Sovraffollamento: un appello a Mattarella di Valentina Stella Il Dubbio, 3 luglio 2019 “Il carcere possibile Onlus” chiede al Presidente di inviare un messaggio alle Camere. “Esortare le istituzioni a prendere atto della drammaticità e pericolosità” dell’attuale situazione carceraria e “adottare i provvedimenti necessari a rendere i nostri istituti detentivi, e la vita che in essi si svolge, conformi alle leggi nazionali e sovranazionali, e degne di uno Stato democratico occidentale”. È questo l’appello rivolto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dall’associazione “Il Carcere Possibile Onlus”. In pratica l’associazione - nata nell’aprile del 2003 come “progetto” della Camera Penale di Napoli su iniziativa dell’avvocato Riccardo Polidoro - chiede al Capo dello Stato di esercitare le sue prerogative, come fece nel 2013 l’allora Presidente Giorgio Napolitano che, ai sensi dell’articolo 87 della Costituzione, inviò un messaggio di grande impatto alle Camere, con il quale indicò anche i possibili rimedi al sovraffollamento, quali l’indulto e l’amnistia. “Le nostre carceri - scrivono - sono polvere pirica destinata ad incendiarsi ad ogni scintilla”. Secondo i dati del ministero della Giustizia, al 30 giugno, su una capienza regolamentare di 50.496 posti sono presenti 60.522 reclusi. E proprio una settimana fa Mattarella, incontrando il capo del Dap Francesco Basentini, aveva chiesto di assicurare migliori condizioni contro il sovraffollamento. Proprio quest’ultimo fenomeno - rilevano i firmatari dell’appello - “è tornato a livelli elevatissimi vicini a quelli antecedenti la nota sentenza di condanna per trattamenti inumani e degradanti subita dal nostro Paese” da parte della Cedu. Tutto ciò viene aggravato “dalle tragiche condizioni strutturali di molti penitenziari e dall’assoluto fallimento dell’assistenza sanitaria in carcere”. Per l’avvocato Elena Cimmino, vice presidente dell’Associazione: “come diceva Marco Pannella lo Stato è in flagranza di reato in quanto la situazione delle nostre carceri sta per esplodere. La visione carcerocentrica che questo governo ha manifestato di avere determina una banalizzazione delle misure alternative alla detenzione che potrebbe influire anche sulle decisioni dei tribunali concernenti la concessione delle stesse e ciò aggraverebbe in modo esponenziale una situazione già insostenibile. Torno a ribadire che non manca molto all’esplosione delle nostre carceri. Mi chiedo se questo Governo non tema una Torreggiani bis oppure la desideri per continuare a dire che questa Europa è cattiva”. L’appello della onlus cade a sei giorni dallo sciopero nazionale proclamato dall’Unione delle Camere penali proprio per protestare contro la politica del governo riguardo il mondo penitenziario. Il 9 luglio, giornata dell’astensione, l’Unione organizzerà infatti nel Palazzo di Giustizia di Napoli una manifestazione. Nella lunga lettera - a firma del presidente, l’avvocato Anna Maria Ziccardi, e del direttivo dell’Associazione - si fotografa una situazione davvero drammatica delle nostre carceri: “Non abbiamo mai assistito a quanto sta accadendo in questi ultimi mesi all’interno dei nostri istituti di pena”. I sottoscrittori della lettera passano poi ad elencare una serie di situazioni critiche passate e recenti: “si è cominciato ad ottobre 2018 con la rivolta nel carcere di Trento, alla quale ha fatto seguito quella dell’istituto di Rieti; quindi, quelle di Spoleto e Campobasso, e pochi giorni fa un’ulteriore rivolta nel carcere di Poggioreale a Napoli, già teatro di precedenti manifestazioni di rivendicazione da parte dei familiari dei reclusi”. Proprio nel carcere partenopeo, come vi abbiamo raccontato da queste pagine, e come ribadisce l’avvocato Sergio Schlitzer “nel 2018 i suicidi dei detenuti sono stati 4, nel 2019 siamo già a 3. In Italia, nel 2019, siamo arrivati a 23 suicidi”. A tutto ciò, aggiungono gli scriventi, è da rilevare una questione culturale: “la novità è climatica: l’abiura sociale, strumentalizzata anche dal mondo politico, della rieducazione quale fine primo ed ineludibile del nostro sistema punitivo. L’affermazione, espressa ripetutamente e con linguaggi odiosi, che il peccato non si emenda, si espia, naturalmente in carcere e con pene esemplari”. Con il caldo più rivolte e suicidi in carcere di Azzurra Barbuto Libero, 3 luglio 2019 Ogni settimana un detenuto si toglie la vita. Ed ogni mese ad ammazzarsi è un poliziotto penitenziario. Dal 2000 ad oggi i suicidi in cella sono stati 1.076, 67 nel 2018, 23 dal primo gennaio di quest’anno. E nei primi sei mesi del 2019 hanno scelto la morte 6 agenti della Polizia penitenziaria, tra i 32 ed i 54 anni, l’ultimo il 24 giugno scorso a Vigevano. È incandescente più che mai il clima che si respira in questi giorni all’interno degli istituti di pena italiani. Nel carcere di Poggioreale, a Napoli, che a fronte di una capienza regolamentare di 1.635 individui ne ospita 2.314, di cui 337 stranieri, nel giro di 48 ore si sono suicidati due reclusi e un altro è perito per cause naturali. A metà giugno una violenta rivolta è scoppiata nel padiglione detentivo Salerno che è stato distrutto, a scontrarsi sono stati in totale 300 ristretti: nigeriani, da un lato, e italiani, dall’altro. Ed è probabile che queste tensioni, esplose anche a causa del sovraffollamento, abbiano reso l’esistenza dietro le sbarre ancora più insostenibile, tanto che due uomini hanno preferito farsi fuori piuttosto che permanerci. I conflitti di tipo etnico e culturale sono quotidiani, del resto la vita in una cella di pochi metri quadrati tra soggetti di diversa nazionalità con usi e costumi differenti, costretti a stare gomito a gomito notte e giorno, non è facile. Il nostro sistema penitenziario può ricevere 50.496 carcerati, ma ne accoglie 60.522, di cui 20.224 stranieri (oltre il 30% di tutta la popolazione reclusa, dati ministero della Giustizia, Dap). Ogni 100 posti disponibili nelle prigioni nostrane ci sono 115 reclusi e tra il 2016 e il 2018 la popolazione carceraria è lievitata del 7,5% (dati del rapporto Space). I primi Paesi esteri per numero di detenuti presenti nelle prigioni della nostra penisola sono Marocco (3.733 presenze), Albania (2.543), Romania (2.524), Tunisia (2.043), Nigeria (1.615), Egitto (566), Senegal (504) ed Algeria (471). I principali delitti di cui questi forestieri si sono resi autori nel Bel Paese e per i quali scontano la pena sul nostro territorio sono soprattutto reati contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione, sequestro di persona, truffa, appropriazione indebita, ricettazione, ecc.), traffico di sostanze stupefacenti e reati conto la persona (omicidio volontario, lesioni personali volontarie, violenza privata, minaccia, violenze sessuali, ecc.). Significativa pure la presenza di cittadini non italiani per crimini contro la pubblica amministrazione (violenza, resistenza, oltraggio), contro la fede pubblica (falsi in atti), contro l’amministrazione della giustizia e contro la famiglia (dati del Sappe). Più continuiamo ad accogliere clandestini sul nostro territorio più il numero dei ristretti extracomunitari aumenta rendendo sempre più drammatiche le condizioni esistenziali di coloro che stanno in gattabuia. Va da sé che in tal modo è impossibile che le istituzioni totalizzanti penitenziarie assolvano alla loro funzione fondamentale, che è quella rieducativa, volta al reinserimento sociale del reo una volta saldato il suo debito con la giustizia. Ed ecco che la galera diventa un luogo in cui ci si incattivisce, si peggiora, una scuola che addestra alla delinquenza, perché bisogna pur sopravvivere in qualche maniera in quella sorta di inferno. In estate la situazione diventa ancora più tragica. L’afa degli ultimi giorni non lascia scampo ai detenuti, che non possono godere dell’aria condizionata e convivono a stretto contatto, gli uni sugli altri. Il sole infierisce con crudeltà sulle minuscole finestre della cella, le sbarre diventano roventi, quello stanzino angusto, sudicio e fatiscente si trasforma in un forno, manca l’ossigeno, si rischia di impazzire. E non c’è via d’uscita. Se non la morte, unica possibilità di evasione. Sono condizioni disumane su cui dovrebbero riflettere pure i più accaniti giustizialisti, tenendo presente che l’Italia è tra gli Stati europei con il maggior numero di detenuti in attesa di giudizio (34,5% contro una media europea del 22,4%) e quindi da considerarsi non colpevoli in base al principio della presunzione di innocenza almeno fino a sentenza definitiva. Si tratta di 20 mila persone, di cui quasi 10 mila sono in attesa di primo giudizio. Il sovraffollamento genera continue sommosse, liti, aggressioni, violenze, i ristretti bruciano persino i materassi in segno di protesta, osi scagliano contro le guardie ferendole persino in modo grave. “I problemi sociali ed umani nei penitenziari permangono ed il personale di polizia penitenziaria si trova isolato nella gestione delle emergenze. Anche il suicidio di un detenuto costituisce un forte agente stressogeno sia per gli altri reclusi che per gli uomini le donne del nostro corpo di polizia, che lavorano con zelo e abnegazione in un contesto assai complesso”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), sottolineando che dal 1 gennaio del 1992 al 31 dicembre 2018 i poliziotti penitenziari hanno sventato più di 23mila tentati suicidi ed impedito che quasi 166mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Pd: trovare soluzione per bambini in carcere con le madri romadailynews.it, 3 luglio 2019 Procedere con una riforma della legge 62 del 2011 per trovare una soluzione ai 56 bambini che ancora oggi in Italia vivono con le madri detenute in carcere, intervenendo su tre punti: costruendo case famiglia con il finanziamento dello Stato - e non “senza oneri per lo Stato”, come previsto dalla norma - utilizzando gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri) solo nei casi di lunghe detenzioni; procedendo alla comunicazione immediata delle autorità giudiziarie competenti della presenza di un minore al momento dell’arresto. È la proposta emersa nel corso della conferenza stampa “Madri detenute e figli minori: normativa vigente e alternative al carcere” organizzata ieri a Montecitorio dai deputati del Partito Democratico Paolo Siani, Ubaldo Pagano, Carmelo Miceli, Nicola Pellicani, Patrizia Prestipino, Rosa Maria Di Giorgi con l’associazione “A Roma Insieme-Leda Colombinì” alla presenza del Garante dei detenuti della Regione Puglia, Piero Rossi. La proposta è stata spiegata nel corso dell’incontro da Gustavo Imbellone e Giovanna Longo, di “A Roma Insieme-Leda Colombini”, associazione attiva dal 1994 il cui obiettivo principale è che nessun bambino varchi più la soglia di un carcere. “Non si tratta di aggiustamenti che stravolgono l’ordinamento, ma di misure emendative necessarie perché quella legge realizzi finalmente gli obiettivi che non ha ancora realizzato e per superare alcune contraddizioni”. Ma anche per fare in modo che gli Icam, metà carcere metà casa-famiglia, non vengano considerati come la soluzione al problema. “Avere bambini innocenti in carcere è una cosa insopportabile a dirsi, ma vedersi ancora di più- ha dichiarato alla Dire Paolo Siani, capogruppo Pd della Commissione parlamentare per l’Infanzia- La Commissione Infanzia è stata nell’Icam Di Lauro, in Campania, a vedere come vivono i bambini in queste strutture, che non sono dei vere e proprie carceri. E certo la vita in quell’istituto è meno pesante per il minore, ma non è una famiglia, non è una casa”. Ad aprile 2019 sono 56 i bambini in carcere con le proprie mamme, “non un numero impossibile, nè una spesa insopportabile”, continua Siani, che sottolinea come la soluzione sia a portata di mano. “Si tratta di creare case famiglia idonee”, che ad oggi sono solo due, una a Roma l’altra a Milano, chiarisce Siani che rilancia: “Potrebbero essere utilizzati i beni confiscati alle mafie”. Ipotesi raccolta da Pellicani, membro della Commissione sul fenomeno delle mafie, che in conferenza stampa si è impegnato a portare il tema sul tavolo dell’organo parlamentare, mentre Di Giorgi, membro della Commissione Infanzia, ha assicurato: “Come Commissione raccogliamo le vostre indicazioni e possiamo fare una mozione o una risoluzione per trattare il problema dei bambini in carcere, in cui rileviamo che esiste un’insufficienza e raccomandiamo il Governo di intervenire”. “Noi sappiamo che gli Icam contengono il danno- spiega Piero Rossi- e che il migliore degli Icam possibili sarebbe quella struttura con caratteristiche architettoniche e organizzative in cui prevalgano le esigenze del bambino”. Ma l’Icam “è una soluzione che fa a cazzotti con la prevalenza dell’interesse del minore”, continua il Garante ampliando il discorso ai “bambini in visita”, che devono avere possibilità di mantenere il rapporto con il genitore nelle migliori condizioni possibili. “Il problema- spiega Anna Buonaiuto, dello staff del garante dei diritti dei detenuti della Campania e volontaria all’Icam di Lauro- è che l’Icam viene vissuto come un carcere dalle donne e i bambini vedono gli agenti di polizia come un nemico. Dalle 15 in poi tutte le attività si arrestano, non c’è un medico disponibile h24. Bisognerebbe implementare figure professionali come educatori, pediatri, medici e personale Osa e incrementare il personale penitenziario femminile. Una casa famiglia protetta garantirebbe un maggior aiuto”. “Investiamo molto nella formazione dei volontari - interviene la volontaria Elisa Rigoni - perché sono situazioni vissute non solo dai bambini che stanno dentro, ma anche dalla famiglia che sta fuori. Tutti i sabato dell’anno garantiamo ai bambini una giornata fuori e portiamo quotidianamente avanti laboratori di arte-terapia, musicoterapia e pittura. Il nostro compito - conclude - è fare in modo che il tempo della detenzione passi nel modo più proficuo possibile”. Il silenzio degli innocenti e gli errori giudiziari di Maurizio Tortorella Panorama, 3 luglio 2019 Niente risarcimento per ingiusta detenzione per chi si avvale della facoltà di non rispondere. I numeri sono drammatici: ogni anno almeno 150mila italiani risultano vittime di errori giudiziari, e molti di loro finiscono in prigione. Un’aberrazione che mette sott’accusa la magistratura e pesa sulle casse dello Stato per i risarcimenti. Pensate che l’ultimo scandalo del Consiglio superiore della magistratura offra la piena e vera rappresentazione del disastro della giustizia italiana? Pensate che il verminaio emerso a fine maggio, fatto di nomine di procuratori teleguidate dalle pressioni politiche, di trattative notturne e segrete e di osceni baratti tra le correnti, ritragga la faccia peggiore dei tribunali? Sbagliate di grosso, c’è di peggio. Immaginate di essere stati sotto inchiesta per quattro anni, e di avere trascorso in carcere o agli arresti domiciliari buona parte di quei 1.500 giorni (o 35 mila ore, se preferite, oppure 2 milioni e passa di minuti). Immaginatevi poi l’inevitabile corollario di ogni vicenda giudiziaria: la gogna mediatica, un lavoro che è svanito, magari una famiglia che si è sciolta, spese legali devastanti. E poi, alla fine del vostro calvario, immaginate di venire assolti: un giudice vi riconosce innocenti e vi lascia da soli sul cumulo di macerie in cui s’è trasformata la vostra esistenza. Ora moltiplicate questo paradigma devastante per 150 mila errori giudiziari all’anno: ecco, allora sì che avrete la corretta percezione del disastro della giustizia italiana. La statistica vi sconvolge? Sappiate che la sua fonte è autorevole: Massimo Terzi, presidente del Tribunale di Torino. È lui a raccontare che nel suo ufficio in media “un imputato su tre viene assolto nei giudizi di primo grado di fronte al tribunale collegiale, e un imputato su due di fronte al giudice monocratico”. Terzi aggiunge le assoluzioni in Corte d’appello e in Cassazione, e proietta i dati su scala nazionale. Esce così la folle cifra di quei 150 mila innocenti indagati, intercettati, interrogati e sbattuti in cella ogni anno, che poi ne attendono in media quattro per uscire finalmente dall’incubo di un’inchiesta penale. Diceva quel principe del foro che fu Francesco Carnelutti: “Ogni sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”. Ne sa qualcosa Amanda Knox, finita da innocente in uno dei più travagliati processi nella storia italiana, il delitto di Perugia, e assolta in via definitiva nel 2015 dall’accusa di aver assassinato Meredith Kercher. Nel suo viaggio italiano di due settimane fa, Amanda ha rivelato di vivere nella paura di essere accusata ingiustamente: “In carcere ho pensato al suicidio” ha detto, lamentandosi di indagini condotte “senza prove e senza testimonianze”. L’espressione “errore giudiziario”, però, non piace affatto ai magistrati: si inalberano perché, dicono, se un processo termina con un’assoluzione la giustizia “in realtà ha fatto il suo corso” e, tutto sommato, è andata anche bene. I tecnici del diritto parlano di “ingiusta imputazione”. Comunque si chiamino, 150 mila errori sono un disastro. Che il dato di Terzi sia corretto e forse prudente, del resto, lo certifica Gabriele Albertini, l’ex sindaco di Milano. Nella scorsa legislatura il senatore Albertini aveva presentato una proposta di legge perché lo Stato coprisse almeno in parte le spese legali dei cittadini riconosciuti innocenti in via definitiva e con formula piena. Malgrado l’adesione di 175 senatori su 315, non si riuscì ad andare oltre l’approvazione della proposta in Commissione giustizia, perché a livello governativo qualcuno ebbe paura che la spesa sarebbe stata eccessiva. Albertini ottenne però una statistica importante: “Con il collega Giacomo Caliendo di