concerto in programma dal Duo Baldo composto dai musicisti Aldo Gentileschi e Brad Repp. “L’idea della costruzione dei violini è partita da una serie di modellini in legno realizzati dai detenuti in passato” ha affermato Marta Lotti, musicista e referente del progetto. Presenti alla conferenza di presentazione dell’iniziativa Girolamo Deraco, compositore del laboratorio, Marco Garghella, commissario coordinatore, Alfredo Villano, responsabile reparto alta sicurezza e Salvatore Giffoni, viceispettore. “Grazie a questo progetto è nata una logica di lavoro comune - ha concluso Giovanni De Peppo, garante dei detenuti per il Comune - Le carceri fanno sicurezza e la sicurezza dipende anche dal sentirsi parte di una comunità per provare ad uscire da queste strutture come una persona migliore”. Pescara: nove detenuti accompagnano disabili a pellegrinaggio Unitalsi a Loreto agensir.it, 6 luglio 2019 Si chiama “Oltre le barriere” il progetto che prenderà il via oggi 6 luglio e che porterà nove ragazzi, detenuti nella Casa circondariale di Pescara, in pellegrinaggio al santuario di Loreto. L’iniziativa è promossa dalla sottosezione di Pescara dell’Unitalsi nell’ambito del pellegrinaggio regionale. I detenuti saranno affiancati da due esterni e svolgeranno attività di servizio al fianco degli altri volontari dell’associazione. Sono ormai quattro anni che la sottosezione dell’Unitalsi di Pescara ha avviato la collaborazione con il carcere, prima portando “pellegrina” la Madonna di Lourdes e l’anno successivo la Madonna di Fatima. “Dal 2017 è stato realizzato quello che era un forte desiderio: coinvolgere i detenuti al servizio all’altro. Ciò è stato possibile attraverso l’amicizia con suor Livia Ciaramella, responsabile dei percorsi rieducativi all’interno dell’istituto di pena”, spiega una nota dell’Unitalsi. I nove ragazzi, individuati in base al loro percorso e alla loro storia giudiziaria, “hanno risposto con entusiasmo. Il mese scorso, i giovani sono stati coinvolti in tre momenti d’incontro e formazione: il primo con il focus sull’associazione e Lourdes, il 10 giugno; il secondo su Loreto, il 17 giugno; e il terzo sul servizio di volontariato, il 24 giugno, con particolare attenzione al refettorio e all’esterno nel contesto delle celebrazioni del pellegrinaggio, i servizi in cui saranno impiegati i detenuti”. “Non è la prima volta che coinvolgiamo i detenuti nelle nostre iniziative - spiega Federica Bucci, presidente della sottosezione Pescara -: dall’anno scorso partecipano anche a eventi come la Giornata nazionale, che accoglie i volontari segnalati dalle educatrici o in affido ai servizi sociali, che sono a fine pena. Siamo molto grati a Franco Pettinelli, l’ex-direttore del carcere, grazie al quale tutto questo è stato possibile, e salutiamo con gioia la nuova direttrice, Lucia Di Feliciantonio. Siamo certi che in futuro ci saranno tante occasioni per migliorare la nostra collaborazione con nuove modalità e proposte”. “Andare oltre le barriere significa superare quelle del carcere, quelle del pregiudizio, quelle causate dalla malattia e dalla disabilità - conclude Bucci -. I detenuti hanno l’occasione di avere un rapporto diretto con la società, di uscire dalle loro celle e andare incontro ai loro fratelli malati e con disabilità per aiutarli a vivere l’esperienza del pellegrinaggio. Questo è lo scopo del progetto, e il motivo per cui è così importante per noi”. Torino: “Pagina bianca”, performance teatrale nel carcere Lorusso e Cutugno torinoggi.it, 6 luglio 2019 Organizza l’associazione La Brezza, doppio appuntamento mercoledì 24 e giovedì 25 luglio. Prenotazioni obbligatorie entro lunedì 8. “Pagina bianca” è il titolo della performance teatrale che l’associazione La Brezza organizza presso il teatro della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” (via Maria Adelaide 35 a Torino), con un doppio appuntamento fissato per mercoledì 24 e giovedì 25 luglio, sempre alle ore 20.30. In scena Aldo, Alice, Chanel, Francesca, Ivo, Ghofran, Lidia, Lucia, Luigi, Mario, Paola, Raffaele, Stefan e Tarik, regia di Stefania Rosso, dipinto di Mirella Ribero. Per chi lo desidera c’è la possibilità di prendere un aperitivo a cura della cooperativa Liberamensa, al costo di 10 euro, alle ore 18.30. Per tutti gli altri ingresso gratuito dalle ore 19.30 alle 20.15. Si raccomanda di presentarsi davanti alla Casa Circondariale con un documento d’identità valido, senza borse e cellulari, oppure muniti di lucchetto. Prenotazione obbligatoria entro lunedì 8 luglio inviando nome, cognome, luogo e data di nascita, codice fiscale, alla mail labrezzatorino@gmail.com. La Brezza è un’associazione di volontariato, che ha la finalità di svolgere attività di accoglienza e di ascolto a favore delle persone detenute e di promuovere interventi finalizzati alla sensibilizzazione del territorio nei confronti del mondo carcerario per far sì che il grande divario esistente tra la società e il carcere possa essere, sia pure in parte, attenuato. Gorizia: “Lo spazio della pena”, l’arte diviene strumento per la riparazione di Dorino Fabris voceisontina.eu, 6 luglio 2019 Si è conclusa la seconda edizione del Festival di Teatro ed Arte: quattro i luoghi che hanno ospitato le iniziative permettendo il coinvolgimento di realtà diverse su un tema scomodo e dai più percepito come estraneo. Con la mostra fotografica “Lo spazio della pena”, allestita presso il Kinemax di Gorizia, si è concluso l’evento “Se io fossi Caino”, festival di Teatro e Arte del carcere di Gorizia, giunto alla seconda edizione, incentrato quest’anno sul tema dell’”Arte per la riparazione”. Sviluppato in quattro giornate, il festival ha toccato quattro luoghi diversi, quasi a voler coinvolgere diverse realtà su un tema scomodo, riservato agli addetti ai lavori e, dai più, percepito come estraneo o attuale solamente sull’onda di emozioni forti suscitate da notizie di cronaca raccapriccianti. In tali occasioni la “normalità” si esprime con frasi del tipo “Chiuderli dentro e buttar via la chiave”; oppure, quando si affrontano i problemi delle e nelle carceri: “Cosa pretendono questi, di essere in villeggiatura?”