Carceri: la situazione è esplosiva di Valter Vecellio lindro.it, 4 luglio 2019 Quello che segue è una sorta di “diario” carcerario degli ultimi giorni. I commenti sono superflui. Ivrea: rissa tra 25 detenuti, al primo piano del carcere. Un gruppo di detenuti italiani e uno di nordafricani si fronteggiano, con bastoni di legno, sgabelli, manici di scopa. Il bilancio finale, con diversi carcerati lievemente feriti, avrebbe potuto essere ben più pesante: un detenuto, infatti, è stato tratto in salvo dall’intervento degli agenti della polizia penitenziaria che hanno riportato prognosi fino a 15 giorni per sedare gli scontri. La situazione nel carcere di Ivrea è incandescente ed è aggravata dalla carenza di organico sia del ruolo ispettori che del ruolo agenti, oltre che dal sovraffollamento della popolazione detenuta. Napoli: tre morti in tre giorni. Il carcere di Poggioreale a Napoli fa da sfondo all’ennesima tragedia in poche ore. L’ultima: il suicidio di un 50enne recluso da un anno. Prima, il caso di un uomo di 38 anni che si è tolto la vita in una cella del padiglione Napoli - tra i più sovraffollati della struttura - legando i lacci delle scarpe alle inferriate del bagno; la terza morte, sempre in carcere, per “cause naturali”. Una situazione resa ancora più grave e pericolosa per il cronico sovraffollamento che priva dei diritti più elementari le persone recluse: “In tutta Italia il sovraffollamento sta diventando una pena accessoria e questo non è giusto” dice Samuele Ciambriello, garante per i diritti dei detenuti in Campania. “La media campana di sovraffollamento è al 133,9 per cento, solo a Poggioreale è del 157,81 per cento”. In concreto: a Poggioreale sono stipate 2.400 persone, 1.000 in più rispetto alla capienza dell’istituto. In Campania sono state “tagliate” 750 guardie carcerarie; il normale rapporto con il detenuto dovrebbe essere di uno a tre; a Poggioreale è di uno a dieci. Casa di reclusione di Brucoli, Augusta: dalla finestrella sulla porta della cella si rende conto di quello che era accade e dà l’allarme, ma non c’era già più nulla da fare: un detenuto quarantenne si toglie la vita impiccandosi con un pezzo di lenzuolo agganciato alla griglia della finestra. Carceri in Sicilia: nel carcere di Enna si teme una esplosione dal punto di vista igienico sanitario a causa dell’emergenza idrica. Per questo e altri motivi decine di detenuti del carcere hanno protestato pacificamente rifiutando di entrare nelle loro celle. L’acqua è solitamente garantita dalla presenza di una cisterna che a causa di perdite nelle tubature, da qualche mese non riesce a riempirsi completamente. Nel periodo invernale la situazione si risolve grazie ai Vigili del Fuoco che utilizzano le loro autobotti per garantire il rifornimento idrico al carcere; d’estate, a causa del carico di lavoro l’operazione è praticamente impossibile. Al carcere Pagliarelli di Palermo da qualche giorno, i detenuti dell’alta sicurezza rifiutano il cibo della mensa a causa della mancanza d’acqua nelle docce. Le uniche pietanze accettate sono quelle che provengono dai familiari. Un carcere non semplice da gestire; c’è un sovraffollamento che complica le cose: 1.380 persone recluse in una struttura per 700 posti. Santa Maria Capua Vetere: i reclusi sono costretti a passare un’altra estate senza l’acqua potabile, la gara d’appalto europeo per far fronte a questo problema è ancora in alto mare. A vivere il disagio sono 1.049 detenuti, a fronte di una capienza di 819 posti. Carceri in Sardegna: appello del provveditore regionale Maurizio Veneziano al ministero della Giustizia: la situazione è esplosiva. Quattro direttori appena chiamati a guidare le dieci carceri isolane; carenza totale di dirigenti nel distretto dalle Sardegna. Se non è emergenza vera e propria, poco ci manca. Nella lettera-appello ai vertici del ministero della Giustizia, Veneziano tra l’altro scrive: “Presso la sede del Provveditorato (a Cagliari), il sottoscritto è costretto a operare con un dirigente contabile, inviato in missione dalla Puglia per alcuni giorni al mese e con un direttore dell’Ufficio Detenuti e trattamento che può garantire una presenza limitata ad alcuni giorni del mese”. Su un organigramma che richiede 16 dirigenti sono soltanto 5 quelli che lavorano in Sardegna. “Più volte abbiamo denunciato questo stato di cose e l’amministrazione, il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, ha attuato interventi tampone senza mai risolvere definitivamente il problema”, dice Giovanni Villa, segretario della Fns Cisl Sardegna. “La Sardegna è la Regione messa peggio e come si può capire è impossibile garantire continuità operativa a 360° al sistema penitenziario isolano. Le relazioni sindacali hanno subito un drastico rallentamento e ciò non fa che peggiorare la già grave e incomprensibile situazione”. Nelle carceri italiane quest’anno, finora, sono morte 67 persone, 23 delle quali per suicidio; dal 2000 ad oggi ci sono 2.951 decessi, 1.076 per suicidio. Le carceri esplodono, i detenuti oltre quota 60mila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2019 I posti disponibili sono 50mila 946. A Poggioreale 679 carcerati in più. Oltre diecimila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare degli istituti penitenziari. Sono questi i dati aggiornati al 30 giugno di quest’anno messi a disposizione dall’ufficio del capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un sovraffollamento record che ogni mese aumenta inesorabilmente sempre di più. Basti pensare che al 31 maggio risultavano 9948 detenuti in più, mentre ad aprile ne erano 9928. Stando agli ultimi numeri, la capienza regolamentare risulta di 50.496 posti disponibili, mentre i detenuti sono 60.522. Quindi sono ben 10.026 i detenuti in più. Tra i diversi istituti penitenziari sovraffollati, l’occhio non può non andare al carcere napoletano di Poggioreale, al centro della cronaca per la recente rivolta e gli ultimi decessi di tre detenuti nel giro di tre giorni. Nonostante il trasferimento di circa 200 detenuti, su una capienza regolamentare di 1.635 posti, risultano 2.314 detenuti: quindi sono 679 le unità in più rispetto ai posti regolamentari. Ma fini qui ci siamo basati sui numeri sulla carta. In realtà il sovraffollamento reale risulterebbe maggiore se venissero sottratte le celle non agibili dai posti regolamentari. A farlo, come già riportato da Il Dubbio, è l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Grazie all’operazione trasparenza del ministero e quindi l’aggiornamento telematico delle schede di ogni singolo istituto, l’esponente radicale ha potuto analizzare i dati delle celle inagibili e quindi non utilizzate, estrapolando quindi un dato importante: dalla capienza regolamentare ha sottratto i 3.704 posti non disponibili. Cosa significa? Che la capienza reale non è di 50.496 posti, bensì di 46.792. Ecco spiegato perché abbiamo istituti penitenziari con celle dove sono costretti a convivere otto detenuti. Una emergenza, perenne, che risulta paradossale visto che i reati sono in diminuzione e quindi teoricamente non servirebbero costruire nuove carceri o, addirittura, convertire caserme dismesse, ritornando quindi al passato, all’ 800, quando venivano convertiti in carcere gli antichi conventi religiosi. Le entrare, infatti, non aumentano, ma diminuiscono le uscite. Ciò significa che abbiamo centinaia di detenuti che teoricamente avrebbero la possibilità di usufruire le pene alternative, ma non hanno gli strumenti per accedervi. Lo ha detto recentemente anche il Garante nazionale delle persone private della libertà nella sua ultima relazione al parlamento. Ha indicato che c’erano 5.158 persone con pena inferiore a un anno o compresa tra uno e due anni che potrebbero usufruirne, ma che rimangono all’interno degli istituti. Per altro, dalle statistiche di cui il ministero della Giustizia ha tenuto conto nell’elaborazione della riforma dell’ordinamento penitenziario (poi approvata a metà) emerge che per chi sconta la pena in carcere il tasso di recidiva è del 60,4 per cento. Invece, per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione, la recidiva scende al 19 per cento, ridotto all’1 per cento per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. Ma niente da fare, per ora l’unica parola d’ordine è costruire più carceri. Un rimedio più volte stigmatizzato dal consiglio europeo, oltre ai diversi organi internazionali che vigilano sui diritti umani. Per ultimo, ma non per ordine di importanza, sempre secondo le ultime statistiche, il numero dei bimbi dietro le sbarre non accenna a diminuire. Sono 54 il numero dei figli al seguito: 35 sono negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri) e il resto dei bimbi dentro il carcere vero e proprio. Il far west dei diritti non paga di Enrico Franco Corriere del Trentino, 4 luglio 2019 “Mettiamolo in galera e lasciamolo marcire”, “In manette e buttiamo via la chiave”: frasi simili si rincorrono sempre più spesso non solo nei tweet degli haters, ma anche nelle dichiarazioni dei molti politici privi di scrupoli preoccupati solo di incrementare il proprio consenso. Il fenomeno si ripete in maniera scontata, ma non per questo meno agghiacciante, quando le vittime sono italiane e i presunti responsabili sono stranieri; il silenzio, invece, copre fatti altrettanto orribili se i protagonisti sono tutti immigrati o, ancor più, se il colpevole è “uno dei nostri” e a rimetterci “è uno di loro”. Sgombriamo però il campo da ogni analisi sul razzismo e sulla paura del diverso: concentriamoci piuttosto sul giustizialismo da Far West che porta a dileggiare chi richiama i principi elementari del diritto, bollato come “garantista da salotto” o come “intellettuale radical chic” quando va bene, se non marchiato tout court come “complice”. Il caso della ragazzina di Bolzano che ha denunciato un falso stupro in pieno giorno sui prati del Talvera, puntando il dito contro due immaginari giovani di colore, non aggiunge e non toglie alcunché a quanto da tempo è noto alle statistiche. La violenza contro le donne è in triste aumento e gli autori sono in stragrande maggioranza persone di famiglia o comunque conosciute. Ciò non esclude, ovviamente, che tra le migliaia di persone accolte nel nostro Paese alcune si siano macchiate di brutali aggressioni. Le false denunce sono rarissime e ci sono sempre state: ricordo un caso, una quarantina di anni fa, di un noto pilota trentino imprigionato per aver molestato una adolescente, quindi processato dopo che i giornali avevano ampiamente raccontato il fatto e pubblicato la sua foto; alla prima udienza fu scagionato poiché la ragazzina, messa sotto pressione, aveva confessato di essersi inventata tutto quando il padre l’aveva rimproverata per essere tornata a casa tardi (i lividi sulle braccia, elemento forte dell’accusa, erano stati provocati proprio dal papà). Il primo cardine della nostra civiltà, dunque, è che tutti sono innocenti fino a prova contraria. E gli indizi non sono prove, bensì elementi che vanno valutati dagli inquirenti anziché dal popolino. La verità in genere è difficile da appurare e basta poco per essere portati fuori strada. Un noto professionista trentino fu arrestato perché, secondo un’intercettazione, aveva detto di essere riuscito “a prendere” un documento proibito, poi ascoltando meglio il nastro si accertò che era solo riuscito legittimamente ad “apprendere” parte del contenuto di quel documento. Insomma, magari la nostra Giustizia è lenta e lascia troppo spazio agli azzeccagarbugli, talvolta le sentenze o le pene sono ampiamente criticabili, ma le scorciatoie e i linciaggi non sono una soluzione. Meglio affidarsi ai magistrati. Il secondo pilastro della democrazia è che la responsabilità è sempre personale. Se un italiano è mafioso, non tutti gli italiani lo sono; ugualmente, se uno straniero ruba, non tutti gli stranieri sono ladri. Quando ignoriamo i fondamenti della democrazia (e della nostra Costituzione) mettiamo sempre a rischio la nostra libertà. Perché - insegna la storia - le sacre regole all’inizio vengono sempre trascurate nei confronti delle minoranze, di chi