Forza Italia” ricorda l’ex sindaco “chiedemmo al ministero della Giustizia di sapere quanti fossero ogni anno gli imputati riconosciuti pienamente estranei agli addebiti: dopo mille insistenze, ci fu risposto che erano 90 mila”. Con formula piena, insomma, ogni 12 mesi vengono assolti 90 mila italiani: gli abitanti di una città come La Spezia. “Formula piena” vuol dire che l’imputato “non ha commesso il fatto” o che “il fatto non sussiste”, quindi il reato per cui è stato processato non è avvenuto. Insomma, si tratta di una quota di assoluzioni di sicuro piccola, minoritaria. Quindi è probabile che il totale degli innocenti arrestati e processati surclassi la già sorprendente, folle stima del magistrato Terzi. I giudici, si sa, difficilmente ammettono un errore. Figurarsi quanto sia complesso farsi riconoscere da un tribunale di essere stati sbattuti in una cella senza motivo. Eppure anche il rivolo delle ingiuste detenzioni ufficialmente riconosciute dai tribunali italiani è una piccola marea montante. Sono state 653 nel 2016, sono salite a 741 nel 2017, e nei primi nove mesi del 2018 sono state 509. In totale, si tratta di 1.903 casi indennizzati negli ultimi tre anni, con una media annuale di 634. Per l’ingiusta detenzione una tabella fissa gli indennizzi: 270 euro per ogni giorno indebitamente trascorso in cella, 135 euro se ai domiciliari. Gli indennizzi, però, sono in calo: nel 2004 lo Stato aveva versato 56 milioni alle vittime, ma nel 2011 la cifra è scesa a 47, nel 2015 a 37, nel 2018 a 33,4, ma sempre nei soli primi nove mesi. In realtà, dietro al calo si nasconde un’impropria “spending review”: lo Stato fa di tutto per non pagare, anche quando deve. È stato stabilito per esempio che, per quanto possa essere lunga una carcerazione indebita, il risarcimento non può mai eccedere i 516.456 euro. E nell’aprile 2014 una sentenza della Cassazione ha stabilito che se l’indagato in sede d’interrogatorio s’è avvalso della facoltà di non rispondere, per quanto gli sia riconosciuta dalla legge, il fatto basta a bloccare qualsiasi riparazione. “È uno dei motivi” dice Pardo Cellini, l’avvocato fiorentino che detiene il record di risarcimenti da errore giudiziario “per cui ai miei clienti, quando incontrano il magistrato, suggerisco sempre di utilizzare questa formula: “Io sono totalmente estraneo ai fatti di cui mi si accusa, ma mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Quelle poche parole in più possono servire a superare il blocco stabilito dalla Cassazione”. Cellini ha imparato a sue spese che lo Stato oppone muri di gomma. L’avvocato è lo storico difensore di Giuseppe Gulotta, il muratore siciliano oggi 61 enne la cui vita è stata devastata da un mostruoso errore giudiziario durato 40 anni, 22 dei quali trascorsi ingiustamente in carcere (si veda il box nella pagina accanto). Dopo la revisione del processo, nel 2016 Cellini e Gulotta hanno ottenuto una prima riparazione di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia mai sborsato. Ma il processo, a Reggio Calabria, è stato peggio di una battaglia: l’Avvocatura dello Stato si opponeva perché Gulotta “aveva confessato le sue colpe”. Il paradosso è che tutti sapevano perfettamente che la confessione era stata estorta nel 1976, all’inizio del caso, grazie a 24 ore di torture inflitte a Gulotta. Il primo giudizio comunque non ha ancora coperto tutti i profili di danno, che in novembre verranno discussi davanti al tribunale di Firenze: la richiesta dell’avvocato Cellini è alta, 63 milioni di euro per danni esistenziali, morali, patrimoniali e biologici. Troppi soldi? Ditelo a chi, innocente, ha vissuto due terzi della sua vita come assassino di due carabinieri. Con un guizzo che profuma di santità, Gulotta ha anche deciso di usare parte dei soldi già incassati per aiutare chi, come lui, è vittima di ingiustizia: “Cercheremo” dice “di provare l’innocenza di persone che stanno pagando per reati che non hanno commesso. Ce ne sono tante in carcere: ora seguiamo il caso di una donna di Lecce, condannata all’ergastolo. A nostro giudizio è innocente”. La donna è Lucia Bartolomeo, infermiera, che da 12 anni è detenuta all’ergastolo per l’omicidio del marito, ucciso con un’overdose di eroina. La revisione del processo, che Cellini intende ottenere dalla Corte d’appello di Potenza, vuole dimostrare che perizie e autopsie alla base della condanna sono sbagliate. Fosse così, più che un errore, sarebbe un orrore. Ingiusta detenzione: maggioranza battuta, legge buttata di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 3 luglio 2019 Il dispetto di Lega e 5 Stelle alla Camera, dove assenze e franchi tiratori contribuiscono a far approvare un emendamento garantista alla legge che introduce l’ingiusta detenzione tra le cause dell’azione disciplinare contro i magistrati. Mai vista l’aula della Camera votare a favore di un articolo di legge, approvare con un secondo voto anche il cambio del titolo per adeguarlo alle modifiche introdotte in commissione e poi, appena pochi minuti dopo, bocciare nel voto finale la proposta di legge che solo di quell’unico articolo era composta. La performance surrealista di Montecitorio sulla legge che voleva introdurre obbligatoriamente i casi di ingiusta detenzione nella valutazione disciplinare dei magistrati, però, ha una spiegazione molto pragmatica. Dopo l’approvazione a scrutinio segreto di un emendamento garantista di Forza Italia, infatti, il testo era diventato inaccettabile per i 5 Stelle e per il ministro della giustizia Bonafede, che pure lo avevano fino a quel punto sopportato. Così la Lega ha concesso agli alleati di buttare tutto a mare all’ultimo secondo, guarda caso negli stessi minuti in cui i presidenti grillini della prima e seconda commissione di Montecitorio decidevano di cedere al pressing leghista contro l’audizione dei rappresentanti della Sea Watch. Sia l’audizione che la legge sui magistrati erano in quota opposizioni. Sono saltate entrambe, tra le inutili proteste di Magi di +Europa, Migliore del Pd e Mulè di Forza Italia. E le altrettanto inutili richieste al presidente della camera Fico di garantire le minoranze. Il problema per i giallobruni di governo è esploso nella votazione, a scrutinio segreto, di un emendamento del forzista Costa, anche primo firmatario della legge poi definitivamente affossata. L’emendamento mirava a contrastare un orientamento giurisprudenziale, in base al quale l’eventuale silenzio dell’imputato viene fatto valere come giustificazione dell’errore giudiziario che ha condotto alla detenzione illecita. La logica dell’emendamento era che il silenzio è un diritto di tutti gli imputati, colpevoli o innocenti che siano. Alle cinque e mezza di ieri pomeriggio Lega e 5 Stelle si sono presentati in aula a ranghi assai ridotti, con 75 deputati e deputate in missione e 41 assenti ingiustificati. Assai più presenti i gruppi di Forza Italia e Pd, ma a mandare sotto la maggioranza hanno contribuito una decina di franchi tiratori, metà dei quali verosimilmente leghisti: cinque i voti sicuramente mancanti dai gruppi di maggioranza: su 245 presenti i no all’emendamento sono stati 240 e i sì 242. Ma altrettanti voti fuori linea sono certamente arrivati dal gruppo misto, dove siedono anche deputati ormai stabilmente in maggioranza. Il deputato di Forza Italia Sgarbi ha raccontato in aula di aver sentito il sottosegretario alla giustizia Ferraresi, il 5 Stelle che aveva inutilmente dato parere contrario all’emendamento, rivolgersi all’opposizione subito dopo la clamorosa approvazione, esclamando: “Finisce qui”. Invece non è finito ancora nulla. Perché dopo una congrua pausa Lega e 5 Stelle hanno trovato il modo di andare avanti, loro, fermando definitivamente la legge. La stessa legge che avevano sostenuto in commissione e per la quale avevano votato a favore anche in aula, ottenendo un’inconsueta unanimità qualche minuto prima di cambiare idea e bocciarla per sempre. “Questo non è l’asilo Mariuccia, non si fanno le cose per capriccio”, ha protestato il Pd”. Che però ha da rimproverarsi - nel voto finale che ha consentito alla maggioranza, tornata in forze in aula, di affossare la legge - anche lui un alto numero di assenti. Come Forza Italia: a conti fatti se le opposizioni fossero state al loro posto il voltafaccia di Lega e 5 Stelle non sarebbe andato a segno. Mancavano invece 44 rappresentanti di Forza Italia, 9 di Fratelli d’Italia, 8 di Leu e 25 del Pd. Dal gruppo dei democratici anche l’unica astensione sulla legge che avrebbe allargato il campo delle azioni disciplinari contro i magistrati: quella del deputato ex leader di Magistratura indipendente e protagonista dello scandalo al Csm, Cosimo Ferri. Ingiusta detenzione: governo sotto, salta la legge di Giulia Merlo Il Dubbio, 3 luglio 2019 Passa emendamento Fi-Pd, poi la rottura. La maggioranza Lega - 5 Stelle è stata battuta alla Camera sull’ingiusta detenzione: emendamento passato contro il parere del governo seduta sospesa (proposta presentata dal Movimento 5 Stelle e approvata con appena sette voti di scarto), la seduta è poi ripresa dopo un’ora. Alla fine, il Governo ha votato contro l’intero testo e ha fatto saltare la legge sull’azione disciplinare nei confronti dei magistrati per ingiusta detenzione. La proposta di legge, quindi, viene bocciata dall’Aula della Camera. I voti a favore sono 183, i contrari 275, un solo astenuto. In commissione il provvedimento era stato licenziato all’unanimità. “Un atteggiamento a metà tra il puerile e il ritorsivo”, commenta il Pd Enrico Borghi. L’esponente dem, come prima aveva fatto Forza Italia, ha sottolineato la “contraddizione” dei gialloverdi. La caduta è avvenuta su un emendamento votato a scrutinio segreto e presentato dal deputato di Forza Italia Enrico Costa con la firma anche del democratico Carmelo Miceli, che riguardava la proposta di modifica degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale, in materia di ingiusta detenzione. Il testo approvato in aula prevede la modifica delle norme sulla riparazione per ingiusta detenzione: si esclude da dolo o colpa grave il fatto che l’indagato si sia avvalso, durante l’interrogatorio, della facoltà di non rispondere. Oggi, invece, l’ordinamento prevede che chi sia stato arrestato ingiustamente possa, dopo l’assoluzione, richiedere la riparazione, ma la Cassazione in alcune sentenze aveva escluso l’indennizzo nel caso in cui l’imputato si fosse avvalso della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio. L’emendamento, dunque, introduce il fatto che “avvalersi della facoltà di non rispondere è un diritto e non inficia il diritto ad avere un risarcimento”, mentre prima “una volta che l’imputato era stato assolto e aveva chiesto il risarcimento, il risarcimento non veniva dato perché l’imputato nella fase iniziale si era avvalso della facoltà di non rispondere”, ha spiegato il forzista Renato Brunetta. L’approvazione del testo è stata accolta da un lungo applauso in aula da parte dei parlamentari di Forza Italia e di altri gruppi di opposizione. Il governo, dunque, ha numeri che vacillano anche alla Camera: nella votazione decisiva sull’emendamento Costa, l’opposizione vince 242 a 240 con il Pd che vota con l’ 89,09% dei componenti; seguono Fi e Misto con 80,77, poi Fdi con 75,76, quindi M5S con 72,69 e infine Lega con 70,40. Probabile che ci sia stato il voto favorevole anche di una decina di franchi tiratori della maggioranza, la scarsa presenza in aula di parlamentari di maggioranza ha fatto il resto. Grande festa delle opposizioni, che hanno attaccato il governo. “Il governo è assente, non ci sono i numeri. Fanno molti proclami ma sono fragili, si vede da queste cose”, ha commentato il capogruppo del Pd Graziano Delrio. Dello stesso tenore anche Giorgio Mulè, portavoce dei gruppi di Forza Italia di Camera e Senato: “Alla Camera dei deputati ha vinto la civiltà, il buon senso, la giustizia. Su un emendamento di Forza Italia alla legge sull’ingiusta detenzione, la maggioranza è andata sotto in aula. Che ci siano sprazzi di rinsavimento nella maggioranza manettara? A sperare non si fa mai peccato. Noi continuiamo a lavorare nel solco di una coerenza che non conoscerà mai opportunismi”. E sull’assenza dei parlamentari di maggioranza affonda anche il capogruppo di Leu, Federico Fornaro: “Il contratto di governo e la maggioranza M5S-Lega si stanno sciogliendo e non certo per colpa del gran caldo” Csm, una credibilità da ricostruire resistendo agli attacchi di Nina Valori Il Manifesto, 3 luglio 2019 Un convegno organizzazo da Md, Giuristi democratici e Coordinamento per la democrazia costituzionale dopo il caso Palamara. Negli stessi minuti in cui Luca Palamara veniva ascoltato al Csm, a pochi chilometri di distanza Magistratura democratica - assieme a tante altre componenti del mondo della giustizia - discuteva delle conseguenze dell’inchiesta. Conseguenze nefaste che rischiano di dare il pretesto al governo per ridurre l’autonomia delle toghe e ricondurla sotto il controllo politico. E invece la “reazione all’attacco” invocata da tutti porta a proporre che “l’unica riforma della giustizia è attuare il modello costituzionale, giù le mani dalla magistratura” nel ricordo comune dell’esempio di Salvatore Senese. Nel convegno organizzato anche dai Giuristi democratici (Gd) e dal Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc) la relazione è stata della segretaria di Md Maria Rosaria Guglielmi, partita da un’amara constatazione: “Dopo questa inchiesta non sarà facile ricostruire la credibilità del sistema di autogoverno. Ma in un contesto politico con tratti di deriva vicini a Visegrad serve una battaglia culturale per difendere i tratti essenziali del Consiglio superiore della magistratura, la sua politicità e il suo pluralismo, dall’attacco che mira a creare due consigli che diventino una sorta di ufficio del personale della magistratura e a relativizzare l’obbligatorietà dell’azione penale che invece ci lega al principio costituzionale dell’uguaglianza: un progetto che punta a far sentire il magistrato più solo, più esposto alle intimidazioni, non più indipendente”. In un intervento molto applaudito, il giurista Gaetano Azzariti sì è rivolto “alla parte migliore della magistratura che deve interrogarsi sulla degenerazione” dovuta a “una concezione della giurisdizione troppo legata ai gruppi di potere” specie “nelle modalità di assegnazione degli incarichi” con un “Csm ormai organo amministrativo che ha perso la sua valenza di politica del diritto”. Appellandosi alla storia di Md, Azzariti ha chiamato “a giocare all’attacco nella convinzione che l’indipendenza è una scelta di campo: stare dalla parte della costituzione specie nell’età della barbarie”. Il pm ed ex membro del Csm neo pensionato Armando Spataro ha lodato l’intervento del presidente Mattarella che ha chiesto “una presa di coscienza alla magistratura, un’autoriforma radicale e urgente” facendo un parallelo con “l’attacco del periodo Berlusconiano del 2008”. Per reagire serve “difendere la natura delle correnti come posizioni condivise fra magistrati” e “fare della discrezionalità, che non è superabile, una pratica trasparente e motivata”. Il professore ed ex Csm Mauro Volpi ha ricordato come “Cosimo Ferri era già nelle scorse consigliature il trait d’union fra singoli membri interni e personaggi politici esterni” e ha criticato “il sistema elettorale uninominale per il Csm che favorisce cordate e fini personali”, proponendo “il ritorno al proporzionale con voti di preferenza, il rinnovo parziale dei componenti e l’abolizione dei magistrati fuori ruolo spesso con incarichi nei ministeri”. L’ex membro del Csm, deputato e avvocato Guido Calvi ha ricordato come “la proposta di sorteggio per i membri del Csm, tornata in auge, sia stata fatta per primo nel 1971 da Almirante per indebolire il carattere politico” del Consiglio. Nelle conclusioni il magistrato di Cassazione Domenico Gallo ha criticato “la manganellatura mediatica sui magistrati e il clima di intimidazione: la magistratura deve tornare allo spirito dell’orgoglio della sua funzione sorta dalla costituzione”. Nel documento finale si ricorda come “soltanto l’attuazione rigorosa del modello costituzionale può mantenere vive le garanzie della giurisdizione di cui c’è ancora più bisogno in un’epoca in cui è sempre più forte la tendenza dell’ordinamento politico a mettere in discussione le conquiste della Resistenza, i diritti fondamentali dei cittadini e la stessa unità della Repubblica”. L’Anm attacca: il pg Fuzio si dimetta ed evitiamo altri effetti devastanti di Francesco Grignetti La Stampa, 3 luglio 2019 Palamara: io parte di un sistema di correnti, Csm e sindacato hanno creato un vero blocco. È una valanga di discredito che non accenna a fermarsi, lo scandalo sulle nomine al Consiglio superiore della magistratura. Leggendo sui giornali le intercettazioni di imbarazzanti conversazioni tra il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, e Luca Palamara, tra i magistrati è montato lo sconforto e la rabbia. Dopo ore di chat ribollenti, i vertici dell’Anm hanno fatto un passo senza precedenti: chiedono le dimissioni di Fuzio senza se e senza ma, annunciando che per il massimo vertice della pubblica accusa in Italia ci sarà un processo davanti ai probiviri dell’associazione. Anche il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha messo al lavoro gli uffici del ministero per vagliare il caso-Fuzio e il ministro ha fatto trapelare la sua “grande preoccupazione rispetto alla delicatezza istituzionale della vicenda”. Nelle stesse ore in cui Fuzio partecipava imperturbabile a una riunione al Csm, dunque, l’associazione dei magistrati elaborava un documento durissimo di censura per il pg. “Si tratta di condotte - scrive la Giunta