. E i responsabili della Cosa pubblica cavalcano spesso l’onda di questo comune sentire ricercando il consenso degli elettori con proposte di inasprimento delle pene, come fosse questo la panacea di tutti i mali e l’unico mezzo di prevenzione, la paura. In questo clima di “normalità”, l’immersione durante i quattro giorni del festival “Se io fossi Caino” nella realtà del carcere vista da angolature diverse, l’ascolto di esperienze di tutt’altro tenore rispetto al sentire dominante, proposte da chi su questo fronte è impegnato, ha offerto il respiro di un vento profetico. Certo non è popolare parlare troppo del carcere, “con tutti i problemi che vivono le persone “normali” nel nostro Paese”, come peraltro non è popolare affrontare il dramma epocale degli immigrati, “con tutti i problemi che devono affrontare già “gli italiani”“. È molto più semplice e immediato ottenere il consenso concentrando l’attenzione contro qualcuno, contro il “diverso”, sia esso il detenuto, il rifugiato... E così non si affronta realmente nessun problema, con l’alibi che prima c’è sempre qualcosa o qualcun altro, che dovrebbe avere la precedenza, a cui pensare... Per fortuna c’è chi si pone con serietà, competenza, professionalità e umanità davanti a queste problematiche, con uno sguardo aperto e lungimirante. Purtroppo poco se ne parla, perché non fa notizia, non ripaga, va controcorrente. Quattro i luoghi coinvolti nel festival: la Sala conferenze della Fondazione Ca.Ri.Go., il carcere di Gorizia, la Sala Bergamas a Gradisca, il Kinemax a Gorizia. Del Convegno del primo giorno, sul tema della giustizia riparativa, è già stato ampiamente riferito su Voce Isontina la settimana scorsa. Lo spettacolo in carcere a Gorizia - Il secondo giorno di “Se io fossi Caino” ci fa entrare all’interno del carcere di Gorizia. Al saluto del Direttore Alberto Quagliotto segue la presentazione dello spettacolo da parte di Elisa Menon, fondatrice e direttrice di Fierascena, Compagnia di Teatro Sociale. Anzi la presentazione riguarda tutto il progetto che ha coinvolto, quest’anno, i detenuti del carcere di Trieste e che va ben oltre l’allestimento dello spettacolo, richiedendo ai partecipanti uno sforzo di presenza, di partecipazione, di riflessione, un impegno nella fatica di esporsi, di mettersi in gioco, un coinvolgimento nella ricerca, nella preparazione. La performance si propone come la punta dell’iceberg di questo lavoro protrattosi per alcuni mesi in carcere, la conclusione, l’opportunità di condividere la fatica con altri, di mostrarsi ad altri, di coinvolgere; l’occasione per abbattere un muro, per guardarsi negli occhi, per incontrarsi. E lo spettacolo “Soma - la parte corporea dell’uomo” riesce davvero in tutto questo. L’attesa iniziale, la curiosità per l’evento inusuale lasciano presto il posto al coinvolgimento. Nel susseguirsi delle scene gli attori si trasformano, vanno via via impadronendosi della scena, conquistano il pubblico, interagiscono con le persone sedute di fronte a loro, si inseriscono tra il pubblico, i volti si distendono, si aprono, mostrano di sentirsi accolti... Il loro primo ingresso nel cortile-palcoscenico, schierati contro l’alto muro grigio ricamato di finestre con grate e reti, evocava le immagini dei confronti all’americana visti in tanti film, individui sospetti e anonimi. Ma una spolverata di trucco sparsa con abbondanza ed entusiasmo dalla regista sui loro volti regala nuova vita a questi sguardi spenti e dopo un po’ anche il pubblico si sente trasportare oltre i muri della prigione, lo scenario grigio ricamato di sbarre evapora, sfuma. Sei attratto a seguire i volti e i gesti dei protagonisti, sei coinvolto dai loro sguardi, dai loro sorrisi, dai semplici oggetti di scena di uso quotidiano che prendono vita. Ti trascina la complicità con cui lavorano, la precisione dei loro movimenti, la coreografia misurata, la delicatezza dei loro gesti. Sei attento a cogliere il peso di quelle poche frasi che di tanto in tanto rompono il silenzio e ti entrano nell’animo: “Il dolore degli altri non mi sta in mano, e neppure in gola, più che altro sta nel petto, nella sua memoria.”... “Vivo di ciò che non ho, a volte di ciò che non è”. Davanti a qualche quadro non è possibile trattenere il groppo in gola, perché ognuno si sente chiamato in causa. Suggestiva la scena di Pinocchio nel paese dei balocchi; gli asini, tra il pubblico, animali da “soma”, col rimando al titolo dello spettacolo “Soma”, con tutti i significati che la parola porta con sé. E alla fine un applauso liberatorio, lungo, prolungatissimo, caloroso. E loro, Samir, Remus, Elvis, Marco, Samuele, Miriam, Stefania ed Elisa si divertono a regalarci ancora qualche posa, qualche simpatico quadretto. I loro occhi riflettono una luce particolare. Hanno lavorato, faticato e ora si rendono conto di aver abbattuto un muro. Colgono la sincerità e il calore di quegli applausi che premiano il loro lavoro, la loro ricerca, il coraggio di esporsi, di mettersi in gioco. Pochi minuti ancora nella “bolla di libertà”, perché il furgone li attende per riportarli nel carcere di Trieste. Brava Elisa, brave Miriam, Stefania e Giulia. Complimenti Fierascena. L’arte, la bellezza ancora una volta hanno compiuto un miracolo. Il teatro di burattini - “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” è stato il tema del teatro di burattini proposto il terzo giorno a Gradisca da Gigio Brunello, autore di teatro, attore e burattinaio. Un improbabile dialogo tra Gesù e Pinocchio, - entrambi figli di falegname, entrambi dietro le sbarre, entrambi non vedono l’ora di uscire, - sul tema della libertà e della prigionia. Raccontano il camminare