è in qualche modo sospetto o di chi è accusato di un crimine particolarmente odioso. Una volta che la breccia è aperta, tuttavia, le garanzie prima o poi saltano anche quando dovrebbero difendere noi stessi. Contro i sicari dello stato di diritto di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 luglio 2019 Per superare la procedura di infrazione sul debito, bastava qualche miliardo. Per superare la procedura di infezione del garantismo, non basterà qualche decennio. Salvini e Di Maio: indagine sul doppio giustizialismo che minaccia le nostre libertà. In politica ci sono oscenità che si possono cancellare con un tratto di penna, con una promessa rivista, con un aggiustamento dei conti, con una correzione a una manovra e ci sono poi oscenità che una volta sdoganate diventano strutturali, entrano a far parte della nostra vita, si trasformano in una nuova e raccapricciante normalità. In politica ci sono oscenità che si possono correggere dall’oggi al domani, anche a costo di dover fare l’opposto di quanto promesso agli elettori, e così è andata ieri con la procedura di infrazione sul debito, che il governo è riuscito a evitare dando alla Commissione europea tutto quello che la Commissione europea aveva chiesto all’Italia, mettendo in campo una manovrina da 7,6 miliardi di euro che il governo aveva promesso che mai avrebbe fatto e migliorando il saldo strutturale per l’anno in corso dello 0,2 per cento a fronte di un deterioramento dello 0,2 per cento stimato dalla Commissione nelle previsioni di primavera che il governo aveva sempre negato di dover migliorare a tutti i costi. E ci sono poi invece oscenità che rimangono lì e che non si possono cancellare con un tratto di penna. Le parole utilizzate nelle ultime settimane da Matteo Salvini contro Carola Rackete - accusata dal ministro dell’Interno di essere “una criminale”, colpevole di aver provocato l’Italia con “un atto di guerra” e la cui indegna scarcerazione, della quale Salvini “si vergogna”, dimostrerebbe “la necessità di riformare al più presto la magistratura” - rientrano disgraziatamente in questa seconda categoria, nella categoria delle oscenità non cancellabili con una piccola manovra di aggiustamento del bilancio. E vi rientrano non per questioni legate al sessismo, al bullismo o al trucismo di questo o quel leader politico ma per questioni banalmente legate al rispetto di un principio che l’opinione pubblica italiana ha scelto da tempo di considerare come un valore negoziabile della nostra democrazia: la tutela dello stato di diritto e dunque della nostra libertà. La reazione di Matteo Salvini al caso Sea Watch ci dice molte cose interessanti sul carattere a tratti eversivo della sua leadership politica ma ci segnala prima di tutto quella che è la vera catastrofe che porta con sé il pensiero sfascista: fare del processo mediatico uno strumento centrale della propria propaganda, criminalizzare fino a prova contraria i propri nemici politici e trasformare sistematicamente il sospetto nell’anticamera della verità. Il caso Sea Watch non è stato soltanto un’occasione utile per ricordare che una norma di rango primario non può essere in contrasto con gli obblighi internazionali assunti da un paese, come ha giustamente osservato il gip di Agrigento che martedì ha scarcerato Carola Rackete, ma è stato anche un’occasione utile per ricordare che al di là di quello che sarà il destino della maggioranza di governo tra il Movimento 5 stelle e la Lega esiste una simmetria perfetta in materia di giustizialismo che rende i due partiti perfettamente e drammaticamente complementari: come due facce della stessa medaglia. I primi, i grillini, tendono a essere forsennati giustizialisti, e ad aprire il ventilatore della melma, quando al centro di un’indagine - o di un processo mediatico - finisce un qualche esponente politico non gradito alla Casaleggio Associati. I secondi, i leghisti, tendono a essere forsennatamente giustizialisti, e ad aprire il ventilatore del disgusto, quando al centro di un’indagine, o di un processo mediatico, finisce un qualche soggetto che si occupa di migranti, che si occupa di integrazione, che si occupa di accoglienza. Ma la gravità di avere un paese governato da una maggioranza composta da due partiti che hanno scelto di infilare il principio della presunzione di innocenza nello sciacquone della propaganda politica, come purtroppo capita ormai sempre con più frequenza nelle nuove democrazie illiberali, non è inferiore rispetto alla gravità di avere un paese che ancora una volta, a tutti i livelli, giornali e televisioni comprese, mostra di non avere i vaccini giusti per combattere il virus della barbarie giustizialista. Fateci caso. Chi rimprovera a Salvini di non avere a cuore lo stato di diritto ha spesso lo stesso profilo di chi non si fa scrupoli a violentare lo stato di diritto quando il processo mediatico consente di demolire gli avversari politici. E viceversa chi cerca di spacciare le differenze mostrate in Parlamento dalla Lega sulla riforma della giustizia come se queste fossero la prova provata dell’evidente garantismo salviniano (fatece Tarzan) non si fa poi scrupoli a considerare naturale che un ministro dell’Interno decida da solo la colpevolezza o l’innocenza o persino la permanenza in galera di un soggetto non gradito. Il governo populista non ha soltanto contribuito a isolare l’Italia dal resto d’Europa creando un clima di sfiducia che al momento non si respira in nessun altro paese dell’Eurozona (i tassi di interesse sui titoli decennali stanno fortunatamente calando ma sono ancora tre volte più alti rispetto ai tassi di interesse sui titoli decennali di paesi come la Spagna e il Portogallo) ma ha contribuito a ingrossare il mostro del giustizialismo chiodato che nell’indifferenza generale continua sempre con maggiore velocità a rosicchiarci via ogni giorno un pezzo della nostra libertà. Per superare la procedura di infrazione bastava qualche miliardo di euro. Per superare la procedura di infezione, non basterà qualche decennio. La legalità sovranista di Ezio Mauro La Repubblica, 4 luglio 2019 Basato com’è sull’istinto, sui gesti, sugli slogan e su una formidabile capacità di creare e interpretare lo spirito dei tempi, il populismo è l’unico modello politico che non ha bisogno di avere una teoria, perché la suscita a spintoni mentre procede per la sua strada, e la inventa dentro il fuoco del conflitto permanente con un nemico d’occasione, dato ogni volta in pasto alla pubblica opinione. E tuttavia ogni tanto - ad esempio dopo un anno di governo - conviene guardare al quadro politico d’insieme, sfuggendo al vortice delle singole performance, per cogliere, se non la cultura, almeno l’idea del potere e la concezione dello Stato di questa nuova ultradestra italiana. Salvini è stato costretto a nascondere la clamorosa sconfitta incassata dai sovranisti nelle nomine al vertice delle istituzioni europee che volevano sovvertire. Per questo ha cercato di sfruttare alla massima potenza il caso Sea-Watch, facendosi paladino dei confini minacciati “dall’invasione” di 42 migranti. Per raggiungere il suo scopo, non ha esitato a criminalizzare la figura della capitana della nave Ong, costruendo il personaggio di comodo di una delinquente infiltrata nei porti italiani, pronta a speronare le motovedette della Finanza che le intimavano l’alt, potenziale assassina. Per di più donna e giovane, dunque da dileggiare perché mossa da scelte politiche e non umanitarie, che salva i naufraghi nelle pause di una vita comoda e lussuosa: “Il posto di questa signorina sarebbe stata la galera, un giudice ha deciso che non sia così - ha aggiunto ieri il ministro. Adesso ci devono dire se la possiamo mettere su un aereo con destinazione Berlino, oppure se la dobbiamo vedere far shopping a Santa Margherita Ligure o a Portofino, in attesa di attentare alla vita di altri finanzieri”. È la raffigurazione di un ideal-tipo creato nel laboratorio populista, da additare all’odio delle masse mentre lo si fa muovere sui palcoscenici simbolici dell’elite, in una sceneggiatura quasi teatrale. È prevedibile che il vicepremier, avendo anche molto tempo libero dal lavoro, porti avanti lo spettacolo della serie “Carola” per tutta l’estate, inventando nuovi episodi per un pubblico già immediatamente prodigo d’insulti. Ma la novità è che accanto alla Capitana da ieri è comparso un secondo bersaglio da criminalizzare: il giudice. È successo, infatti, che il Gip chiamato a convalidare l’arresto di Carola ha deciso altrimenti, con un’ordinanza che buca nelle sue 13 pagine la bolla propagandistica di Salvini. Intanto le direttive ministeriali sui porti chiusi e il divieto di ingresso nelle acque territoriali previsto dal decreto sicurezza (sulla cui base le motovedette hanno intimato l’alt alla Sea-Watch) non possono essere applicati, perché una nave che soccorre migranti non può essere considerata una minaccia per la sicurezza nazionale. E in ogni caso il comandante ha l’obbligo di portare in salvo le persone che ha raccolto in mare e non solo di ospitarle a bordo, e deve scegliere come approdo un luogo dove vengono garantiti i diritti, primo fra tutti il diritto d’asilo: e questo non è certo il caso della Libia, ma nemmeno della Tunisia. Dal che si deduce che la scelta di far rotta sull’Italia è “legittima” e il teorema salviniano viene totalmente svuotato e rovesciato dall’ordinanza. Si capisce il nervosismo del ministro dell’Interno. Che infatti ha reagito scompostamente: “Mi vergogno”, “Pessimo segnale”, “Cosa bisogna fare per finire in galera in Italia”? “È veramente una sentenza scandalosa”. Poi la minaccia: “Questa giustizia la cambiamo”. E infine lo schema populista supremo: i giudici che vogliono far politica si tolgano la toga, si candidino al Parlamento “con la sinistra”, e cambino le leggi che non gli piacciono. Non siamo soltanto davanti a un ministro che attacca il giudizio di un magistrato, a un vicepresidente del Consiglio che cancella la separazione dei poteri, uno dei principi base della cultura liberaldemocratica, e uno dei fondamenti dello Stato moderno. Siamo di fronte al disvelamento dell’ideologia populista, che vede il potere come un fascio indistinto nelle mani degli “eletti dal popolo”. Questa unzione popolare sacra non solo li legittima alla funzione legislativa e di governo, com’è ovvio in democrazia, ma evidentemente nel pensiero sovranista li pone su un piano sovra-ordinato rispetto agli altri poteri dello Stato. Il magistrato che con una sua sentenza esprime un parere contrario all’ideologia dominante è dunque automaticamente da oggi un sovversivo, un dissidente, un oppositore. Risultato: le sentenze devono adeguarsi non alla legge, ma al potere, che diventa così supremo, autonomo, sottratto al controllo di legalità e di legittimità, fuori da qualsiasi concerto istituzionale. In un momento del Paese in cui le intercettazioni del Csm stanno rivelando l’intreccio perverso tra politica e magistratura, in un parassitismo reciproco miserabile che umilia la democrazia, sembra un invito a una magistratura debole, delegittimata e disorientata perché si metta al riparo sotto il potere dominante: vedremo le conseguenze nei prossimi mesi. In realtà solo un potere intimamente fragile cerca spazio nel campo altrui, non sapendosi accontentare dello spazio legittimo che ha saputo conquistarsi. Dimenticando che nell’articolo 1 della Costituzione sta scritto che la sovranità “appartiene” al popolo, che “la esercita” nelle forme e nei limiti previsti dalla Carta. La sovranità dunque oggi, “appartiene”, e viene esercitata direttamente, quindi non si trasferisce col voto dal popolo agli eletti. Ecco perché quella di Salvini non è una polemica, ma una forzatura. Come se da oggi, nell’anno primo dell’era sovranista, si potesse cambiare la scritta nelle aule dei tribunali: la legge è uguale a patto che la giustizia sia conforme al potere. Caso Csm. Fuzio chiede udienza a Mattarella: “Palamara mi aspettò sotto casa” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 luglio 2019 Il procuratore generale della Cassazione si difende in una lettera ai colleghi. Ma