dell’Anm - ancora più gravi in quanto riferite al titolare di un Ufficio che ha, tra le proprie prerogative, anche l’esercizio del potere disciplinare, ed è membro di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura”. Questo è il paradosso di tutta la vicenda. Riccardo Fuzio è il grande inquisitore d’Italia. Da lui dipendono le sorti dell’intera magistratura in quanto è l’uomo che promuove le azioni disciplinari. Eppure il 21 maggio scorso confabulava con Palamara e gli rivelava i segreti dell’inchiesta di Perugia. Segreti che ovviamente sarebbero dovuti rimanere in cassaforte. Di qui, lo sconcerto dei magistrati. Come dice il segretario dell’Anm, Giuliano Caputo: “Tanti di noi non potevano crederci”. Oppure Riccardo De Vito, presidente di Md: “Di fronte a questo stato di cose, gran parte della magistratura prova una rabbia che vorrebbe trasmettere anche fuori dalle aule”. È questo il motivo per cui l’Anm usa toni solenni, ma definitivi: “La magistratura, le istituzioni repubblicane e i cittadini si attendono oggi un gesto di responsabilità, capace di separare la vicenda personale ed il corso delle indagini dalle istituzioni, onde preservarle da ulteriori effetti devastanti rispetto a quelli che già si sono prodotti”. Se Fuzio per tutto il giorno non reagisce, Luca Palamara prova disperatamente a recuperare. Ieri iniziava il procedimento disciplinare nei suoi confronti e l’ex presidente dell’Anm ha iniziato la battaglia contestando la presenza nel collegio che dovrebbe giudicarlo di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, perché avrebbero anticipato il loro giudizio in dichiarazioni. Salta agli occhi che Palamara è passato dalle stelle alle stalle. Non è riuscito a trovare nemmeno un collega che accettasse di difenderlo. Davanti alla Disciplinare è stato costretto ad andare da solo con i suoi avvocati, Mariano e Benedetto Marzocchi Buratti più Roberto Rampioni. “Eppure - lamenta nella sua memoria difensiva - l’articolo 24 della nostra Costituzione (sul diritto alla difesa per ogni cittadino, ndr) dovrebbe valere per tutti, nessuno escluso, ed è una delle prime cose che si studia per diventare magistrati. Ringrazio i miei avvocati per il loro sostegno, non solo giuridico ma soprattutto umano”. Palamara nega assolutamente di essersi lasciato corrompere. Viaggi e regali all’amante erano pagati di tasca sua in contanti, ricorrendo a piccoli sotterfugi, per tenere nascosta la relazione alla moglie. Tutto qui. Quanto al resto, questo “è il sistema delle correnti nel quale gruppi associativi, Csm e Anm hanno sempre tra di loro interagito creando un vero e proprio blocco”. “La magistratura? È un sistema tribale” di Luca Fazzo Il Giornale, 3 luglio 2019 Il pm David Monti: “Chi non si associa a una corrente non fa carriera”. “Sistema decomposto”. “Sistema tribale”. Non lesina aggettivi David Monti, sostituto procuratore della Repubblica a Milano, per descrivere quanto sta emergendo sul marcio nei piani alti della giustizia italiana. Può parlare liberamente perché tra pochi giorni non sarà più un magistrato. Mentre i suoi colleghi tendono a restare attaccati alla toga fino al settantesimo compleanno, quando li mandano in pensione per forza, lui a 64 anni molla e cambia vita. Perché? “Un po’ per motivi miei. Ma soprattutto perché in questo sistema giudiziario non riesco più ad avere fiducia. Vede, quello che sta emergendo non mi sorprende, e tutta questa indignazione mi fa sorridere. Cosa c’è da stupirsi, dico io. Questo è il sistema con cui la magistratura italiana è stata governata e si è autogovernata praticamente da quando sono entrato in servizio. Parlo di trentacinque anni fa. Certo, c’è un imbarbarimento dei linguaggi, dei comportamenti dei singoli. Ma la sostanza era nota da tempo e il sistema era destinato a implodere”. Eppure molti suoi colleghi sembrano cadere dalle nuvole... “Nel 1988 il Csm giudicò Giovanni Falcone inidoneo a coprire un incarico direttivo. Doveva bastare quello a capire che bisognava cambiare tutto, a riflettere in profondità su come una scelta simile fosse stata possibile. Invece niente, non è cambiato niente. La magistratura e il Csm sono l’unico pezzo di società italiana che è rimasto identico nell’ultimo mezzo secolo. Le conseguenze sono devastanti. Ma non siamo davanti a schegge impazzite, a singoli casi di uscita dalle regole. Il sistema tribale di gestione delle carriere che sta venendo a galla è il figlio legittimo di regole che tutti i giovani magistrati apprendono appena entrano in servizio e che finiscono con il fare parte del loro Dna”. Quali regole? “Una su tutte: non potrai mai sperare in un incarico direttivo se non ti associ a un gruppo, se non entri in una corrente. Vorrei essere smentito, vorrei conoscere un capo di una procura o di un tribunale che sia stato scelto a prescindere dalla tessera di corrente che aveva in tasca”. Associarsi in correnti è un diritto... “Sicuro! Ma questo diritto si è trasformato in un obbligo: o appartieni a una corrente o non sei nessuno, non vieni preso in considerazione, non entri nel sistema delle spartizioni. É questo il male che ha mandato in decomposizione il sistema dell’autogoverno della magistratura”. Si può rimediare? “Ci sono in giro tante proposte sensate. Ma a decidere deve essere la politica. E in Italia i politici hanno paura della magistratura. É come se non si fossero mai liberati dalla sindrome del 1992. Così si permette che i magistrati invece di applicare la legge come è loro dovere la giudichino, la contestino, facciano convegni insegnando al Parlamento cosa dovrebbe fare. Non esiste un paese al mondo dove questo accade”. La lobby al centro dell’inchiesta di Perugia viene paragonata alla P2, alla P3, alla P4. Paragone azzeccato? Lei in passato è stato accusato di essere massone. “Io sono stato massone da giovane, e quando sono diventato magistrato ho cancellato la mia iscrizione perché un magistrato non deve essere iscritto al club di Topolino. Ciò premesso, sono paragoni ridicoli e soprattutto fuorvianti. La P2 fu un fenomeno drammatico, che nasceva fuori dalla magistratura e puntava a mettere le mani su di essa. Questo invece è un sistema di potere nato e cresciuto all’interno della magistratura stessa, che ha piegato a suo uso e consumo le garanzie costituzionali. Un sistema che ha sempre considerato qualunque tipo di riforma o innovazione un oltraggio alla magistratura, e ha permesso la trasformazione della giustizia italiana in un sistema mostruoso che frena lo sviluppo del paese”. Lei da che riforma partirebbe? “Test psichici periodici. Questo è un lavoro che fa scoppiare, perché hai in mano la vita della gente. Ma spesso ce ne dimentichiamo”. Applicazione retroattiva per la nuova legittima difesa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2019 È indubbio: la riforma della legittima difesa fortemente voluta da Matteo Salvini è una norma di maggiore vantaggio per chi reagisce alle illegittime intrusioni nel proprio domicilio. O comunque a chi reagisce in maniera violenta a un pericolo in atto. E per questo ha una possibile portata retroattiva nel segno del classico principio del favor rei. Lo mette nero su bianco la Corte di cassazione con la sentenza 28782 della Quarta sezione penale depositata ieri, la prima in cui la Corte ha preso in esame la riforma. Per questo la pronuncia conclude per un rinvio alla Corte d’appello per una nuova valutazione alla luce di quanto affermato dalla legge 36 del 2019. In discussione c’era un caso, forse non grave ma bizzarro, di eccesso colposo di legittima difesa nell’ambito di un litigio tra due vicini di casa iniziato con uno scambio di insulti, proseguito con spinte e poi con un morso sotto l’ascella di uno dei due al quale l’altro, aveva reagito sferrando un pugno in pieno volto il rivale. Ad avviso della Corte di appello, l’imputato aveva ecceduto a sferrare il pugno perché “sarebbe stato sufficiente stringere il naso all’aggressore” per obbligarlo “ad aprire la bocca per respirare” e cessare di morderlo sotto l’ascella. La Corte di cassazione, nelle sue conclusioni, non può che prendere atto del cambiamento del quadro normativo. A partire da quello che appare un incontrovertibile dato di fatto e cioè che il diverbio è avvenuto nel giardino dell’imputato, rendendo possibile l’applicazione della riforma della legittima difesa. La norma infatti ha riscritto la disciplina, articolo 55 del Codice penale, dell’eccesso colposo. Riscrittura che ora fa perno sul concetto di grave turbamento, elemento che porta a escludere la colpevolezza di chi abbia reagito sotto questo influsso a una situazione di pericolo in atto. “Come si vede - sottolinea la sentenza - la novella riguarda espressamente le ipotesi in cui la reazione all’offesa ingiusta è stata posta in essere a seguito della violazione del domicilio”. Si tratta di una disposizione certamente più favorevole rispetto alla versione precedente del Codice penale che al grave turbamento non faceva cenno. Di qui la possibilità di un’applicazione anche a fatti commessi in un’epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 36 lo scorso 18 maggio. Sequestri preventivi annullabili solo a seguito di sgravio di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 28575/19. Nei reati tributari è ammesso il sequestro preventivo anche se la commissione tributaria ha annullato con sentenza non definitiva la pretesa fiscale. Solo un provvedimento di sgravio, infatti, rappresentando la rinuncia al tributo dell’ente impositore, può giustificare l’annullamento della misura cautelare. A precisarlo è la Cassazione con la sentenza 28575depositata ieri. Nella vicenda oggetto della pronuncia, il Tribunale del riesame confermava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal Gip nei confronti di una società e del relativo legale rappresentante per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifizi (articolo 3 Dlgs 74/00). Avverso il predetto provvedimento, ricorreva in Cassazione l’indagato, lamentando che fossero state ignorate le sentenze della Ctp di annullamento della pretesa erariale. Sebbene, non definitive, in assenza di una somma da corrispondere non vi era alcuna ragione per il mantenimento della misura cautelare. I giudici di legittimità, respingendo sul punto il ricorso (ma accogliendolo per altre ragioni relative all’errata quantificazione del valore del profitto del reato) hanno innanzitutto rilevato la differenza, ai fini del sequestro, tra sgravio e giudizio tributario di annullamento (non definitivo). Lo sgravio è un provvedimento dell’ente impositore necessario per formalizzare la cancellazione della propria pretesa. Si tratta di un atto pubblico fidefacente ed è costitutivo dell’effetto di estinzione del debito erariale. La Cassazione ha precisato che il mantenimento del sequestro non avrebbe giustificazioni in presenza di sgravio: venendo meno la pretesa erariale, infatti, la misura cautelare sarebbe illegittima poiché sarebbe finalizzata alla confisca di un profitto in realtà inesistente (perché annullato dall’ente impositore). Diversamente, invece, le sentenze della commissione tributaria non sono automaticamente rilevanti processo penale. Nella specie, sembrerebbe che l’Ufficio non avesse sgravato la pretesa a seguito del giudizio della Ctp e il giudice del Riesame, avesse adeguatamente motivato le ragioni per discostarsi dalla decisione tributaria confermando il provvedimento cautelare. Sebbene nella pronuncia non venga precisato, sembra potersi dedurre che sarebbe stato sufficiente per la revoca del vincolo che in conseguenza della sentenza tributaria, l’Ufficio come normalmente avviene, avesse proceduto allo sgravio. In altre parole non pare si faccia riferimento solo a una rinuncia definitiva della pretesa fiscale da parte dell’ente. In questi termini, infatti, si è espressa la Suprema corte con la sentenza 355/2019 che ha confermato un orientamento peraltro già espresso in precedenza (Cassazioni 19994/2017 e 39187/2015). Nella specie, in presenza di annullamento della cartella da parte della commissione tributaria, con sentenza non definitiva e di relativo provvedimento di sgravio dell’Ufficio è stata affermata l’illegittimità del sequestro preventivo e del suo mantenimento. Va da sé che se, al contrario, la sentenza della Cassazione di ieri venga interpretata nel senso che solo lo “sgravio” definitivo sia idoneo a “neutralizzare” il sequestro, si sarebbe di fronte ad un significativo cambio di orientamento meritevole forse di un intervento delle Sezioni unite. Marche: caldo e nuovi problemi, il Garante riavvia l’azione di monitoraggio delle carceri anconatoday.it, 3 luglio 2019 Le alte temperature registrate negli ultimi giorni e le ricorrenti notizie sull’acuirsi di alcuni problemi hanno portato alla decisione di una verifica più attenta della situazione complessiva, visto anche quando accaduto nel passato e soprattutto durante il periodo estivo. Le alte temperature degli ultimi giorni e le ricorrenti notizie sull’acuirsi di alcuni problemi che insistono sugli istituti penitenziari marchigiani, hanno portato il Garante delle Marche, Andrea Nobili, a riavviare l’azione di monitoraggio su tutto il territorio regionale. Prima tappa domani a Montacuto, mentre nei prossimi giorni sarà la volta di Villa Fastiggi ed a seguire le visite nelle altre strutture. “Nonostante le nostre continue sollecitazioni agli organismi preposti - sottolinea Nobili - non ravvisiamo a tutt’oggi interventi significativi in grado di attenuare le criticità che sono state riscontare negli anni passati, soprattutto nel periodo estivo, e che ci avevano portato già nel 2017 ad infornare il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ad allertare l’area sanitaria, soprattutto per quanto riguarda il carcere pesarese”. Il Garante ritiene pertanto indispensabile verificare la situazione complessiva, “cercando di prevenire ulteriori criticità, sempre con la collaborazione degli organismi preposti e di quanti operano negli istituti penitenziari”. Salerno: carcere a rischio suicidi, allarme a Fuorni di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 3 luglio 2019 Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento, carenze strutturali e sanitarie”. Le carceri campane scoppiano, il sovraffollamento è il problema cronico. Rispecchiano il trend nazionale. La vita intramuraria è dura, anche i gesti più semplici e quotidiani sono difficili. Le strutture sono deficitarie, rispettano appena le norme basilari. Gli operatori si fanno in quattro, anche se sono sottorganico, ma il numero dei tentativi di suicidio o le forme di autolesionismo sono preoccupanti. Il sovraffollamento. La relazione annuale del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, presentata ieri al carcere di Salerno, riporta il quadro reale e disarmante della situazione carceraria regionale. Che non migliora per gli istituti di pena del Salernitano: in quello di Fuorni a fronte di una capienza regolare di 366 detenuti, ne sono ospitati 507. Non va meglio al carcere di Vallo della Lucania, dove è previsto un massimo di 56 detenuti macchiatisi di reati della sfera sessuale. I cosiddetti “sex offender”. L’eccezione è rappresentata dall’Icatt di Eboli dove, a fronte di una capienza di 50 detenuti, ne sono collocati 44. Suicidi e autolesionismo. Che la vita è dura per le persone ristrette, lo dimostra un dato significativo degli eventi critici nel carcere di Salerno. Nel 2018 si sono registrati 13 tentativi di suicidi e ben 122 forme di autolesionismo. Situazioni di pericolo sventate dalla polizia penitenziaria, che è anch’essa in scartamento ridotto (218 su un fabbisogno di 243), e dagli stessi detenuti, intervenuti in extremis per evitare gesti estremi dei compagni di cella. Anche questa è una conseguenza dello stato di degrado della struttura carceraria. Il padiglione che ospita i tossicodipendenti, ad esempio, è invivibile come raccontato dal presidente del tribunale di Sorveglianza di Salerno, Monica Amirante, che ha effettuato di recente un’ispezione. Alba (Cn): un carcere dimenticato, ma tra i più sovraffollati d’Italia di Ezio Massucco targatocn.it, 3 luglio 2019 Ancora in alto mare il progetto per recuperare il “Montalto”. Italia paese dei paradossi. Quella che per molti è una conclamata evidenza trova purtroppo conferma anche quando si parla di un tema spinoso e spesso volutamente dimenticato come quello del carcere. La notizia - per certi versi storica - è quella che vede i detenuti italiani aver superato quota 60mila, oltre 10mila in più di quella che sarebbe la capienza massima della vetusta rete di strutture a disposizione del nostro sistema penitenziario. I progetti per la costruzione di nuovi istituti di detenzione vengono però procrastinati con la frequenza dei governi che si succedono nella Capitale, senza mai veder concretamente la luce, mentre il fenomeno del sovraffollamento è descritto da numeri sempre più fuori controllo, con una media di 120 carcerati là dove i già angusti spazi delle italiche celle ne prevedrebbero 100, un medico di base ogni 350 detenuti (1/150 il rapporto richiesto dalla normativa) e un incedere del numero di morti e suicidi dietro le sbarre (148 nel 2018, di cui ben 67 per atti anticonservativi; 60 morti e 20 suicidi ad oggi nell’anno in corso) che meglio di mille parole descrivono la drammaticità di una situazione con la quale, per ignoranza o convenienza politica, pochi hanno il coraggio e la civiltà di guardare. Nell’Italia dei paradossi succede quindi che, per difendere quella classe di dimenticati rappresentata dalle persone in regime di restrizione della libertà, ma anche per ricordare i richiami arrivati in questo senso all’Italia dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, si debba muovere l’Unione delle