liberi, la brutalità dell’improvvisa, inspiegabile reclusione. Non si arrendono neppure quando i chiavistelli stridono e una voce chiama verso un destino prevedibilmente tragico. Una riflessione struggente, la cui eco ritorna ancora alla mente e al cuore anche dopo che le luci si sono spente. Allo spettacolo è seguito un interessante dialogo tra don Paolo Zuttion e il burattinaio Gigio. Il percorso fotografico - E infine, il quarto giorno del festival, Elisa, Miriam e Stefania hanno accompagnato i visitatori nel percorso segnato dalle fotografie scattate da Marco Fabris nella Casa circondariale di Trieste, per aiutarli a cogliere il senso di quegli scatti illustranti luoghi e momenti della quotidianità alienante di un detenuto: dalle sbarre di un cancello, all’angolo del caffè, dalla stanza della lavatrice, al passaggio del piatto attraverso le sbarre, dalla cucina all’angolo doccia... Luoghi contrassegnati dall’assenza di bellezza. E lungo il percorso un interminabile e monotono elenco di parole, di norme, di passi che scandiscono meticolosamente le ore delle interminabili giornate vissute in prigione. La mostra si proponeva come azione di sensibilizzazione sulla necessità che un detenuto attraversa di adattarsi alla vita in carcere e, di conseguenza, di riadattarsi alla vita fuori di essa alla fine della reclusione. Sembra, e ce lo auguriamo, che il festival proporrà altre edizione, a scadenza biennale. Abbiamo tutti bisogno di bellezza e di profezia. Il lessico al contrario dei sovranisti di Stefano Bartezzaghi La Repubblica, 6 luglio 2019 Dal salvataggio di vite umane come reato alla democrazia nemica della libertà. Così Orbán e soci cambiano il senso delle parole. “Oggi sono i democratici liberali, i veri nemici della libertà. Essendo io un sostenitore della libertà devo essere illiberale”, ha detto Viktor Orbán in un’intervista ed è parso voler fornire materia ulteriore al dibattito sulla “correttezza”, di recente animato da Gustavo Zagrebelsky e Michele Serra su Repubblica. Il contenuto ideologico delle parole del premier ungherese si esaurisce nella mera dichiarazione di illiberalismo, che peraltro è del tutto irrilevante visto che non aggiunge nulla all’evidenza delle politiche di Orbán. L’uso strumentale della nozione di “libertà” e derivati (“liberalismo”, “liberismo”, “libertario”) è inoltre tipico della destra e ben lo sappiamo nell’Italia che alla libertà ha dedicato case e poli. È la forma logica dell’espressione a rendere invece significativa la dichiarazione. Il dibattito politico trasgredisce comunemente diversi tipi di correttezza. Gli insulti sessisti alla comandante della Sea Watch 3 sono stati per esempio scorretti dal punto di vista “politico” e morale e anche dal punto di vista della lingua. Orbán ha invece ostentato la volontà di essere scorretto proprio sul piano logico. Dire che chi sostiene la libertà deve essere illiberale è come dire che chi tiene alla giustizia deve essere criminale (e chi tiene allo sport deve essere sedentario, chi tiene all’ambiente deve inquinare, chi tiene alla cultura deve essere ignorante, eccetera). Ragionamenti clowneschi, da far ridere i bambini. Si tratta di patenti violazioni della legge fondamentale della logica (se “a” è vero, allora “non a” deve essere falso), ma è altrettanto chiaro che questa scorrettezza fa ancora meno scandalo di un ormai ordinario vaffanculo. “La logica porta dappertutto, basta uscirne”, diceva l’umorista Alphonse Allais: la violazione della logica formale è in realtà il presupposto di qualsiasi discorso persuasivo, che per sua natura risponde non a una logica, ma a una retorica. A proposito di retorica, la politica italiana si è spopolata improvvisamente di quelle metafore zoologiche che l’hanno resa un pittoresco bestiario dai tempi di Amintore Fanfani (e dei “cavalli di razza”) a quelli di Pier Luigi Bersani (e del “tacchino sul tetto” con la “mucca in corridoio”). Oggi rimane la “Bestia” salviniana, che vive però a livello del suolo, o anche sotto. Il linguaggio non prende più il volo e le figure del discorso politico sono nude asserzioni, tutte seguite da un almeno ideale punto esclamativo. Fra queste spiccano casomai i paradossi come quello orbaniano. Spiccano perché fin dal suo etimo il “paradosso” si dovrebbe opporre alla “dóxa”, cioè all’opinione comune. Salvini non si richiama ossessivamente al “buon senso”? Come possono allora le destre europee sovraniste usare come armi efficaci sia il buon senso sia il paradosso? La trasgressione che diventa regola; il coro delle voci che cantano di cantare fuori dal coro; la sicurezza che si persegue tramite l’aumento delle armi in circolazione e l’istigazione a usarle; il salvataggio di vite umane che diventa reato; il vittimismo come discorso del potere (secondo l’annoso magistero berlusconiano): sono tutte articolazioni omologhe all’illiberalismo dei sostenitori della libertà. Anche Orbán presenta la sua assurdità come necessitata: come “non a” _deve_ essere falso (se è vero “a”), così chi ama la libertà _deve_ essere illiberale. Una volta in più impariamo che ad apparire vera oggi è la conclusione che consegue non dalla logica ma da uno svelamento. L’apparenza inganna, dice il discorso di destra; la retorica abbindola, la logica vincola e strangola, il paradosso è il vero buon senso. Se la Terra può essere presa come piatta è perché è stata detta sferica da troppo tempo. E del resto da bambini quanto è stato difficile imparare che fosse sferica? Il paradosso che anziché smentirlo si allea con il buon senso è il paradosso che rovescia conquiste faticose, acquisizioni dispendiose della specie e riconsegna i suoi individui, uno per uno, a luoghi comuni già superati, credenze seppellite, background ancestrali: paura dell’uomo nero; segregazione del diverso; regnante reclusione casalinga della donna; responsabilità di poteri occulti per ogni malanno; difesa armata