anche Unicost invoca le dimissioni. Riccardo Fuzio, procuratore generale della Cassazione, reagisce alla rivelazione delle sue conversazioni con Luca Palamara con una strategia in tre mosse. La prima: la diserzione del plenum del Csm, in cui siede in virtù del suo ruolo. La seconda: la richiesta di un colloquio con Sergio Matterella. La terza: una lettera ai 60 colleghi che guida da due anni e mezzo. Il tutto nel giorno in cui, dopo l’Associazione nazionale magistrati, anche la sua corrente, Unicost, gli chiede un passo indietro per “il senso di responsabilità istituzionale” che “impone scelte non rimandabili per la credibilità della magistratura tutta”. Dimissioni attese anche da chi è di casa al Colle, dove Fuzio potrebbe salire già oggi. Ma che sembrano tutt’altro che scontate, a leggere le due pagine che ieri Fuzio ha fatto recapitare ai colleghi della Procura generale. Una irrituale comunicazione che Fuzio aveva sperimentato dopo le embrionali indiscrezioni sui suoi contatti con Palamara e prima di sedere con Mattarella nel plenum del Csm in cui il presidente aveva chiesto di “voltare pagina”. Ora che è noto il contenuto delle sue conversazioni con Palamara, tali da fargli rischiare un’incriminazione disciplinare da parte dello stesso ufficio che dirige, Fuzio torna a scrivere ai suoi colleghi con una “diretta interlocuzione”. “Me lo impongono”, premette, non solo “le notizie riportate sui mass media” ma anche “le iniziative intraprese sul piano associativo”, leggi la richiesta di dimissioni dell’Anm. Fuzio rivendica di non aver mai nascosto “la risalente conoscenza con Palamara e le interlocuzioni con lui avute” in diversi periodi e soprattutto dopo che “Il Fatto Quotidiano”, nel settembre 2018, aveva rivelato l’esistenza dell’inchiesta perugina. Anzi di aver informato i colleghi che con lui valutano i procedimenti disciplinari sui magistrati, quando da Perugia sono arrivate le prime carte. Quindi ricostruisce quanto avvenuto nella seconda metà di maggio, in particolare la genesi e lo svolgimento del colloquio con Palamara che gli viene contestato. Racconta Fuzio che, tornato in Italia da “impegni istituzionali all’estero”, fu vittima di un blitz da parte di Palamara, il quale “con modalità a sorpresa di cui se necessario chiarirò i dettagli mi imponeva la sua presenza dinanzi alla mia abitazione senza che nessun incontro o colloquio fosse mai stato concordato o programmato in precedenza”. Tesi che contrasta con quanto emerge dalle intercettazioni, secondo cui nei giorni precedenti Fuzio, contattato all’estero, consigliava a Palamara, tramite l’allora membro del Csm Luigi Spina: “Digli di non fare niente e quando torno lo chiamo”. Quindi Fuzio illustra ai suoi colleghi lo svolgimento della conversazione con Palamara, “quasi del tutto dominata dai suoi sfoghi e dalle sue lamentele”, a cui Fuzio non avrebbe reagito solo per “garbo caratteriale”. Fuzio nega aver rivelato a Palamara segreti dell’indagine perugina: i dettagli sui viaggi “erano già noti a molti magistrati romani e allo stesso Palamara”. E inserisce “la breve interlocuzione” sull’argomento, ancorché con “modi improvvisi”, nell’ambito di un antico rapporto di “risalente comunanza e comunanza di vedute in ambito associativo”, in forza del quale anche in passato Palamara aveva manifestato a Fuzio “il suo stato emotivo legato alla vicenda”. Il procuratore generale rivendica a sé “il tentativo di razionalizzare e sdrammatizzare lo stato di agitazione” di Palamara, ma senza corrispondere alla “continue sollecitazioni” affinché lo stesso Fuzio intercedesse presso il vicepresidente del Csm Ermini per ammorbidire le conseguenze dell’inchiesta perugina. Quanto alle trame sulla nomina del procuratore di Roma, Fuzio si assegna un ruolo di oppositore del duo Palamara-Ferri: nega di essere a conoscenza della riunione notturna del 9 maggio con Lotti e spiega di essere intervenuto il 21 maggio nell’ambito del Csm “con una presa di posizione istituzionale non gradita a chi aveva deciso di stringere i tempi” per votare Marcello Viola. Fuzio respinge “gli attacchi strumentali” e rivendica di aver tempestivamente avviato l’azione disciplinare contro Palamara: “Ho deciso di anteporre l’interesse delle istituzioni alla mia posizione personale in silenzio e davanti alla mia coscienza”. La lettera è stata accolta con imbarazzo nell’ufficio. I colleghi attendono l’esito del colloquio al Quirinale. In assenza di un passo indietro, non escludono di autoconvocarsi in assemblea. Contro il proprio capo. Io penalista chiedo a giudici e pm di riscrivere la giustizia con gli avvocati di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 4 luglio 2019 Nessuno avrebbe voluto aprire quella porta. Epistemologicamente parlando si è evidentemente trattato di un caso di serendipità: si sta cercando una cosa e se ne trova un’altra. La Procura perugina indagava su una ipotesi di corruzione e ha trovato invece l’accesso a un mondo sommerso della magistratura. La questione non è irrilevante perché la preterintenzionalità della “scoperta” mette in imbarazzo scoperti e scopritori. Non sono i fatti in sé, ma il modo con il quale ci si presentano, a metterci in guardia e suggerirci di non dimenticare che si tratta proprio di quelle modalità da tempo denunciate quali sintomi gravi di una degenerazione della macchina mediatico-giudiziaria: intercettazioni oculatamente dispensate al pubblico in barba al segreto, dialoghi privi di rilevanza probatoria estrapolati dai contesti e diffusi all’orbe terraqueo, gogne mediatiche a intermittenza; e poi testimoni, indagati, soggetti estranei, dialoganti per caso, tutti catturati assieme dal temibile e ubiquo strumento captatore; per non dire, infine, di come gli equilibri interni del Csm risultino oggi di fatto modificati, con la formazione di una nuova maggioranza - come nel peggiore degli italici scenari - per “via giudiziaria”. Messi sul tavolo operatorio tutti questi elementi farebbero, dunque, propendere per una prognosi infausta. Una riforma seria sembra improbabile. Cercare di risolvere, infatti, un problema con quegli stessi strumenti che l’hanno prodotto apre spesso la via al fallimento. Il rischio che la ferita si richiuda su una piaga ancora infetta è molto alto, mentre risulta evidentemente improrogabile una vera riforma che reintegri il sistema giudiziario all’interno di nuovi equilibrati vincoli ordinamentali. Si tratta ovviamente di decidere cosa siano un giudice e un pm “integrati” nel sistema, non potendo esistere alcun magistrato che, per quanto collocato in una posizione di autonomia e di indipendenza, non sia comunque pensato come parte integrante di un sistema politico- istituzionale, organicamente collegato con gli altri poteri dello Stato. Trattando la questione con la diffidenza che opportunamente deve muovere l’investigatore rispetto ai risultati emersi in maniera accidentale, ciò che viene da chiedersi è se il livello venuto a emersione sia il vero aspetto problematico della magistratura del Paese, se sia davvero il ritratto di quella degenerazione correntizia che da anni si va denunciando e che ci fa dire “già tutto si sapeva”. O se non si tratti piuttosto dei sintomi di una fase ancora successiva, che non nega quel fenomeno, ma che nel confermarlo ne svela uno sviamento ulteriore e più grave. Un asservimento dei meccanismi spartitori ad esclusivi interessi particolari e personali. Tramontata l’epoca delle ideologie, non sono più il ruolo della magistratura nella società o i suoi eventuali fini di giustizia sociale, né le riflessioni sui diritti e le garanzie dei cittadini o le grandi scelte di politica giudiziaria, i temi del conflitto, ma la gestione di quell’enorme potere, oramai frammentato, nudo e crudo, che la magistratura italiana, dotata di una autonomia e una indipendenza che non hanno eguali, gestisce da tempo con il consenso complice della politica. Una sorta di “secondo stadio” degenerativo nel quale quel potere terribile è addirittura sfuggito di mano tanto alla politica quanto alla magistratura. I due diversi livelli patologici, terribili e temibili entrambi per le sorti della nostra già fragile democrazia, non devono essere confusi. Sotto un profilo clinico curare il sintomo degenerativo e lasciare intatta la patologia che l’ha prodotto sarebbe davvero un errore assai grave. Occorre quindi risalire alle radici più remote dello squilibrio e rimuoverne le cause attraverso riforme radicali. Potenziare il ruolo del giudice significa già restituire al pubblico ministero quel ruolo di parte che un sistema accusatorio presume come precondizione del suo funzionamento, e che invece la mancanza di un seria riforma ordinamentale ha consentito che divenisse negli anni la pietra dello scandalo dei ricatti incrociati delle correnti e dei partiti. Non compensate da alcun intervento regolatorio legislativo sull’esercizio dell’azione penale e da alcun serio investimento culturale e normativo sulla figura del giudice, le Procure sono così diventate organismi bulimici, gonfi di un indebito potere di regolazione delle politiche giudiziarie e, al tempo stesso, democraticamente asfittiche. Fare ordine in questo intreccio significa restituire coerenza e trasparenza al sistema. Occorre in tal senso distinguere i poteri disciplinari e di regolazione delle carriere dei giudici e della magistratura requirente, modificare su base territoriale il sistema elettorale all’interno di due diversi Csm, tenere separati il potere esecutivo e quello giudiziario nelle amministrazioni, evitando commistioni e scambi osmotici fra politica e magistratura all’interno dei Ministeri, restituire al Parlamento la regolamentazione per legge dei modi dell’esercizio dell’azione penale. Se la magistratura non è in grado di operare alcuna autoriforma, né la politica da sola ha in questo momento le risorse per mettere in cantiere un progetto di riforma serio e di più ampio respiro, solo aprendo un tavolo e riunendo attorno ad esso tutte le risorse dialoganti dell’avvocatura penale e della magistratura, sarà possibile porre le basi di una riforma davvero radicale e, in quanto tale, lungimirante. Non è detto infatti che ciò che è avvenuto per caso non possa fornire un’opportunità per rimediare ai tanti errori accumulati nel passato. *Avvocato penalista Pene decise senza più automatismi di Dario Ferrara Italia Oggi, 4 luglio 2019 Conta la gravità del reato senza alcun automatismo per determinare le pene accessorie su reati per i quali la legge indica un termine di durata non fissa: è dunque il giudice a decidere caso per caso utilizzando i parametri ex articolo 133 Cp. Le S.U. penali della Cassazione con un vero e proprio revirement con sentenza 28910/19 di ieri superano il proprio orientamento espresso nella sentenza 6240/15. Pesa il cambio di rotta della Consulta con la sentenza 222/18 in materia di reati fallimentari, che ha espresso un’opzione netta contro l’equiparazione della sanzione alla durata della pena principale: nelle sanzioni complementari, infatti, è più marcata la funzione di prevenzione speciale, che richiede dunque una modulazione personalizzata e correlata al disvalore del fatto illecito. La svolta nella giurisprudenza costituzionale maturava almeno dal 2012. Così ora la Suprema corte perde il riferimento che ha portato alla decisione del 2015 e offre una lettura alternativa dell’art. 37 Cp che tiene conto dell’interpretazione del trattamento sanzionatorio e della sua funzione. La pena principale ha soprattutto funzione retributiva e rieducativa con un trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato; quelle accessorie, invece, hanno altre e più spiccate funzioni rispetto alla rieducazione personale, specie nelle ipotesi interdittive e inabilitative rispetto a determinati incarichi o attività: vale a dire allontanare il reo dal contesto operativo, professionale, economico e sociale nel quale sono maturati i fatti criminosi, che può indurlo a violare di nuovo i precetti penali. Si tratta quindi di pene complementari da mettere in relazione con la gravità della condotta e la personalità del responsabile che non devono riprodurre la durata della