Camere Penali. Per riportare nell’agenda della politica il dibattito sul tema delle condizioni di vita dei nostri detenuti l’organismo che rappresenta gli avvocati che si occupano di pene e condanne ha infatti proclamato per martedì 9 luglio una giornata di astensione dalle udienze e da ogni attività di carattere penale, insieme a una manifestazione di protesta in programma a Napoli. “Le ragioni dell’astensione - spiega da Alba l’avvocato Roberto Ponzio - risiedono sostanzialmente nella drammatica situazione degli istituti di pena, ma anche nella preoccupazione ravvisata dall’avvocatura sulle posizioni più volte mostrate in materia dall’attuale Governo. La politica italiana si sta ponendo in contrasto a principi sanciti della Costituzione, che all’articolo 27 prescrive che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannatò. In forza di una distorta idea di certezza della pena si insegue invece un consenso popolare spesso costruito sull’emotività”. Ma nel Paese dei paradossi c’è poi un’altra nuova, tutta italiana, che peraltro tocca da vicino Alba e il suo carcere. Col recente Decreto Sicurezza bis il Governo ha infatti aperto alla possibilità di sopperire alla cronica mancanza di celle convertendo in case di reclusione immobili pubblici dismessi. Tra questi diverse ex caserme, come la “Bixio” di Casale Monferrato. Una scelta che lascia perplesso chi conosca la storia recente del Carcere “Giuseppe Montalto” di Alba, chiuso dal gennaio 2016 per la contaminazione da legionella che ne interessò gli impianti pochi giorni prima e riaperto soltanto un anno e mezzo dopo, a metà 2017, e solamente per un quarto - 35 posti su 140 - della sua capienza regolamentare. Nell’unica recentissima palazzina ora attiva (la sede riaperta è quella, staccata dal corpo centrale, che in passato aveva ospitato la sezione femminile prima e quella dei collaboratori di giustizia poi) in questo momento trovano ospitalità ben 50 detenuti, con un tasso di occupazione che - attestato al 140% - fa di quella albese una delle sedi più sovraffollate d’Italia. Questo mentre il progetto per l’integrale recupero della struttura langue. Per riaprire completamente il carcere occorre che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria metta mano al progetto da circa 4,5 milioni di euro da tempo inserito nei periodici piani di edilizia penitenziaria approvati dal Ministero della Giustizia. “Dopo un iter progettuale durato anni e che ora dovrebbe essere finalmente concluso - spiega il garante comunale dei detenuti Alessandro Prandi -, siamo in attesa della pubblicazione del bando. Quando arriverà, dovremo poi aggiungere i relativi tempi di affidamento e lavori che non dureranno meno di un anno. Se anche si partisse domani, insomma, per vedere il Montalto interamente riaperto bisogna attendere almeno sino al 2021, se non oltre. E questo se non si perderà altro tempo. In questo senso sarà importante che anche la nostra nuova Amministrazione cittadina riprenda da subito la necessaria interlocuzione con il Dap e il Ministero”. “Siamo di fronte a una situazione paradossale e incomprensibile - commenta ancora Roberto Ponzio. Come mai si cercano nuove sedi, immaginando interventi di riconversione anche molto impegnativi, quando con un investimento tutto sommato modesto si potrebbe recuperare la disponibilità di una struttura come la nostra, relativamente recente, nata come carcere e da sempre adibita a quella funzione, e sulla quale negli anni sono state operate anche spese per l’allestimento di strutture tecnologicamente moderne e avanzate?”. Firenze: caldo record a Sollicciano, dopo la protesta dei detenuti si cambia ladyradio.it, 3 luglio 2019 Il direttore del carcere ripristina le aperture delle celle e il libero movimento nelle sezioni del penitenziario. I quaranta gradi di questi giorni hanno lasciato il segno nella popolazione di Sollicciano: caldo insopportabile, a volte anche l’impossibilità di avere una bottiglia d’acqua fresca per via dei guasti ai frigoriferi, hanno fatto traboccare il vaso della pazienza. È così che domenica è andata in scena una protesta dei detenuti: niente sommosse né momenti di tensione, solo una manifestazione pacifica, col rifiuto simbolico di rientrare in cella dopo l’ora d’aria. Ad aggravare la situazione c’è anche il cambio delle regole del penitenziario: dopo l’evasione del 2017 era stata abolita la “socializzazione”, cioè la possibilità in alcune ore della giornata di passeggiare fuori dalle celle, che restavano aperte all’interno delle singole sezioni (lo avevamo già raccontato un anno fa). Un sollievo che sarà ripristinato dal direttore del carcere Fabio Prestopino: ieri ha incontrato una delegazione di manifestanti e poi ha fatto un giro nelle varie sezioni. “Era sfuggito ai detenuti che noi avevano già in progetto di dare maggiori aperture - ha detto Prestopino a Lady Radio - dovevamo decidere in che termini”. Quindi saranno reintrodotte le aperture “già oggi pomeriggio o domani”. Accolta anche la richiesta di una doccia in più. Ascolta l’intervista al direttore del carcere e quella al garante regionale dei detenuti Franco Corleone. Genova: formazione dei detenuti, se salta Autostrade paga la Cassa delle Ammende primocanale.it, 3 luglio 2019 Se Autostrade per l’Italia dovesse essere estromessa dal Protocollo per il reinserimento socio-lavorativo di detenuti e il loro impiego in progetti di pubblica utilità a Genova, toccherà al ministero della Giustizia, attraverso la Cassa delle ammende, farsi carico della copertura economica dei percorsi di formazione professionale. È quanto emerge dal testo dell’accordo che il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non ha firmato nel capoluogo ligure per i dubbi sollevati dal ministero dei Trasporti. Nell’articolato, che l’agenzia Dire ha potuto visionare è previsto che “i percorsi di formazione professionale eventualmente necessari per lo svolgimento di attività previste dai protocolli operativi saranno curati da Autostrade per l’Italia spa con il rilascio di un attestato finale utilizzabile anche alla conclusione della detenzione. In caso di accertata impossibilità di attuazione o finanziamento dei percorsi di formazione da parte di Autostrade per l’Italia, i relativi costi saranno coperti usufruendo delle risorse della Cassa delle ammende”. Tra i punti critici che hanno portato all’improvviso dietrofront del governo, che si dice sia stato in prima persona l’autore della bozza per l’accordo quadro, la possibilità del “coinvolgimento delle persone detenute nelle attività di supporto alle esigenze derivanti dall’emergenza venutasi a manifestare a seguito del crollo del Ponte Morandi”. Molto nutrito l’elenco di attività che potrà vedere protagonisti i detenuti genovesi nel loro percorso di reintegro nella società e nel modo del lavoro. Si va dalla manutenzione degli immobili in concessione governativa o del patrimonio comunale ad attività legate alla gestione delle risorse idriche, elettriche e termiche; dall’educazione alla raccolta differenziata e al riuso all’efficientamento energetico degli immobili; da lavori all’interno dell’istituto penitenziario ad attività formative culturali e artistiche. Il ministero sta “affrontando il tema sotto tutti i punti di vista, sia migliorando le condizioni delle case circondariali sia attivando meccanismi per l’individuazione di altri istituti penitenziari come le caserme dismesse. Nessuno vuole fare una politica carcerocentrica ma se lo spazio non c’è e i detenuti vivono in condizioni disumane, si devono migliorare le condizioni di vita “ha sottolineato Bonafede. Dopo quelle del governatore Giovanni Toti, sono arrivate anche le critiche del capogruppo del Pd in consiglio regionale, Giovanni Lunardon, a ribadire “l’ennesima brutta figura di un ministro di questo sgangherato governo. È la prima volta che un ministro viene a Genova non per sottoscrivere un’intesa, ma per rinviarne la firma. Di quel che è successo il 14 agosto se ne occuperanno le aule dei tribunali che dovranno dare una risposta alla sete di giustizia che viene da Genova. Se il governo vuole revocare la concessione ad Autostrade e ne ha gli elementi lo faccia, ciò che non può succedere è che, con la scusa della concessione, non si portino avanti programmi importanti per la città”. Roma: dal carcere all’information technology opusdei.org, 3 luglio 2019 Lorenzo Lento offre ai carcerati l’opportunità di formarsi nell’ambito delle tecnologie informatiche per dare loro una possibilità di inserimento lavorativo una volta usciti di prigione. Lorenzo ha portato la sua testimonianza ai ragazzi della residenza universitaria RUI di Roma. Come può un ex detenuto reimmettersi davvero nella vita sociale e comunitaria? Non è un problema da poco, e soprattutto è una sfida in cui la nostra comunità civile spesso può fallire. Un bell’esempio di missione compiuta sono Lorenzo Lento e le diverse Cisco Academy che contribuisce a gestire in varie carceri d’Italia. Gli studenti della residenza RUI di Roma lo hanno incontrato mercoledì 12 giugno e hanno avuto la possibilità di ascoltare e riflettere sulle esperienze che ha condiviso nel corso di un’ora di racconti. Lorenzo da vent’anni offre ai carcerati l’opportunità di una formazione ICT (Information Communication Technology), consentendo così di dare spazio alla speranza di una vita fuori dal carcere e dando loro una concreta possibilità di reinserimento sociale e di carriera. Il progetto è nato nel carcere di Bollate, e all’inizio Lorenzo lo ha fatto esclusivamente a titolo di volontariato. In un secondo momento è arrivata la Cisco, leader mondiale dell’IT (Information Technology). Negli anni i corsi si sono estesi nelle carceri italiane più difficili. E sono proprio questi corsi che rendono i ragazzi che ne beneficiano così preparati da essere assunti - alcune volte mentre sono ancora in carcere - da aziende che non si preoccupano più della loro provenienza a fronte di una preparazione professionale solida. Lorenzo ha parlato di come l’atteggiamento e il modo di porsi dei ragazzi cambi in classe durante i corsi nel momento in cui realizzano la grande opportunità che gli viene proposta. Molti ex allievi di Lorenzo sono stati assunti a tempo indeterminato da multinazionali in cui si occupano di vari campi, dalla cyber-security alla vendita di attrezzature informatiche. Beneficiano di questa opportunità anche ragazzi con una formazione scolastica minima, o senza alcuna esperienza di computer, riuscendo ciononostante, con tanta pazienza, a seguire i corsi della Cisco Academy e a diventare dei professionisti. Recentemente Papa Francesco ha incontrato alcuni dei ragazzi che si sono formati con Lorenzo Lento, e si è detto molto contento per questo progetto sociale così incisivo. Ora il progetto si sta espandendo anche alle carceri minorili, e Lento “è in carcere” - come gli piace scherzare - dal lunedì al venerdì, tra Bollate, Napoli, Roma, ecc., a formare i suoi studenti e a dare, a gente che si credeva perduta, una nuova speranza. Padova: in carcere da 30 anni, si laurea in filosofia Il Gazzettino, 3 luglio 2019 È entrato in carcere con la quarta elementare, da poco si è laureato in Filosofia con 110 e lode. Ciro Ferrara, 58 anni, ha fatto dello studio il suo riscatto globale: 30 anni filati di carcere, di cui 27 in regime di massima sicurezza (e la prospettiva dell’ergastolo), Ciro originario di Casoria è stato incoronato d’alloro al Due Palazzi grazie alla presenza dell’Ateneo che dà appunto la possibilità ai reclusi di farsi una cultura accademica. Quello che adesso è il dottor Ferrara ha iniziato a stare chino sui libri a inizio del millennio, dopo una giovinezza particolarmente svogliata, scolasticamente parlando. Ma mai dire mai, a marzo dell’anno scorso Ferrara ha conseguito la laurea magistrale con una tesi su padre Agostino Trapè, teologo ed esperto di Sant’Agostino. Ad orientarlo e supportarlo negli studi dietro le sbarre sono stati i volontari dell’associazione Operatori Carcerari Volontari che lo hanno stimolato, incoraggiato a dare il tutto per tutto, prendendo - sempre guardando il cielo a strisce verticali - prima il diploma di terza media, poi la maturità di istituto tecnico commerciale, infine la laurea e, adesso, l’iscrizione a un secondo percorso di studi accademici: Lettere moderne. A contribuire alle spese relative alle tasse universitarie per i detenuti privi di mezzi e garantire il sostegno economico per il materiale didattico necessario agli studi, è la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Correva l’anno 2003 quando venne stipulata una convenzione tra Università e ministero della giustizia per l’istituzione, nel carcere padovano, di un polo universitario. Oggi sono cinque le scuole dell’Ateneo che mettono i loro corsi a disposizione dei detenuti: una trentina i laureati finora e altrettanti gli iscritti ai vari corsi residenti a Due Palazzi, a cui si aggiungono anche quella della vicina casa circondariale (riservata alle persone in attesa di giudizio o con condanne più brevi) e del carcere femminile della Giudecca a Venezia. Storie di libertà fisica perduta ma anche di libertà culturale ritrovata: “Studiare in carcere non è facile, ogni laurea che riuscite a conseguire qui dentro è un grosso successo per voi, ma anche per noi ha detto il rettore Rizzuto intervenendo all’inaugurazione dell’attuale anno accademico, in carcere. Per questo cerco sempre, nonostante gli impegni, di non mancare a questo appuntamento”. Aosta: gli “Itinerari di consapevolezza” dei detenuti grazie all’arte-terapia di Orlando Bonserio aostasera.it, 3 luglio 2019 Il progetto, organizzato dall’Associazione socioculturale “Il Calicanto”, prevedeva il ciclo di incontri “Chi sono io?”, il laboratorio di arte-terapia di Daniela Crisafi e l’esposizione dei lavori. Itinerari di consapevolezza. Un processo di riacquisizione del proprio sentirsi “persona” per superare l’essere “detenuto”. Tutto questo è stato possibile, per alcuni detenuti del carcere di Brissogne, grazie al progetto “Itinerari di consapevolezza”, organizzato dall’Associazione socioculturale “Il Calicanto” di Hône in collaborazione con il Consiglio regionale della Valle d’Aosta e l’Assessorato regionale della sanità, salute e politiche sociali. Il progetto ha avuto tre momenti ben distinti. Il ciclo di incontri “Chi sono io?”, che si è tenuto dal 5 al 17 aprile, affrontando diversi argomenti: i Chakra (relatrici Maria Teresa Aliberti e Silvia Fusinaz), la cura del sé (relatrice Cristina Faoro), il senso della vita (con Paolo Recaldini), le costellazioni familiari (a cura di Leonardo Vidale), onora il padre e la madre (con Andrea Penna). Dal 30 aprile al 18 giugno, Daniela Crisafi ha tenuto un laboratorio di arte-terapia del colore per dieci detenuti, proseguito per quindici appuntamenti, durante i quali i partecipanti si sono addentrati in questa pratica artistico-terapeutica creando uno spazio individuale e sociale in cui poter esprimersi, rielaborare i loro vissuti e trasformarli accogliendo nuovi impulsi e strumenti da utilizzare durante il lavoro pittorico e poter proseguire il “lavoro” da soli nel loro cammino di cambiamento, con coscienza e responsabilità. “Sin dall’inizio ho rilevato alcuni aspetti prevalenti in loro: la necessità di essere guardati nuovamente come esseri umani, la loro profonda fragilità interiore, il desiderio di dignità umana”, spiega Daniela Crisafi. “A conclusione del laboratorio tutto il lavoro svolto ha lenito ed ammorbidito queste grosse mancanze iniziali”. Per ampliare la conoscenza del percorso svolto e della sua valenza, nonché sensibilizzare la collettività sulla realtà carceraria, l’Associazione “Il Calicanto” ha poi deciso di allestire una mostra dei lavori eseguiti, con l’illustrazione dei passaggi dei vari incontri, prima in carcere e poi alla Cittadella dei Giovani fino al 29 giugno. “Porgo i miei sentiti ringraziamenti per questa importante opportunità che ha permesso di portare questo strumento a delle persone bisognose di fare cambiamenti fondamentali per la loro vita e per la vita sociale. Sarebbe auspicabile proseguire il percorso di arte-terapia in carcere, pratica rieducativa utilizzata in diversi paesi europei”, conclude Crisafi. Livorno: primo concerto per i violini costruiti in carcere di Giovanni De Peppo* Ristretti Orizzonti, 3 luglio 2019 Per la prima volta in un concerto, i tre violini, costruiti nel laboratorio di liuteria dell’Istituto delle “Sughere”, suoneranno in uno dei organizzati nell’ambito della V edizione del Festival di musica Sanctae Juliae. L’evento che si svolgerà venerdi 5 luglio alle ore 14 nella sezione alta sicurezza della Casa Circondariale di Livorno vedrà spettatori i detenuti, gli operatori e autorità. Il direttore artistico Marta Lotti, Presidente dell’Associazione Musica Ritrovata, ha assicurato la partecipazione di artisti di fama internazionale e va inoltre sottolineato l’impegno dell’IIP Vespucci-Colombo che, grazie ai corsi di formazione di canto, composizione, chitarra e liuteria, ha consolidato il percorso che ha permesso un iniziativa di spessore culturale e riabilitazione. Laboratorio di canto: Maria Luigia Borsi Laboratorio di composizione: Girolamo Deraco Laboratorio di chitarra: Gaia Russo Laboratorio di liuteria: Giovanni Pasquali Davvero una bella la storia che potremo raccontare e che rappresenta la nascita del laboratorio dove sono stati realizzati i violini in uno spazio nato per la costruzione di oggetti e modellini come hobby e si trasforma, con la passione e la determinazione dei detenuti, in un luogo capace di produrre strumenti musicali di elevata qualità. Per tale regione, il nostro impegno è finalizzato a valorizzare e consolidare l’attività di liuteria con l’intento che questa possa trasformarsi in una vera e propria occasione di riscatto e di lavoro. L’iniziativa nasce in una logica di straordinario lavoro di squadra tra la Direzione del Carcere, dott. Carlo Mazzerbo, la capacità e l’inventiva del Corpo della Polizia Penitenziaria, la determinazione dell’Area trattamentale educativa, i docenti dell’Istituto Vespucci Colombo di Livorno e il Garante dei detenuti del Comune di Livorno. Il concerto negli spazi della Casa Circondariale sarà l’occasione di ascoltare il suono dei violini costruiti dai detenuti e dalla presenza del Soprano Maria Luigia Borsi, della chitarrista Gaia Russo, del compositore Girolamo Deraco e al liutaio Giovanni Pasquali, Brad Rapp al violino e Aldo Gentileschi al pianoforte. Si percepisce una particolare sensazione in carcere quando si entra in quello strano laboratorio inventato dalla sensibilità di un ispettore della Polizia penitenziaria. Un luogo che finalmente non è un non-luogo, ma una fucina di idee, desideri, prospettive e speranze.  