di spazi recintati; giustizia sommaria ed esemplare su soggetti individuati per stereotipo; indebitamento per riassesto dei bilanci; meritocrazia dei senza curriculum; innocenza degli inerti. Oltre al conformismo del vaffanculo, indicato giustamente da Serra, c’è il conformismo del paradosso. L’elenco delle sue manifestazioni si allunga, in attesa che qualcuno lo interrompa. Migranti. Il Garante: “la richiesta di asilo possibile anche dalle navi Ong” di Angelo Scarano Il Giornale, 6 luglio 2019 Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, critica il dl Sicurezza bis e apre la strada a nuove richieste di asilo. Palma nel suo “parere” in merito al dl Sicurezza Bis ha sostenuto la tesi che i migranti a bordo delle navi “bloccate” possono chiedere l’asilo. Palma, nel corso della sua audizione alle Commissioni Riunite Affari costituzionali e Giustizia alla Camera, ha messo nel mirino il decreto varato dal governo. Di fatto, secondo il Garante, il blocco per le navi ong imposto dal decreto non può “il diritto costituzionalmente sancito di cercare asilo (o protezione internazionale) nonché il diritto fondamentale a non subire - o a non essere espulsi verso un Paese dove si rischia di subire - torture o trattamenti o punizioni inumani o degradanti”. Così il Garante apre all’ipotesi di richieste d’asilo anche da parte dei migranti che si trovano o su una nave ong oppure dai valichi di frontiera. L’analisi del Garante è piuttosto precisa e di fatto mette in discussione l’ossatura del dl Sicurezza bis. Pur prendendo atto che l’articolo 1 condiziona la “facoltà di porre il divieto di accesso alle acque territoriali al rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”, il Garante nazionale raccomanda quindi che nel testo sia resa esplicita l’assoluta tutela dei diritti e che venga inserito un richiamo all’articolo 10 della Costituzione. Poi arriva un assist per Carola Rackete. Il Garante infatti sottolinea la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare che “ammette il divieto di ingresso nelle acque territoriali solo nel caso di passaggio “non inoffensivo” dell’imbarcazione straniera, il Garante nazionale ritiene “non sia possibile interpretare come ‘non inoffensiva’ la situazione di chi ha adempiuto all’obbligo internazionale e nazionale di prestare soccorso in mare. Per questo chiede di escludere la possibilità di legittimare azioni interdittive di ingresso di navi che stiano svolgendo attività di salvataggio”. Il comunicato del Garante dei detenuti Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha reso il proprio parere - obbligatorio per gli atti legislativi riguardanti i propri ambiti di competenza, secondo quanto previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione ONU su tortura e trattamenti inumani e degradanti - sul Decreto legge 53/2019 recante “Disposizione urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica” nel corso di un’audizione presso le Commissioni Riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera. Il primo articolo del Decreto riguarda la possibilità del Ministero dell’Interno di limitare o vietare l’ingresso nelle acque territoriali di imbarcazioni per motivi di ordine e sicurezza o in caso di violazione della legislazione vigente sull’immigrazione. In proposito, il Garante nazionale nota che tale previsione non può intendersi come possibilità di ledere il diritto costituzionalmente sancito di cercare asilo (o protezione internazionale) nonché il diritto fondamentale a non subire - o a non essere espulsi verso un Paese dove si rischia di subire - torture o trattamenti o punizioni inumani o degradanti. Così come presso tutti i valichi di frontiera è possibile presentare domanda di asilo per i cittadini stranieri, anche alla frontiera marittima - quale è il limite delle acque territoriali- deve essere garantito il rispetto di questo diritto fondamentale. Pur prendendo atto che l’articolo 1 condiziona la facoltà di porre il divieto di accesso alle acque territoriali al rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, il Garante nazionale raccomanda quindi che nel testo sia resa esplicita l’assoluta tutela dei diritti sopra ricordati e che venga inserito un richiamo all’articolo 10 della Costituzione. Inoltre, posto che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare ammette il divieto di ingresso nelle acque territoriali solo nel caso di passaggio “non inoffensivo” dell’imbarcazione straniera, il Garante nazionale ritiene non sia possibile interpretare come “non inoffensiva” la situazione di chi ha adempiuto all’obbligo internazionale e nazionale di prestare soccorso in mare. Per questo chiede di escludere la possibilità di legittimare azioni interdittive di ingresso di navi che stiano svolgendo attività di salvataggio. Relativamente all’articolo 12 del Decreto, che concerne “Fondi di premialità per le politiche di rimpatrio”, il Garante nazionale nota che la norma è formulata in termini tali da lasciare irrisolta la questione se i beneficiari dei fondi siano gli Stati che garantiscono cooperazione nella riammissione oppure i singoli migranti che accettano il rimpatrio volontario assistito (o entrambi). Nel caso i destinatari fossero i rimpatriandi in via volontaria, il Garante nazionale valuterebbe in modo molto positivo tale previsione, in linea con quanto già altre volte espresso. Il Garante nazionale coglie poi l’occasione per richiamare l’opportunità che siano sempre le Camere, secondo quanto previsto dall’articolo 80 della Costituzione, a ratificare gli accordi di riammissione con i Paesi di rimpatrio, in quanto tali accordi sono da ritenersi veri e propri trattati di natura politica di ambito internazionale. Infine, circa le norme di natura penale contenute nel testo del Decreto, il Garante nazionale esprime la propria perplessità, ribadendo che il codice penale dovrebbe essere oggetto di particolare protezione