sanzione principale. Il giudice del merito, insomma, ben può procedere a una valutazione discrezionale nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge: il tutto sulla base della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri ex articolo 133 Cp, dandone conto con una congrua motivazione. Condanna per tortura, la prima volta in Italia a dei minorenni Il Messaggero, 4 luglio 2019 Prima sentenza di condanna in Italia per tortura, reato introdotto poco più di un anno fa. Quattro anni e sei mesi al capo-banda e 4 anni ad altri tre della stessa banda: sono le condanne inflitte ieri in abbreviato dal Tribunale per i Minorenni di Milano a quattro 15enni accusati di aver segregato, picchiato e torturato un loro coetaneo, in un garage di Varese lo scorso novembre. L’obiettivo era ottenere informazioni su un suo amico che la gang voleva rintracciare. La condanna più alta è stata inflitta dal giudice al minore ritenuto la mente del sequestro e del pestaggio del quindicenne, legato e picchiato con un bastone di ferro. A quanto è emerso era pronto a lasciare l’Italia con la madre prima di essere arrestato. L’accusa aveva chiesto condanne per un totale di 21 anni, sostenendo che tutti e quattro i giovani imputati non abbiano mostrato segni di ravvedimento ed empatia con la vittima. “Non fu legittima difesa: Peveri sparò solo per far del male” di Simona Musco Il Dubbio, 4 luglio 2019 La cassazione smonta il caso che ha “ispirato” la riforma. Angelo Peveri non sparò per legittima difesa, ma con modalità “criminali”, solo per dare una lezione a Dorel Jucan, il rumeno che si era introdotto nelle sue proprietà per rubare gasolio. E per farlo lo ha inseguito, malmenato e fatto inginocchiare, puntando la pistola al petto e sparando a bruciapelo con un fucile a pompa, dall’alto verso il basso, senza che la sua vittima potesse difenderli. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, che con le motivazioni della sentenza di condanna a 4 anni e mezzo dell’imprenditore piacentino di fatto ha riscritto la storia che ha portato alla riforma della legittima difesa. Fu proprio il suo caso, infatti, a spingere il ministro Matteo Salvini a spingere sull’acceleratore per portare in aula la riforma, che poi riuscì ad ottenere a marzo scorso, con il sì in Senato del testo poi divenuto legge. Ma in questa storia, secondo gli Ermellini, in realtà di legittima difesa non c’è alcuna traccia: l’azione messa in atto da Peveri, secondo la sentenza, è soltanto un tentato omicidio. Tutto accadde il 5 ottobre del 2011, quando Peveri, dopo aver sorpreso alcuni ladri intenti a sottrarre carburante dai serbatoi di alcuni mezzi di sua proprietà, parcheggiati in un luogo incustodito, sparò tre colpi (sostenendo di avere puntato in aria, circostanza smentita dalle indagini), ferendo uno dei ladri a un braccio. La banda si dileguò e tutto sembrava esser finito lì. Ma poco dopo Jucan tornò a recuperare l’auto, abbandonata prima della fuga nel cantiere. E lì trovò Peveri ad attenderlo assieme ad un suo operaio. I due lo immobilizzarono, per poi sbattergli più volte la testa per terra. E fu a quel punto che Peveri sparò il quarto colpo, a poco più di un metro dal petto di Jucan, costretto ad inginocchiarsi. Una storia finita con una lunga convalescenza e una pena a 10 mesi per tentato furto per Jucan. E molto diversamente per Peveri. L’imprenditore aveva sostenuto di aver sparato un solo colpo, tesi non riscontrata dal numero di bossoli trovati sul posto. Dopo aver sparato a Jucan al petto, aveva ricaricato poi “volontariamente” almeno tre volte l’arma, che, però, si era inceppata, lasciando un colpo in canna inesploso. Situazioni in aperto contrasto con la tesi difensiva del ferimento accidentale. Peveri, secondo i giudici, “aveva indubbiamente agito con la volontà di ledere Jucan”, sparando, peraltro, con un “un micidiale fucile a pompa a breve distanza dalla vittima inerme e diretto al torace”, indifferente “alle conseguenze del suo gesto, e dunque con previsione e volontà, in via alternativa, del ferimento oppure della morte”. Non si parla mai, nella sentenza, di legittima difesa, ma di “azione criminale”, compiuta, peraltro, con “odiose modalità”, rappresentate dalle “ripetute percosse inferte, anche con un corpo contundente, a vittima non armata, che invano esternava supplichevoli manifestazioni di pentimento, esplosione a distanza ravvicinata di un colpo da un micidiale fucile a pompa diretto al torace della vittima”. Azioni motivate, oltretutto, non dalla volontà “di bloccare i ladri”, bensì “di dar loro una lezione”. Per Salvini, che ha anche annunciato - pur non potendolo fare - di voler chiedere la grazia a Mattarella, il caso Peveri era invece la prova dell’urgenza di una riforma sulla legittima difesa. Una norma che, secondo un’altra pronuncia della Cassazione, ha effetto retroattivo, ma che non può essere applicata all’imprenditore piacentino, che agì al di fuori del suo domicilio, in un parcheggio non custodito, e soprattutto animato soltanto dalla volontà di punire in maniera esemplare i ladri. L’imprenditore, che dopo la condanna aveva ricevuto in cella la visita di Salvini, che si era impegnato a farlo stare “in galera il meno possibile”, è stato condannato anche per le lesioni personali aggravate nei confronti del complice di Jucan, Andrei Ucrainet, colpito di striscio dal fucile a pompa mentre scappava lungo il fiume Tidone. Toscana: celle bollenti e sovraffollate giustizianews24.it, 4 luglio 2019 Il Garante dei detenuti fa lo sciopero della fame per protesta. Celle bollenti e sovraffollate: le carceri toscane diventano per i detenuti una bolgia infernale. Per questa ragione il garante dei detenuti Franco Corleone ha iniziato lo sciopero della fame. “La protesta di Corleone - spiega una nota - nasce dal fatto che il Palazzo di Giustizia di Prato è stato chiuso per l’ondata eccezionale di caldo, ma nessuno si interessa della situazione dei detenuti”. “Nel carcere fiorentino di Sollicciano molti frigoriferi non funzionano. Il risultato sono cibi che deperiscono molto rapidamente e brodaglia al posto di acqua” denuncia il garante. Nonostante un “timido” segnale da parte della direzione, secondo Corleone “molto c’è ancora da fare”. Nel Giardino degli Incontri, la struttura pensata dall’architetto Michelucci per i momenti tra detenuti e famiglie, “il bar non funziona” rileva ancora il garante, che mira ad “ottenere certezze su molte questioni che riguardano la vita in carcere”. Per questo, dice Corleone “le ragioni del mio digiuno aumentano. Ancora attendo risposte sul destino del cambio di destinazione del Gozzini a istituto femminile e ancora non è dato sapere quando aprirà la nuova sezione per le attività culturali, artistiche e di studio a Lucca”. Intanto la petizione per la costruzione di un teatro stabile nel carcere di Volterra ha raccolto oltre 2mila firme, riscuotendo notevole successo. “Qualche spiraglio si apre” dichiara Corleone, che annuncia una conferenza stampa della Compagnia di Volterra il prossimo 11 luglio con il direttore artistico Armando Punzo. Trento: nel carcere di Spini manca personale di Tommaso Di Giannantonio Corriere del Trentino, 4 luglio 2019 “Educatori e polizia, l’organico è carente”. La Garante Menghini: clima generale di insoddisfazione. La relazione annuale del Garante dei diritti dei detenuti, presentata ieri mattina alla sala Aurora di Palazzo Trentini, non è una semplice fotografia della Casa circondariale di Spini di Gardolo. Ma è piuttosto un’istantanea che cattura il movimento di una situazione carceraria in continua evoluzione, evidenziando i passi in avanti che sono stati fatti, ma anche, e soprattutto, le criticità riscontrate. Prima tra tutte la carenza di educatori e di operatori penitenziari che genera inevitabilmente uno stato di frustrazione all’interno delle celle. Sfogliando alcune delle pagine del rapporto 2018 riecheggiano così le grida dei detenuti della rivolta di Natale. Allo stato attuale sono soltanto 3 gli operatori dell’area educativa, a fronte di una dotazione organica di 6 educatori prevista sulla base dell’originaria capienza massima di 240 persone. Ad oggi, oltretutto, i detenuti sono ben oltre la cifra di paragone. “Attualmente le presenze sono 296 e il numero continuerà a salire dopo la flessione registrata nel periodo successivo alla rivolta”, ha specificato la garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini. Dopo la manifestazione di protesta scoppiata lo scorso dicembre a seguito del suicidio di un detenuto di origini tunisine, infatti, erano stati trasferiti 58 detenuti. Le presenze erano scese così da 348 a 290, di cui il 68% sono straniere (circa il doppio rispetto alla media nazionale sia per la localizzazione del carcere in una zona di frontiera e sia per i continui trasferimenti che passano per la C.c. di Spini di Gardolo). Ma come gli educatori, anche gli operatori della Polizia penitenziaria sono costretti a lavorare sotto organico. Rispetto alle 229 unità previste, al momento sono appena 172 gli agenti impiegati nella Casa circondariale di Spini di Gardolo. Tutto ciò “provoca un clima di generale insoddisfazione e di agitazione tra i detenuti, che devono attendere tempi molto lunghi prima di avere una risposta ad una richiesta - ha spiegato Antonia Menghini - Sia che si tratti di una richiesta di colloquio con la direzione, con il comando o con gli operatori e sia che si tratti di una risposta da parte della magistratura di sorveglianza”. A rincarare la dose è anche la mancanza di una struttura specifica per le persone detenute affette da disagio psichico. Ancora oggi vengono quasi sempre collocate in modo permanente nella sezione infermeria, nonostante rappresenti soltanto una soluzione temporanea. “In questo modo il detenuto non ha alcun accesso alle attività trattamentali - si legge nella relazione delle attività della garante, impegnata lo scorso anno in 400 colloqui con le persone detenute - e finisce col vivere in una situazione che evidentemente, alla lunga, rischia talvolta di compromettere ulteriormente il suo quadro di stabilità psichica e emotiva”. Dati alla mano, inoltre, senza innescare una logica di causa-effetto, nel 2018 è stato registrato un significativo aumento degli atti di autolesionismo: 34 eventi, quasi il doppio rispetto al 2017. Così come sono raddoppiati i suicidi, da 1 a 2. In confronto ai casi di suicidio registrati negli ultimi sei-sette anni in tutti gli altri istituti penitenziari e in dieci case circondariali del centronord, il tasso di sucidi della Casa circondariale di Spini di Gardolo risulta al di sopra della media. Difronte a questo quadro preoccupante ad aprile - in seguito anche alla rivolta divampata prima di Natale - è stato approvato il Piano provinciale di prevenzione delle condotte suicidarie che ha dato vito ad un gruppo di lavoro operativo. “Nel primo incontro che si è tenuto qualche giorno fa tra la direzione del carcere e l’Azienda provinciale per i servizi sanitari - ha fatto sapere la garante dei diritti dei detenuti - è emersa la volontà di stilare un documento concreto che crei una rete di operatori capace di intercettare le situazioni di rischio”. Ad inizio anno, inoltre, l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) ha comunicato che gli assistenti sociali riprenderanno ad entrare in carcere per svolgere colloqui con i detenuti, attività questa che mancava da più di tre anni. Verona: il carcere è ancora lontano dall’essere luogo di riabilitazione di Marcello Toffalini verona-in.it, 4 luglio 2019 A Montorio il sovraffollamento di 200 persone è la prima causa di conflitti. Le condizioni di vita nelle carceri italiane non aiutano il reinserimento sociale. Recentemente il Corriere di Verona, ha pubblicato un articolo sulle condizioni del carcere di Montorio: una vera “caienna”, secondo Angiola Petronio, che con quella parola ha voluto sintetizzare la situazione esposta da Margherita Forestan, Garante dei diritti dei detenuti nella Casa Circondariale, in una seduta del Consiglio comunale di Verona. Gli ospiti di un carcere sono costretti a vivere in celle di pochi metri