All’inizio un posto dove usare le proprie mani e il proprio ingegno per costruire modellini di navi o carretti che potevano richiamare i luoghi dell’infanzia dimenticata.  Poi un giorno qualcuno di loro, dei ristretti, in quel laboratorio, che profuma di libertà e di riscatto, guardando i modellini di strumenti musicali muti e inanimati ci dice che vorrebbe producessero suoni e armonia come quelli veri, quelli dei concerti, quelli che la musica la producono davvero. Grazie allo sguardo di qualcuno e di tanti altri che sanno traguardare la propria vita oltre le mura, oltre i cancelli, nasce il laboratorio di liuteria. Noi comunità, noi città, non possiamo perdere un’occasione di riscatto e di speranza fatta di armonia e bellezza, solo l’armonia, la bellezza possono salvare loro e noi stessi.  *Garante detenuti Comune di Livorno Monza: Rugby oltre le sbarre, l’esperienza è già pronta per ripartire di Sergio Gianni ilcittadinomb.it, 3 luglio 2019 L’ottava edizione del progetto Rugby oltre le sbarre è in archivio, ma per il Rugby Monza l’appuntamento è già fissato per settembre. Quando la palla ovale rientrerà in via Sanquirico: “Questa è una esperienza unica”. Qui non hanno paura di buttarsi nella mischia e di incassare anche qualche colpo proibito. E pure se c’è da andare controcorrente, non indietreggiano di un passo. Anzi. Perché al Rugby Monza fare sport significa soprattutto includere. Senza ipocrisia e senza timore. Lo può confermare Roberta Perego, responsabile del progetto Rugby in carcere, assistente sociale di professione. L’ ottava edizione di questa iniziativa è andata in archivio nei giorni scorsi, con una partita a ranghi misti disputata nella stessa casa circondariale di via Sanquirico. La sfida ha costituito il capolinea di un percorso avviato con una serie di lezioni di avvicinamento al rugby tenute da un tecnico della società biancorossa. Un compito che da due anni è affidato a Alessandro Casati, giocatore della formazione Old. Gli aspiranti rugbisti erano una decina. “Da parte della direzione - spiega Roberta Perego - c’è sempre ovviamente stata la massima disponibilità. Il nostro referente in carcere è l’educatore Elia Fagnani. Uno degli obiettivi è quello di coinvolgere un numero sempre maggiore di neo rugbisti. Potremmo così costituire una formazione stabile. Ma non è un’impresa facile”. Il Rugby Monza, comunque, non sta affrontando questa partita da solo. Anzi. La stessa Federazione Italiana Rugby ha definito uno specifico protocollo sul progetto “Il Rugby oltre le sbarre”. A conferma che lo sport può essere considerato un mezzo di reinserimento sociale, una maniera per far andare finalmente in meta chi è stato il protagonista di una storia sbagliata. “La partita - specifica Roberta - è stata un momento di divertimento e di aggregazione. Il bilancio, insomma, è positivo. Ma ti accorgi anche che la prossima volta potrai migliorare sotto qualche aspetto”. Una specie di impegno preso per la prossima stagione. “A settembre - aggiunge Roberta - si riparte con questo progetto. Cercheremo di allestire una squadra più numerosa e di coinvolgere un maggior numero di nostri tesserati. C’è chi è venuto in carcere per giocare e poi ha chiesto più informazioni per darci una mano. Questa è un’esperienza unica: chi prende parte a questa iniziativa se ne rende subito conto”. Amnesty: troppo odio in rete “qui si muore di Facebook” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 luglio 2019 “In questo paese si muore di Facebook, e la politica ha una responsabilità ciclopica”. È il monito con cui il direttore di Amnesty International Italia, Gianni Ruffini, ha aperto ieri il convegno “Discorso d’odio e propaganda elettorale”, dedicato all’hate speech in rete. L’evento, organizzato da Amnesty Italia e dal Consiglio Nazionale Forense (Cnf), si è tenuto presso sede del Cnf in concomitanza con l’insediamento a Strasburgo del nuovo Parlamento europeo. Il dibattito ha preso le mosse proprio dai dati pubblicati nel rapporto “Barometro dell’odio”, frutto di un lavoro di monitoraggio e analisi delle campagne elettorali social dei candidati alle ultime elezioni europee. L’incontro ha ripreso il percorso di riflessione che era stato avviato nel 2018 con il protocollo di Intesa tra Amnesty e Cnf e volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’odio attraverso il lavoro congiunto di attivisti, ricercatori universitari ed esperti di diritto. Ancora prima, Il Consiglio Nazionale Forense aveva dedicato il G7 delle Avvocature, organizzato sotto gli auspici della Presidenza Italiana del G7, proprio al tema della sicurezza e della violenza verbale. “Il linguaggio d’odio, sempre più diffuso nei social network, genera paura e violenza verbale. È compito dell’avvocatura contrastare tale fenomeno e contribuire ad un dialogo pacifico a tutela dei diritti della persona”, ha esordito Francesco Caia, consigliere del Consiglio nazionale forense e coordinatore della Commissione Diritti Umani. E nel salutare la platea del convegno, Caia ha ribadito l’assoluta urgenza di un costante lavoro di formazione ed educazione, condiviso a livello nazionale e internazionale. Nel corso dei lavori sono stati presentati in maniera dettagliata metodologie e strumenti messi in campo da Amnesty per capire, gestire e contenere il propagarsi di un linguaggio offensivo e discriminatorio sui principali canali social, Facebook e Twitter, centrando lo studio sul dibattito politico italiano nel clima di costante propaganda che ha caratterizzato gli appuntamenti elettorali degli ultimi due anni. Dal 2017, infatti, Amnesty ha creato una Task Force di 180 attivisti e un Tavolo di esperti che, grazie ai primi risultati raccolti in occasione delle elezioni politiche del 2018, ha sviluppato un sofisticato algoritmo che permette di classificare i commenti dei politici e le interazioni dei loro “follower”, con il fine di valutare l’impatto che una campagna politica particolarmente aggressiva può avere sulla società in termini di indirizzo al voto, costume e clima culturale. “I risultati dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio, che moltissimi candidati legittimano, stimolano e danno spazio a violente espressioni di odio”, ha spiegato Gianni Ruffini. “Non solo il linguaggio, ma le idee: xenofobia, razzismo, misoginia, discriminazione e negazione dei diritti”, ha ribadito Ruffini prendendo le mosse dai recenti fatti di cronaca che hanno riguardato la Sea Watch e la comandante Carola Rackete. Dal rapporto 2019 è emerso infatti che i tre temi principali su cui i politici si esprimono in maniera problematica sono immigrazione, minoranze religiose e rom. Tra le categorie maggiormente prese di mire anche le donne, che continuano ad essere oggetto di rappresentazioni stereotipate e violenza verbale. Nonostante non ci sia una definizione giuridica condivisa di “hatespeech”, in parte perché il concetto stesso si muove tra la tutela della libertà di espressione e la giurisprudenza posta a tutela del linguaggio discriminatorio, la maggior parte degli esperti è incline a considerare l’evoluzione del discorso come violenta, tesa alla semplificazione e alla disinformazione, anche laddove la comunicazione politica non sconfina in espressioni d’odio esplicito, perseguibili legalmente. Lo stesso commissario dell’Agcom, Antonio Nicita, intervenuto al convegno a proposito di disinformazione e fake news, ha sottolineato il fragile equilibrio tra il free speech, come rivendicazione di una comunicazione libera dal politically correct, e il vero e proprio linguaggio d’odio: la differenza sostanziale tra libertà di espressione e propaganda passa per il soggetto del discorso, che sia o meno riconosciuto e tutelato da una comunità e dalla normativa del paese in cui si trova. E il tema della responsabilità e della tutela dei soggetti più deboli è stato ripreso anche dal presidente del Cnf, Andrea Mascherin, che ha posto in chiusura del convegno un importante interrogativo su quanto la politica sia realmente il traino e non semplicemente l’interprete di una certa cultura comunicativa. “La società si è sviluppata sul confronto di idee, attraverso lo strumento laico della dialettica, privilegiato dalle democrazie. La politica sta forse interpretando un certo modo di comunicare, un’idea di convivenza basata non su principi solidali, ma sulla risoluzione aggressiva dei conflitti. È fondamentale invece per l’avvocatura affermare il valore della dialettica - ha concluso Mascherin - ma restituendo alle generazioni future l’importanza della mediazione”. La classifica della vergogna: ecco i politici che diffondono l’odio online di Mauro Munafò e Francesca Sironi L’Espresso, 3 luglio 2019 Il rapporto di Amnesty sui politici che usano l’hate speech per ottenere consensi parla chiaro: si indica un bersaglio, di solito migrante o rom. E lo si fa sbranare di insulti da chi commenta il post. “Tolleranza zero per chi, in nome di una religione, vuole portare morte nel #NostroPaese meritano di non uscire più di galera!!!”. Così Angelo Ciocca, allora candidato al Parlamento Europeo con la Lega poi eletto con quasi 90 mila preferenze, commentava su Facebook un arresto, lo scorso 17 aprile. Al post, ancora visibile online, seguono 234 risposte. L’88 per cento di queste è da considerarsi problematica per i toni utilizzati. Sei su 10 sono proprio incitazioni dirette all’odio o minacce di morte. Gli esempi, a scorrere la discussione, sono anche troppi. Uno dei primi: “Lo sapete che i maiali mangiano anche le ossa? Fateli sparire”, scrive un fan di Ciocca. Fateli sparire. La propaganda politica online sembra aver assuefatto gli elettori con schizzi di violenza come questi. Il problema è che non sono schegge. È un’industria sistematica al consenso attraverso l’odio, fatta propria da alcuni leader e partiti. Come dimostra, con nuova chiarezza, una ricerca di Amnesty che L’Espresso pubblica in anteprima. Nel mese che ha preceduto le elezioni europee del 26 maggio scorso, 180 attivisti di Amnesty International Italia hanno passato al setaccio oltre 100 mila tra post e messaggi prodotti dai politici candidati al Parlamento Europeo e utenti che li hanno commentati, valutandoli secondo una scala che andava dai messaggi con accezione positiva a quelli problematici, fino al vero e proprio hate speech, il discorso d’odio sanzionabile anche penalmente. I risultati di questo studio non lasciano spazio ai dubbi: a Strasburgo il 2 luglio si sono insediati onorevoli che hanno fomentato l’odio attraverso i social e aizzato i loro follower con messaggi offensivi e ai limiti del dibattito civile (e in qualche caso molto oltre). “I risultati del nostro studio mostrano come lavora la fabbrica della paura”, spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Trasforma fenomeni in problemi e problemi in nemici; semina ansia; infine, offre sicurezza e ottiene consenso politico. Come negli anni Venti dello scorso secolo ma con la differenza dei social media, che amplificano tutto. Oggi, la realtà è che chi diffonde il discorso d’odio in un corpo sociale in preda a paura e rancori, vince. Di più, quello che spaventa è che dai risultati emerge un pezzo di paese “multifobico”, che è contro le donne, contro i rom e contro le persone Lgbti”. La fabbrica dell’odio descritta dallo studio di Amnesty è forte di una produzione in serie di contenuti e di obiettivi, una manifattura di argomenti esposti su misura per scatenare la propria base di consenso. Il migrante è per esempio sempre e solo al centro della cornice quando commette reati o crimini, specialmente con vittime italiane, in una comunicazione che fa abbondante uso di parole in maiuscolo e punti esclamativi, ad accrescerne il senso del pericolo e l’urgenza. Anche quando il singolo post può sembrare una semplice sottolineatura di un caso di cronaca, la costanza con cui la pagina martella su un unico obiettivo pone le basi alla traiettoria della violenza. L’iper-esposizione di un problema rispetto ad altri infatti non solo ne ingigantisce la percezione, tema su cui gli stessi media sono corresponsabili. Ma sposta la linea delle reazioni. Innescando il peggio. Il 19 aprile la candidata mantovana della Lega Alessandra Cappellari pubblica un video, scrivendo: “Controllore aggredito a Trieste da una donna senza biglietto, che si è rifiutata di scendere, bloccando l’autobus ed i passeggeri a bordo”. La donna è di colore. Il tono dei commenti è questo: “Dalle un calcio nel culo e la butti fuori mentre andate. Una di meno”, scrive Sandro. “Le scimmie se lasciate uscire dalle gabbie... fanno danni...”, aggiunge Angelo. “Io gli avrei dato un calcio in mezzo alle gambe a questa puttana”, Maria. “Io l’ho detto e lo ribadisco ancora una volta, bisogna aprire un famoso campo e metterceli dentro tutti e viaaaa”, Fabrizio. E così via. Sono tutti commenti ancora ben visibili online, con nome e cognome degli autori. Il 54 per cento delle risposte al video pubblicato sulla pagina della politica mantovana, mostra il report di Amnesty, ha questo tono. È odio. Non molto diverse sono le dinamiche applicate ai messaggi a tema religioso, prevalentemente anti Islam o contro il mondo della solidarietà. La strada e i format comunicativi indicati da big del calibro di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, entrambi candidati “di facciata” alle ultime Europee, vengono declinati con scarsa originalità dai tanti candidati dei loro partiti in maniera quasi impiegatizia: si prende una notizia di cronaca nera con gli ingredienti di cui sopra e la si dà in pasto ai propri follower. I registri linguistici sono sempre gli stessi, e ogni messaggio sul tema potrebbe benissimo essere di un’Alessandra Cappellari, di un Angelo Ciocca o di una Daniela Santanché: lo stesso autore non sarebbe in alcun modo capace di distinguerlo da quello dei suoi colleghi di area. Stessi argomenti, stessi strumenti. “È una costante della modernità il fatto che in politica, così come su temi come la religione o l’orientamento sessuale, i discorsi possano portare a un alto livello di aggressività”, riflette Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università Statale di Milano e autore di numerosi libri sul tema: “Ma oggi a questo si aggiunge la specificità dei social network: ovvero la possibilità di profilare in modo preciso i destinatari di un messaggio. La comunicazione dei politici online è rivolta così ai propri fan, a persone da fomentare e da esaltare. Non serve più l’arte della persuasione degli indecisi, dell’argomentazione. È il contrario: più si polarizza, ad esempio svilendo o dileggiando un nemico, più si insiste su un obiettivo, maggiore sarà l’attaccamento”. Numerosi studi hanno dimostrato che in queste forme di consenso da groupie, così come nella propagazione dei messaggi sui social, solleticare sentimenti negativi funziona molto più del contrario. Così nella continua rincorsa a emergere fra i tanti cloni dell’industria della paura, l’aggressività verbale aumenta. “Io ho smesso di definirlo odio virtuale”, nota Ziccardi: “Quest’odio è reale, come sono le sue conseguenze. È sufficiente parlare con le vittime per capirlo, che non è “solo uno status”, ma ogni volta una ferita precisa, e specifica, a una persona o alla sua comunità”. Quando non l’innesco di un circuito alla violenza che può diventare azione, come mostra la strage tentata da Luca Traini a Macerata il 3 febbraio del 2018. La strategia della gogna inquina. Ma non sempre paga personalmente, almeno sul piano elettorale. A diversi candidati monitorati dalla ricerca Amnesty, risultati fra i più attivi in termini di espressioni violente contro persone o categorie deboli, non è andata poi così bene alle urne. Daniela Santanché, quarta in lista e fra i più martellanti contro gli stranieri, non è stata eletta al Parlamento Europeo. Matteo Gazzini, candidato altoatesino della Lega, e Dante Cattaneo, sindaco uscente di Ceriano Laghetto, provincia di Monza e Brianza, entrambi in corsa per Strasburgo, tutti con dei record comunicativi anti-rifugiati e anti-lgbt durante i mesi di campagna, hanno perso sulle preferenze. Così anche Caio Giulio Cesare Mussolini: impegnatissimo a odiare sui social. Senza conquistare per questo voti. Se non tutti riescono a tramutare i clic in forza elettorale, di certo resta che nello spettro degli argomenti che occupano, in positivo o in negativo, le discussioni digitali, a determinare gli obiettivi continua a essere la destra, o l’estrema destra. Altre forze sembrano silenti o incapaci di portare alternative efficaci. Anche chi adotta le strategie più presenzialiste sul web - vedi ad esempio Carlo Calenda - lo fa traducendo in parte il metodo dell’indicare un nemico, aizzando i fan. Nel suo caso, di solito, il target sono altri politici. La eco comunicativa di