rispetto a possibili interventi urgenti dettati da emergenze o emotività, che spesso rischiano di modificarne la complessiva costruzione logica. Migranti. Renzi e il dissenso (tardivo) con Minniti solo per mettere nei guai Zingaretti di Daniela Preziosi Il Manifesto, 6 luglio 2019 L’ex leader ha vuoti di memoria. Dimentica che fu proprio lui a chiudere Mare Nostrum, la missione voluta da Enrico Letta che salvò 100mila vite. Al suo posto chiese e ottenne dalla Ue l’operazione Triton di Frontex per la “difesa” delle frontiere. Il “successo di Salvini” inizia “quando si esaspera il tema arrivi dal Mediterraneo e allo stesso tempo si discute lo Ius soli senza avere il coraggio di mettere la fiducia come avevamo fatto sulle unioni civili”. Più precisamente quando “nel funesto 2017 abbiamo considerato qualche decina di barche che arrivava in un paese di 60 milioni di abitanti, una minaccia alla democrazia” (la citazione è di Marco Minniti, allora ministro dell’interno). In una lettera al quotidiano Repubblica Matteo Renzi attacca l’operato del suo successore Paolo Gentiloni e del ministro Minniti sul delicato tema dell’immigrazione. L’affondo è troppo sfacciato, la ricostruzione troppo lacunosa perché il cauto Nicola Zingaretti possa non replicare. “Renzi era il segretario e rieletto con grande consenso dalle primarie Pd. Faccio fatica a credere che questi temi gli siano sfuggiti di mano”, dice, quindi la nuova posizione di Renzi va interpretata “come una severa autocritica”. A Zingaretti non sfugge il tentativo di soffiare sulle contraddizioni che attraversano la nuova maggioranza Pd. Per questo chiede al senatore di Scandicci di non “vivere nel passato”, come in “un eterno regolamento dei conti che ci isola dalla società”. Nella richiesta di guardare avanti c’è però un’oggettiva difficoltà dell’attuale segreteria. Che da una parte rivendica la discontinuità, dall’altra non può sconfessare i suoi grandi elettori Gentiloni e Minniti. L’ex presidente del consiglio, oggi presidente Pd, è considerato persino in odore di candidatura alle future primarie da premier. Le parole di Renzi avrebbero il pregio di aprire una discussione di merito sulla linea del nuovo Pd se non fosse così scoperta la strumentalità della tardiva dissociazione. In quel “funesto 2017” Renzi era un fan di Minniti. In rete possono essere recuperate tutte le dichiarazioni di adesione alla linea dura dell’ex ministro che aprì la strada alla messa sotto accusa dell’operato delle Ong nel salvataggio dei naufraghi, a partire dal Codice di autoregolamentazione che molte organizzazioni firmarono solo per non dover lasciare il mare. Tanto più che Renzi, da premier, chiese e ottenne dall’Europa la chiusura dell’operazione Mare Nostrum, una missione di salvataggio dei migranti voluta da Enrico Letta per sostituirla con il programma Triton di Frontex che aveva la filosofia opposta del controllo delle frontiere Ue. Letta non commenta, ma chi gli è vicino ricorda che Mare Nostrum salvò almeno 100mila vite, secondo le stime di diversi organismi internazionali. Che quella di Renzi sia un cambio di opinione lo riconosce anche Matteo Orfini, primo dem a esprimere dissenso sull’operato di Minniti (che arrivò a ipotizzare la chiusura dei porti, nell’estate del 2017, stoppato dal collega Graziano Delrio). Oggi Orfini plaude al ripensamento: “Sono felice che questa riflessione sia più condivisa anche da chi allora non lo disse”, in quel passaggio “ci siamo spostati sulla lettura del fenomeno di Salvini e della destra”, “L’idea che l’immigrazione mettesse a rischio la democrazia era sbagliata”. Ma Zingaretti non la pensa così. E se i renzianissimi difendono la svolta di Renzi, il resto del gruppo dirigente esclude una rilettura critica del passato. Lo si vedrà oggi stesso a Montecatini, dove è in corso l’assemblea di Base riformista, la corrente guidata da Lorenzo Guerini. Che del resto voleva Minniti alla guida del partito. Migranti. Salvini sonda Slovenia e Croazia poi frena: il muro ultima ipotesi di Claudio Bozza Corriere della Sera, 6 luglio 2019 Più che una brusca frenata è una virata, netta, dettata dalla realpolitik. Decine di telecamere sono puntate su Matteo Salvini, perché tutti si attendono l’affondo per la costruzione di un “muro” anti-migranti al confine con la Slovenia, evocato e rilanciato per giorni dal governatore leghista del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga. Invece il ministro dell’Interno, mentre nel Mediterraneo si sta giocando l’ennesimo braccio di ferro, stavolta getta acqua sul fuoco. Anche perché, poco prima di parlare ai giornalisti, il ministro ha appena riattaccato il telefono con Boštjan Poklukar e Davor Bozinovi, i suoi omologhi di Slovenia e Croazia. Con entrambi viene deciso di rafforzare la collaborazione, con pattugliamenti congiunti ai confini. Un confronto in un “clima buono”, filtra dal Viminale, inutile quindi inasprirlo evocando muri. E così Salvini, già impegnato in una complicatissima partita “via mare”, sceglie di non aprire un ulteriore fronte “via terra”. La barriera di 232 chilometri, declinazione di un messaggio trumpiano, può quindi attendere. “Ma non escludiamo nulla. Ci siamo dati qualche settimana di tempo: faremo un bilancio sui risultati di questi controlli e poi valuteremo”, spiega Salvini. Che menziona la parola muro “solo come ultima ipotesi”, ma nel caso in cui non venisse interrotto il flusso di clandestini in entrata dal Nord-Est evoca la “sospensione di Schengen”. Il flusso di migrazione a cui si riferisce il capo della Lega è la cosiddetta “rotta balcanica”, alternativa terrestre ai tentativi drammatici di entrare in Europa via mare. E adesso che quest’ultima porta è stata chiusa a doppia mandata dal governo italiano, lungo la dorsale che da Pakistan e Afghanistan porta fino ad Austria e Germania, i numeri dei clandestini sono tornati a salire (652 quelli individuati nei primi cinque mesi del 2019). Salvini sa bene che solo una minima parte di questi migranti punta all’Italia, ma è altrettanto consapevole che la tutela del confine a Nord-Est è politicamente e mediaticamente strategico. “Prevenire è meglio che curare”, dice ancora Salvini annunciando l’arrivo di “40 uomini in più tra polizia e carabinieri”. In piazza dell’Unità d’Italia ci sono un centinaio di sostenitori del leader leghista e qualche contestatore. Il ministro è arrivato a Trieste al fianco del fedelissimo governatore Fedriga per siglare un importante accordo commerciale con l’Ungheria a trazione sovranista, che difficilmente si sarebbe concretizzato con i precedenti assetti politici a Roma ed in Friuli Venezia Giulia. Il governo guidato da Viktor Orbán si è di fatto comprato una porta d’accesso sull’Adriatico: 31 milioni di euro uno spazio di 32 ettari sulla banchina del porto di Trieste. “Un obiettivo molto importante - spiega il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjarto - l’Italia è il nostro quinto partner commerciale”. E a confermare che il braccio di ferro sia quasi unicamente quello “via mare”, poco dopo si apprende della dura lettera inviata da Salvini al suo omologo tedesco Horst Seehofer: “L’Italia, pur continuando a rispettare la normativa sovranazionale e a difendere responsabilmente le frontiere europee a beneficio di tutti gli Stati membri dell’Ue, non intende più essere l’unico hotspot dell’Europa”, afferma il Viminale chiedendo l’intervento della Germania per risolvere la situazione della nave Alan Kurdi. Libia. I migranti nella prigione di Zawiya: “siamo scudi umani, salvateci” di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 6 luglio 2019 I prigionieri terrorizzati dopo la strage di Tajoura. L’inviato Cochetel dell’Unhcr denuncia la cecità dell’Europa e invoca canali alternativi ai barconi perché possano fuggire dalla guerra. “Siamo scudi umani” “Siamo noi le vittime della guerra”, “Salvateci, grazie Carola, ma dov’è l’Unhcr?”. Sono seduti per terra, accucciati a centinaia all’ombra di un muro, uno vicino all’altro - donne velate, uomini e bambini, tutti neri, con sguardi spauriti, spenti - tengono in silenzio questi striscioni fatti di piccoli teli che si agitano a una lieve brezza. È la protesta dei prigionieri del centro di detenzione di Zawiya sulla costa della Tripolitania, andata in scena la sera di giovedì e rittwittata ieri in un video dal sito Exodus Fuga dalla Libia che raccoglie le voci e i racconti dei migranti. Alcuni sono stati trasferiti lì dopo l’evacuazione del centro di Qasr Bin Ghashir, chiuso due mesi fa dopo il raid di un gruppo di miliziani all’interno. La prigione di Zawiya si trova in un luogo meno esposto, al momento, rispetto al centro di detenzione di Tajoura finito sotto le bombe tre giorni fa e reduce della più sanguinosa strage di civili dell’inizio del nuovo conflitto. Ma le condizioni di vita all’interno sono peggiorate ulteriormente negli ultimi giorni e il centro di Tajora bersagliato dai raid sembra un brutto precedente. Il centro di Zawiya è gestito da una milizia con a capo un comandante jihadista chiamato Osama, da tempo dedito al traffico di esseri umani in combutta con la Guardia costiera di Serraj e ha permesso la protesta perché - come spiega il regista Michelangelo Severgnini di Exodus dal confine tunisino dove sta realizzando un film-documentario - “evidentemente non riesce più a gestire il centro, sono troppi, e poi probabilmente cerca di accreditarsi verso Haftar, sa che se arrivano a Zawiya le truppe del generale della Cirenaica, il primo che fanno fuori è lui”. “Prima di pubblicare questo video - racconta Severgnini - ho chiesto a loro se non temevano rappresaglie. “No, Osama era davanti a noi”, mi hanno risposto, “era lui che ci filmava”, hanno aggiunto”. L’Unhcr in verità ha battuto un colpo. L’inviato speciale per il Mediterraneo dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Vinchent Cochetel dalla Tunisia ha lanciato ieri un forte denuncia dopo l’affondamento di un gommone proveniente dal porto libico di Zuwara e affondato ieri a largo di Zarzis in acque tunisine (80 morti affogati e dei 4 naufraghi recuperati, altri due morti in ospedale). “Nessuno mette a repentaglio la propria vita e quella dei familiari in questi viaggi disperati a meno che non abbia un’altra scelta - ha detto Cochetel - Dobbiamo fornire delle alternative significative che impediscano a queste persone di salire sulle barche”. Cochetel accusa l’Europa di “cecità” sulla condizione dei rifugiati e dei migranti in Libi, chiede un ripensamento delle politiche sull’immigrazione. Dice che nelle sue ultime visite nei centri di detenzione libici ha trovato solo persone “pelle e ossa”, paragonabili a quelle che aveva visto “in Bosnia negli anni 90 o nei campi di prigionia cambogiani dei Khmer Rossi”. Racconta che “le autorità di questi centri sostengono di non avere più soldi per nutrirli e le organizzazioni umanitarie si rifiutano di provvedere per non avvallare il sistema di queste detenzioni arbitrarie, perciò questa gente si trova tra l’incudine e il martello”. A Tajoura, dopo lo scoppio delle due bombe cadute dal cielo e gli spari su chi cercava di salvarsi fuggendo in strada, dopo che i circa ottanta feriti sono stati portati nei piccoli ospedali della zona dalle ambulanze della Mezzaluna rossa, sono rimasti in 300 a dormire e bivaccare sotto i pochi sparuti alberi negli spiazzi vicini al centro ormai distrutto, sopra i materassi di gommapiuma insanguinati recuperati tra le macerie. Nessuno si occupa di loro, tranne qualche visita dei funzionari dell’Oim, l’Organizzazione delle migrazioni. E secondo Safia Misheli, funzionaria Oim, non è possibile aggiornare il conto dei morti perché “molti corpi non sono stati ancora recuperati mentre molti feriti gravi avrebbero bisogno di cure fuori da Tripoli o moriranno presto”. L’inviato speciale Onu Ghassam Salamé incontrando il ministro italiano Moavero Milanesi a Roma pochi giorni fa ha detto che gli europei “sono ossessionati dai centri per migranti, che invece sono un problema minore perché lì si trova solo il 2% di tutti gli immigrati irregolari in Libia, che sono 800 mila”. Ma i circa 3 mila rinchiusi sotto le bombe sono i veri ostaggi della guerra. Iraq. Human Rights Watch: “detenuti in condizioni degradanti” nena-news.it, 6 luglio 2019 L’ong statunitense ha ieri accusato il sistema carcerario iracheno di non rispettare gli standard internazionali basilari. Tra i principali problemi il sovraffollamento senza poi dimenticare che in non pochi casi le confessioni sono state estorte tramite tortura. Le autorità irachene stanno detenendo migliaia di persone in condizioni “degradanti” e in luoghi sovraffollati. A lanciare la pesante accusa al governo di Baghdad è stata ieri la Ong per i diritti umani Human Rights Watch (Hrw). L’organizzazione non governativa statunitense ha mostrato alcune fotografie della prigione di Tal Keif nella provincia di Nineve (nord est del Paese) affermando come in questo carcere, insieme a quello vicino di Tasfirat, non vengano rispettati gli standard internazionali basilari. In una delle fotografie si vedono infatti decine di ragazzi ammassati in un centro di detenzione per giovani. Alcuni sono in posizione fetale. Si può notare, inoltre, come non si veda il pavimento perché interamente ricoperto dai corpi dei detenuti. Un’altra foto mostra una stanza piena di donne e bambini molto magri con vestiti e prodotti per la casa appesi alle pareti. “Due anni fa abbiamo documentato le morti in carcere a causa del sovraffollamento - ha detto all’Associated Press la ricercatrice irachena di Hrw Belkis Wille - vedere che le condizioni [di detenzione] restino così, vuol dire che la popolazione carceraria è ancora minacciata. Tutto ciò è davvero frustrante”. Secondo infatti Human Rights Watch, nelle prigioni di Tal Keif, Tasfirat e Faisaliyah sono rinchiuse circa 4.500 persone, quasi il doppio della capienza prevista. I detenuti sono per lo più accusati di terrorismo e circa un terzo di loro è già stato condannato e attende di essere trasferito a Baghdad. Ai carcerati, inoltre, non viene accordato il permesso d’incontrare i loro avvocati perché le prigioni non prevedono spazi per incontri. Le autorità irachene, che hanno dichiarato la vittoria sull’autoproclamato “Califfato islamico” (Isis) nel dicembre del 2017, non forniscono dati ufficiali sui detenuti presenti nelle loro carceri. Secondo alcuni studi indipendenti, il numero dovrebbe aggirarsi intorno alle 20.000 unità e la maggior parte di loro è dietro le sbarre per legami con l’Is. Ma a preoccupare non è solo il sovraffollamento: il sistema carcerario locale è stato accusato dalle Ong internazionali e locali di estorcere le confessioni degli imputati con la tortura. Oltre ad essere moralmente inaccettabile, il ricorso alla violenza, sottolineano gli esperti, porterà alla radicalizzazione dei detenuti più vulnerabili. “Le autorità irachene dovrebbero assicurare condizioni all’interno delle carceri che non alimentino nuovi torti in futuro” ha dichiarato Lama Fakih, responsabile di Hrw per il Medio Oriente. Da qui l’invito della ong statunitense per migliorare le condizioni carcerarie secondo gli standard internazionali e garantire agli imputati processi giusti. Ieri mattina, intanto, si sono registrate proteste a Bassora (nel sud dell’Iraq) per la mancanza di lavoro, per la presenza eccessiva di stranieri nella locale industria del petrolio, per le interruzioni di elettricità e la mancanza d’acqua. Problemi, questi ultimi due, che diventano ancora più insostenibili in questa fase dell’anno in cui le temperature superano di regola i 50 gradi. Le manifestazioni ricordano quelle della scorsa estate: allora furono decine le vittime delle proteste. Alcuni edifici municipali e, soprattutto il consolato iraniano, vennero dati alle fiamme dai dimostranti. La rabbia dei cittadini scesi in piazza ieri era indirizzata verso il governo di Baghdad accusato di corruzione e ritenuto incapace di migliorare le infrastrutture dell’area e di risolvere i problemi della popolazione. Altri presidi di protesta hanno avuto luogo in questi giorni anche nella vicina provincia meridionale di Dhi Qar e a Qurn (un po’ più a nord di Bassora). Le manifestazioni dell’anno scorso costrinsero il premier al-Abadi a rassegnare le dimissioni. La patata bollente è passata ad Adel Abdoul che, a distanza di più di un anno dalle elezioni legislative di maggio, non è però ancora riuscito a formare un governo di coalizione (sono scoperti infatti alcuni dicasteri). “La paura di Mahdi è che si possa ripetere quanto accaduto nel 2018 e che questo potrebbe fargli perdere l’incarico” ha detto l’analista Joel Wing al portale Middle East Eye. I suoi timori sono legittimi anche perché, come aggiunge Wing, “si trova in una posizione più debole di Abadi dato che non ha una coalizione che lo sostiene, ma due liste [di partiti] rivali”. Cina. Centinaia di bambini di etnia uigura tolti ai genitori e “rieducati” Gazzetta del Mezzogiorno, 6 luglio 2019 Oltre 400 bambini di etnia uigura, in una sola città dello Xinjiang, sono stati separati da uno o da entrambi i genitori, finiti in carcere o internati in strutture di rieducazione: contro le piaghe “del terrorismo e dell’estremismo” soprattutto religioso, come rivendica Pechino, neanche loro sfuggono al processo di “mandarinizzazione” che va avanti spedito nella regione del nordovest della Cina, caratterizzata dalla forte minoranza musulmana turcofona. Se sono centinaia di migliaia, se non più di un milione secondo alcuni rapporti rimbalzati all’Onu, gli adulti rinchiusi nei centri di detenzione, il passaggio aggiuntivo è la campagna che passa per scuole e dormitori dedicati alle nuove generazioni. Da un’inchiesta della Bbc, ad esempio, è emerso che uno delle decine di uiguri intervistati e residenti in Turchia, Abdurahman Tothi, ha raccontato di non avere più notizie dei suoi figli da tre anni, dopo il loro viaggio con la madre nello Xinjiang per una visita ai nonni. L’uomo ha spiegato di aver trovato un video online di un bambino che è sicuro essere suo figlio, Abdulaziz, che parla in mandarino e non in uiguro, la sua lingua madre. “Il loro obiettivo - è stata la sua amara spiegazione - è di farne degli han cinesi, portandogli via la loro vera identità”. I bambini sono destinati, secondo la ricostruzione della tv britannica, a scuole con enormi dormitori, sorte negli ultimi anni con i centri “di addestramento vocazionale” destinati agli adulti che, dopo aver commesso reati, puntano al reinserimento sociale. Su 60 interviste, genitori o parenti hanno raccontato nei dettagli la scomparsa di oltre 100 bambini. Una fonte diplomatica che ha visitato la regione ha rimarcato le “evidenze di primarie e sistematiche violazioni dei diritti umani” in una strategia che non ammette “soluzioni alternative” al modello han, l’etnia maggioritaria in Cina. Venezuela. La morte del capitano Rafael Acosta infiamma il Paese di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 6 luglio 2019 Arrestato il 21 giugno, sparito per una settimana nelle celle di Forte Tiuna, sede dei servizi militari, è riapparso venerdì scorso. Il giorno dopo è morto. L’ultima a vederlo vivo era stata la moglie. Pochi minuti, nell’aula del Tribunale dove gli erano state contestate le accuse di sedizione e attentato alla sicurezza dello Stato. Lui in sedia a rotelle, lo sguardo perso nel vuoto, tremante, balbettava qualcosa; forse chiedeva solo aiuto, incapace di parlare e di capire. Si chiamava Rafael Acosta, era un capitano di corvetta della Marna venezuelana. Gli agenti del Controspionaggio militare della Dgcim lo hanno arrestato il 21 giugno scorso. Sparito per una settimana. Inghiottito nelle celle di Forte Tiuna, sede dei servizi militari. È riapparso venerdì scorso. Il giorno dopo è morto. Il suo decesso diventa un caso dirompente nella tragedia venezuelana. Infiamma un clima di tensione, arresti, condanne, censure. E morti. Il paese retto con pugno di ferro da Maduro scivola nel pozzo nero della repressione tra l’indifferenza e la rassegnazione della comunità internazionale incapace di trovare una soluzione che dia speranza a milioni di venezuelani costretti a fuggire o a restare. Con l’energia elettrica che salta, il cibo che scarseggia, le medicine introvabili, e la stessa benzina che adesso diventa un bene prezioso perché il regime non è neanche più in grado di estrarre petrolio. L’atteso rapporto conclusivo dell’Alto Rappresentante Onu per i Diritti Umani Michelle Bachelet dopo la sua visita a Caracas esorta il regime a “adottare subito misure specifiche per contenere e risolvere le gravi violazioni” che asfissiano milioni di venezuelani. Denuncia la morte di 5.287 persone solo nel 2018 che il governo attribuisce a “resistenza all’autorità”. Ad essere messe sotto accusa sono le forze speciali della Faes e i colectivos, gruppi di civili armati che controllano con il terrore i quartieri di Caracas e vaste zone del paese e fanno il lavoro sporco nelle repressioni delle manifestazioni di opposizione. Il capitano di corvetta Rafael Acosta era stato accusato di cospirazione per aver partecipato ad un piano per abbattere e uccidere Nicolás Maduro. Lo avevano arrestato poche ore prima che l’Alto Commissario per i Diritti Umani, Michelle Bachelet, concludesse la sua visita di tre giorni in Venezuela. La moglie, Waleswka Pérez, ha subito denunciato che il marito era stato torturato e che sotto i colpi degli uomini del Contro-spionaggio alla fine era morto. Il regime si è limitato a prendere atto del decesso, ha trasferito la salma nella morgue di Bello Monte, la principale di Caracas, ma ha impedito che familiari e periti della difesa potessero vederla. È stato costretto ad aprire una inchiesta anche per le reazioni della Bachelet rimasta “impressionata” da questa morte “inaspettata e inquietante”. La Procura generale ha portato in Tribunale Ascanio Antonio Tarascio Mélia e Estiben José Zarate Soto, i due agenti dei Servizi che tenevano sotto custodia l’ufficiale della Marina, e li ha accusati di “omicidio preterintenzionale”. Il governo ha garantito un’indagine seria e scrupolosa. Ma appare chiaro che scarica sui due soldati responsabilità che ricadono su tutto il regime. L’opposizione chiede un’inchiesta internazionale. Non si fida. Il vicepresidente del Psuv, il partito al potere, Diosdado Cabello, uomo forte del chavismo, ha subito messo in chiaro le cose: “Qui ci sono organismi di sicurezza che stanno indagando. Bastano questi. Il Venezuela non è un paese messo sotto tutela”. I periti ufficiali incaricati dal pubblico ministero hanno esaminato il corpo con ermetismo negando che presenti segni di torture. Ma un ex giudice in esilio, Zair Mundaray, ha diffuso una relazione forense filtrata dal Venezuela nella quale si afferma che la salma del capitano di corvetta presentava costole fratturate, il setto nasale rotto, numerose escoriazioni, ematomi nei muscoli, bruciature nei piedi. Chi ha ucciso il capitano di corvetta Rafael Acosta? Era sotto la tutela dello Stato che aveva il dovere di garantire la sua incolumità. Uno dei tanti casi Cucchi che punteggiano il Venezuela. Finire nelle mani dei Servizi significa interrogatori brutali e torture. A ottobre scorso un consigliere municipale dell’opposizione, arrestato per tradimento alla Patria, volò dal decimo piano della sede della Polizia politica. Il governo disse che si era suicidato, l’opposizione che era stato scaraventato dalla finestra. Il caso è ancora aperto. Non ci sono colpevoli. Gli arresti e gli interrogatori continuano. Ci sono 630 detenuti politici nelle carceri venezuelane e 109 sono militari.