quadrati, quasi sempre in assenza di un minimo di “privacy”, conducendo una vita che, a dir poco, civile non è, malgrado gli sforzi dei collaboratori esterni, delle guardie e del direttore nel fornire centri d’interesse sportivo o attività culturali, di sartoria o di officina. Perché la privazione della libertà personale non implica, né dovrebbe implicare mai, il degrado personale, culturale e sociale dei detenuti. Ed il colmo è che quella di Montorio avrebbe dovuto essere una struttura per detenuti in attesa di giudizio, quindi potenzialmente ancora innocenti, invece è lentamente diventata un sito per condannati in via definitiva. Ma facciamo parlare i numeri. Ci sono 335 posti, ma dentro sono ospitate 525 persone: 474 uomini e 51 donne. Dati del 2018, perché nel frattempo i detenuti sono già aumentati (oggi sono 550). Il sovraffollamento di almeno 200 persone, che rende inumano l’ambiente interno fino ad incattivire i rapporti interni dentro le celle, è la prima causa di inumanità e di conflitti; la seconda è che, senza un numero adeguato di pedagogisti e di altro personale di sostegno, sono difficili i percorsi di reinserimento nella vita sociale esterna. Quanto alla scuola se ne fa molta “anche perché sono convinta che la cultura, lo sport, mostrino a queste persone l’altra medaglia della vita”, parola del Garante dei diritti. Ed è bello sapere che ben 135 uomini e 10 donne l’anno scorso hanno frequentato corsi di alfabetizzazione e di scuola primaria inferiore. Altri 29 sono stati studenti dell’istituto alberghiero Berti. In 23 hanno seguito il corso liceale e in 4 sono iscritti all’università. Va detto, in appoggio agli sforzi per una detenzione più umana e meno pesante, che chi è ancora in attesa di giudizio ha l’aspettativa di mostrare la sua innocenza e maggiormente si batte contro il degrado, mentre chi ha avuto una condanna definitiva, per quanto lunga, ha la speranza di uscire prima o dopo, agevolata dal reinserimento sociale del pentito. Perché questo è infatti il senso della pena inflitta al carcerato, non certamente quello di metterlo in cella e di “buttare la chiave”, come si sente spesso ripetere da uomini di “governo”, in cerca di voti, veri ladri di consenso e di vita. Dunque: rendere più facile da praticare la “messa alla prova” e rendere più umani gli ambienti carcerari. Sono queste le chiavi di volta di una vera riforma dell’Ordinamento penitenziario affinché il detenuto, al termine di un percorso di reinserimento sociale, una volta uscito non torni più a delinquere, con beneficio suo e della sicurezza dell’intera società. Infatti, com’è giusto che sia, un detenuto è condannato ad una riduzione della sua libertà di movimento ma non anche alla privazione degli altri diritti umani. In questo senso è giusto aderire all’appello di Roberto Saviano “Perché delle carceri bisogna parlare”, pubblicato sull’Espresso del 9 giugno, per rendere pubblica la necessità di una Riforma dell’Ordinamento giudiziario, nel senso sopra indicato. Se pensiamo che la cosa si sarebbe potuta realizzare già alla fine del 2017 e comunque prima delle ultime elezioni (4 marzo 2018) vengono i brividi: le responsabilità al riguardo da parte del centro-sinistra, “rottamatore” ma inconcludente sui diritti umani, sono troppo evidenti ed oggi, verosimilmente, con i venti che tirano, quella Riforma sembra spostarsi in avanti. Quanto? Apprendiamo, sempre in giugno, un’ulteriore limitazione ai danni dei detenuti di alcune carceri della Calabria. Susanna Marietti (Associazione Antigone), così ci informa: “Sembra che oggi nelle carceri di Castrovillari, Paola, Rossano e Cosenza siano stati cancellati tutti i corsi di scuola secondaria superiore, se non per qualche classe quinta rimasta senza troppo criterio. Ben 34 classi sarebbero state soppresse. I docenti dell’istituto tecnico industriale Enrico Fermi di Castrovillari, destinatari di trasferimenti forzati, si stanno attivando per ricorsi a titolo personale. Gli studenti detenuti iscritti ai corsi, niente affatto in numero irrisorio, resteranno in cella a oziare sulla branda”. Non c’è più solo l’insano e allarmante sovraffollamento a contrastare la rieducazione personale e sociale del detenuto: nell’ottica della progressiva riduzione delle spese carcerarie siamo capaci persino di mettere al bando anche la riqualificazione culturale dei detenuti. Temo notizie di trattamenti penitenziari men che umani, che avvengono già nella Casa di Montorio per il cronico sovraffollamento o nelle carceri calabresi. Dove la pena inflitta sembra contraria al senso di umanità o al reinserimento sociale del detenuto, che sono invece condizioni e diritti non alienabili, almeno secondo la nostra Costituzione (art. 27, comma 3). Che così si esprime: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Reinserimento sociale compreso e ben auspicato. Bologna: carcere minorile, sul tavolo il raddoppio della capienza zic.it, 4 luglio 2019 “Perplessità” del garante dei detenuti, che torna a intervenire anche sulla situazione alla Dozza: con la canicola l’ora d’aria resta tra le 13.30 e le 15.30 e ai detenuti continua a non essere concesso comprare ventilatori. “Non c’è un cronoprogramma ma è un’ipotesi di cui si parla, anche se ancora non ci sono comunicazioni ufficiali”. Così ieri il Garante comunale dei detenuti Antonio Ianniello ha riferito che è sul tavolo un ampliamento, da 22 a 44 posti del carcere minorile del Pratello: “Pensare di raddoppiare la capienza - ha detto - senza incrementare l’organico, suscita non poche perplessità perché le difficoltà lavorative si acuirebbero e diminuirebbero le attenzioni nei confronti dei ragazzi, in una struttura che ha inadeguatezze strutturali croniche”. Il Garante è tornato a intervenire anche sulla Casa circondariale della Dozza, dove anche questa estate il caldo provoca gravi disagi. “Situazione critica che ciclicamente si ripete”, ma (anche qui) “l’inadeguatezza strutturale”, così come “le difficoltà organizzative non consentono di fare più di tanto”. A quanto pare non si fa neanche poco, però, considerando che l’ora d’aria, effettuata in un’area completamente cementata, anche in questi giorni di canicola è tra le 13.30 e le 15.30 e ai detenuti continua a non essere concesso nemmeno acquistare “ventilatori autoalimentati”. Condizionatori? Il garante conferma che finanziamenti ministeriali per acquistarne “sono da escludere”. Macomer (Nu): la prigione viene destinata ai migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2019 Da carcere di massima sicurezza a Centro di permanenza e rimpatrio. Mentre diverse ex caserme verranno convertite in carcere, alcune ex carceri verranno invece convertite in Centri di permanenza e rimpatri (Cpr). È il caso della Sardegna, in particolare l’ex carcere di massima sicurezza di Macomer. La struttura, finiti i lavori di sistemazione, dovrebbe ospitare un centinaio di “ospiti”, anche se, forse, bisognerebbe scrivere “detenuti”, perché di fatto lo sono, anche se non hanno commesso nessun reato. Infatti si parla di “detenzione amministrativa”. Secondo le direttive del ministero dell’Interno, già quest’anno dovrebbe entrare in funzione per una cinquantina di migranti. “I bandi di gestione sono già stati emessi - ha spiegato Francesca Mazzuzi, referente per la campagna LasciateCIEntrare dell’isola. Nelle intenzioni del ministro Matteo Salvini, come di chi l’ha preceduto e degli amministratori regionali e locali, questo dovrebbe fungere da deterrente per chi sbarca in Sardegna lungo la rotta algerina ma sappiamo bene che non ci sono deterrenti che reggono per chi non ha alternative a quella di scappare da fame e guerre e per chi, come gli algerini, desidera fortemente un futuro migliore. Proprio come è stato per i Cie, questa struttura non servirà a nulla se non a raccattare facili consensi in campagna elettorale ed a calpestare i diritti di chi ha già sofferto troppo”. L’ex carcere di Macomer era stato chiuso proprio perché non rispondeva ai parametri minimi di legge previsti per la detenzione. Celle strettissime, compresi gli spazi interni. Già l’anno scorso era nel programma di convertirlo, ma il bando era stato revocato dalla Prefettura di Nuoro visto che era saltato l’accordo con la Regione, gli Enti Locali e il Ministero dell’interno. Quest’anno invece ci si riprova. Sette ditte hanno concorso e tra queste compare anche quella che aveva gestito il Cara di Mineo, a suo tempo molto contestato per la gestione. I Cpr, ricordiamo, servono per ospitare gli immigrati in attesa di essere rimpatriati pur non avendo commesso alcun reato che ne permetta la custodia. Tutto ha origine dalla legge del 1998, detta la Turco - Napolitano, la quale ha stabilito la realizzazione di Cpt (Centri di Permanenza Temporanea) in cui le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni. L’esperienza si dimostrò sin dall’inizio a dir poco problematica: nei centri finirono soprattutto ex detenuti e persone che non sono poste in condizione di regolarizzare la propria posizione. Le stesse strutture (ex ospizi, caserme dismesse, container etc.) si dimostrarono inadatte a garantire condizioni di vita decenti. Da subito diventano teatro di rivolte, di fuga, di atti di autolesionismo in alcuni casi con esito tragico. Già da allora anche la gestione dei centri risente di numerosi aspetti critici: la sorveglianza esterna viene affidata alle forze dell’ordine e la responsabilità affidata alle locali prefetture, la gestione a enti privati che ottengono l’appalto con gare a trattativa privata gestite dalle prefetture competenti. Dopo una parziale messa in discussione delle politiche fallimentari di detenzione e una sensibile diminuzione dei giorni di trattenimento (a ottobre del 2014, un emendamento dei senatori Manconi e Lo Giudice ha consentito la riduzione del periodo massimo di trattenimento degli stranieri all’interno dei Cie a novanta giorni) e del numero dei centri, le recenti e nuove disposizioni della legge Minniti- Orlando - riprese dal ministro dell’Interno Salvini - vanno in tutt’altra direzione: prevedono la riapertura dei centri chiusi, portandoli a uno per regione. Oltre all’incremento del tempo di trattenimento che vanno da 90 a 180 giorni. Rovigo: emergenza caldo in carcere Il Gazzettino, 4 luglio 2019 Climatizzatore fuori uso: nel carcere di Rovigo detenuti, agenti e familiari fanno la sauna da tre settimane. Tanto che i sindacati della polizia Penitenziaria sono pronti a una protesta pacifica se il problema non si risolverà. Con la canicola anticipata degli ultimi 15 giorni nelle celle e nei locali adibiti alla sorveglianza la colonnina di mercurio ha raggiunto anche i 41 gradi. Temperature che mettono a dura prova chi nella casa circondariale ci vive e ci lavora. Aggiungendo, nel caso dei detenuti, un’ulteriore pena a quella che già stanno scontando. Ma anche tra le guardie non sono mancati i disagi a causa del caldo soffocante: alcune di loro hanno avuto un calo di pressione durante il turno di lavoro. A nulla sono serviti finora i numerosi solleciti inviati dalla Cgil alla direzione del carcere con la richiesta di risolvere il problema all’impianto di climatizzazione. “Abbiamo ottenuto soltanto rinvii afferma Giampietro Pegoraro, rappresentante del sindacato prima posticipavano di settimana in settimana, adesso rinviano di giorno in giorno. Ma se alla volta di lunedì i condizionatori non saranno operativi, organizzeremo un sit-in insieme alle altre sigle sindacali. È un disagio per noi, per i detenuti ma anche per i familiari che vengono a fare visita. Il carcere è una struttura di cemento armato che si riscalda facilmente. Persino i giudici che vengono qui per gli interrogatori si sono lamentati per le temperature troppo elevate”. L’impianto di condizionamento quest’anno non è ancora entrato in funzione: un mese fa una ditta è intervenuta per il controllo di routine prima di azionarlo, riscontrando però alcune anomalie risolvibili sostituendo dei componenti. I pezzi sono stati ordinati ma, a quanto pare, devono ancora arrivare. A chi entra in carcere a Rovigo, insomma, non si può proprio dire che starà al fresco. Almeno per il momento. Chieti: mettere di fumare è ancora più difficile in carcere, l’indagine dell’Asl chietitoday.it, 4 luglio 2019 Sedici detenute, sulle 19 fumatrici ospiti dell’istituto penitenziario teatino, hanno risposto alle domande dell’assistente sanitaria Luciana Petrocelli insieme ai tirocinanti del corso di laurea in Assistenza sanitaria. Smettere di fumare è ancora più difficile in un ambiente ristretto come il carcere, dove le persone sono più fragili: lo conferma uno studio dell’unità operativa di Sanità penitenziaria della Asl Lanciano Vasto Chieti, guidata da Francescopaolo Saraceni, dedicato alle donne ospiti dell’Istituto penitenziario di Chieti. Le fumatrici sono 19 su 36 detenute presenti, di età compresa tra 26 e 60 anni, con un’età media di 44 anni. Su 16 donne che hanno accettato di sottoporsi all’indagine - condotta dall’assistente sanitaria Luciana Petrocelli insieme ai tirocinanti del corso di laurea in Assistenza sanitaria -, sette dicono di fumare quando sono nervose e altrettante sostengono che il fumo le rilassa e dà loro energia. Eppure per otto di loro è “disperatamente importante” smettere di fumare. In generale le fumatrici indicano come ragione per smettere la paura di ammalarsi (il 25%) o perché sentono il respiro più affannato e ugualmente temono di sviluppare qualche patologia (un altro 25%), o perché vogliono essere un buon esempio per i figli (il 13%) oppure, ancora, per via del respiro “sempre più affannato” (6%). Il 7% di loro non vuole smettere di fumare. Secondo l’indagine, cinque donne su 16 hanno iniziato a fumare all’età di 13 anni. Nove su 16 affermano di fumare 20 sigarette al giorno, con un costo giornaliero di 5,50 euro a pacchetto che diventano 38,50 euro a settimana, 154 euro al mese e 1.848 euro l’anno. Alle detenute è stato sottoposto il test di Fagerstrom, sei domande che valutano il tasso di dipendenza dal fumo: ne è emerso che 12 donne su 16 accendono la prima sigaretta entro i primi cinque minuti dal risveglio; dieci su 16 affermano di non fare fatica a “non fumare” in luoghi chiusi, mentre sei su 16 fanno fatica. Tra le intervistate, due hanno evidenziato un grado di dipendenza molto forte. Napoli: Bennato a Poggioreale, concerto per i detenuti Il Mattino, 4 luglio 2019 L’annosa questione carceraria vive alternando tragedie (come le tre avvenute di recente a Poggioreale) e opportunità - come quelle che operatori del settore e volontari cercano di dare ai detenuti. Stavolta, al centro dell’attenzione ci sono una buona notizia e le attività del Progetto IV Piano per i tossicodipendenti reclusi proprio a Poggioreale, afferente alla Uosd Strutture intermedie del dipartimento dipendenze della Asl Nal centro, che offre ai circa centoventi detenuti del padiglione Roma un confronto e la possibilità di frequentare diversi laboratori- creativi, sportivi, di meditazione. La buona notizia è un evento (che chiude una fase del programma, in attesa dell’inizio di quello estivo) organizzato con la direzione della casa circondariale e con il Consorzio di cooperative sociali Gesco Campania: si tratta del concerto che Eugenio Bennato terrà nella struttura lunedì. Bennato non ha bisogno di presentazioni, come il suo interesse per le questioni sociali. L’occasione si preannuncia di svago e conforto per i detenuti, ma anche per coloro che li seguono. Nell’ambito dell’iniziativa, è prevista pure una visita ai locali dove si svolgono le attività del Progetto IV Piano e al “giardino di dentro”: l’area confinante con il padiglione Roma (gestita con poliziotti, educatori e operatori) ospita oggi grandi aiuole dove i detenuti tossicodipendenti possono impiegare il proprio tempo libero occupandosi della manutenzione del verde, e partecipando agli “incontri sull’affettività”, che coinvolgono anche le loro famiglie. L’organizzazione si avvale del sostegno della pizzeria La Notizia, dell’agenzia Motorvillage e della libreria locisto, che fornirà una lettura estiva ai detenuti. Alla giornata prenderanno parte: per l’Asl Nal centro (l’unica della Regione Campania a aver organizzato una Uo SerD strutturata all’interno di istituti penitenziari), il commissario straordinario Ciro Verdoliva, il sub-commissario sanitario Anna Borrelli, il direttore del dipartimento dipendenze Stefano Vecchio, la dirigente responsabile della Uosd Strutture intermedie Marinella Scala, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Manone, la direttrice della casa circondariale di Poggioreale Maria Luisa Palma, il presidente del tribunale di sorveglianza Adriana Pangia. Turi (Ba): in carcere si suona a ritmo pop di Cinzia Debiase turiweb.it, 4 luglio 2019 Un riscontro positivo per l’appuntamento di venerdì orso, 21 giugno, presso la Casa di Reclusione di Turi. Chiudendo fuori dalle mura il caldo torrido della giornata, Tina Ottavino ha regalato ai detenuti del carcere di Turi un’occasione di conoscenza e una nuova chiave di lettura di Dante Alighieri e della sua Divina Commedia, fuori dai classici schemi. A permetterla, Trifone Gargano con il suo “Dante Pop”. La materia, spesso poco curiosa e interessante per molti, si è rivelata un’ottima occasione di conoscenza e di riflessione a partire dalla modernità della penna dantesca, che trova nell’oratoria del professor Gargano, una grande facilità di affascinare e piacevolezza nell’ascoltare. È una “provocazione culturale” quella che porta in Carcere il professor Gargano, è un incontro con la musica, con i grandi autori del panorama artistico musicale che scuote le curiosità dei detenuti, spaziando dagli anni 70 ad oggi raccontando un lavoro di ricerca - “perché questo lavoro prosegue ancora oggi” - il Dante della Commedia. Incuriositi e partecipi anche gli ospiti del pomeriggio di cultura portato dalla signora Ottavino, dal Sindaco Tina Resta a Nico Catalano, proseguendo con Angelo Palmisano e il consigliere Teresita De Florio, oltre che la Direttrice del carcere, la dott.ssa Rosa Musicco, gli Agenti della Polizia Penitenziaria e gli Educatori che lavorano nella struttura. Da De Andrè a Venditti, dai Negramaro passando per Jovanotti, Vinicio Capossela, Caparezza, Ligabue, lo Zecchino D’oro o Pierdavide Carone, i versi della Divina Commedia trovano spazio nella musica di tutti i giorni. Inconsapevolmente, ognuno di noi li canta. Una contaminazione artistica che il dantista di Adelfia ha ricercato per diversi anni e ancora oggi continua a cercare. Ripercorrendo le discografie dei più grandi cantautori italiani dell’ultimo cinquantennio, il professor Gargano ha sottolineato e commentato tutti i riferimenti alla Divina Commedia, presenti nei testi delle canzoni. Lo ha fatto accattivando l’interesse della platea che ha ascoltato e cantato versi danteschi, seguendo le didascalie irriverenti di Gargano. Si passa da citazioni più esplicite come in “Filippo Argenti” di Caparezza, a riproposizioni più dibattute come in “Dolente Pia” di Gianna Nannini. Dalle note eversive di Fabrizio De André in “Un bombarolo”, al racconto critico degli anni tra i banchi di scuola affidato alle ballate di Antonello Venditti. Ogni autore, ogni verso trasposto sulle basi musicali, si fa veicolo di un inferno terreno, con patimenti terreni; gli stessi descritti da Dante nella prima cantica. Poteva non aver fine il coinvolgente incontro tra Trifone Gargano ed i presenti che anche al termine della giornata hanno dimostrato di voler ancora ascoltare e farsi travolgere dalle analisi dello scrittore che, come ci annuncia l’organizzatrice Ottavino, presto tornerà con un lavoro su Pirandello. Migranti. Sea Watch, lite sui giudici. Bonafede: sì a nuove regole di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 4 luglio 2019 È scontro totale tra Matteo Savini e la magistratura. Il caso Carola Rackete - la capitana della Sea Watch 3 - riaccende le polveri e innesca un botta e risposta tra il titolare del Viminale da una parte e l’Anm dall’altra. Con il ministro degli Interni che parla di magistratura politicizzata e i giudici (Anm) che accusano la politica di creare un clima violento. Intanto, però, il vicepremier incassa la fiducia sui progetti di riforma della giustizia da parte del Guardasigilli Alfonso Bonafede: “Secondo Matteo Salvini bisogna rivedere i criteri di selezione dei magistrati? Sono perfettamente d’accordo ed è quello che dico da settimane. Chiaramente, e su questo non ci devono essere dubbi, gli avanzamenti di carriera dovranno essere fuori da dinamiche correntizie e quindi dovrà essere blindato un perimetro di meritocrazia”. Bonafede poi aggiunge: “Autonomia e indipendenza della magistratura sono valori sanciti dalla Costituzione. Non si dovrebbe arrivare ad attaccare il singolo magistrato parlando di togliersi o non togliersi la toga, di candidarsi in politica o no”. Il riferimento, chiaro, è rivolto alle polemiche sollevate da Salvini nei confronti del gip di Agrigento Alessandra Vella. Il giudice che, martedì, non ha applicato nessuna misura cautelare e non ha convalidato l’arresto di Rackete. La giovane tedesca rimane, comunque, sempre accusata di resistenza e violenza a nave da guerra e resistenza a pubblico ufficiale. Al comando della Sea Watch 3, sabato 29 giugno, Rackete aveva fatto sbarcare 42 migranti al porto di Lampedusa. Era rimasta 14 giorni di fronte alle coste dell’isola senza entrare nelle acque territoriali italiane. Nel suo ingresso in porto non aveva accolto all’alt intimato dalla finanza e aveva urtato la barca delle fiamme gialle durante l’attracco. Un arresto immediato (domiciliari) sconfessato poi dalla gip. “Togliti la toga e candidati con la sinistra”, ha sbottato ieri il ministro degli Interni, rivolto al giudice. L’Anm difende Vella e parla di “clima d’odio” alimentato dal ministro, mentre i togati del Csm chiedono l’apertura di una pratica a tutela per il giudice, coperta da una valanga di insulti sui social. E Salvini è costretto ad incassare anche il no della procura di Agrigento al nulla osta per l’allontanamento dall’Italia della 31enne tedesca. Dovrà restare fino al 9 luglio, giorno in cui sarà interrogata dai pm che la indagano nell’altra inchiesta, quella per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il ministro definisce “scandalosa e vergognosa” la decisione, che “mi ha provocato tanta rabbia. Nessuno mi toglie dalla testa che quella di Agrigento è una sentenza politica. Ma avremo la fortuna di imbatterci prima o poi in un giudice che applicherà le leggi e non le disattenderà perché in quel caso si toglie la toga e si candida con il Pd e viene in Parlamento. Fino a prova contraria i giudici devono applicare la legge”. L’Anm insorge. “Ancora una volta - osserva organismo rappresentativo che raggruppa i magistrati italiani - commenti sprezzanti verso una decisione giudiziaria, disancorati da qualsiasi riferimento ai suoi contenuti tecnico-giuridici, che rischiano di alimentare un clima di odio e di avversione, come dimostrato dai numerosi post contenenti insulti e minacce nei confronti del gip di Agrigento pubblicati nelle ultime ore”. Secca la replica del ministro. Salvini punta il dito sull’inchiesta giudiziaria che ha travolto, nelle scorse settimane, il Consiglio superiore della magistratura: “Con quello che stiamo leggendo sulle spartizioni di poltrone e procure a cura di qualche magistrato penso che siano gli ultimi che possano dare lezioni di morale a chiunque”. La replica, senza nominare mai il titolare del Viminale, arriva dal presidente Anm Luca Poniz. “Ho letto oggi una dichiarazione che trovo inaccettabile perché violenta e che respingo al mittente, che i magistrati per colpa di queste vicende (inchiesta di Perugia che ha travolto il Csm, ndr) hanno perso la loro credibilità. Questo va respinto con forza, perché noi siamo i magistrati italiani, siamo parte della storia migliore di questo paese”. E infine chiude Poniz: “Nessuno ci ha mai intimidito non le pallottole, non il tritolo, non le oscene manifestazioni della politica sulle scalinate di questo tribunale”. Si fanno sentire anche i consiglieri togati del Csm che chiedono l’intervento del Consiglio “a tutela dell’indipendenza ed autonomia della giurisdizione”. Migranti. Giudici contro Salvini dopo le accuse alla gip. Lui: pensate al Csm di Francesco Grignetti La Stampa, 4 luglio 2019 Il Guardasigilli del M5S Bonafede chiede una tregua. Ma il leghista rincara: “Su Carola decisione politica”. È un Matteo Salvini scatenato, che per l’intero giorno si slancia irridente contro la magistrata di Agrigento che ha scarcerato Carola, contro l’Anm, contro le Ong, contro l’opposizione. Fa dirette Facebook, ma usa toni durissimi anche dai banchi del governo a Montecitorio. Una frase per tutte: “È una sentenza vergognosa. Una scelta incredibile con motivazioni incredibili. Una motovedetta della Gdf non è una nave da guerra? È un pedalò? C’è una legge, chi se ne frega”. È talmente scatenato da ipotizzare una riforma complessiva della magistratura, di cui vorrebbe cambiare tutto: accesso, percorsi formativi, progressione di carriera (e si sa che il vicepremier spinge per una separazione delle carriere). Tanta foga mette in imbarazzo i partner di governo. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede tenta di frenarlo: “Non voglio fare polemiche, ma dal mio punto di vista l’autonomia e l’indipendenza della magistratura sono valori sanciti dalla nostra Costituzione, che vanno rispettati. Ciascuno può essere d’accordo o no con una decisione della magistratura, ci mancherebbe, ma non si dovrebbe arrivare ad attaccare il singolo magistrato parlando di togliersi o non togliersi la toga, di candidarsi in politica”. Bonafede non intende assolutamente litigare. Perciò si mostra ultra-conciliante: “Sapete - dice ai suoi, sorseggiando il caffè - purtroppo le leggi vanno sempre interpretate, come qualunque cosa che è scritta in lingua italiana, una lingua che ha le sue sfumature”. Parla così, Bonafede, uscendo dall’Aula dove Salvini ha appena ribadito a brutto muso un ritornello di questi giorni: “Sono convinto che, anche sul tema immigrazione, avremo la fortuna di imbatterci prima o poi in un giudice che applicherà le leggi e non le disattenderà, perché, in quel caso, si toglie la toga, si candida con il partito democratico e viene in Parlamento”. Non appena gli riferiscono della cauta presa di posizione del collega, però, il leghista rimbrotta anche lui: “È una chiara sentenza politica, avrò il diritto di denunciarlo? Mettere a rischio la vita di cinque militari della Guardia di Finanza merita il carcere? Secondo questo giudice, no. È una sentenza che a me ha provocato rabbia, poi ognuno dica quello che vuole”. Altri nel M5S sono meno concilianti. Il senatore Nicola Morra, presidente dell’Antimafia, non fa mancare la sua solidarietà alla magistrata “stigmatizzata, denigrata, delegittimata sol perché non ha accolto le ipotesi accusatorie avanzate dalla Procura di Agrigento”. E non usa giri di parole per criticare una “rabbia parossistica figlia di furor ideologico”. L’attacco è così furibondo che in Parlamento non manca chi s’indigna. L’ex ministro Andrea Orlando, ad esempio, attuale vicesegretario del Pd: “Salvini non esita ad insultare chi amministra la giustizia in modo diverso da ciò che desidera. È la negazione del principio della separazione dei poteri”. Oppure l’associazione nazionale magistrati: “Ancora una volta, commenti sprezzanti verso una decisione giudiziaria, disancorati da qualsiasi riferimento ai suoi contenuti tecnico-giuridici, che rischiano di alimentare un clima di odio”. Fa male soprattutto l’accusa di giustizia politicizzata. “Quando un provvedimento risulta sgradito al ministro dell’Interno - sostiene l’Anm - scatta immediatamente l’accusa al magistrato di fare politica”. Ma Salvini non è in vena di lasciar correre: “Con tutti i problemi che stanno emergendo al vostro interno, non penso sia il momento più adatto per dare lezioni ad altri”. Migranti. Il decreto sicurezza-bis smontato dalla gip Vella di Adriana Pollice Il Manifesto, 4 luglio 2019 La scarcerazione di Rackete. La motovedetta della Gdf non è una nave da guerra in acque territoriali, Libia e Tunisia non sono porti sicuri, le direttive ministeriali non hanno “nessuna idoneità a comprimere gli obblighi del capitano”: la giudice di Agrigento fa a pezzi la bandiera di Salvini. La gip di Agrigento Alessandra Vella, negando la convalida dell’arresto per la capitana della Sea Watch 3 Carola Rackete, ha smontato il decreto Sicurezza bis, eretto da Matteo Salvini come un bastione contro le Ong. L’ordinanza - Costituzione, codici e normative internazionali alla mano - dimostra come proprio Rackete sia stata quella che ha rispettato il diritto, al contrario della misura bandiera di Salvini. La procura aveva chiesto per la comandante la convalida dell’arresto eseguito dalla Guardia di finanza il 29 giugno, quando la comandante ha deciso di entrare nel porto di Lampedusa nonostante il divieto. Il pm l’ha accusata di resistenza e violenza nei confronti della nave da guerra della Fiamme gialle e ancora di violenza per essersi opposta ai pubblici ufficiali della vedetta. Il primo capo d’accusa viene cassato perché le unità della Gdf sono considerare navi da guerra solo “quando operano fuori dalle acque territoriali”. Il secondo pure è giudicato infondato perché “sulla scorta di quanto dichiarato dall’indagata e dei video, il fatto deve essere molto ridimensionato”. La manovra pericolosa viene giustificata perché l’indagata “ha agito in adempimento di un dovere”. Vella spiega qual è il dovere: “L’attività del capitano, di salvataggio di naufraghi, deve considerarsi adempimento degli obblighi derivanti dal complesso quadro normativo” nazionale e internazionale. La gip boccia il decreto Sicurezza bis in base al diritto e non alle convinzioni politiche (come Salvini ha insinuato, furioso, martedì sera via social): “Su tale quadro normativo non si ritiene possa incidere il decreto legge 53 del 2019”: il divieto interministeriale di ingresso, transito e sosta può scattare solo in presenza di attività di carico e scarico di merci o persone, ma non è il caso in esame perché la gip ricorda che si tratta di un salvataggio e per questo la nave non può considerarsi “ostile”. Anche la resistenza a pubblico ufficiale viene giudicata come inevitabile, come cioè “l’esito dell’adempimento del soccorso” che, ricorda Vella, si esaurisce solo con “la conduzione fino al porto sicuro”. La gip mette in fila due elementi fondamentali, in contrasto con il decreto voluto da Salvini: non si può arbitrariamente bollare come offensivo il passaggio di una nave, soprattutto se è impegnata in un salvataggio; anche allo straniero entrato illegalmente durante un salvataggio devono essere assicurati sbarco e assistenza, solo dopo si può procedere al rimpatrio. Infine la gip sgombra il campo: Libia e Tunisia non hanno porti sicuri. Vella conclude: le direttive ministeriali in materia di “porti chiusi” o il provvedimento del ministro dell’Interno, firmato da Difesa e Infrastrutture, in base al quale si è stabilito il divieto di ingresso, transito e sosta alla Sea Watch 3, non ha “nessuna idoneità a comprimere gli obblighi del capitano”, e persino sulle autorità nazionali, in materia di soccorso e salvataggio. L’avvocato della capitana, Alessandro Gamberini, spiega: “Si è trattato dell’adempimento di un dovere, rispetto a norme che impongono di sbarcare le persone pena il pregiudizio di valori assoluti, come la tutela dell’integrità fisica di chi viene raccolto in situazioni di naufragio”. E sul decreto Sicurezza bis: “Il giudice dimostra, attraverso il richiamo a norme internazionali cogenti, sia l’illegittimità della pretesa di chiudere i porti da parte del ministro dell’Interno, sia del divieto finale di attracco ripristinando l’equilibrio dei valori e la prevalenza dell’incolumità della vita, rispetto all’arbitrarietà di scelte operate per motivi propagandistici”. Migranti. Il diritto prevale sulle narrazioni di Mauro Barberis Il Secolo XIX, 4 luglio 2019 Mai come stavolta l’opinione pubblica s’è polarizzata attorno ai due protagonisti: il ministro degli interni, percepito come incarnazione del Popolo, e la capitana della Sea Watch, trasfigurata in Angelo vendicatore. Ora, i giudici sono imparziali, ma il diritto no, dando ragione a una parte e torto all’altra. Così, chiamata a decidere sulla conferma dell’arresto della capitana, la giudice delle indagini preliminari non ha potuto esimersi dal negarlo. Qui cerco di spiegare questa decisione, che stupisce solo chi crede ancora alla televisione, cioè alla politica. L’ordinanza, in tredici scarne paginette, smonta le richieste dell’accusa. Carola Rackete era accusata addirittura di resistenza a nave da guerra, in base all’art. 1100 del Codice della navigazione. Ma la motovedetta della Finanza urtata dalla Sea Watch non è una nave da guerra: non sinché opera nelle nostre acque territoriali. Poi, era accusata anche di resistenza a pubblico ufficiale, ex art. 337 del Codice penale, sempre e solo per aver urtato la motovedetta. Ma se mai un urto potesse considerarsi resistenza, osserva la gip, sarebbe giustificato dall’adempimento di un dovere, secondo l’art. 51 dello stesso Codice penale. La capitana, infatti, era tenuta a soccorrere i naufraghi: se non l’avesse fatto, sarebbe incorsa nel reato di omissione di soccorso. Il suo obbligo di soccorso, poi, cessa solo quando i naufraghi sono portati nel più vicino porto sicuro: dunque né in Libia, paese in guerra da cui i naufraghi fuggivano, né in Tunisia, dove non esiste il diritto d’asilo. Se qualcuno avesse tentato di riportare i naufraghi in Libia, anzi, questi avrebbero avuto diritto alla legittima difesa, per salvare se stessi e i propri figli. Questa è legittima difesa: non la libertà di sparare a casaccio. L’ordinanza tocca molte altre questioni di fatto e di diritto che non posso approfondire qui. Il lettore non prevenuto, però, si sarà già chiesto come mai la ricostruzione dei fatti compiuta dal gip differisce così profondamente da quella fornita dai media, anche moderati. Ad esempio: come mai nell’ordinanza il preteso “speronamento” della motovedetta torna a essere un semplice urto, che non poteva certo mettere a rischio l’incolumità dei finanzieri? Ma forse questa domanda bisognerebbe girarla agli stessi media, i cui vertici sono nominati e controllati dal governo: il quale vorrebbe fare lo stesso con la magistratura, travolta dallo scandalo del Csm. Ma c’è un abisso fra le alte cariche corrotte, e una gip che ha avuto il coraggio di fare solo e tutto il proprio dovere. Libia. Strage di migranti nella prigione sulla linea del fronte di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 luglio 2019 A Tajoura, periferia ovest di Tripoli, un raid notturno di Haftar colpisce un centro dove le milizie arruolano a forza i detenuti. Un ammasso di polvere e detriti, ciabatte infradito rotte, materassi insanguinati, brandelli di vestiti e pezzi di cadavere sotto le lamiere contorte verso il cielo del tetto: ciò che resta del capannone chiamato “detention camp”, con al centro un cratere di meno di un metro di diametro, segno che la bomba è caduta dal cielo, in piena notte, a Tajoura. “Avevamo visitato il centro il giorno prima e nella cella che è stata colpita c’erano 126 persone ammassate”, ha detto ieri Prince Alfani, coordinatore medico di Msf in Libia, che ha aiutato la Mezzaluna rossa a raccogliere i feriti. Di quelle 126 persone, un’ottantina sono state recuperate ancora in vita, i morti, i cui corpi giacciono sparsi si contano per sottrazione: almeno 44, forse di più. Dopo il boato notturno un’onda di terrore ha abbattuto ciò che restava in piedi, le paratie, il cartongesso, i muri graffiati di scritte dai prigionieri - “we love”, “I live”, nomi, cose così - e bucati da precedenti razzi. “Tanti erano feriti, scappavano, alcuni sono morti in strada mentre correvano, non sappiamo cosa altro dire, solo che speriamo che l’Onu ci aiuti a uscire da questo posto che è pericoloso”, ha raccontato Othman Musa, nigeriano sopravvissuto, intervistato dai media arabi tra i migranti sdraiati all’ombra delle macerie davanti al campo di Tajoura. Tajoura più che una cittadina, è un conglomerato di case, ristori all’aperto e bancarelle lungo uno stradone alla periferia ovest di Tripoli. E, dall’inizio