altri tentativi - per esempio parlare bene dell’Europa - sembra magrissima in termini di risultati. L’industria del consenso fondato sull’odio sembra destinata solo a crescere, e a diventare più violenta. Anche se una piccola incrinatura potrebbe iniziare a farsi strada. “Il nuovo regolamento europeo sulla protezione dei dati”, conclude infatti Ziccardi: “Ha come obiettivo la ripresa del controllo da parte degli utenti. Ovvero dare la possibilità di capire come si viene profilati, perché nella propria “bolla” finisca ad esempio il messaggio di un politico piuttosto che di un altro. Rendendo meno automatico il labirintico far west dentro cui siamo immersi. È un percorso molto difficile, ma è un inizio”. Emporio Armati di Edoardo Venditti e Mattia Giusto Zanon* Il Manifesto, 3 luglio 2019 Alla Hit Show di Vicenza, la più grande fiera di armamenti italiana, un’enorme affluenza di visitatori intasa gli stand, ogni anno di più. S’impenna il numero di licenze rilasciate nel Paese per detenzione legale. E da nord a sud circolano 1,3 milioni di pistole. A far schizzare le statistiche è il permesso sportivo: +27% negli ultimi 3 anni. Sempre in gruppo e per la maggior parte uomini. Camminano con sguardi rapiti, tutto luccica, tutto brilla, come in una gioielleria. È l’Hit Show di Vicenza - la più grande fiera d’armi italiana - e a brillare non sono gioielli, ma le canne dei fucili e i bossoli lucidati per l’occasione. Un’enorme affluenza di visitatori intasa gli stand. Nessuno si limita a guardare, tutti vogliono toccare le armi, rigirarsele tra le mani fino a lasciare unte le impugnature. L’attenzione dei più viene catturata da un fucile da cecchino color cachi, l’arma visibilmente più grande di tutta la manifestazione. “Questo è un giocattolino, lo pieghi e te lo porti nello zaino”, dice un visitatore. I bambini giocano tra gli espositori e fremono per provare le armi, nonostante il regolamento lo vieti. Dalla sala convegni si sentono gli applausi conclusivi di un dibattito sulla detenzione domestica. È inutile girarci intorno, in Italia sempre più persone si stanno avvicinando al mondo delle armi. Chi lo fa per divertimento, chi invece per paura di eventuali irruzioni in casa. Il risultato è un vertiginoso aumento delle armi in circolazione: i dati del Viminale, aggiornati al luglio 2018, parlano di 1.315.700 licenze rilasciate nel Paese per detenzione legale. Negli ultimi anni è fortemente calato l’interesse degli italiani per la caccia, eppure sono aumentate le richieste di porto d’armi. A fronte di una diminuzione di licenze per difesa personale - molto più difficili da ottenere - e una flessione del 9% per uso caccia, a trascinare le statistiche verso l’alto è il porto d’armi sportivo: +27% negli ultimi tre anni. A ciò non corrisponde però un aumento degli iscritti ai registri dei poligoni. “Se si guarda ai numeri degli associati alla Federazione Italiana Tiro al Volo, si vede che ci sono al massimo 150 mila tesserati, quando le licenze concesse sono invece 600 mila”, afferma Giorgio Beretta dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere (Opal). “È chiaro che la gran parte dei richiedenti non lo fa per sport, ma perché è la procedura più semplice e veloce per detenere armi in casa”. A sentire Luca Di Bartolomei - figlio di Agostino, lo storico capitano della Roma suicidatosi nel 1994 con la sua pistola - questa tendenza si deve alla condizione socioeconomica del Paese. “Le nuove generazioni sentono di non avere futuro e la capacità economica della classe media si è notevolmente ridotta. Chi si arma lo fa per difendere a ogni costo i propri beni, perché vede nelle poche cose che ha tutto ciò che lo connota come individuo”. A marzo Di Bartolomei ha pubblicato il libro Dritto al cuore - armi e sicurezza: perché una pistola non ci libererà mai dalle nostre paure. “Mi spaventa il modo in cui le armi vengono detenute in casa, spesso alla portata di tutti. Con più armi aumenteranno incidenti e omicidi domestici e mi terrorizza l’idea che il papà di un amichetto dei miei figli possa fare come il mio, convinto al momento dell’acquisto di saper gestire un’arma”. Nel testo Di Bartolomei parla di quello che definisce un “grandissimo ossimoro”: l’80% degli italiani ha fiducia nell’operato delle forze dell’ordine ma si sente comunque insicuro e pretende di difendersi da solo. L’Italia è uno dei Paesi più sicuri d’Europa con tassi di criminalità che decrescono ogni anno, ma la percezione è ben diversa. Con un diffuso senso di insicurezza la nuova legge sulla legittima difesa voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini ha trovato terreno fertile, portando a un grande dibattito pro-armi/disarmisti. Anche all’interno del fronte pro c’è del malcontento. Per Maurizio Piccolo, presidente dell’Associazione Utilizzatori delle Armi (Auda), la legge sulla legittima difesa è una “marchetta elettorale”. “Assurdo circoscriverla solo alle abitazioni e attività commerciali. Non capisco il senso di prevedere restrizioni a una norma che dovrebbe valere in ogni contesto”. Il presidente dell’associazione vive appena fuori Milano e non fa mistero di essere disposto a utilizzare le proprie armi per difesa personale. Anche Daniele, ragazzo ventisettenne di Ostia, è in possesso di licenza per tiro sportivo. In casa detiene tre armi ed è iscritto al Pisana Shooting Club di Malagrotta (Roma). “Da bambino avevo molte pistole giocattolo, questa passione me la sono portata nel tempo e adesso ho semplicemente cambiato i giocattoli”. A differenza di Maurizio Piccolo, Daniele ci tiene a specificare che per lui le armi sono solamente uno sport e non uno strumento di difesa. “Averle nel cassetto non ti rende più sicuro, anzi. Ciò che mi rende più sicuro sono telecamere, porte blindate e sistemi d’allarme”. Aggiunge che trova assurdo che molte persone si muniscano di porto d’armi di tipo sportivo senza frequentare un poligono. “Se non ti alleni mentalmente a sparare, in una situazione di pericolo non sai come comportarti e metti ancora più a repentaglio la tua incolumità”. Al tempo stesso si dichiara contrario alle proposte di legge per obbligare a lasciare le armi sportive al poligono: “Mi piace sapere dove ho le mie cose e non vedo perché dovrei lasciarle là”. Non è della stessa opinione Gabriella Neri, che da anni si oppone fermamente alla detenzione domestica. La mattina del 23 luglio 2010 il marito Luca Ceragioli, direttore dell’azienda Gifas Electric di Massarosa (Lu), e il collaboratore Jan Hilmer vengono freddati da Paolo Iacconi, ex rappresentante dell’azienda. L’omicida non lavora più lì da qualche anno per problemi di salute ma quel giorno chiede un incontro con gli ex datori di lavoro. “Durante la riunione”, racconta Gabriella “questa persona tira fuori una pistola e fa fuoco su Luca e Jan. Incendia quindi gli uffici per poi togliersi la vita nei bagni dell’azienda”. Iacconi possedeva un porto d’armi per uso sportivo nonostante avesse gravi squilibri psichici. Aveva tentato più volte il suicidio ed era stato sottoposto a un Trattamento sanitario obbligatorio. “Nonostante la sua condizione nessuno ha denunciato agli organi di polizia che possedesse un’arma da oltre vent’anni, né i familiari, né le strutture psichiatriche presso le quali era in cura, perché la legge italiana non prevede l’obbligo di notifica alle questure”. In seguito alla morte del marito, Gabriella ha creato Ognivolta Onlus, un’associazione che si batte per l’istituzione di un database comune tra forze dell’ordine e reparti di psichiatria degli ospedali in modo da non concedere o revocare il porto d’armi a soggetti non idonei. Secondo Lauda, la vicenda di Gabriella Neri è un caso-limite e non può essere presa come pretesto per una critica tout-court alla diffusione delle armi legalmente detenute. Per Maurizio Piccolo “il problema non è il numero di armi legalmente detenute ma il controllo che viene effettuato sui proprietari. I legali detentori non sono criminali, ma animali da difendere”. All’inizio del 2019, il professor Paolo De Nardis dell’Università La Sapienza ha presentato la prima ricerca sugli omicidi commessi con armi legalmente detenute dal titolo “Sicurezza e Legalità, le armi nelle case degli italiani”. Lo studio prende in considerazione il 2017 e riporta 16 casi. Contro questi dati si è però scagliato l’Opal di Beretta, per il quale la ricerca tralascia molte casistiche quali omicidi preterintenzionali, quelli commessi da individui che detengono armi per lavoro e soprattutto quelli compiuti da persone con armi legalmente detenute dai familiari. “Se si prendono in considerazione tutti questi casi, si vede che il totale non è 16 ma 42. C’è una bella differenza”. Beretta aggiunge che “contrastare questi omicidi sarebbe molto facile se solo si riconducessero le licenze ai loro rispettivi ambiti. Se una persona ottiene il porto d’armi per uso sportivo, che detenga le proprie armi all’interno del poligono al quale dovrebbe registrarsi. Se poi pretende di tenere un’arma in casa per difesa personale, è giusto che compia invece tutta la trafila burocratica e l’iter previsto per tale scopo”. *Già studenti della Scuola di giornalismo della Fondazione Basso Migranti. L’antipatia ha un prezzo di Francesco Bei La Stampa, 3 luglio 2019 Compressione dei diritti? L’esecutivo sta mettendo in crisi gli equilibri di una società aperta e liberale come la nostra? Per un italiano la risposta a queste domande è (o dovrebbe essere) ovvia. E tuttavia la prima contestazione all’estero del nostro presidente della Repubblica è uno di quegli episodi che, per quanto piccolo e limitato, costituisce un precedente da non sottovalutare. Segno che, all’estero, a quelle stesse domande si inizia a rispondere in modo per noi non scontato. A Salisburgo si è trattato di poche decine di ragazzi con cartelli inneggianti a “Carola” - la capitana della Sea Watch assurta a simbolo dell’accoglienza dei migranti - i quali, evidentemente, non ce l’avevano con Sergio Mattarella. Ma gli urlavano contro in quanto rappresentante dell’Italia, ai loro occhi il paese che incarcera chi soccorre i migranti in mare. Attenzione, perché sembra stia avvenendo un impercettibile ma continuo scivolamento del Paese nella scala di reputazione europea, di cui i fischi e le urla contro Mattarella sono un campanello d’allarme. Che arriva nello stesso giorno in cui si sono sollevati striscioni al parlamento europeo con gli slogan “free Carola”. E dopo le critiche e gli attacchi di paesi amici e alleati, dalla Francia alla Germania. Se persino il compassato presidente tedesco Steinmeier arriva a esprimersi contro l’Italia per come stiamo trattando le ong che soccorrono i migranti, qualche interrogativo dovremmo porcelo. Non perché in Europa abbiano ragione a trattarci da appestati. L’Italia è un grande paese democratico, dove la magistratura non obbedisce al governo. E lo dimostra la decisione della gip di Agrigento, Alessandra Vella, che non ha convalidato l’arresto della comandante della Sea Watch Carola Rackete, la “ricca fuorilegge” secondo la definizione del ministro Salvini. Mentre la magistrata demoliva le accuse con cui Salvini ha creato in questi giorni il “mostro” Rackete e specificava che il decreto Sicurezza bis “non è applicabile alle azioni di salvataggio in quanto riferibile solo alle condotte degli scafisti”, alla Camera ieri una gragnuola di critiche di professori di diritto, magistrati e avvocati seppelliva lo strumento immaginato dal ministro per tenere le Ong lontane dalle nostre coste. La fine della vicenda Rackete, le contestazioni a Mattarella e le voci fuori dal coro degli esperti di diritto sul decreto Salvini dimostrano due cose. La prima è che in Italia i checks and balances funzionano e non c’è nessun allarme democratico. La seconda è che il ministro dell’Interno, spingendo oltre ogni limite la sua campagna politica contro le associazioni umanitarie (in assenza di un’emergenza immigrazione che non esiste nei numeri), sta disegnando attorno all’Italia un cordone sanitario. Stiamo diventato un paese antipatico, arrogante, che da fuori sembra sempre più simile all’Ungheria che all’Europa occidentale. E oltretutto in questo modo oscuriamo le tante responsabilità degli altri paesi europei, che certo in tema di accoglienza di migranti clandestini non possono salire in cattedra. L’Italia per fortuna resta una solida democrazia dove le garanzie funzionano e quei ragazzi di Salisburgo avrebbero fatto meglio a passare il pomeriggio al parco piuttosto che a contestare il nostro capo dello Stato. Lo dimostra il fatto che persino il provvedimento di allontanamento della Rackete, disposto dal prefetto su ordine di Salvini, deve essere firmato da un giudice. Ma purtroppo in politica contano anche le impressioni. E a proposito di impressioni, ieri il ministro dell’Interno e vicepremier si è scagliato contro la decisione del Gip sulla Rackete con parole davvero al di là di ogni limite. Un ministro non si “sfoga” e non si “indigna” contro un altro potere dello Stato. Chi governa è libero di criticare e ha gli strumenti giuridici per farsi valere, ma nemmeno Berlusconi, che pure spesso tracimava, aveva mai raggiunto toni simili contro un magistrato. Il ministro della Giustizia, il cinque stelle Alfonso Bonafede, ha niente da dire? Migranti. La propaganda è nemica della sicurezza di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 luglio 2019 No, le ong non sono criminali. No, una legge di uno Stato non può essere contro il Diritto internazionale. No, l’emergenza immigrati non c’è. Gran lezione di un pm con la testa sulle spalle: Patronaggio. Il fanatismo ideologico dei magistrati politicizzati è forse uno dei tratti più indecenti della vita pubblica del nostro paese e compito di un giornale con la testa sulle spalle che ha a cuore la separazione dei poteri di Montesquieu è quello di denunciare con forza giudici e pm che usando il codice penale per applicare il proprio codice morale non fanno altro che compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità della figura del magistrato. Ci sono pm che provano a influenzare la politica usando le armi del processo mediatico e ci sono pm che provano a far ragionare la politica usando le armi della ragione. Ieri pomeriggio, nel corso di una formidabile audizione tenuta di fronte alle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio è intervenuto per offrire alcuni spunti sul decreto sicurezza bis. Ma i suoi diciannove minuti di appunti sono stati qualcosa di più di un semplice resoconto tecnico delle criticità di una riforma: sono stati una lezione di diritto, un vaccino contro la propaganda sovranista, un bagno nella realtà dell’Italia. Patronaggio, con la forza dei numeri, ha spiegato perché, nel nostro paese, non esiste alcuna emergenza legata né all’invasione degli immigrati né alle ong. Ha ricordato che nel solo distretto di Agrigento nel 2017 ci sono stati 231 sbarchi con 11.159 immigrati, nel 2018 ci sono stati 218 sbarchi con 3.900 immigrati, nel primo semestre del 2019 gli sbarchi sono stati solo 49 sbarchi con 1.084 immigrati arrivati. Ha segnalato che di questi sbarchi quelli relativi alle ong costituiscono una porzione “statisticamente insignificante”. La premessa di Patronaggio è importante perché ci permette di mettere a fuoco alcuni problemi rilevanti legati a un punto particolare del decreto sicurezza bis: l’introduzione dell’illecito amministrativo per fronteggiare l’attività di salvataggio delle ong. Da una parte, dice ancora Patronaggio, l’urgenza del decreto non è giustificabile, considerando il numero degli sbarchi registrati negli ultimi mesi. Ma dall’altra parte mettere fuori gioco le ong al solo scopo di rendere loro più difficile l’attività di salvataggio di recupero degli immigrati in mare non è giustificabile per almeno tre ragioni. Primo: “L’attività delle ong potrebbe essere considerata illecita solo nel caso di un rapporto preventivo tra trafficanti e ong, ma la cosa finora non è stata mai provata”. Secondo: “I porti libici non sono da considerare porti sicuri” e per questo, in base all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Terzo: “In virtù degli articoli 10 e 117 della Costituzione, una norma di rango primario non può essere in contrasto con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia” e in sede di applicazione di una norma non si può non tenere conto che “anche per gli illeciti amministrativi valgono i princìpi scriminanti dell’adempimento del dovere dello stato di necessità e della legittima difesa indicati all’articolo 4 della legge 689 del 1981” (“chi ha commesso il fatto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima ovvero in stato di necessità o di legittima difesa”). Potrebbe bastare questo per spiegare perché il caso di Carola Rackete (ieri liberata dal gip, in quanto “ha agito per adempiere al dovere di portare in salvo i migranti”) non riguarda la volontà di violare una legge italiana ma riguarda prima di tutto la volontà di non violare una legge internazionale. Ma l’audizione di Patronaggio contiene anche qualcosa di più che coincide con un passaggio non scontato che riguarda un paradosso non sufficientemente compreso della politica salviniana - che non c’entra con il rispetto del diritto del mare, e dei trattati internazionali, ma che c’entra con la sicurezza del nostro paese. Il procuratore di Agrigento ha segnalato che nel corso della sua esperienza sul campo ha avuto evidenza di un fatto importante. Il pericolo maggiore per la sicurezza pubblica, per un paese come l’Italia, è costituito dai cosiddetti sbarchi fantasma. Gli sbarchi fantasma arrivano prevalentemente dalla Tunisia, un paese collegato regolarmente con traghetti che due volte alla settimana arrivano a Trapani e Agrigento, e chi arriva dalla Tunisia con i barchini fantasma ha il profilo di un soggetto che ha qualcosa da nascondere e ha buone probabilità di essere un soggetto “che ha avuto o ha problemi giudiziari nel proprio paese” e che potrebbe avere avuto “anche problemi in relazione ad attività di terrorismo svolte a favore dell’Isis”. Il governo italiano ha dunque il diritto di legiferare come vuole, di crearsi i nemici che crede, di non fare operare più la Guardia costiera nel Mediterraneo, di non battere ciglio quando l’Unione europea organizza missioni navali che non prevedono l’uso delle navi, di trasformare le ong in imbarcazioni criminali. Ma forse, anche a costo di sacrificare qualche sondaggio, dovrebbe cominciare ad ascoltare chi gli dice che non presidiare più il Mediterraneo piuttosto che portare maggiore sicurezza porterà meno barconi, più barchini e potenzialmente maggiore insicurezza. Migranti. Carola Rackete è libera. Il Gip: “ha agito soltanto per salvare vite umane” di Simona Musco Il Dubbio, 3 luglio 2019 Ira di Salvini: “per la criminale tedesca pronta l’espulsione”. Carola Rackete è libera: voleva solo salvare delle vite. È quanto ha deciso, dopo diverse ore di camera di consiglio, il gip di Agrigento, Alessandra Vella, che non ha convalidato l’arresto della comandante della Sea Watch 3, escludendo il reato di resistenza e violenza a nave da guerra e ritenendo che il reato di resistenza a pubblico ufficiale sia stato giustificato da una “scriminante” legata all’avere agito “all’adempimento di un dovere”, quello di salvare vite umane in mare. La 31enne tedesca, che ha portato la ong fino al porto di Lampedusa per salvare 42 naufraghi recuperati dalle acque libiche dopo 15 giorni a mollo nel Mediterraneo, può dunque lasciare i domiciliari, dove è rimasta per tre giorni dopo l’arresto. Per il gip, la scelta del porto siciliano non è stata strumentale, ma obbligatoria, in quanto i porti dell Libia e della Tunisia non sono da ritenere porti sicuri. Ma non solo: per il giudice, il decreto Sicurezza bis “non è applicabile alle azioni di salvataggio”, in quanto riferibile solo alle condotte degli scafisti. Per il procuratore Luigi Patronaggio, che aveva chiesto il divieto di dimora nella provincia di Agrigento, la manovra di attracco nel porto di Lampedusa non sarebbe avvenuta in stato di necessità, “perché c’era assistenza medica a bordo”. Una richiesta che riguardava soltanto due delle tre accuse: gli atti di resistenza con violenza a nave da guerra - ovvero la motovedetta della Guardia di Finanza che aveva intimato l’alt alla capitana e il concorrente reato di resistenza a pubblico ufficiale. Per il magistrato, quella della Rackete sarebbe stata “una azzardata manovra”, valutata come “volontaria”, dopo essere stata ripetutamente intimata a fermarsi. E con c’era lo stato di necessità, perché la nave, ha spiegato il procuratore, era già attraccata alla fonda ed aveva ricevuto assistenza tecnica. La decisione del gip, però, non cambia i piani del ministro Matteo Salvini, che ha già deciso l’espulsione della capitana. “Per la magistratura italiana ignorare le leggi e speronare una motovedetta della Guardia di Finanza non sono motivi sufficienti per andare in galera. Nessun problema: per la comandante criminale Carola Rackete è pronto un provvedimento per rispedirla nel suo Paese perché pericolosa per la sicurezza nazionale”. Durante il pomeriggio aveva inoltre invitato “francesi e tedeschi” ad occuparsi “di quello che accade a Berlino e Parigi. Io sono per il carcere”. Ieri, però, è stato lo stesso Patronaggio, in audizione davanti alle Commissioni di Giustizia e Affari costituzionali della Camera, a criticare il Decreto Sicurezza bis, a partire dall’assunto su cui si fonda: non ci sono prove di contatti tra ong e trafficanti di esseri umani. Un dato che emerge dalle indagini condotte dal suo ufficio - e non solo - ma anche dalle statistiche, dal momento che la quantità di sbarchi ad opera di ong è “insignificante”. Tant’è vero, ha sottolineato il magistrato, “che mentre si agitava il caso Sea Watch 3, con 53 persone salvate a largo delle coste libiche, negli stessi giorni arrivavano in silenzio, senza particolare risalto, oltre 200 immigrati con vari mezzi”. Sebbene le finalità del decreto sicurezza, laddove vuole inasprire e rendere più efficaci le indagini contro i trafficanti di esseri umani, siano assolutamente condivisibili, ha evidenziato Patronaggio, le criticità si legano all’illecito amministrativo contestato alle attività di soccorso delle ong. “Prima del decreto sicurezza - ha sottolineato - tali attività erano del tutto lecite e in perfetta linea con il diritto del mare e con le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia”. E per la giurisprudenza di merito, è illegale solo dove si provi - “e finora non è stato provato” - che vi sia un preventivo accordo tra i trafficanti di esseri umani e le ong. Un accordo che, ha spiegato il procuratore, “non deve essere peraltro limitato ad un semplice contatto, ma deve essere rafforzato” e con “un contenuto particolare”. Ma non solo. Patronaggio ha anche ribadito che la Libia non è un porto sicuro, perché tale è solo nel caso in cui “il migrante possa avere garantiti tutti i diritti fondamentali”. La zona sar libica non appare efficacemente presidiata dalla Guardia Costiera e funziona soltanto in virtù degli accordi bilaterali Italia-Libia e all’apporto fornito dall’Italia a questa zona, senza i quali “non efficacemente presidiata”. Respingere i migranti verso la Libia, dunque, “è vietato dal diritto internazionale”. E una norma di rango primario, com’è il Decreto Sicurezza, “non può comunque essere in contrasto con gli obblighi internazionali”. Il “pericolo maggiore” per la sicurezza dell’Italia non sono “i gommoni che arrivano dalla Libia” ma “gli sbarchi fantasma”, che rischiano di portare in Italia “soggetti che hanno problemi giudiziari e che, astrattamente, potrebbero essere collegati” a gruppi terroristici o all’Isis. Chi usa tali mezzi, infatti, “è evidente che vuole sottrarsi ai controlli, anche perché va tenuto conto che tra la Sicilia e Tunisi c’è un traghetto due volte a settimana”. Ma oltre a Patronaggio, anche la Sea Watch, assieme ad altre ong, verrà audita oggi dalle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia, in materia di ordine e sicurezza pubblica. Un’audizione richiesta dai gruppi Partito Democratico e Misto + Europa e della quale la Lega, con una lettera ai presidenti M5s delle commissioni, ha chiesto l’annullamento. “Da una parte il governo difende l’Italia, dall’altra vengono considerati interlocutori dei fuorilegge che speronano le navi della Guardia di Finanza”, ha dichiarato il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Ferma la replica dei presidenti. “È pieno diritto di ogni gruppo parlamentare” richiedere audizioni. Migranti. Caso Rackete, il Viminale in pressing, ma il pm nega il nulla osta all’espatrio di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 luglio 2019 I timori che il caso diventi un precedente per altri attivisti. La comandante tedesca della Sea Watch deve peraltro rimanere a disposizione dei magistrati che l’hanno indagata anche per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È un bluff l’espulsione immediata di Carola Rackete annunciata ieri sera dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Perché il pubblico ministero di Agrigento ha già negato il nulla osta al provvedimento e lo ha notificato al Viminale. E perché la comandante della Sea Watch - nonostante il gip ieri sera abbia ritenuto infondate le accuse - deve rimanere a disposizione dei magistrati che l’hanno indagata anche per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il decreto firmato dal prefetto non potrà dunque essere eseguito. Quanto basta per far salire il livello di scontro tra Salvini e le toghe in una polemica che nei prossimi giorni potrebbe aggravarsi ulteriormente viste le accuse esplicite rivolte dal ministro. Anche perché la decisione del giudice di Agrigento potrebbe costituire un precedente importante anche per altri casi analoghi di navi delle Ong e questo spinge Salvini “a fare tutto il possibile per bloccarle”, come ha ripetuto ieri sera. “Portata alla frontiera” - Sono le 20.50 quando Salvini annuncia che la comandante “sarà allontanata dal territorio e accompagnata alla frontiera”. Chiarisce che il provvedimento deve essere convalidato dal giudice, ma in realtà non dice che il nulla osta è già stato negato perché il 9 luglio è fissato l’interrogatorio di Rackete. E in realtà la capitana rischia di rimanere in Italia ben più a lungo. Nelle prossime ore il suo avvocato Alessandro Gamberini depositerà un’istanza di rinvio perché proprio quel giorno ha un altro impegno professionale e dunque è possibile che il faccia a faccia con i magistrati possa slittare almeno di una settimana. Fino a quel momento Rackete rimarrà libera in Italia. Un’eventualità che Salvini vorrebbe scongiurare. La linea sulle Ong - Ieri sera il ministro ha ribadito che “bisogna provarle tutte per far capire che in Italia le Ong non possono arrivare, i porti sono chiusi e chi vuole soccorrere in mare i migranti deve poi portarli altrove”. In realtà la decisione del prefetto rischia di aprire una grossa falla su questa linea e dunque già oggi al Viminale saranno analizzati gli strumenti e le possibili misure di intervento proprio per impedire che altri possano essere tentati di imitare quanto fatto da Rackete forzando i blocchi navali e approdando nei porti del Sud Italia. Soprattutto perché la scelta del giudice di evidenziare come Libia e Tunisia non possano essere considerati “porto sicuro” potrebbe costituire un precedente anche per altri giudici. Gli sbarchi fantasma - I numeri degli arrivi continuano a essere molto bassi rispetto agli anni precedenti, ma nelle ultime settimane sono aumentati in maniera considerevole i cosiddetti “sbarchi fantasma”. Il Viminale non fornisce numeri ufficiali su questo fenomeno, ma le stime parlano di almeno 600 persone approdate nell’ultimo mese a bordo di barchini e gommoni in Sicilia e nelle altre Regioni meridionali. Un andamento che preoccupa i responsabili del ministero dell’Interno, anche perché rischia di intensificarsi ulteriormente, smentendo l’efficacia della linea di fermezza che Salvini continua a rivendicare come arma vincente. Migranti. Senza un piano d’azione nel Mediterraneo e in Africa i muri sono inutili di Riccardo Paradisi Il Dubbio, 3 luglio 2019 “La Capitana (della Sea Watch) contro il Capitano (della Lega)”, a questo è ridotto il dibattito sulla questione migratoria in un paese ormai prigioniero di due retoriche infantili e assolutamente inconcludenti: quella dei respingimenti incondizionati in nome dei confini e della sovranità nazionale e quella dell’accoglienza indiscriminata in nome dell’umanità. Uno spettacolo avvilente, da asilo Mariuccia della storia alimentato da una grancassa mediatica tesa a capitalizzare umori, like e click più che interessata a portare un contributo di razionalità e di analisi. Uno schema destinato a ripetersi come in una coazione seriale - perché funzionale alle due parti in causa - fino a quando non si avrà la responsabilità e la dignità politica di sollevare lo sguardo e tornare a pensare. A pensare l’origine e il contesto del fenomeno migratorio, a prendere le misure delle sue proporzioni e delle sue cause che è poi dire tornare a pensare il Mediterraneo e più ancora il Continente africano insieme al Medio Oriente. È su questo tema evidentemente che si decide davvero la partita epocale delle migrazioni: su questo scenario geopolitico immenso per implicazioni e complessità. Come sia possibile del resto immaginare in Europa e soprattutto in Italia di affrontare la spinta migratoria dall’Africa senza porsi in termini sistemici il tema della questione africana e mediterranea - spinta che aumenterà con gli anni in progressione geometrica - è qualcosa che né le curve del sovranismo né quelle dei liberal o della sinistra immigrazionista sono in grado di spiegarci. Perché in nome dell’ideologia hanno smesso di pensare. Altrimenti non si spiegherebbe come sia possibile che esistano persone che credono che l’Europa possa difendersi dalla pressione migratoria con i respingimenti e i muri o che viceversa non debbano esistere regole, stati e confini in nome dell’accoglienza indiscriminata, della libertà di spostamento e della cittadinanza globale. Un collasso cognitivo collettivo che rende grottesca una situazione drammatica. Eppure il varco che consente di uscire da questa coazione a ripetere, da questo ottuso, inconcludente e seriale confliggere sull’ordine del giorno imposto dal fenomeno migratorio, è evidente: agire come si diceva sulle cause del fenomeno riattivando le leve della politica estera e immaginando un piano d’azione sul Mediterraneo e sull’Africa. È su questo punto focale che l’Italia, se vuole modificare gli assetti attuali e tutelare l’interesse nazionale, deve portare l’ordine del discorso in Europa. Rimettendo in discussione assieme agli altri paesi del Sud Europa l’attuale schema franco tedesco che tende a vedere il mediterraneo come una frontiera, un’area remota dal centro economico europeo e l’Africa come una terra al limite da ricolonizzare economicamente. Certo, rispetto all’ultimo dopoguerra il mondo è cambiato, ma fino agli inoltrati anni novanta l’Italia è stata capace, pur nell’alternanza dei governi, di esercitare nel Mediterraneo una politica di equilibrio volta a salvaguardare l’interesse nazionale. Un esponente di punta della classe dirigente italiana di allora Enrico Mattei riuscì, in collaborazione con lo Stato italiano, a esercitare un’influenza politico economica considerevole nel Mediterraneo senza con ciò rinunciare allo schieramento atlantico ma anzi riuscendo a far da ponte tra l’area del nord Africa, il Medio oriente e l’estremo occidente americano. Un’intuizione quella di Mattei che le classi dirigenti italiane hanno proseguito anche dopo la sua morte - dovuta a un attentato - stringendo accordi con l’Algeria, stabilendo un asse con la Libia di Gheddafi, diventando con Aldo Moro uno dei più significativi rappresentanti della comunità europea nella regione nordafricana. Un epoca che cominciò a tramontare negli anni ottanta - malgrado i tentativi di Bettino Craxi di tenere la rotta - e che si è definitivamente chiusa con gli anni novanta e duemila, con lo smottamento della classe dirigente della prima Repubblica e poi con l’esplosione delle cosiddette primavere arabe. Una fase nuova che ha consentito in particolare alla Francia di entrare prepotentemente in scena con l’attacco alla Libia voluto da Sarkozy ma supportato da gran parte delle potenze europee - prima la Gran Bretagna - con il lasciapassare della Germania. Un’iniziativa che non ha solo indebolito l’influenza italiana ma ha anche aperto il vaso di Pandora africano senza curarsi delle conseguenze che si mettevano in moto. Come del resto sono paesi europei come la Francia e l’Inghilterra ad essersi ripetutamente opposti a risoluzioni che chiedevano alle multinazionali che operano in Africa di reinvestire nei paesi africani una quota parte significativa di profitto da destinarsi allo sviluppo ordinato del continente. Se l’Italia ha una carta da giocare in Europa e sul piano internazionale oggi è proprio questa: una politica per l’Africa e una strategia di equilibrio nel Mediterraneo. Un’iniziativa che oggi vedrebbe il sostegno di Stati Uniti e Russia assai preoccupate per il saldarsi dell’asse franco- tedesco e interessate alla posizione geopolitica dell’Italia. È questo il punto di intervento reale come sanno bene gli esponenti più accorti dello stato profondo italiano che conserva dalla sua storia - che non è acqua - i riflessi del passato e una memoria operativa. Nel 2016 si è tenuta a Roma la prima conferenza ministeriale Italia- Africa, alla quale hanno partecipato rappresentanti di 52 paesi africani. E ultimamente si sono moltiplicate le visite ufficiali a molti stati africani tra cui Libia, Niger, Senegal, Guinea, Tunisia e Algeria. Ciò che ancora manca è però ancora l’assunzione di una coscienza geopolitica del nostro paese che gioca questa partita in difesa, contestando l’Europa di Dublino e dividendosi sull’immigrazione. L’Italia, come ha detto una volta il direttore di Limes Lucio Caracciolo, è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Invece è arrivato il tempo di assumersi le proprie responsabilità se non si vuol continuare a ballare la musica che suonano gli altri. Migranti. L’uomo che cura le torture, bisturi contro il Medioevo di Francesco Battistini Corriere della Sera, 3 luglio 2019 Massimo Del Bene ricostruisce le mani al San Gerardo di Monza. I pazienti sono migranti scappati dagli orrori dei lager libici. Aprirà un centro per le vittime di guerra. Ci pensi spesso? “Sì”. Se potessi tornare indietro? “Non so se lo rifarei”. Ne valeva la pena? Silenzio. Per chi si chiede se è proprio vero che li torturano, questi migranti. Per chi pensa che la loro sia una pacchia infinita. Per chi butta lì che va beh, alla fine sono loro che se la cercano. Per tutti varrebbe fermarsi un attimo. E guardare le mani di Mohammed D., un ghanese che oggi vive a Como: sfasciate, tagliate, rattrappite. Sono la sua carta d’identità. Dicono più dei suoi documenti, dei racconti, dei 24 anni che porta in faccia. “Vivevo nella zona occidentale del Ghana, una mamma già anziana, quattro fratelli. Non avevo nient’altro. Sono partito nel 2013 e dopo un mese sono entrato in Libia. Non sapevo che ne sarei uscito conciato così…”. Un anno e mezzo a Sebha e a Tripoli, il degrado assoluto: “Io non ero un criminale. Però mi hanno messo dentro. E picchiato, tutti i giorni. Le guardie libiche mi prendevano a pietrate le mani. Con un coltello di quelli che si usano per sgozzare gli animali, mi hanno tagliato la destra. Per lasciarmi andare, volevano che la mia famiglia pagasse. Mi sono salvato solo perché sono fuggito. Ho preso un barcone. Sono arrivato in Italia. E ho trovato il Dottore…”. Il Dottore non ha avuto bisogno di troppe parole, per capire il da farsi. Mohammed gli ha mostrato i segni. E Massimo Del Bene, primario chirurgo della mano all’ospedale San Gerardo di Monza, ha cominciato il lavoro di ricostruzione. Microinterventi complessi, una cura di anni, dita rifatte, la presa che piano piano ritorna: “È la chirurgia della tortura - spiega il medico -, traumi ripetuti che alla fine provocano invalidità. Una chirurgia ben diversa da quella legata agli incidenti. Io non la conoscevo: nei nostri ospedali, forse ne avevano ricordo solo i vecchi medici che avevano visto la Resistenza. In questi ultimi quattro anni, con l’arrivo dei migranti, mi sto facendo un’esperienza…”. Si dice sempre: scappano dagli orrori dei lager libici. Volete sapere che orrori sono? Del Bene può descriverli: “In questo reparto, noi siamo l’oggettività. Non abbiamo appartenenza politica: solo nomi, facce, dati, cartelle cliniche da mostrare. Storie che ci parlano di torture primordiali. È il Medio Evo che torna nella nostra civiltà. L’aggressività fatta uomo. Difficile da guardare, anche per un medico”. Le foto archiviate da Del Bene sono ributtanti, ferite vive sotto carni morte. Una casistica angosciante: se li hanno ustionati col ferro incandescente, il problema sono le retrazioni cicatriziali; se hanno gettato l’acido, bisogna ricostruire dov’è tutto ulcerato; se hanno usato le scariche elettriche, le piaghe vanno in profondità; se li hanno picchiati coi tubi di gomma, i segni magari non si vedono, ma il dolore è continuo e insopportabile; se li hanno trattati con le lame, bisogna rifare i tendini; se hanno strappato le unghie, c’è da risolvere le infezioni o la necrosi; se hanno “solo” spento addosso le sigarette, in fondo poteva anche andar peggio. “Il punto è che noi interveniamo anni dopo la tortura. E ricostruire è più difficile. Quelli che vediamo tanto, sono i seviziati a martellate: hanno le dita sfondate una per una. È il modo più efficace per rovinare una persona. Se ti spacco le gambe, poi mi tocca accudirti. Se invece ti distruggo la mano, non ti tolgo l’autonomia, ma ti faccio fare lo stesso quel che voglio. Senza mani non guidi un camion, non scarichi una cassa, non servi a niente. Dipendi da me”. Chi è stato torturato, rimane torturato. Il mondo resta carnefice per sempre, gli incubi sopravvivono e certe ferite si curano solo nella carne, non nella mente. A Monza non finiscono solo le vittime degli aguzzini libici: “Abbiamo rifatto la mano d’un ivoriano di 18 anni che aveva provato ad attraversare d’inverno il Fréjus. Aveva perso tutt’e dieci le dita, congelate per salvare un amico nella neve. Ci capitano anche sudamericani, nigeriani o moldavi finiti in qualche vendetta, palestinesi colpiti a Gaza dai soldati israeliani…”. In comune, tutti hanno l’omertà: “Raramente si aprono con noi. Faticano a raccontare. E se lo fanno, ci vogliono mesi. Ma i segni che hanno addosso, spiegano molto”. Fare Del Bene, scritto con le maiuscole e in tutti i sensi, è un lavoro complicato: “Molti medici, infermieri si offrono volontari. Vorrebbero andare a operare direttamente sui luoghi di queste tragedie. Ma è sempre difficile: servono ferie, aspettative… Il mio progetto allora è aprire qui, a Monza, un ospedale per curare tutti i bambini vittime di guerra. A costo quasi zero. Basato sull’offerta di chi ci sta”. Un’urgenza: “Una volta sono andato a vedere il castello dei Templari a Bodrum, in Turchia. In fondo alla scalinata, si entra nell’antica stanza delle torture. Ho pensato che non è cambiato niente…”. Perché? “Ho visto un cartello con una scritta: qui Dio non c’è”. Droghe. Il Libro Bianco svela gli effetti deleteri del proibizionismo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 3 luglio 2019 I dati allarmanti del X Libro bianco sulle droghe dimostrano che il ritorno alla repressione è deleterio: continuano a crescere gli ingressi in carcere per droghe, drammatici anche i numeri legati ai detenuti dichiarati “tossicodipendenti”. Anche quest’anno il Libro Bianco svela gli effetti del proibizionismo sulle droghe. Effetti che, dopo trenta anni di guerra alla droga italiota, come ha affermato Stefano Anastasia alla presentazione, ormai sono tutt’altro che collaterali, bensì sostanziali. I dati raccolti da Maurizio Cianchella sono in linea con le tendenze già emerse negli ultimi anni. Confermano un ritorno alla repressione dopo la breve pausa dovuta alla sentenza Torreggiani (Cedu 2013) e alla pronuncia di incostituzionalità della Fini-Giovanardi (2014). Mostrano un trend crescente gli ingressi in carcere per droghe (quasi il 30% per solo art. 73), mentre le presenze al 31/12/2018 per violazione del DPR 309/90 aumentano del 6,5% e si attestano al 35,21%, un picco allarmante. Drammatici i numeri legati ai detenuti dichiarati “tossicodipendenti”: sono quasi il 28% degli ingressi e il 35,5% dei presenti al 31 dicembre scorso. Si tratta del record, anche in termini assoluti, da quando questo documento viene puntualmente presentato, cioè da dieci anni. Aumentano anche i procedimenti penali pendenti, in crescita quasi del 3% sull’anno precedente. L’unico dato positivo arriva dalle misure alternative, in crescita lieve ma costante negli ultimi anni. La repressione non è solo quella penale. Si conferma l’aumento anche delle segnalazioni ai Prefetti per semplice consumo di sostanze in previsione di sanzioni amministrative odiose (art. 75); aumentano del 53,8% le archiviazioni, un dato che rende evidente come la foga repressiva dei tweet salviniani si trasformi facilmente in una caccia alle streghe nelle piazze assolutamente infondata. Ovviamente la parte del leone la fa la cannabis, che rappresenta l’80% delle segnalazioni: ogni 16 minuti un cittadino viene segnalato per uso di cannabis. Dal 1990 sono 1.267.183 gli italiani incappati nel circuito repressivo amministrativo. Un numero abnorme, paragonato al numero ridicolo delle richieste di programma terapeutico: nel 2018 solo 82 su 41.054 segnalazioni. Altrettanto significativi i dati delle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero la guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. Quelli disponibili indicano che solo all’1,14% dei conducenti coinvolti in incidenti stradali rilevati dalla Polizia Stradale è contestato l’art. 187. Anche la sperimentazione dello screening rapido su strada indica che solo l’1,16% dei controllati risulta positivo. Più del 20% dei positivi allo screening viene poi “scagionato” dalle analisi di laboratorio, mentre va ricordato che per quanto riguarda la cannabis la positività può riguardare anche consumi precedenti di settimane. Da notare che la sostanza maggiormente trovata nei conducenti è la cocaina che supera abbondantemente il 40% dei positivi. La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono quindi decisivi nel controllo sociale e di conseguenza nella determinazione dei saldi della repressione penale. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73 o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario. Questo pesa sulla società italiana senza alcun riscontro di efficacia nella prevenzione degli abusi di droghe. Le sostanze circolano liberamente, disponibili a chiunque ed in qualunque momento e sempre in maggiore quantità e con maggiore diversificazione d’offerta. Una politica illusoria per la pretesa di diminuire la diffusione delle sostanze quanto dannosa per i riflessi legati al predominio del mercato nero e alla pericolosità di sostanze non controllate. È davvero ora di cambiare politica. Le Ong impegnate su questo terreno convocheranno presto una Conferenza autogestita per rendere evidente l’alternativa scientifica, intelligente e umana. Libia. Bombardato un Centro di detenzione, è strage di migranti di Francesco Semprini La Stampa, 3 luglio 2019 È di almeno 40 morti e 80 feriti il bilancio del raid aereo che nella tarda serata di ieri ha preso di mira un centro di detenzione nei pressi di Tajura. Una vera carneficina. È di almeno 40 morti il bilancio del raid aereo che nella tarda serata di ieri ha preso di mira un centro di detenzione nei pressi di Tajura, sobborgo di Tripoli situato non lontano da alcune basi militari. La pioggia di fuoco che ha dilaniato l’hangar della prigione, dove si trovavano rinchiusi circa 200 migranti illegali provenienti da diversi Paesi dell’Africa, ha causato inoltre 80 feriti. Malek Mersek, portavoce del servizio medico di emergenza pubblica, spiega che il bilancio potrebbe aggravarsi nel corso delle prossime ore. Il Governo di accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha diramato un comunicato ritiene responsabile della strage il sedicente Esercito nazionale libico (Lna) guidato dal “criminale di guerra Khalifa Haftar”. Si tratta del bilancio più sanguinoso relativo a un attacco aereo o a un bombardamento di artiglieria da quando le forze fedeli al generale, tre mesi fa, hanno lanciato un’offensiva con truppe di terra e aerei per conquistare la capitale e prendere in mano le redini del Paese. La drammaticità dell’attacco è testimoniata dalle immagini pubblicate sui social network che mostrano i corpi senza vita dei migranti africani, o quelli trasportato d’urgenza nei centri medici e sottoposti a interventi chirurgici. Altre istantanee immortalano i feriti sui letti, alcuni coperti di polvere o con gli arti bendati. La Libia è il principale punto di partenza per i migranti dall’Africa diretti principalmente verso l’Italia su imbarcazioni di fortuna. Sono attualmente 3.800 i migranti illegali detenuti nei centri di detenzione libici considerati “a rischio” a causa dei combattimenti tra le forze fedeli al presidente Fayez al Sarraj e quelli che obbediscono all’uomo forte della Cirenaica. Lunedì, l’Esercito nazionale libico di Haftar ha annunciato che avrebbe iniziato attacchi aerei pesanti su obiettivi della capitale dopo che i “mezzi tradizionali” di guerra si erano esauriti. La compaginerei generale, in realtà, si trova in difficoltà specie dopo la riconquista, la scorsa settimana, della sua principale base in Tripolitania, a Gharyan, da parte delle truppe lealiste a Tripoli. Un funzionario dell’Lna ha negato ogni responsabilità però in merito all’attacco di ieri notte, e ha accusato le milizie alleate di Tripoli a bombardare la zona dove si trova il centro di detenzione in risposta a un attacco aereo “chirurgico” da parte dello stesso Lna. Due giorni fa lo stesso Sarraj si è recato a Milano per incontrare il vicepremier e ministro degli Interni Matteo Salvini e discutere alcuni aspetti chiave del dossier libico, tra cui il nodo migranti e il conflitto. Domani a colloquio col capo del Viminale ci sarà invece il vicepremier Ahmed Maetig, rappresentante di Misurata, ovvero la realtà militare più significati dell’ovest del Paese. “Il timore è che la battuta di arresto delle forze di Haftar spinga le stesse a dare il tutto per tutto compiendo azioni disperate e criminali”, spiegano fonti della capitale. Oltre al rischio di un allargamento del conflitto su base regionale così come accaduto per la Siria o lo Yemen. Entrambe le parti godono del sostegno militare di governi stranieri, Emirati Arabi Uniti ed Egitto dalla parte di Bengasi, Turchia e Qatar da quelle tripolitina. Con tanto di reciproche forniture di armi, come il recente invio di mezzi da parte di Ankara a Sarraj dinanzi al quale Haftar ha gridato vendetta attuando ritorsioni mirate come il bombardamento dell’aeroporto di Mitiga dove si trovava un drone turco. Il conflitto, se prolungato, rischia inoltre di creare le condizioni ottimali per il proliferare del terrorismo, oltre a interrompere le forniture di petrolio, accelerare le migrazioni attraverso il Mediterraneo verso l’Europa e far fallire i piani Onu per elezioni in tempi utili come primo passo per la ripresa di quel cammino verso la stabilizzazione del Paese interrotto ormai da quasi un anno. Oltre al rischio più immediato, quello di veder morire sotto i bombardamenti delle opposte fazioni tanti civili (è di almeno 800 morti il bilancio attuale) e in particolare i più deboli, donne, bambini anziani e quei migranti imprigionati in prigioni al limite della sopravvivenza al termine, capolinea di quei traffici criminali di cui diventano vittime spinti dal miraggio di una vita migliore. Stati Uniti. Le banche abbandonano le carceri private di Matteo Cavallito valori.it, 3 luglio 2019 Bank of America taglia per scelta “etica” i fondi alle carceri private che “ospitano” immigrati e detenuti. Un business miliardario travolto da enormi polemiche. Tagliare i fondi alle carceri private Usa che “ospitano” immigrati irregolari e detenuti comuni: è la svolta annunciata in questi giorni da Bank of America (Bofa). Un provvedimento destinato ad alimentare un dibattito politico sempre più acceso mettendo ulteriore pressione alle compagnie che da anni gestiscono il business della detenzione. “In mancanza di ulteriore chiarezza giuridica e politica, e riconoscendo le preoccupazioni dei nostri dipendenti e degli azionisti, è nostra intenzione chiudere i nostri rapporti (con il settore, ndr)”, ha dichiarato un portavoce della banca, ripreso dalla CNN. La decisione, riferisce Bloomberg, è frutto di un’analisi condotta dal comitato ESG (Enviroment, social, governance), chiamato a valutare l’impatto delle attività della banca in campo ambientale, sociale e di gestione di impresa. Una scelta “etica”, insomma. Secondo il Miami Herald, Bank of America aveva finanziato in passato la Caliburn International, l’unica azienda statunitense for profit a gestire centri per immigrati minorenni non accompagnati. Sostenuta con un prestito da 380 milioni e una linea di credito da 75 milioni, Caliburn gestisce un centro ad Homestead, in Florida, i cui residenti, tutti di età compresa tra i 13 e i 17 anni, sono aumentati dell’81% da febbraio fino a sfiorare quota 2.500. Lo stop ai finanziamenti di Bank of America segue l’esempio di altri investitori che hanno detto addio al business della carcerazione privata. A marzo JP Morgan ha annunciato di aver chiuso i rubinetti del credito per GEO Group e CoreCivic, le due maggiori società del settore negli USA. Un provvedimento, ricorda Forbes, che ha impattato negativamente sul prezzo dei due titoli a Wall Street. In passato, altri operatori come hedge funds, fondi pensioni e università avevano già disinvestito dal settore. La scelta di Bank of America avviene in un momento particolarmente caldo nella discussione politica sulla detenzione privata e sul fenomeno migratorio negli USA. Le polemiche sul centro di raccolta per immigrati irregolari di Clint, Texas, dove 250 bambini erano ospitati in pessime condizioni, e le tristemente note immagini di morte dal Rio Grande alimentano crescenti polemiche attorno alle politiche di Donald Trump. Il senatore e candidato alle primarie democratiche per le presidenziali 2020 Bernie Sanders è intervenuto duramente sulla questione promettendo, in caso di elezione, di “cancellare tutto ciò che Trump ha fatto per demonizzare e danneggiare gli immigrati”. La carcerazione privata negli Stati Uniti è stata introdotta ufficialmente nel 1983 con il primo contratto siglato dalla Corrections Corporation of America (CCA), azienda di Nashville, Tennesse, nota oggi come CoreCivic. Un anno più tardi un nuovo appalto viene affidato a GEO Group, una società di Boca Raton, Florida, che opera oggi anche nel Regno Unito, in Australia e in Sudafrica, dove gestisce un carcere da 3 mila posti a Makhado, vicino alla frontiera con lo Zimbabwe. Quotate a Wall Street fin dagli anni 90, e due società continuano a dominare il mercato a stelle e strisce. CoreCivic ha chiuso il 2018 con 1,84 miliardi di ricavi (contro gli 1,77 dell’anno precedente). Geo Group, nello stesso periodo, ha registrato un fatturato di 2,33 miliardi, 68 milioni di dollari in più rispetto al 2017. Stati Uniti. Centri per migranti al confine, la denuncia dei deputati democratici di Marina Catucci Il Manifesto, 3 luglio 2019 Una delegazione di deputati democratici ha fatto visita a un centro in Texas e lanciato l’allarme per l’assenza di cure sanitarie e il comportamento razzista di alcuni agenti. Una rappresentanza di democratici ha visitato il centro di accoglienza per i migranti della città di Clint, in Texas, riportando descrizioni allarmanti di persone a cui viene negato ogni tipo di supporto sanitario. La deputata dem Alexandria Ocasio-Cortez, parte della delegazione, ha scritto in un tweet che i migranti per bere a volte ricorrono all’acqua delle toilette. Il capo delle operazioni per la pattuglia di frontiera ha negato, sostenendo che nelle strutture ci sono abbondanti approvvigionamenti”. Ocasio-Cortez ha definito “allarmante” anche il comportamento di alcuni agenti di pattuglia di confine e ha raccontato di averli visti ridere di fronte ai membri del Congresso e urlare contro i loro colleghi che stavano scattando una foto con lei, tanto da portarla a dichiarare alla Cnn di essersi sentita in pericolo all’interno di quella struttura e con quegli agenti. Le dichiarazioni della deputata sono arrivate lo stesso giorno in cui ProPublica ha rivelato l’esistenza di un gruppo chiuso di Facebook in cui agenti della pattuglia di frontiera condividono scherzi sulle morti degli immigrati, commenti sprezzanti sui legislatori di origine latina e un meme osceno che coinvolge almeno uno di loro. I post sono stati consegnati all’ispettore generale del Dipartimento della Sicurezza Nazionale.