dell’offensiva del generale Haftar, il 4 aprile, questa è la strage di civili più grande, che in un colpo solo ha eguagliato il bilancio dei civili libici rimasti vittime del conflitto in questi tre mesi esatti. Hussein bin Attieh Al Ahrar, anziano di Tajoura ha raccontato che nella notte sono stati due i raid che hanno colpito la prigione per migranti. Un attacco deliberato del generale Haftar ora in difficoltà, dopo la disfatta e la cacciata dalla strategica cittadina di Gharyan dove aveva il suo centro logistico? È questa l’accusa che gli viene dai nemici del cosiddetto “governo di accordo nazionale” guidato da Fayez Serraj, il premier di Tripoli che non più tardi di lunedì scorso era a Milano a colloquio con il ministro Matteo Salvini a chiedere maggiore appoggio, anche militare, in cambio delle solite assicurazioni sul dossier migranti - i respingimenti della sua Guardia costiera - ciò che a Salvini interessa della Libia, più petrolio e affari. “Un crimine di guerra”, ha tuonato ieri Serraj, e così ha detto anche in una nota ufficiale il governo turco, suo dichiarato alleato militare, chiedendo un’indagine indipendente delle Nazioni Unite. Che lo sia, un crimine di guerra, è indubbio, lo ha ripetuto lo stesso inviato speciale Onu per la Libia Ghassam Salamé, più Mogherini per la Ue, l’Unione africana. Haftar, il principale indiziato con il suo cosiddetto “Esercito nazionale libico”, impegnato proprio in questi giorni e in queste notti nel tentativo di recuperare le posizioni perdute sul terreno, ha rigettato le accuse sul campo opposto. Ma la colpa in guerra è una signora che si vuole infedele sulla bocca di tutti. La missione Unsmil dell’Onu ha dichiarato che al momento non è possibile accertare le responsabilità del massacro, ma l’inchiesta dell’Onu ci sarà, ha confermato il portavoce Charlie Yoxley, naturalmente con i tempi del caso, ed è un caso di guerra. Un deposito di armi e munizioni è situato proprio a ridosso del “detention camp” ad uso di una delle milizie più grosse di Tajoura, la milizia Daman, la stessa che gestisce, tra torture e degrado, anche il centro per migranti in accordo con la Guardia costiera libica, tant’è che il giornale Libyan Express lo chiama “Daman camp”. La milizia in questione combatte insieme alle forze di Misurata in appoggio a Serraj, perciò non è escluso che i 44 migranti uccisi non fossero il vero target, ma solo vittime “incidentali”, in quanto impossibilitate a fuggire dei raid di Haftar. Non è neanche la prima volta che succede, ricorda Alfani di Medici senza Frontiere: il centro per migranti di Tajoura è stato colpito anche all’inizio di aprile e un’altra volta due mesi fa, quando per poco non è stato ucciso un bambino e una donna è rimasta ferita. Infatti a maggio l’Unsmil aveva chiesto al governo che i 600 detenuti in quel capannone fatiscente fossero evacuati, perché troppo vicini alla linea di fuoco. Una tragedia annunciata, più che un danno collaterale. Il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni Flavio Di Giacomo sottolinea: “I migranti soccorsi in mare vengono trasferiti nei centri di detenzione dove la loro vita è a rischio, mentre continuano gli scontri, non dovrebbero essere rimandati in Libia”. E così il portavoce dell’Lna di Haftar ha facile gioco a propagandare la disponibilità a farsi carico dell’accoglienza a Bengasi. “Le milizie di Serraj - dice al Mismari - li usano come scudi umani”. La crisi umanitaria dei migranti detenuti in Libia: ecco in quali condizioni vivono di Erminia Voccia Il Mattino, 4 luglio 2019 Almeno 40 migranti sono stati uccisi e altri 80 sono stati feriti in Libia da un attacco avvenuto nella notte tra martedì e mercoledì a Tripoli. Ad essere colpito dai raid un hangar nel sobborgo di Tajoura, ad est della capitale libica, che ospitava quasi 120 migranti. La maggior parte delle vittime arrivava dall’Africa e aveva raggiunto la Libia con lo scopo di emigrare in Europa. Il quartiere periferico di Tajoura è regolarmente preso di mira dalle forze di Haftar, riferisce Afp. Haftar ad aprile ha lanciato la sua offensiva sulla capitale, da quasi tre mesi alle porte di Tripoli si scontrano le forze del generale e le milizie a sostegno del premier al Sarraj, ma da settimane la sutuazione sul terreno di era sostanziale stallo. Il generale libico, ex uomo forte della Cirenaica, aveva annunciato lunedì 1 luglio pesanti bombardamenti su Tripoli, dopo il fallimento dei “mezzi tradizionali”. “L’Unhcr è estremamente preoccupata per i bombardamenti e per la notizia della morte dei migranti del centro di Tajoura a Tripoli”, questo il tweet dell’agenzia Onu. Sono tre i messaggi che l’Unhcr ha diffuso dopo i raid aerei costati la vita a rifugiati e migranti nel centro di detenzione libico: le persone in fuga non devono essere detenute; i civili non sono un bersaglio; la Libia non è un luogo sicuro. Quasi 6mila migranti, in fuga da nazioni come Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan sono rinchiusi in Libia in decine di campi e strutture controllati da milizie locali che guadagnano con il traffico di esseri umani. Diverse inchieste delle Nazioni Unite hanno rivelato che in questi campi avvengono torture, abusi e altre violazioni dei diritti umani ai danni dei migranti. Secondo un report del 2018, dall’anno 2017 almeno 29mila migranti sarebbero stati trasportati nei centri di detenzione, dove le persone restano rinchiuse contro la loro volontà, a tempo indeterminato e senza alcuna assistenza legale. Il personale delle Nazioni Unite l’anno scorso ha visitato 11 centri, dove migliaia di migranti e rifugiati subiscono, ad esempio, percosse e ustioni praticate con oggetti metallici roventi. Ai familiari dei detenuti vengono estorti soldi attraverso un complesso sistema di trasferimento di denaro. Secondo l’Onu, più di 3mila migranti sarebbero adesso in pericolo perché detenuti in centri collocati a ridosso della linea di demarcazione tra le posizioni delle forze fedeli ad Haftar e quelle a sostegno del governo riconosciuto di Tripoli. L’agenzia AP a fine giugno aveva lanciato un nuovo allarme sulle condizioni inumane in cui i migranti sono costretti a vivere nei centri in Libia. Centinaia di africani sono detenuti per mesi tra pile di rifiuti, a contatto con vermi e liquami e senza acqua e cibo in quantità sufficienti a sopravvivere. In questi inferni nel deserto libico spesso finisce il sogno di una vita migliore in Europa. “La nostra vita peggiora di giorno in giorno”, ha detto un migrante eritreo, uno dei 700 rinchiusi in un centro vicino alla città di Zintan, nell’ovest del Paese. Nel centro di Zintan sarebbero morti almeno 22 migranti dallo scorso settembre, 100 sarebbero quelli malati, alcuni di tubercolosi, e i bambini detenuti sarebbero un altro centinaio. La sofferenza non è solo fisica, molte persone sviluppano anche disturbi mentali. “Abbiamo bisogno di un piano d’emergenza per evacuare Zintan”, ha affermato un migrante ad AP. Nel centro i detenuti non possono vedere la luce del sole e verrebbero privati del cibo e dell’acqua come forma di punizione. La zona occidentale del Paese, dove si trova Zintan, è amministrata dal governo di unità nazionale di Tripoli, che si appoggia alle milizie locali. I migranti di Zintan si sono rivolti all’Unhcr, accusando l’agenzia di averli abbandonati. L’Unhcr ha però risposto che le milizie che controllano l’area hanno negato l’accesso al sito. Libia. Il sangue dei senza nome di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 4 luglio 2019 È una strage annunciata quella dei profughi di Tajoura, provocata dai raid aerei delle forze militari del leader della Cirenaica Haftar. E riguarda da vicino, a quanto pare, il governo di contratto Lega-M5s; visto che ieri il ministro razzista della sicurezza bis, Matteo Salvini - con evidente coda di paglia - si è sentito in dovere di denunciarla. Invitando l’Europa, non si capisce bene, a quale “intervento”. Come se lui non c’entrasse nulla. Come se lui non avesse descritto ripetutamente, in modo ossessivo quanto menzognero, il mantra che lì tutto è tranquillo per i migranti, che “La Libia è un posto sicuro” dove riportarli indietro anche con la forza, bombardando le navi delle “Ong-scafiste” se necessario per affondarle come ha chiesto a viva voce la degna sodale Giorgia Meloni. Farebbe meglio a tacere Salvini. Forse che non sapeva che i centri di detenzione e i campi dei rifugiati - che in visita allegra a Tripoli arrivò a definire “all’avanguardia” - sono - come a Tajoura nella retrovia militare delle milizie di Misurata - accanto a caserme e depositi di armi, vale a dire target di guerra nemmeno mimetizzati in questa nuova sanguinosa guerra civile? È quello di Tajoura un massacro “scontato” di decine e decine di inermi e indifesi che anche da morti resteranno senza nome. Tra loro aleggia la memoria coloniale italiana: sono tutti eritrei e somali. E noi invece vorremmo conoscerli uno per uno quei nomi di donne, uomini, bambini, anziani. Una infamia che urla contro la sordità politica di questo governo irresponsabile e ambiguo che strizza l’occhio a Serraj e stringe le mani a Haftar, purché entrambi, subito e in prospettiva, garantiscano il blocco dei migranti. È un massacro che diventa spartiacque tra verità e menzogna di Stato. Anche grazie all’ordinanza sulla Sea Watch 3 della gip di Agrigento che ha ripetuto che la Libia e anche la Tunisia non sono porti sicuri; quello libico è territorio conteso a mano armata da eserciti e milizie contrapposte ed è in guerra. E non solo non è sicuro, è da evacuare e da soccorrere. Visto che le agenzie dell’Onu e Amnesty International parlano ormai di 100mila sfollati libici, mentre insistono a denunciare i “crimini di guerra” commessi sia dalle forze del generale Khalifa Haftar, all’offensiva per conquistare la Tripolitania con appoggi nemmeno nascosti di Francia ed Emirati Arabi; sia da quelle del “nostro” alleato di Tripoli, riconosciuto dalla cosiddetta “comunità internazionale, Fayez al Serraj. Ma è forse una novità oppure una scoperta recente la definizione della Libia come Paese in guerra? E dichiarare come criminale ogni respingimento dei migranti in fuga da quell’orrore fatto di torture, carceri, campi di concentramento? Il manifesto ha denunciato questa condizione addirittura quando la guerra non c’era, quando c’era ancora al potere l’alleato Gheddafi; e non ha smesso di farlo quando, dopo proditoria azione armata della Nato durata almeno sei mesi, si sono insediate al potere a Tripoli forze islamiste, sedicenti democratiche e d’opposizione. E soprattutto abbiamo alzato la voce due anni fa, inascoltati, quando il governo Renzi, con il ministro degli interni Minniti, insieme all’Unione europea hanno deciso di esternalizzare nel “posto sicuro” della Libia la disperazione dei migranti: perché l’accoglienza, diceva Minniti, metteva in discussione la democrazia; e già, due anni fa si cominciavano a criminalizzare le Ong che invece soccorrevano a mare gli scampati ai tanti naufragi che hanno trasformato il Mediterraneo nella nostra rimossa fossa comune. Così alla fine Salvini, il ministro dell’Inferno, ha continuato lo “stile coloniale” che ha trovato per gestire la sua aggressiva campagna sulle “invasioni”, sulla criminalizzazione estesa dell’accoglienza, sul Decreto sicurezza bis, trovando non un sentiero in salita ma un’autostrada aperta. Ora con grande ritardo il Pd ne discute e si accorge dell’errore-orrore provocato e non ha partecipato al voto sui nuovi aiuti al regime di Tripoli. Meglio tardi che mai. Ma intanto il sì al sostegno alle milizie a caccia di migranti che recitano la parte della Guardia costiera libica - forte delle corvette già consegnate dal governo Gentiloni - era già stato dato un mese fa. Così la scelta di “smarcarsi” all’ultimo momento, rimane all’interno di una ideologia: l’adesione sostanziale “all’ingerenza umanitaria” dell’intervento militare Nato nel 2011. A quando una riflessione sui risultati di destra di una scelta interventista considerata in modo scellerato “di sinistra”, e sull’attualità dell’articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali?