Il giudice che trattava i detenuti nel rispetto della Costituzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 luglio 2019 A tre anni dalla scomparsa di Alessandro Margara, il magistrato che trattava i detenuti come uomini, il garante regionale dei detenuti della regione Toscana Franco Corleone ha presentato un testo dedicato al magistrato scomparso “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione”. Il convengo si è tenuto lunedì scorso presso la sede del Consiglio regionale della Toscana, una sala gremita nonostante il periodo estivo. Un pensiero, quello di Margara, che oggi è più che mai attuale. Parliamo dell’uso populistico della giustizia penale e del carcere come armi contro i nemici sociali. Le notizie recenti di cronaca, dimostrano quanto tutto ciò si sia ormai esacerbato. Corleone, incalzato dai giornalisti, ha dato infatti la sua opinione. L’immagine del ragazzo bendato fermato per l’omicidio di un carabiniere a Roma è “stupida - ha spiegato il garante regionale - non aiuta la giustizia. Anzi, rischia di compromettere la fase processuale e la ricerca della verità per un fatto che è di una gravità straordinaria”. E sulla polemica politica che ha innescato, Corleone è stato ancora più chiaro: “Un surplus di accanimento. Se non si ha la concezione del diritto e dei diritti, ma ci si abitua solo all’uso della forza, si procede su un terreno estremamente pericoloso. Sentire frasi - ha continuato il Garante toscano - in cui si afferma che bisogna far marcire in carcere le persone è grave. Va contro i principi della Costituzione”. Ed ecco che il pensiero va di nuovo a Margara, perché “può insegnare tanto”, così come - ha lanciato un appello Corleone - “disubbidire alle leggi ingiuste e razziste è giusto”. In sala anche il difensore civico della Toscana, Sandro Vannini, che ha ricordato l’intensa collaborazione tra i due uffici in ambito sociale, Su questo si è inserita Camilla Bianchi, garante regionale per l’infanzia insediata di recente, puntando il dito su un sistema che può avere delle falle, facendo anche riferimento al caso di Bibbiano. Ma tutto il convegno è rivolto, appunto, al pensiero di Margara. Un magistrato lungimirante e che aveva concepito la figura del magistrato di sorveglianza, prima ancora che venisse istituito. Infatti, appena la legge istituì i Tribunali di sorveglianza, Margara era già un veterano: affidargli la presidenza fu del tutto naturale, quasi un diritto acquisito. Da allora egli diventò per tutti “il Presidente”. Il segno della sua presenza nell’universo del carcere fu subito deciso e nuovissimo. Egli ha attraversato la dolente schiera dei carcerati senza blandirli, senza temerli, con una fermezza mite che ha indotto i detenuti a pensare che quello finalmente era un uomo. Perché li trattava da uomini, come appunto impone la Costituzione e le leggi. Il suo fine ultimo era quello di far diventare un carcere che puntasse all’emancipazione dell’uomo. Un carcere, però, proiettato verso la libertà. E, proprio per questo, licenze, permessi, misure alternative erano concessi da Magara con la bussola della Costituzione e il coraggio profetico di chi anticipa i tempi. “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione”. Il libro, curato da Franco Corleone ed edito dalla Fondazione Michelucci Press, affronta a trecentosessanta gradi tutto ciò che gira intorno alle privazioni della libertà lungo il solco del pensiero lungimirante del magistrato Margara. Una raccolta di saggi con le firme autorevoli di Stefano Anastasia, Maria Luisa Boccia, Lucia Castellano, Luigi Ferrajoli, Patrizio Gonnella, Tamar Pitch, Andrea Pugiotto e Giovanni Salvi. Sono pubblicate le conclusioni degli otto laboratori tematici che hanno preparato l’incontro avuto a febbraio scorso: Città e sicurezza, Opg e Rems, 41bis ed ergastolo, droghe e carcere, gli spazi della pena, giustizia di comunità, Immigrazione e sicurezza, donne e carcere. Come riferimento per la lettura del volume viene presentato il testo di Alessandro Margara su come rispondere alle leggi ingiuste e razziste, con le testimonianze di Francesco Maisto e Beniamino Deidda. Seguendo il pensiero di Margara sono state due le questioni messe al centro del dibattito: l’intreccio tra penale e politica, il significato che la giustizia e il carcere hanno assunto nel senso comune. Il professore Luigi Ferrajoli ha messo in evidenza la cultura del garantismo che latita. “Il garantismo - si legge nel piccolo saggio di Ferrajoli - non è solo un sistema di limiti e vincoli al potere punitivo, sia legislativo che giudiziario, a garanzia delle libertà delle persone da punizioni eccessive o arbitrarie. Esso è ancor prima un sistema di regole razionali che garantiscono nella massima misura l’accertamento plausibile della “verità processuale”. Ma è precisamente questa razionalità che non viene accettata né capita da gran parte dell’opinione pubblica, che aspira al contrario alla giustizia sommaria, tendenzialmente al linciaggio dei sospetti”. Tema ripreso dalla giurista Tamar Pitch che mette in luce il cosiddetto “protagonismo della vittima”, il quale “può essere usato dai governi per indicare le vittime potenziali, ossia tutti noi (“perbene”) a rischio di offese da parte dei “permale”. Concetto ripreso dal professore Andrea Pugiotto evidenziando come “il paradigma vittimario si salda con lo spirito del tempo, dominato dal risentimento che è “la chiave di ogni populismo”“. Inevitabilmente nel saggio successivo si passa alla retorica della “certezza della pena”, ben sottolineata dal giurista e garante dei detenuti del Lazio e Umbria Stefano Anastasìa, la quale ritorna di nuovo nel linguaggio del “governo del cambiamento”. Eppure Anastasìa spiega che “la prima confusione si fonda sul fatto che lo slogan della certezza della pena evoca il valore della certezza del diritto”, mentre quest’ultimo “corrisponde alla sua prevedibilità, necessaria sia a orientare i comportamenti conformi alla legge, sia a giustificare le sanzioni per i comportamenti difformi”. A questo concetto, si sussegue il saggio del procuratore generale Giovanni Salvi che mette in evidenza la percezione dell’insicurezza che fa i conti sulla realtà. Ma, sottolinea, che la percezione non è frutto dell’immaginazione. “Nell’anno passato - scrive il pg - vi sono stati nel comune di Roma solo dieci omicidi. È un numero davvero molto basso in rapporto alla popolazione. Naturalmente per chi non vive al centro di Roma, per chi vive in un quartiere degradato questa è una cosa che non può essere immediatamente trasfusa dai numeri alla percezione”. Quindi, sottolinea che non bisogna disinteressarsi di queste percezioni, ma di capire “come reagire alla percezione dell’insicurezza”. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, che punta al rispetto della dignità umana del detenuto. Ma che non significa il rispetto del decoro. “La dignità come decoro - spiega Gonnella - è quindi il vestito superficiale con cui ci si presenta all’esterno. La dignità come umanità è invece il corpo e l’anima che sono sotto quel vestito”. C’è l’attuale garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, grande amico e compagno di lotte di Margara, che invita a riflettere al concetto di resistenza giudiziaria alle leggi ingiuste. “Un pensiero radicale fino alla disobbedienza”, non a caso è il titolo del suo saggio. Bambini e carcere: rinnovato il protocollo tra Dap e Telefono Azzurro di Antonella Barone gnewsonline.it, 31 luglio 2019 Ogni anno entrano in carcere circa 70.000 minori per incontrare genitori detenuti. Bambini e adolescenti che vivono il rapporto affettivo con madri e padri in una dimensione estranea al naturale contesto familiare. Tutelare il diritto a una crescita armoniosa e contrastare gli effetti negativi derivanti dalla separazione da un genitore sono gli obiettivi principali del progetto Bambini in carcere nato nel 1993 dall’impegno dei volontari di Telefono Azzurro e realizzato in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Una progettualità comune regolata da un protocollo d’intesa oggi rinnovato per la terza volta. Nel testo, siglato dal capo Dap Francesco Basentini e dal presidente di Telefono Azzurro Ernesto Caffo, si ribadiscono obiettivi specifici e comuni alle due istituzioni firmatarie, in particolare l’intenzione di operare “nel superiore interesse dei minori, per la tutela della loro integrità psicofisica e per assicurare la piena attuazione dei diritti sanciti nella Convenzione Onu del 20 novembre 1989”. Due le tipologie di interventi e di attività offerte da Telefono Azzurro in risposta a specifici bisogni di minori di età diverse e che, sotto diversi aspetti, vivono la condizione dei genitori reclusi. Nella fase del Nido, si curano gli aspetti organizzativi e logistici per assicurare ambiente e atmosfera adeguati ai bambini fino ai sei anni che vivono indirettamente la detenzione delle madri; il progetto Ludoteca prevede, invece, interventi per attenuare l’impatto con la dura realtà carceraria al momento del colloquio con il genitore detenuto. Nel 2018 sono stati oltre 12.000 i bambini e i ragazzi seguiti in attività del progetto da 240 volontari adeguatamente formati in 24 istituti penitenziari Un contributo qualificato, ormai divenuto una collaborazione strutturata e stabile, coordinata da uno Staff di Direzione del Progetto, composto di personale della Direzione generale Detenuti e trattamento e da referenti del Telefono Azzurro. I progetti Dap-Telefono Azzurro comprendono anche iniziative di sensibilizzazione e proposte di legge “finalizzate a favorire il mantenimento dei rapporti tra i detenuti e le famiglie, anche attraverso le modifiche della normativa vigente”. Giustizia, l’ultimo fronte M5S-Lega di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 31 luglio 2019 Oggi la riforma Bonafede in Consiglio dei ministri. Ma il Carroccio accusa: bocciale le nostre proposte. Il decreto Sicurezza bis, la riforma delle autonomie, la Tav, l’acqua pubblica, la fiat tax, la manovra. Di materia per dividersi ce n’è in abbondanza e così si naviga a vista, con Lega e 5 Stelle che dovrebbero andare nella stessa direzione, ma spesso sono su fronti opposti. Questo pomeriggio la maggioranza di governo, presente anche Matteo Salvini, si ritroverà seduta al Consiglio dei ministri per confrontarsi su un altro dei temi chiave di questi giorni: la riforma della giustizia. Nei giorni scorsi, in un’intervista al Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva attaccato la Lega: “È arrivato il momento di decidere, e con urgenza. Bloccare una riforma che riduce i tempi della giustizia civile e penale significa bloccare l’economia italiana”. Alla diffidenza di Salvini, il Guardasigilli aveva risposto annunciando che ci sono state diverse modifiche alla bozza, per andare incontro alle richieste. La Lega vorrebbe inserire nella riforma anche una stretta sulle intercettazioni e la separazione delle carriere tra giudici e pm. Ma Bonafede non è d’accordo: “Inserirli significa procrastinare i tempi”. Ieri la Lega ha fatto sapere che, “al contrario di quello che viene raccontato da persone vicine al Guardasigilli, il testo non è stato condiviso con la ministra Bongiorno. È vero che lei ha partecipato ad alcune riunioni, ma le sono state bocciate quasi tutte le proposte”. Già questa mattina potrebbe esserci una prova che mette a rischio la maggioranza. Ci sono due voti in Senato, per sostituire il pd Edoardo Patriarca, dopo il riconteggio, e per assegnare un seggio ancora vacante. Nel primo caso potrebbe subentrare un leghista, nel secondo un 5 Stelle (in Umbria, invece che in Sicilia). Il voto sarà a scrutinio segreto e non si escludono agguati. Sulla Tav i leghisti hanno deciso di non presentare mozioni. Non voteranno il testo No Tav dei 5 Stelle, ma non è stato ancora deciso se ci sarà un no o se usciranno dall’Aula. E neanche se voteranno la mozione del Pd. Di Maio spiega: “La nostra mozione non è una sfiducia a Conte e non vogliamo crisi di governo”. Se crisi c’è, aggiunge, “è crisi di qualche partito che, insieme a chi ha fatto la Fornero e il Jobs act, regala 2,2 miliardi a Macron”. Questa mattina alle q scade il termine per la presentazione degli emendamenti del decreto Sicurezza bis. I 5 Stelle voteranno a favore ma si temono una decina di defezioni. Di Maio rassicura: “Per me si vota e si va avanti. Anche perché è un provvedimento che contiene una nostra misura che dice che se un’imbarcazione viola le nostre regole viene confiscata”. Slitta invece, a dopo agosto, la mozione di sfiducia a Salvini, chiesta dal Pd. Giustizia, la Lega sconfessa il testo M5S. Bongiorno: “La legge non è stata condivisa” di Francesco Grignetti La Stampa, 31 luglio 2019 “Non ho condiviso alcun testo”. Giulia Bongiorno ha risposto così a chi dalla Lega le chiedeva il perché nel M5S insistono nel dire che la ministra della Pa aveva condiviso il disegno di legge “Bonafede” sulla giustizia. In realtà Bongiorno, ai vertici a cui ha partecipato, ha visto cadere una dopo l’altra le sue richieste. La separazione delle carriere tra giudici e pm. O anche l’intervento sulle intercettazioni, caro a Matteo Salvini. I grillini fanno resistenza e sono pronti a concedere solo la riduzione dei tempi dei processi. Basterà? Salvini ha deciso solo ieri di essere presente al Consiglio dei ministri in cui si discuterà il testo. Prima però si riunirà con Bongiorno e il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone per decidere cosa fare nella riunione di governo dalla quale Bonafede si attende l’ok alla riforma. Il lavoro di limatura è continuo. Nel giro di qualche settimana è scomparso un caposaldo, ovvero l’idea di eliminare i procuratori aggiunti (che vengono nominati dal Csm) a beneficio di “coordinatori” che erano scelti personalmente dal procuratore capo o dal presidente del tribunale. Il testo analizzato ieri al pre-consiglio dei ministri, poi, prevedeva dei limiti di tempo da rispettare per ogni fase del processo, pena un procedimento disciplinare per il magistrato responsabile del ritardo. Fino a ieri mattina, i limiti erano 4 anni per il primo grado, 3 per l’appello, 2 per la Cassazione. Al termine dalla riunione, erano scesi a 3 anni per il primo grado, 2 per l’appello e 1 per la Cassazione. Si passerebbe da 9 a 6 anni (coerente peraltro anche con la legge Pinto, quella che stabilisce che cosa sia un “giusto processo”). Sarebbe questo il ramoscello d’ulivo offerto dal ministro Bonafede. I leghisti, intanto, hanno deciso di smontare un pezzo fondamentale della legge Spazza - corrotti, fiore all’occhiello del ministro grillino: il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, ha presentato un ddl per impedire l’applicazione retroattiva della sua legge. La Spazza-corrotti, infatti, interviene sui benefici penitenziari e li impedisce in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione. Da subito, senza distinguere se il reato era stato commesso prima o dopo l’entrata in vigore della nuova legge. Ecco, questa retroattività aveva già spinto il deputato Enrico Costa, di Forza Italia, a presentare un ddl. Ora scende in campo il capogruppo della Lega e ovviamente il messaggio politico è ben più pesante. Ma ad addensare le nubi più minacciose sulla testa dei gialloverdi sono sempre i numeri del Senato. Gli equilibri fragili preoccupano soprattutto in vista del voto sul decreto Sicurezza bis. Ieri da Fi, Maurizio Gasparri ha annunciato la disponibilità di un aiuto in caso dovessero mancare i numeri del M5S. “Sono tranquillo” ha risposto Di Maio che esclude “totalmente” la possibilità della crisi “prima di settembre, quando si voterà la legge sul taglio dei parlamentari”. Un primo test sulla tenuta della maggioranza andrà comunque già in scena oggi. A Palazzo Madama si vota la decadenza del senatore dem Edoardo Patriarca. Se tutto filerà liscio al suo posto entrerà Stefano Corti della Lega. Dopo il ri-conteggio delle schede del collegio di Modena. La Giunta delle elezioni del Senato ha accolto il ricorso del leghista. Ora manca solo il passaggio in aula. Nel Carroccio si dicono certi che i grillini non faranno scherzi. Ma il voto è segreto. Sicurezza bis e ddl giustizia: finale di stagione con brivido di Paolo Delgado Il Dubbio, 31 luglio 2019 Sulla carta potrebbe essere un finale di stagione pirotecnico. In aula, al Senato, è in calendario la conversione del dl Sicurezza bis, obbligatoria dato che altrimenti scadrebbe il 13 agosto, ma è quasi certo anche il voto sulla mozione (all’acqua d rose) No Tav dei 5S, presumibilmente il 7 agosto sempre a palazzo Madama. Possibile, anche se non probabile anche il voto sulla mozione di sfiducia del Pd contro il ministro Salvini a Montecitorio. Fuori dall’aula, sempre in teoria, dovrebbero essere definite la riforma delle autonomie rafforzate, cavallo di battaglia della Lega, e della Giustizia, stella polare del guardasigilli pentastellato Bonafede. Sia il Carroccio che il ministro hanno ripetuto più volte che il semaforo verde sulle rispettive riforme deve arrivare prima della pausa estiva. Le autonomie sono bloccate dal Niet dei 5S. La riforma della giustizia arriva oggi in Cdm ma, ancora ieri pomeriggio, senza garanze di accordo con la Lega. Nessuno di questi appuntamenti è tale da mettere a rischio, in sé, la sopravvivenza estiva del governo. Ciascuno, però, è in grado di mostrarne la fragilità strutturale e tutti insieme rischiano di denunciarne il coma irreversibile. Non a caso il ministro leghista Centinaio giura di partire per le vacanze serafico. Non perché sia certo che al ritorno troverà una casa non in fiamme ma perché entrambe le ipotesi, la prosecuzione con navigazione di fortuna o il naufragio, lo lasciano imperterrito. Il dl Sicurezza passerà col voto di fiducia martedì prossimo. L’approvazione è certa, tanto più che le assenze dall’aula arrivati alla prima settimana di agosto di solito abbondano. Il test potrebbe però essere utile per verificare lo stato della fedeltà alle indicazioni del vertice tra i senatori 5S, dove la mazzata del Sì Tav è stata pesantissima. Non a caso, nell’incontro con Di Maio di alcuni giorni fa, la domanda più preoccupata posta dal leghista è stata: “Ma al Senato il tuo gruppo regge?”. La risposta di Giggino era scontata. Quella vera, la verifica della tenuta o meno del gruppo, arriverà però solo con il voto sul dl Sicurezza. L’appuntamento chiave è quello sulla Tav. La mozione dell’M5S è risibile. Non prova neppure, infatti, a “impegnare il governo” ma solo “il Parlamento”. Se anche fosse approvata resterebbe priva di conseguenze effettive sulla Tav. Sul piano politico, però, le cose stanno diversamente. La bocciatura della mozione, con tutti i gruppi parlamentari tranne LeU a favore del treno, è inevitabile. Ma che ne sarà delle altre, che certamente verranno presentate? Dovrebbero essere 3: quella della destra, quella del Pd, annunciata ieri dal capogruppo Marcucci, e quella di LeU. Senza accordi tra Pd e centrodestra, che forse arriveranno e forse no, saranno bocciate tutte. L’effetto della rumorosa sceneggiata sulla tratta Torino-Lione sarà nullo comunque. In compenso l’effetto caos verrà esaltato al massimo livello. Ma il vero spartiacque è un altro. Per la prima volta su un tema fondamentale e che divide l’Italia da decenni, in un’aula parlamentare italiana e non europea, i due partiti di maggioranza si divideranno, voteranno in maniera opposta. È già successo a Strasburgo e la ricaduta è stata pesantissima. La ripetizione della spaccatura, stavolta in casa, è un passo senza possibilità di ritorno. La sorte delle autonomie e della riforma della giustizia, come quella della Flat Tax alla ripresa, è legata alla guerra di trincea ingaggiata da due soci di maggioranza che non si sopportano più e si concentrano essenzialmente sul come arrecarsi l’un l’altro il massimo del danno. La paralisi è dunque assicurata. La realtà è che gli italiani andranno in vacanza con un governo in carica, però finto. Con una maggioranza che esiste ancora ma solo formalmente. In Parlamento il viatico che consegneranno le ultime battute prima della pausa estiva sarà una specie di “tana liberi tutti”, il semaforo verde per una fase di confusione estrema, segnata dalla comparsa di maggioranze a geometria variabile. Del resto già la riforma costituzionale, che non è proprio la più trascurabile tra le voci in capitolo, è stata approvata al Senato solo grazie ai voti di FdI. La maggioranza gialloverde non sarebbe bastata. In autunno, sempre che i capitani non si decidano a prendere atto del tracollo l’esperienza si ripeterà spesso. Contro la barbarie delle parole di Franco Corleone Messaggero Veneto, 31 luglio 2019 L’omicidio ignobile di un carabiniere a Roma nei giorni scorsi da parte di due giovani statunitensi ha rivelato tutto il peggio degli umori incontrollati di un paese incattivito. Esponenti della Lega e Salvini in prima persona urlano contro la “droga” come se la war on drugs non avesse prodotto danni tremendi nel mondo e come se in Italia la scelta proibizionista non avesse provocato l’intasamento dei tribunali e il sovraffollamento nelle carceri come dimostra il Libro Bianco della Società della Ragione. Per fortuna in molti paesi, dall’Uruguay al Canada, e in dieci stati americani avanza una politica fondata invece sulla legalizzazione della canapa e su una intelligente politica di decriminalizzazione del consumo e di efficaci scelte di riduzione del danno. Addirittura viene evocata la necessità della pena di morte che la Costituzione della Repubblica italiana non ammette in maniera assoluta e categorica. Chi fa parte del Governo e ha giurato sul rispetto della Carta dovrebbe essere richiamato su una contraddizione censurabile. Si sprecano le invettive sul fatto che i colpevoli dovrebbero marcire in carcere. Gli stessi toni erano stati usati dopo l’arresto e il ritorno in Italia di Cesare Battisti. Le frasi orribili di Salvini e del ministro della Giustizia Bonafede violavano l’articolo 27 della Costituzione e le norme dell’Ordinamento penitenziario inneggiando a un linciaggio mediatico e mortificando la dignità di una persona prigioniera. Credo che Alessandro Manzoni e Leonardo Sciascia si siano rivoltati nella tomba di fronte a tale barbarie. Proprio per andare in direzione ostinata e contraria e indicare una diversa visione di civiltà vale la pena ricordare un altro caso di giustizia cieca e in cui i piatti della bilancia non sono in equilibrio. Dobbiamo riandare al dicembre 1981 quando fu sequestrato il generale americano Lee Dozier, liberato dalla polizia alla fine di gennaio del 1982. Cesare Di Lenardo era uno dei carcerieri del generale e fu sottoposto dopo l’arresto a Padova a gravi sevizie e torture denunciate subito da Pier Vittorio Buffa, giornalista dell’Espresso che per la sua ricerca della verità fu addirittura arrestato. L’episodio venne fatto entrare in Parlamento immediatamente dai radicali. Di Lenardo da allora è in carcere. Sono passati ben trentotto anni per la consolazione di coloro che affermano che l’ergastolo non esiste e che dopo ventisei anni di pena si può uscire dal carcere. Io penso che un individuo che da giovane ha aderito alle Brigate Rosse ma che non si è macchiato di reati di sangue, dopo tanto tempo abbia pagato il suo debito per le colpe commesse e che la giustizia dello stato democratico non possa tenere in cattività, fino alla morte, una persona. Neppure chi combatteva lo Stato con metodi violenti nell’illusione della rivoluzione. Il silenzio copre questa storia che non può essere sepolta con una pretesa irriducibilità. Massimo Peresson, uno spirito libero, trasgressivo e battagliero di Piano d’Arta, cuore della Carnia, ha preso a cuore questa vicenda che ha iniziato una corrispondenza con Cesare Di Lenardo, originario della provincia di Udine. Recentemente ha avuto un lungo incontro nel carcere di Terni dove Di Lenardo è detenuto in una condizione di pesante isolamento. Questa prova di dialogo potrà essere un primo passo per sciogliere un macigno che imprigiona una condizione unica legata a vicende tragiche di quarant’anni fa. Ricordo che Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, scrisse parole limpide contro la pena di morte e contro l’ergastolo spiegando il valore della giustizia non come smodata ricerca della vendetta. Forse il Presidente Mattarella sentirà l’imperativo di una riflessione rigorosa ma anche umana. *Già Sottosegretario alla Giustizia Quella notte in cui la legalità si eclissò di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 31 luglio 2019 C’è qualcosa che lega le vicende che la notte tra giovedì e venerdì della scorsa settimana hanno portato alla tragica fine del Vicebrigadiere dei Carabinieri Mario Cerciello Rega e l’immagine dell’assassino confesso ammanettato e bendato in un ufficio dei Carabinieri. Quel qualcosa è l’eclisse della legalità, che sotto vari aspetti costituisce il filo conduttore di quelle tristissime e sciagurate vicende. In primo luogo, ho dei dubbi che rientri nei compiti istituzionali delle forze dell’ordine - nel caso di specie l’Arma dei Carabinieri - intervenire per dirimere una squallida controversia che vede come protagonisti: due giovani alla ricerca di cocaina, un procacciatore che si offre di accompagnarli da un pusher, che invece della cocaina fornisce una compressa di tachipirina tritata; l’intervento casuale di una pattuglia di carabinieri che mette in fuga il procacciatore, il pusher e i potenziali consumatori, che a loro volta si impossessano del borsello del procacciatore. Quest’ultimo torna dalla pattuglia dei carabinieri per denunciare il furto. Successivamente il maresciallo comandante della competente stazione dei CC dispone che Andrea Varriale, accompagnato dal vicebrigadiere Rega, si rechi sul posto per rintracciare e identificare il pusher che si era dato alla fuga; nel corso di contatti telefonici i due americani chiedono al procacciatore 80 euro per restituire il borsello. Il procacciatore denuncia al 112 la richiesta ritenuta estorsiva e la centrale dei CC affida l’incarico di recuperare il borsello ai carabinieri Varriale e Rega che si trovano già in zona, sono in borghese e quindi, trattandosi di un’estorsione, possono avvicinarsi senza destare sospetti. I carabinieri tramite il procacciatore combinano l’appuntamento con i due giovani americani, che si concluderà tragicamente con la morte del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Ma chi ha valutato che si trattasse effettivamente di un’estorsione? La richiesta era di soli 80 euro, e non risulta che sia stata accompagnata da violenza o minaccia, cioè le condotte che caratterizzano il delitto di estorsione. In fin dei conti gli 80 euro erano quelli che i due americani avevano sborsato per procurarsi la dose di cocaina. Come non rendersi conto che si trattava di una squallida vicenda tra spacciatori e truffatori da strapazzo, che non avrebbe richiesto né giustificato l’intervento dell’Arma dei Carabinieri? Viene naturale domandarsi se in questa vicenda balorda tra balordi la legalità che doveva essere difesa era il supposto diritto del procacciatore di recuperare il borsello rubato senza sottostare alla richiesta di 80 euro. Forse sarebbe stato meglio limitarsi a identificare e denunciare all’autorità giudiziaria il procacciatore e il pusher per i reati di droga. Il caso ha voluto che a questa vicenda di malintesa tutela della legalità finita così tragicamente si sia accompagnata pochi giorni dopo una violazione gravissima della legalità. In tutti luoghi in cui transitano persone in stato di fermo o di arresto dovrebbe essere esposto a caratteri cubitali il quarto comma dell’articolo 13 della Costituzione: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà”. Grazie ad una foto siamo invece a conoscenza che il giovane americano indagato per l’assassinio del Vicebrigadiere dei CC è stato sottoposto a una forma particolarmente crudele di violenza nello stesso tempo fisica (l’uso delle manette non giustificato né dal pericolo di fuga né da una pericolosità in atto) e morale, perché impedirgli in quel contesto l’uso della vista non può che provocare un profondo stato di angoscia e terrore per quello che potrà accadere. Provoca ulteriore sconcerto rendersi conto che attorno al giovane ammanettato e bendato vi sono alcuni carabinieri, e cioè che il trattamento riservato all’arrestato è stato almeno inizialmente condiviso dal personale di quell’ufficio. L’esecutore materiale dei maltrattamenti è stato immediatamente trasferito e il comando dei carabinieri ha deprecato e condannato l’accaduto, ma rimane una profonda inquietudine nel constatare che in una stazione dei Carabinieri sia stato commesso un così grave abuso, di cui si è venuti a conoscenza in maniera poco trasparente, attraverso una fotografia non si sa da chi scattata e con quali modalità divulgata. Vi è da augurarsi che anche su questi aspetti l’Arma dei Carabinieri faccia piena luce, cancellando dalla sua immagine questa macchia. Sarebbe anche questo un modo per rendere omaggio alla memoria del Vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Caso Mollicone, i pm: “Fu uccisa nella caserma dei carabinieri, 5 a processo” Il Messaggero, 31 luglio 2019 Sarebbe stata spinta contro una porta all’interno della caserma dei carabinieri di Arce. Morì così 18 anni fa Serena Mollicone, la studentessa uccisa il primo giugno del 2001 nel suo paese, nel Frusinate. Con questa convinzione, suffragata da anni di indagini e perizie, la Procura di Cassino ha chiesto il rinvio a giudizio per cinque indagati, ovvero tutti i membri della famiglia di Franco Mottola, ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, e due altri militari. Rischiano così il processo l’ex maresciallo dei carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco e il maresciallo Vincenzo Quatrale per concorso in omicidio. Per Quatrale, anche lui carabiniere, si ipotizza pure l’istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi, mentre per l’appuntato Francesco Suprano, militare dell’Arma, solo il reato di favoreggiamento. Secondo un’informativa dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone, redatta sulla scorta di accertamenti del Ris e acquisita già nel febbraio scorso dalla Procura di Cassino, Serena fu uccisa, presumibilmente dopo un litigio, negli alloggi della caserma dei carabinieri di Arce. A colpirla sarebbe stato il figlio di Mottola, Marco. La ricostruzione del delitto tratteggiata dalla perizia medico-legale indicò una compatibilità tra lo sfondamento della porta dell’alloggio della caserma dei carabinieri di Arce e la frattura cranica riportata dalla studentessa diciottenne. “E stata uccisa nella caserma di Arce, con una spinta contro una porta, data la riscontrata perfetta compatibilità tra le lesioni riportate dalla vittima e la rottura di una porta collocata in caserma - spiega il procuratore di Cassino, Luciano d’Emmanuele - È stata parimenti accertata la perfetta compatibilità tra i micro-frammenti rinvenuti sul nastro adesivo che avvolgeva il capo della vittima ed il legno della porta, così come con il coperchio di una caldaia della caserma”. La perizia del Ris, contenuta nell’informativa che segnò una svolta nelle indagini, rilevò che dopo essere stata uccisa il corpo di Serena fu spostato nel vicino boschetto dell’Anitrella dove poi fu trovato con mani e piedi legati dal nastro adesivo e una busta di plastica in testa. Durante le nuove indagini gli inquirenti hanno ascoltato 118 testi, molti dei quali ponderatamente scelti tra i 1.137 più volte sentiti nei diciotto anni di ricerca della verità per il delitto di Arce. La Procura di Cassino ha effettuato rogatorie in Francia, Polonia e nello Stato del Vaticano. “Si ritiene - fa sapere il procuratore di Cassino, Luciano d’Emmanuele - che le prove scientifiche, insieme alle prove dichiarative, consentano di sostenere con fiducia l’accusa in giudizio”. La vicenda giudiziaria dell’omicidio della diciottenne Serena è stata lunga, tortuosa e segnata da episodi anche inquietanti. Due anni dopo il delitto fu arrestato con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere Carmine Belli, un carrozziere poi prosciolto nel 2006 da ogni accusa dalla Cassazione. Ad aggiungere mistero ad un caso intricato anche il suicidio del carabiniere Santino Tuzi che nel 2008, prima di essere ascoltato dai magistrati, si uccise sparandosi nella sua auto forse per il timore di raccontare l’inquietante verità e la presunta catena di pressioni e depistaggi che gravitavano attorno alla morte della studentessa scomparsa il primo giugno del 2001 e poi trovata morta due giorni dopo. Tra le ipotesi anche quella che Serena quel giorno andò nella caserma dei carabinieri per denunciare alcuni traffici, forse legati alla droga. Poi la lite e la tragedia. Da quel giorno sono passati 18 lunghissimi anni nei quali il padre di Serena ha più volte chiesto verità. Diciotto anni di indagini e, ora sembrano dire gli accertamenti, anche di depistaggi. Poi la svolta con la perizia del Ris. Ora in cinque, e tra loro tre carabinieri, rischiano il processo. Abruzzo: sì è insediato il Garante regionale dei detenuti askanews.it, 31 luglio 2019 Gianmarco Cifaldi: mia attenzione prioritaria carcere di Sulmona. Il neo eletto Garante dei detenuti d’Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, questa mattina ha ufficialmente assunto l’incarico, sottoscrivendo l’atto di insediamento davanti al presidente del Consiglio regionale, Lorenzo Sospiri. Cifaldi è stato eletto dall’assemblea regionale abruzzese nella seduta dello scorso 23 luglio con un “riconoscimento unanime del suo valore professionale”. Docente di sociologia penitenziaria e rieducazione sociale all’Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara, il professor Cifaldi vanta una consistente attività di ricerca dedicata alle dinamiche detentive con una maturata conoscenza del sistema carcerario abruzzese. “La mia attenzione prioritaria - ha dichiarato il Garante a margine dell’insediamento - è rivolta al carcere di Sulmona, struttura che visiterò il prossimo 3 agosto. Il dramma dei suicidi che ha interessato questo contesto è un fenomeno da esaminare con attenzione al fine di eliminare possibili cause di reiterazione. Ho già in calendario, inoltre, interventi ispettivi nelle strutture penitenziarie dell’Aquila e Chieti dove intendo collaborare con tutti gli attori sociali che a vario titolo si interfacciano col mondo penitenziario”. Altri temi al centro dell’azione del Garante saranno l’affettività e l’attenzione al sistema sanitario all’interno del carcere, da curare in particolar modo in quei contesti penitenziari che ospitano madri e figli. Il Presidente del Consiglio regionale, Lorenzo Sospiri, ha espresso soddisfazione per l’avvenuta designazione, offrendo la massima disponibilità di tutte le strutture del Consiglio a supporto dell’attività del Garante. “Sia chiaro - ha sottolineato Sospiri - che chi ha sbagliato deve scontare l’interezza della pena. Le Istituzioni hanno il compito di garantire però che il detenuto sia trattato in maniera umana e possa avviare percorsi di recupero, così come previsto dalla Costituzione. Il Garante, in questo senso, sarà in prima linea per denunciare carenze del sistema carcerario e cercare soluzioni utili a migliorare le condizioni di vita di detenuti e personale”. Milano: detenuto con tumore terminale chiede di morire da uomo libero La Repubblica, 31 luglio 2019 Ma l’ok arriva troppo tardi. Giorgio C., un 58enne in carcere a Opera, scopre ad aprile di avere un tumore incurabile. La sua avvocata chiede più volte “un gesto di umanità e clemenza” dandogli la possibilità di morire a casa sua. Ma, tra ritardi ancora da chiarire, il parere favorevole della Procura generale arriva quando è già morto. Adesso l’avvocata scrive al ministro Bonafede. Cinque giorni fa aveva chiesto alla Corte d’Appello di Milano “che con un ultimo gesto di umanità e clemenza gli fosse concesso di morire da uomo libero” e quindi di revocargli la misura cautelare che lo aveva portato in carcere per rapina nell’aprile dell’anno scorso. Ma ieri, quando è arrivato il parere favorevole della Procura Generale per la sostituzione del provvedimento con l’obbligo di presentarsi alla polizia giudiziaria, era ormai troppo tardi. L’uomo, con un tumore ai polmoni allo stadio finale e che si era esteso anche alle ossa, è morto dopo atroci dolori in un letto di rianimazione dell’ospedale San Paolo ancora da detenuto. A denunciare la vicenda di Giorgio C., in una lettera inviata tra gli altri al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e al capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, è stato il suo avvocato, Francesca Brocchi, precisando che l’uomo, 58 anni, con una condanna a 5 anni e 8 mesi in primo grado, “non aveva nessuno, eccetto il proprio difensore”. Nella missiva, indirizzata anche al Provveditore Regionale alle Carceri Pietro Buffa, al Difensore Civico lombardo Carlo Lio, all’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera e al presidente della Commissione Carceri del Comune di Milano, Anita Pirovano, il legale chiede “di approfondire se vi siano state violazioni dei suoi diritti di detenuto e di malato, anche a causa del ritardo nella diagnosi della patologia oncologica che lo ha colpito, ovvero nel ritardo/omissione delle doverose comunicazioni all’Autorità Giudiziaria competente per la misura cautelare ed al difensore” da parte della casa di Reclusione di Opera dove era in cella dallo scorso novembre. In cinque pagine l’avvocato ripercorre la cronistoria della vicenda vissuta dal suo assistito e sulla quale il provveditore Regionale, da quanto è stato riferito, ha aperto un’indagine interna. Il racconto inizia nel dicembre 2018 quando il 58enne, oltre a tosse e difficoltà respiratorie, accusa “dolore persistente al polmone sinistro”. Il 12 aprile una radiografia al torace evidenzia la presenza di liquido nella cavità toracica e il conseguente “collasso del polmone sinistro”. Viene ricoverato d’urgenza al Fatebenefratelli. Due settimane dopo, la scoperta della “presenza di cellule tumorali maligne”, le dimissioni dall’ospedale e il ritorno in cella in attesa di una “Tac-Pet” per confermare l’infausta diagnosi. Accertamento che, programmato per il 2 maggio successivo, per un disguido, viene effettuato 25 giorni dopo. Nel frattempo il legale deposita alla Corte d’Appello, la terza sezione penale, la prima istanza per valutare la compatibilità con il carcere e ottenere la sostituzione della misura cautelare con obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria, per consentirgli di potersi curare. Da questo momento il caso finisce negli ingranaggi della burocrazia. Con il carcere di Opera, come si evince dalla missiva, che nonostante i solleciti, fatica a inviare le relazioni sullo stato di salute dell’uomo. Con i giudici che in assenza delle relazioni non possono decidere sulle ripetute richieste. Come si legge nella lettera denuncia, già protocollata dal provveditorato regionale alle carceri, ai primi di giugno il ricovero nel Centro Clinico sempre di Opera e il 12 giugno, dietro l’autorizzazione dei magistrati, all’ospedale San Paolo per la biopsia, alla quale avrebbero dovuto seguire intervento chirurgico e cure. Nulla da fare. Le sue condizioni peggiorano, ha metastasi alle ossa, non si regge in piedi o quasi, “ha forti dolori al costato ed ha un drenaggio al polmone”. Tant’è che il legale reitera la richiesta di scarcerazione, ma la Corte d’Appello non può ancora provvedere per mancanza della documentazione clinica. Il 15 luglio viene dimesso con una diagnosi che non lascia scampo, ma tre giorni dopo viene di nuovo ricoverato nello stesso ospedale per poi essere trasferito nel reparto di rianimazione. Di ciò “nessuna comunicazione risulta essere inviata all’Autorità Giudiziaria, tanto meno al difensore”. Mentre la procura generale dà il via libera agli arresti domiciliari in un hospice, il suo stato di salute di giorno in giorno è sempre più critico. Il 26 luglio, sempre in terapia intensiva, “Giorgio, con i polsi legati al letto” per evitare si potesse togliere tubi e tubicini, “intubato e tenuto in vita dalla respirazione assistita”, e con ancora il “drenaggio toracico”, riesce solo a dire in un soffio: “Voglio morire”. La sua sofferenza è “indicibile”. Il suo legale gli promette “che avrebbe continuato a battersi per lui, per fare in modo che potesse morire da uomo libero”. Ieri finalmente il parere positivo del Pg: revocare la misura cautelare e disporre l’obbligo di firma mentre dalla casa circondariale quattro giorni prima avrebbe chiesto ai giudici il suo spiantonamento. Una decisione arrivata troppo tardi, perché Giorgio C., nel frattempo, è morto. Ancona: disabile e malato, la storia di un detenuto uscito dal carcere di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 31 luglio 2019 “Io in carcere da disabile, disumanizzato come in un lager: ora sono senza casa e senza cure”. È la storia di Mevsudin Junuz, il 54enne di Falconara che giovedì scorso è uscito dal carcere ed è rimasto “in mezzo ad una strada”. Poi il giro di telefonate che hanno convinto la moglie ad accoglierlo. Oggi ha voluto incontrare noi di AnconaToday per raccontare la sua esperienza da detenuto e lanciare il suo grido di aiuto. Già, perché le difficoltà non sono finite. Ha pagato il suo conto con la giustizia, ma oggi è disperato perché non ha né una casa dove andare, né una struttura che si faccia carico del suo problema fisico. Insieme alla moglie con la quale è sposato da 13 anni, è temporaneamente appoggiato in un appartamento, che però dovrà lasciare a breve. “Un giorno ho sentito una forte scossa alla testa, sono svenuto, finito a terra e sono stato ricoverato in Neurologia 10 giorni, poi non ho più mosso la parte sinistra del mio corpo. È diventata come morta. I dottori del carcere non mi credevano: per loro ho sempre finto di essere invalido. Ma può un finto invalido fare la vita che facevo io, con il pannolone, con il costante bisogno di qualcuno per andare al bagno, per lavarsi o farsi la barba? Io dico di no. Siccome prendevo già altri farmaci, mi dovevano fare le punture nel braccio sinistro. Io dicevo loro che non sentivo niente, li pregavo di non farmi le punture lì perché non sentivo nulla e avevo paura. Ma loro insistevano, come se nulla fosse: “Tu stai bene, ti devi convincere che stai bene” dicevano. Non valevo più niente, non avevo più dignità. Vivere in carcere così è stato peggio che morire, è stato come vivere in un lager nazista”. Junuz, ex pugile di origini montenegrine, fa fatica ad accettare la sua nuova condizione e, alla domanda su come ha vissuto la detenzione in quelle condizioni, risponde con la voce rotta di chi piega anche i nervi pur di trattenere il pianto: “Volevo togliermi la vita, sì, ho pensato seriamente di farla finita. Mi volevo impiccare. Mi ha salvato mia moglie che, al telefono, mi ha detto di non farlo, scongiurandomi di pensare ai nostri figli”. Junuz ha espresso grande riconoscenza per gli agenti di Polizia Penitenziaria e in particolare il comandante Nicola De Filippis, che lo hanno sempre aiutato, contribuendo a farlo arrivare vivo fino alla fine del tunnel. Fino a giovedì, quando è tornato un uomo libero. Ora però c’è una nuova lotta: quella per il diritto alla casa e alle cure. Già, perché una casa non c’è, visto che quella in cui si trova la sua famiglia dovrà essere presto sgomberata. Sarebbero un diritto, eppure non ci sono nemmeno le cure. Il motivo? Manca una diagnosi, che non è mai arrivata. Dopo tutto quello che ha passato in carcere, l’ex pugile, in Italia dal 1989, si sente di nuovo solo. Questa volta però si sente abbandonato dalla politica e dalle istituzioni. Per fortuna al suo fianco ci sono l’avvocato Michele Carluccio e Chiara Carioli che spiegano: “Da maggio hanno scoperto che non possono stare in questa casa e ora sono senza luce e senza gas. Lui aveva informato gli assistenti sociali, gli educatori e tutti i referenti possibili di questa situazione. Il quadro era chiaro: fine pena, condizioni della casa e problematiche fisiche. C’erano tutti gli elementi per far sì che le istituzioni si facessero carico di una condizione al limite dei diritti umani. Nessuno si è mosso in anticipo per trovare una soluzione al momento dell’uscita e lui venerdì non è rimasto in strada, sotto il sole a 40 gradi, solo grazie alla moglie che si è convita ad accoglierlo. Ma quello che andava fatto era trovare una struttura riabilitativa e gli operatori contattati da noi ci hanno sempre detto che non sapevano dove mandarlo. Il punto è questo: manca una struttura sanitaria pubblica che possa farsi carico di una situazione come quella di Mevsudin”. Dunque ora Junuz, che da 8 anni è in attesa di un alloggio popolare e ha in corso una richiesta di invalidità civile del 30%, ha due possibilità per vivere: una casa o una struttura sanitaria, anche perché lui necessiterebbe di un percorso fisioterapico. “È vero che non c’è una diagnosi, ma i medici hanno sempre parlato prima di un problema solo psicosomatico - ha detto l’avvocato Carioli - poi si è aggiunta anche quella di trauma, però comunque serve una riabilitazione”. Ora sembra muoversi qualcosa perché gli assistenti sociali del comune di Falconara si stanno dando molto da fare per recuperare il tempo perso e trovare una soluzione. Intanto Junuz chiede che lo Stato lo aiuti perché vuole raccogliere la sfida di vivere una seconda vita, nella legalità e nella dignità. L’appello per una casa e il diritto alle cure - “Io ho sbagliato ed era giusto che io pagassi per quello che avevo fatto ma una persona deve pagare capendo il suo errore, con la possibilità di redimersi, non essere trattato come un cane. Chiedo dignità per tutti i detenuti che soffrono come ho sofferto io e oggi, per me, che sono di nuovo un uomo libero, chiedo al sindaco Signorini un aiuto: vorrei solo una casa e la possibilità di curarmi”. Viterbo: istituito il tavolo paritetico per la salute delle persone detenute quotidianosanita.it, 31 luglio 2019 Obiettivo: individuare e concordare risposte efficaci alle problematiche legate ai bisogni sociosanitari dei detenuti. Ne fanno parte tutte le istituzioni del territorio che operano in ambito carcerario.Il coordinamento è stato affidato alla Asl di Viterbo e alla Direzione della Casa circondariale Mammagialla. Un tavolo paritetico per la salute delle persone detenute. Un importante strumento di incontro e di confronto, il primo in Italia, per tutti i soggetti istituzionali che operano in ambito carcerario, al fine di individuare e concordare risposte efficaci alle problematiche legate ai bisogni sociosanitari dei detenuti. Il tavolo il cui coordinamento è stato affidato alla Asl Viterbo e alla Direzione della Casa circondariale Mammagiallaè stato istituito rispondendo a un invito del capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, rivolto a tutti gli Istituti penitenziari italiani. Le funzioni di coordinamento sono state affidate alla direzione sanitaria della Asl e dell’Istituto penitenziario di Viterbo, con un’idea di lavoro di rete e di sistema, al cui interno sono presenti tutti i servizi che si occupano di questo specifico ambito della salute dei cittadini: dalle aree della sicurezza e trattamentale della Casa circondariale Mammagialla alle unità operative della Asl Medicina protetta, Serd, Medicina penitenziaria territoriale, fino al Dipartimento di salute mentale. Al tavolo siederà inoltre il garante regionale delle persone private della libertà, mentre potranno essere chiamati a portare il loro fondamentale contributo i rappresentanti della Prefettura, delle amministrazioni comunali, della Magistratura di sorveglianza, dell’Università, delle società scientifiche e del privato sociale, in un nuovo contesto di sistema volto alla massima trasparenza e a favorire una sinergia di interventi. “L’istituzione del tavolo - commenta il direttore generale della Asl di Viterbo, Daniela Donetti - si inserisce in un percorso, da tempo avviato, che ha prodotto una serie di interventi finalizzati al miglioramento dell’offerta erogata alla popolazione penitenziaria: dalla dotazione di un Cup interno all’istituto penitenziario, all’informatizzazione dei servizi, fino alla stesura del Piano locale di prevenzione del suicidio. Tutto questo nella convinzione che assicurare la salute contribuisca anche a garantire la sicurezza delle persone detenute e dell’intera collettività. Queste azioni, inoltre, vanno inquadrate in un contesto normativo che, dal 2008, ha affidato l’assistenza sanitaria nelle carceri alle aziende sanitarie e in un contesto locale caratterizzato dalla presenza di una casa circondariale ad alta complessità di gestione, essendo tra i primi 20 istituti italiani per numero di detenuti: circa 600 di media al giorno, di cui il 50% di nazionalità non italiana e il 30% con problemi di tossicodipendenza”. Una complessità di gestione che per la Asl di Viterbo comporta, ogni anno, un impegno organizzativo e professionale significativo. Solo nel 2018 sono stati 530 gli accessi al pronto soccorso, di cui circa 200 seguiti da ricovero in Medicina protetta, 4364 sono state le visite ordinarie, 478 le visite urgenti, 409 quelle cardiologiche e 407 le infettivologiche, 933 le consulenze psicologiche, 78 i trattamenti con farmaci sostitutivi e 15370 le visite al Serd. Per una popolazione carceraria al cui interno sono presenti 23 detenuti affetti da Aids, 61 da epatite C e 22 da epatite B. “Quello penitenziario - spiega il garante regionale delle persone private della libertà, Stefano Anastasia - è un sistema complesso che richiede il concorso di diverse amministrazioni pubbliche nel perseguimento dei principi fissati dalla Costituzione. La Asl di Viterbo concorre con impegno e dedizione, di risorse e di professionalità, alla tutela della salute delle persone detenute nel carcere cittadino. L’istituzione del tavolo tecnico paritetico di coordinamento delle azioni della Asl e dell’Amministrazione penitenziaria è un’occasione importante per valorizzare le risorse, monitorare le criticità, innovare nelle procedure e, di questo, sono grato a quanti vi hanno lavorato, a partire dal direttore generale Donetti e dal direttore della Casa circondariale, Pierpaolo D’Andria”. Como: detenuti in “trasferta” a Madesimo per riparare i danni dell’alluvione Corriere della Sera, 31 luglio 2019 Positivo bilancio per il progetto voluto da Tribunale di Sorveglianza, carcere di Opera, Comune e Giacche Verdi Lombardia. Un’iniziativa “unica nel suo genere”, che ha avuto “un ottimo risultato”. Otto detenuti del carcere di Opera sono stati impiagati per una missione sociale a Medesimo, in provincia di Como, colpito dall’alluvione di giugno: l’eccezionalità sta nel fatto che hanno ottenuto il permesso di dormire fuori dall’istituto di pena in una casa messa a disposizione del Comune. Il progetto di recupero è stato realizzato a fine giugno grazie alla collaborazione tra Tribunale di Sorveglianza, Amministrazione penitenziaria, Comune e Giacche Verdi Lombardia, l’associazione di protezione civile e ambientale composta da volontari da tempo impegnata in una proficua collaborazione con il carcere di Opera. Nei giorni scorsi sono stati presentati i risultati dell’iniziativa in un incontro avvenuto nella sede municipale di Madesimo: presenti il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, il direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio con il comandante Amerigo Fusco; il sindaco di Madesimo Franco Masanti e il presidente delle Giacche Verdi Lombardia, Giuseppe Scabioli. Gli otto detenuti del carcere di Opera - che rientrano nell’art. 21 e cioè con dimora di reclusione serale - hanno contribuito a far fronte all’emergenza del piccolo centro della Valle Spluga, colpito dalla violenta alluvione con smottamenti, cedimenti, frane, allagamenti e cadute di pali elettrici. Settimanalmente, con partenza mercoledì e rientro il lunedì successivo, sono saliti a Madesimo e sono stati accolti per la notte in una struttura messa a disposizione del Comune, una ex colonia all’interno di Madesimo. “L’iniziativa - hanno commentato durante l’incontro - ha avuto un esito decisamente positivo. È stato superato il problema degli spostamenti, che avrebbero comportato tempi lunghi e costi. La loro permanenza ha permesso di svolgere un ottimo lavoro a favore della zona colpita dall’alluvione”. “Il bene - ha aggiunto Giovanna Di Rosa - può a sua volta contribuire a portare altro bene. Questa di Madesimo può diventare un esempio modello”. La Spezia: carcere sovraffollato, la Cisl scrive una lettera al provveditore regionale La Stampa, 31 luglio 2019 Il suicidio del detenuto nel carcere della Spezia accende i riflettori sullo stato di degrado in cui sono costretti a vivere le persone recluse nella casa circondariale. A lanciare l’allarme è la segreteria regionale della Federazione nazionale sicurezza della Cisl. E lo fa scrivendo una lettera al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Esiste una problematica che si protrae ormai da diverso tempo e che coinvolge tutto il personale operante all’interno della casa circondariale della Spezia, sia della polizia penitenziaria sia amministrativo. È il sovraffollamento che giorno dopo giorno, numeri alla mano (ad oggi abbiamo circa 230 ristretti a fronte di capienza massima prevista di 151 unità) mette a dura prova la capacità operativa dell’intero Istituto. Gli sforzi e i sacrifici degli operatori in divisa e non, sono davvero encomiabili, anche se a volte ciò non basta per affrontare le innumerevoli difficoltà logistiche, operative e burocratiche che si presentano quotidianamente”. E la segreteria Fns aggiunge: “La carenza di posti liberi, dove mettere i nuovi reclusi, crea grossi disagi ed impossibilità di differenziare i soggetti secondo i criteri previsti dall’ordinamento penitenziario, specialmente coloro i quali si sono resi responsabili di gravi eventi, quali risse o aggressioni. Poi c’è la massiccia presenza di detenuti con problematiche psichiatriche che spesso assumono comportamenti aggressivi di difficile gestione. Auspichiamo un intervento volto ad alleviare le criticità, per restituire al personale, stremato dai gravosi turni ormai perennemente attestati sulle otto e più ore lavorative, dignità e serenità professionale”. Bari: polo della giustizia, c’è la firma di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 31 luglio 2019 Governo e Comune di Bari siglano l’accordo: gli uffici concentrati nelle ex casermette. È stato sottoscritto a Roma, nella sede del Ministero della Giustizia, il protocollo d’intesa finalizzato alla realizzazione del Polo della giustizia di Bari nell’area delle ex caserme dismesse Capozzi e Milano. Il Ministero ha confermato la disponibilità di 94,7 milioni di euro. Alla firma erano presenti i ministri Alfonso Bonafede e Danilo Toninelli. “Mi auguro questa firma rappresenti un vincolo sul futuro” ha detto il sindaco Decaro. Dopo mesi di dubbi, interrogativi e molte polemiche è stata finalmente firmata l’intesa (era attesa già lo scorso maggio) per la realizzazione del Polo unico per la giustizia a Bari nell’area delle ex casermette Capozzi e Milano, al quartiere Carrassi. Negli uffici del ministero della Giustizia a Roma, ieri pomeriggio, è stata chiusa una vicenda che si è trascinata per 14 mesi. Il Ministero ha confermato la disponibilità di 94,7 milioni di euro per la realizzazione del Polo. Alla firma erano presenti i ministri Alfonso Bonafede e Danilo Toninelli. Il documento è stato sottoscritto dal mistero della Giustizia, agenzia del Demanio, Città metropolitana e Comune di Bari, provveditorato interregionale delle Opere pubbliche, Corte di appello e Procura generale di Bari. “Un anno fa a Bari la giustizia si celebrava nelle tende, dopo un anno e dopo aver sistemato gli uffici in una soluzione ponte, c’è la prospettiva di una cittadella giudiziaria - ha detto il ministro Bonafede - una soluzione che serve anche a recuperare immobili inutilizzati appartenenti allo Stato, creando così sinergie fra istituzioni, risparmio sui costi e sostenibilità”. Attualmente gli uffici della procura e il Tribunale penale sono ospitati nell’ex torre Telecom, in via Dioguardi a Poggiofranco. Una “soluzione ponte” con un contratto di sei anni (rinnovabile per altri 6 in attesa del Polo unico) dopo lo sgombero del Palagiustizia di via Nazariantz per rischio crollo. La giustizia a Bari viene esercitata in otto sedi: il palazzo di giustizia in piazza De Nicola che ospita il tribunale civile e la Corte di appello e che presto sarà interessato a lavori di ristrutturazione; gli uffici di via Brigata Bari, sede della polizia giudiziaria; il Tribunale per minorenni al rione Libertà che si trova in un condominio con spazi ridotti e privacy inesistente; il giudice di pace al quartiere San Paolo dove le udienze vengono svolte in aule minuscole e poca luce; l’aula bunker di Bitonto utilizzata per celebrare i più importanti processi di mafia; l’ex sezione distaccata del tribunale di Modugno dove gli spazi sono più grandi e in generale la situazione è più accettabile; poi c’è il carcere dove avvengono le convalide dei fermi e infine la sede provvisoria di via Dioguardi. È l’attuale situazione dell’edilizia giudiziaria di Bari con inevitabili disagi per gli operatori della giustizia costretti ogni giorno a spostarsi da un palazzo all’altro. “Questa firma rappresenta per la città un passo in avanti - spiega il sindaco Decaro - perché ci permette di avviare un percorso istituzionale che dovrà avere tempi certi e risorse definite. Per questo, come abbiamo fatto fino ad oggi, offriamo sin da subito la nostra disponibilità a collaborare per portare avanti tutte le operazioni propedeutiche alle attività necessarie alla realizzazione del futuro Polo della giustizia di Bari. Mi auguro questa firma rappresenti un vincolo sul futuro; chiunque nei prossimi anni sarà sindaco o ministro o siederà ai vertici della giustizia cittadina non potrà tornare indietro e annullare gli sforzi, il lavoro e i sacrifici fatti fino ad oggi per giungere a questo obiettivo. Il Polo della giustizia barese oggi deve essere una certezza - aggiunge ancora Decaro - lo dobbiamo alla città, ai tanti operatori della giustizia e ai cittadini che hanno bisogno di avere un punto di riferimento certo, nella sostanza come nella forma. Perché se è vero, come diceva un grande studioso francese, che la giustizia non può esistere al di là dei suoi simboli, come il diritto non può fare a meno delle sue forme, l’istituzione giudiziaria deve avere una sede di lavoro che rappresenti un simbolo forte di solidità e legalità”. Armando Punzo: “La vera prigionia sono le bugie e le sopraffazioni” di Anna Bandettini La Repubblica, 31 luglio 2019 La compagnia dei detenuti di Volterra. “Ogni spettacolo lascia delle tracce”, spiega Amando Punzo, “tanto che da qualche anno in qua in carcere noi parliamo dei nostri lavori come di una “saga”, una sola storia in tanti capitoli: il viaggio di un uomo e di un bambino che si domandano se c’è la possibilità di un altro mondo e di un’altra umanità”. E certo, qui a Volterra, nel carcere della Fortezza Medicea dove da trent’anni Punzo fa teatro, non è una domanda retorica. La sua compagnia, la Fortezza, composta di attori-detenuti, protagonista della nostra scena, è qualcosa di più importante di una semplice questione estetica: è una pratica quotidiana casta e rigorosa “alternativa” alla realtà della reclusione, della punizione; è l’esercizio di una sperimentazione quotidiana, coi detenuti che leggono libri, scrivono testi, costruiscono scene e realizzano spettacoli che sono un’esperienza di verità come raramente si vede, tanto da provocare negli spettatori, che entrano in carcere a vederli, commozione, disagio, speranza. Quest’anno l’atteso nuovo spettacolo della Fortezza, come sempre presentato nel carcere di Volterra (e i posti prenotabili su compagniadellafortezza.org stanno andando ancora una vota esauriti) si intitola Naturae, è scritto e diretto da Punzo ed è un primo studio, “una ouverture”, da ieri fino al 3 agosto nel progetto speciale dei trent’anni della Fortezza a cura di Cinzia De Felice che arriva fino a settembre con mostre e incontri. Punzo, il titolo “Naturae” c’entra con l’ecologia? “Non direttamente. La natura a cui ci riferiamo è quella più profonda dell’uomo. Perché dopo i precedenti lavori è come se fossimo arrivati a un punto fondamentale: come può l’uomo riguadagnare il paradiso perduto, una propria natura diversa da questa, orrenda, che caratterizza le società occidentali fatta di potere, ambizione, violenza, aggressività. Tre anni fa con Dopo la tempesta decidemmo di esplorare l’opera di Shakespeare, la più alta rappresentazione del canone occidentale, proprio per capire se nei suoi personaggi ci fossero germi di un mondo diverso. Borges con Beatitudo, lo spettacolo dell’anno scorso, ci ha mostrato la possibilità di altre realtà, ora vogliamo entrare nell’animo umano e trovare lì un’altra natura più profonda, che sia via di fuga alla prigionia in cui siamo caduti fatta di sopraffazioni, bugie, guerre”. Detto dall’interno di un carcere... “Proprio perché lo dico qui, ha un valore maggiore. Noi della Fortezza siamo la prova che si può mettere in discussione un modello di realtà che sembra unico: la reclusione, la punizione... L’approdo che cerchiamo non è in cielo né in terra, né in un dio o in un altrove esotico, ma è tutto e solo in noi, nella nostra natura, anzi nelle nostre infinite naturae. C’è un mondo di qualità che cercano di emergere dal pozzo dell’animo umano, una nuova Atlantide, un’oasi fatta di Armonia, Letizia, Stupore, Innocenza”. Autori di riferimento? “C’è tanta letteratura sul viaggio, il viaggio mistico, il viaggio del Cristo che lascia tutto, il viaggio degli uccelli del poeta persiano Farid ad-Din Attar, che frequentiamo da tanto tempo, c’è Moby Dick. Ma nessuno di questi è predominante. E stavolta non ci saranno personaggi ma figure dominate dall’amore”. Il 2 agosto, nel corso delle rappresentazioni, presenterà “Un’idea più grande di me”, il libro che ha scritto con Rossella Menna. Di cosa si tratta? “Un libro a cui tengo molto, dove attraverso i trent’anni di Fortezza e la mia vita nel teatro. Non è un manuale, ma è un dialogo che intreccia vita, società, cultura, etica. Un’occasione per interrogarmi su quello che abbiamo fatto, perché è tutto così faticoso”. C’è l’utopia del teatro, il progetto di un teatro stabile dentro il carcere, aperto tutto l’anno, con una sua stagione che sarebbe di grande utilità in questo senso. Ancora tutto fermo? “È un cammino lento. Franco Corleone il garante dei detenuti per la Regione Toscana, ci è a fianco e ha denunciato la stasi burocratica. C’è un milione stanziato da 4 anni e bisogna capire perché non si arriva a mettere un punto. Certo, per noi avere un teatro nella Fortezza Medicea sarebbe un’opportunità di sviluppo, ma sarebbe anche la prova concreta che cambiare la realtà si può”. I giovani e la droga, reprimere non basta se non si previene di Raffaele Cantone Il Mattino, 31 luglio 2019 La drammatica morte del vice brigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega ha generato un’ondata di sana emozione e acceso un faro su una realtà che da troppo tempo si finge di non vedere. Lo spaccio di ogni genere di droghe avviene ormai a cielo aperto ed in modo spesso protervo anche in pieno centro, nei luoghi della movida, addirittura usando intermediari per indirizzare i turisti verso i pusher. Quanto avviene a Trastevere non è certo un fatto isolato; nei giorni scorsi a Palermo la polizia ha scoperto un gruppo criminale che aveva perfino creato una sorta di call center per evadere le richieste h24. Il vero problema dietro questi episodi è l’aumento esponenziale della domanda di stupefacenti, che sta dilagando soprattutto fra le ultime generazioni. Ce ne siamo accorti quando due gravissimi fatti di cronaca hanno scosso la pubblica opinione, generando un’ondata di indignazione purtroppo effimera. Mi riferisco alla morte di Desirée Mariottini a Roma e Pamela Mastropietro a Macerata, a conferma purtroppo che il problema non riguarda più solo le grandi città. Basterebbero queste poche considerazioni a dimostrare come il tema sia cruciale e dai contorni esplosivi. Eppure sembra sparito dai radar del dibattito pubblico e in particolare della politica, che pare accorgersene solo quando si verificano fatti eclatanti e per il breve tempo in cui se ne parla. È forse comprensibile che la politica si comporti così; la questione degli stupefacenti è difficile da affrontare perché ha respiro mondiale e soprattutto perché le precedenti riforme hanno portato pochi frutti, sia quando hanno puntato sul recupero dei tossicodipendenti sia quando hanno fatto ricorso alla “tolleranza zero”. Sull’onda dell’omicidio del vice brigadiere, il ministro dell’Interno ha tuttavia annunciato il disegno di legge “Droga zero”, che già dal titolo lascia chiaramente intendere quale strada si vuole intraprendere; difatti si parla di arresto obbligatorio in flagranza anche in presenza di quantitativi minimi (la cosiddetta “lieve entità”) e di un inasprimento complessivo delle sanzioni. Un maggiore rigore va di certo salutato con favore; lo spaccio di stupefacenti è diventato il principale affare delle mafie, non solo italiane, che sono sul nostro territorio ed è opportuno intervenire in modo duro, non solo con le misure personali ma anche con sequestri e confische. Quello che non convince, però, è la lettura securitaria con cui si stanno affrontando tutte le questioni inerenti l’ordine pubblico, dallo sbarco dei migranti ai borseggiatori in metropolitana. Non si può ridurre tutto a una questione di legge e ordine, perché la realtà, specialmente in tema di droga, è molto più complessa e sfumata delle semplificazioni a uso giornalistico. L’universo che ruota attorno alla cessione degli stupefacenti è variegato e, proprio per effetto della loro diffusione, in particolare fra i più giovani una parte crescente è rappresentata dagli occasionali spacciatori-consumatori, dediti allo smercio per pagarsi le sostanze di cui fanno uso. Nessuno pensa di volerli giustificare ma è evidente la differenza (“ontologica” direi) fra costoro e uno spacciatore inserito nei ruoli organici di un gruppo criminale. D’altro canto è illusorio ritenere che la minaccia di sbattere dietro le sbarre chiunque venga trovato in possesso di stupefacenti, a prescindere dal quantitativo, sia reale e soprattutto ne scoraggi l’impiego. In primis bisognerebbe attrezzarsi, atteso che le carceri sono strapiene e questo governo, come i precedenti, di edilizia penitenziaria non si è occupato. E poi, si può davvero pensare di lasciare in una custodia cautelare prolungata i piccoli pusher? Essi probabilmente verranno rimessi in libertà o sottoposti a misure meno gravi, sovraccaricando il lavoro delle forze dell’ordine destinato ai controlli. Se tutti concordiamo che lo scenario è serio, è evidente che lo Stato non può limitarsi a rispondere con la sola arma (spuntata) della detenzione. Benché stia conoscendo un curioso revival circa le sue presunte proprietà terapeutiche, per non dire taumaturgiche, posso assicurare per averlo conosciuto da vicino che dal carcere si esce quasi sempre peggio di come si è entrati. E spesso l’unico effetto che consegue, in particolare nei confronti di chi vi finisce in maniera fortuita, è di consentire le conoscenze “giuste” per iniziare a delinquere in maniera stabile. Solo una strategia integrata può avere speranza di successo, coniugando una lotta senza quartiere alle organizzazioni criminali con un serio impegno a favore della prevenzione, del recupero e della riabilitazione. Finché non interverremo sulle cause che generano la domanda di droga, i rimedi repressivi serviranno a poco. Riempire le patrie galere di assuntori o pusher di piccolo calibro non risolverà il problema, rischierà solo di aggravarlo. Dal Comitato di Bioetica 6 indicazioni al Parlamento sul fine vita di Marina Della Croce Il Manifesto, 31 luglio 2019 La relazione approvata a maggioranza e non all’unanimità ma le raccomandazioni sono comuni, con il criterio di fondo di non discriminare arbitrariamente i malati Marco Cappato durante il processo a Milano per aver aiutato Dj Fabo a morire in Svizzera. Cosa è il suicidio assistito (è il soggetto, anche se aiutato da altri, a porre fine alla propria vita), vietato dalla nostra legislazione, e come si distingue dall’eutanasia attiva (sostanza letale inoculata da terzi) e da quella passiva (il rifiuto di trattamenti salvavita come il distacco dal respiratore come fu per Eluana Englaro): su questi sottili distinguo, con un pressante invito al Parlamento a legiferare in materia, si è espresso ieri il Comitato nazionale di Bioetica. La relazione dall’organismo scientifico ed etico super partes arriva a 13 anni dalla lettera di Piergiorgio Welby al Quirinale e a 6 anni dal deposito della legge di iniziativa popolare sull’eutanasia, ma soprattutto a otto mesi dal pronunciamento, aperto, della Corte costituzionale sulla vicenda giudiziaria di Marco Cappato e quindi a poco più di un anno dal ricorso all’Alta corte per sospetta illegittimità dell’articolo 580 del codice penale in base al quale lo stesso Cappato è stato giudicato a Milano per il “suicidio assistito” in Svizzera del dj Fabo, al secolo Fabiano Antoniani. Il rapporto del Comitato di bioetica è stato approvato a maggioranza, con 11 membri contrari e 13 a favore, incluso il presidente Lorenzo d’Avack. Ma anche se alla fine di un lungo dibattito basato sullo studio della giurisprudenza italiana ed estera sul tema, non si è riusciti a conciliare posizioni divergenti, il Comitato è arrivato alla formulazione di 6 raccomandazioni comuni, rivolte soprattutto al legislatore. Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e legale di Marco Cappato spiega che, in particolare, il parere del Cnb prevede, per accedere al suicidio medicalmente assistito tre delle 4 condizioni precisate dalla Corte Costituzionale: ovvero malattia irreversibile, sofferenza insopportabile e volontà chiaramente espressa. Mentre, aggiunge, “sul quarto criterio indicato dalla Corte, ovvero il fatto che il malato sia tenuto in vita da un presidio vitale, come peg o respiratore, il Cnb afferma che deve essere condizione aggiuntiva e non necessaria, per non creare un discrimine illegittimo tra malati”. L’unico assente, conclude Gallo, “è il legislatore italiano che ha scelto di non scegliere, sottraendosi all’invito formulato dalla Corte. Tra due mesi ci troveremo nella situazione in cui saranno di nuovo i giudici a decidere su temi che riguardano la vita delle persone”. L’Associazione Coscioni per il 19 settembre organizzerà un evento-concerto per tornare a chiedere una legge sul fine vita. Il Parlamento, secondo quanto indicato dalla Consulta, dovrà colmare entro il 24 settembre il vuoto di tutele sul tema nella Costituzione. Migranti. Il ministro Moavero sa bene che i negoziati non finiscono con un sì o no di Alessandro Costa Il Dubbio, 31 luglio 2019 Qualche giorno fa il nostro Ministro degli Esteri è andato a Bruxelles per esporre ai partner dell’Unione Europea, un progetto per la gestione delle migrazioni. Il nostro Ministro degli Interni, da parte sua, ha invece scelto di non andare alle riunioni organizzate su questo tema. Il Generale De Gaulle, decise di disertare le riunione dei Capi di Stato della allora Comunità Europea dal 1965 al 1966, con una politica che viene chiamata della “chaise vide”. Si trattava anche allora di una tecnica negoziale, di un modo per far pesare la posizione della Francia. Ma chi la attuava era Charles De Gaulle, e lo faceva a nome di uno dei due stati più importanti nell’organizzazione europea. Oggi le migrazioni rappresentano un tema cruciale nella politica di tutti gli stati europei, e di molti paesi del mondo. Che si ritenga trattarsi di un problema reale, oppure di un tema molto amplificato dall’azione dei media (soprattutto dei social media) il trattamento e la gestione delle migrazioni rappresentano uno dei tema chiave del futuro politico dell’Italia e dell’Unione. Il dibattito su cosa fare occupa quasi tutti i giorni la stampa e i talk show televisivi. E anche se le posizioni sembrano diametralmente diverse, tutti sembrano d’accordo nel sostenere che l’Italia non può farsi carico del problema da sola, e che una politica ed una visione coerente dell’Europa è certamente essenziale. Fermare l’immigrazione è uno slogan parecchio utilizzato, ma sembra che i provvedimenti adottati finora da molti stati, Italia compresa, abbiano soltanto ottenuto l’effetto di limitare modestamente il fenomeno, ma soprattutto di mutare le tecniche di attraversamento dei confini, sia quelli terrestri, che quelli marittimi. Il dibattito sulla natura del fenomeno e sulle tecniche di gestione, occuperà ancora a lungo politici ed esperti. Quello che è ancora più importante oggi, è come organizzare e gestire questo dibattito perché possa portare a soluzioni praticabili e condivise. E non c’è altro modo se non un serio negoziato fra i paesi membri dell’unione, il negoziato che il Ministro Moavero Milanesi potrebbe avere aperto con il suo progetto. Approvare o rigettare i suoi contenuti non è il punto importante: è invece essenziale avere aperto un negoziato, ed averlo fatto non con slogan o frasi ad effetto, ma con un programma redatto da esperti, sulla base di una strategia politica. Sembra quasi ovvio, ma chiunque abbia partecipato a negoziati di qualunque tipo, dai contratti commerciali ai grandi accordi fra stati, sa che per giungere a un qualsiasi consenso occorre un piano, un draft, articolato e dettagliato che proponga una soluzione a tutte le tematiche in questione, e nessun negoziato si è mai terminato con un si o con un no, ma ha proceduto con tempo e pazienza all’esame di tutti i punti sensibili in modo che tutti i partecipanti assumessero una responsabilità precisa su ciascun punto in questione, giungendo a faticosi compromessi che saranno tanto più efficaci quanto più potranno essere interpretati come la vittoria di tutti e non la sconfitta di qualcuno. Il nostro Ministro degli Esteri, è stato uno dei più alti funzionari della Commissione Europea e ha partecipato a centinaia di negoziati tecnici e politici. Sa bene che occorre non solo una visione politica ma anche una squadra di professionisti in grado di lavorare pazientemente nell’ombra per raggiungere risultati reali. Michel Barnier, il negoziatore dell’accordo sulla Brexit, ha seguito questo percorso, tipico della metodologia delle cancellerie europee e, che piaccia o no a Boris Johnson il risultato c’è stato, e temo che sarà molto difficile per il nuovo governo inglese modificare quello che i negoziatori della Brexit hanno faticosamente conseguito in molti mesi di lavoro. Quando il venditore di tappeti del suk vede che il suo cliente esce dal negozio, lo insegue abbassando il prezzo del tappeto. È una tecnica millenaria che ha sempre funzionato, ma ci vuole un bellissimo tappeto e un venditore capace e professionale. Giudice dà la residenza a un migrante e spedisce il dl Salvini alla Consulta di Mario Di Vito Il Manifesto, 31 luglio 2019 È un ragazzo di appena vent’anni, arrivato dal Mali due anni fa, a mandare il primo decreto Salvini davanti alla Corte Costituzionale. A partire dalla sua storia, infatti, in tribunale di Ancona ha emesso lunedì un’ordinanza in cui non solo si concede al giovane la residenza nel capoluogo marchigiano ma si solleva anche la questione di legittimità costituzionale sulla parte centrale della legge che porta il nome dell’attuale ministro dell’Interno: i richiedenti asilo possono ottenere la residenza in Italia oppure no? Il caso è stato sollevato dall’avvocato Paolo Cognini dell’Asgi (Associazione di studi giuridici sull’immigrazione) e la giudice Martina Marinangeli, in diciassette pagine, non solo ha deciso di accogliere le sue istanze ma ha anche rinviato tutto quanto alla Corte Costituzionale, oltre che a Palazzo Chigi e alla presidenza delle due camere parlamentari. Una vicenda che ricorda quanto già accaduto lo scorso maggio a Bologna, con il tribunale che pure aveva concesso la residenza a due richiedenti asilo, ma senza chiamare in causa i giudici costituzionali, cosa che invece è accaduta con l’ordinanza anconetana. Nel primo caso, infatti, Salvini - oltre ad aver innescato le solite letali chiacchiere sulla magistratura politicizzata e sulle sue sentenze - aveva detto che comunque si trattava di “singoli casi”, niente in grado di intaccare la legge in sé. Uno stallo giuridico che consentiva alla legge Salvini di sopravvivere e ai comuni italiani di continuare a non concedere la residenza ai migranti anche se titolari di un permesso di soggiorno. “La richiesta di pronunciamento della Corte costituzionale - spiegano adesso dall’Ambasciata dei diritti delle Marche - può fare chiarezza definitiva, con effetti vincolanti, sull’incostituzionalità delle disposizioni in materia di iscrizione anagrafica contenute nel primo decreto Salvini e sulla loro natura discriminatoria”. La miccia che potrebbe far saltare in aria il castello di carte messo in piedi dal leader leghista nella sua attività di governo riguarda la storia di un ventenne maliano, richiedente asilo e titolare di permesso di soggiorno, arrivato in Italia il 20 giugno del 2017 e domiciliato ad Ancona dal novembre dell’anno successivo, quando cioè è stato inserito in uno dei progetti d’accoglienza che operano in città. Lo scorso marzo, il ragazzo aveva chiesto l’iscrizione all’anagrafe ma la sua istanza era stata giudicata dai funzionari comunali “irricevibile ed inefficace”. Da qui il ricorso al tribunale attraverso l’avvocato Cognini. Scrive, dunque, la giudice Marinangeli: “il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile sarebbe illegittimo in quanto il legislatore non ha posto chiaramente un divieto generalizzato di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo dotati di permesso di soggiorno e, in ogni caso, un tale divieto sarebbe in contrasto con norme costituzionali e sovranazionali che vietano qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti”. E ancora: “la mancata iscrizione all’anagrafe della popolazione residente pregiudica l’esercizio di tutta una serie di diritti”, come l’iscrizione a scuola, la firma di un contratto di lavoro, l’apertura di un conto corrente, il poter prendere la patente e così via. La situazione si era fatta paradossale: il ragazzo non poteva accettare un’offerta di lavoro che gli era stata fatta perché la legge non glielo consentiva. Avrebbe dovuto aprire una partita Iva e prendere la patente di guida, due cose che senza la residenza non si possono fare. La legge, dunque, secondo la giudice di Ancona discrimina una persona sulla base di una condizione indipendente dalla sua volontà, in palese contrasto con la costituzione italiana e con varie norme sovrannazionali peraltro sottoscritte dal nostro paese. Questa osservazione, ad ogni buon conto, era stata fatta in precedenza da svariati giuristi: adesso, però, la questione si sposta dal dibattito accademico alle aule della Corte Costituzionale, dove si giocherà il futuro della legge Salvini nella sua essenza più profonda: se i richiedenti asilo potranno tornare a chiedere l’iscrizione anagrafica nei vari comuni italiani, crollerebbe il pilastro centrale di quel provvedimento. Il Garante detenuti: “Quali le condizioni dei migranti trattenuti sulla Gregoretti?” La Stampa, 31 luglio 2019 Il procuratore di Siracusa ha aperto un’indagine sul pattugliatore, il comandante è stato ascoltato dagli inquirenti. Continua a essere ormeggiato al pontile Nato della Marina militare nella rada di Augusta, dalla notte di sabato, il pattugliatore Gregoretti della Guardia costiera con a bordo 115 migranti soccorsi in mare, dopo il via libera del Viminale allo sbarco di 16 minorenni fra i 15 e i 17 anni. Ma in queste ultime ore il procuratore capo di Siracusa, Fabio Scavone, ha confermato di avere aperto un’inchiesta sulla vicenda del pattugliatore e il comandante della nave è stato ascoltato dagli inquirenti. Al momento sulla Gregoretti non ci sono nuclei familiari e sono tutti uomini. È stata inoltre effettuata una valutazione medica per le malattie infettive prima dello sbarco dei minori, già accompagnati nei centri di accoglienza, e per attivare le procedure di identificazione bisognerà attendere lo sbarco. Nella complessa situazione si inserisce il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, che ha inviato una lettera al Comandante generale della Guardia Costiera, Giovanni Pettorino chiedendo “urgenti informazioni” sulle condizioni dei migranti trattenuti da cinque giorni a bordo della Nave “Bruno Gregoretti”. Configurando la situazione dei migranti a bordo come una privazione de facto della libertà personale, il Garante ha chiesto di ricevere urgentemente informazioni sulle loro condizioni e sulle circostanze del negato sbarco. In particolare, il Garante ha espresso l’esigenza che gli vengano fornite delucidazioni in relazione alla risposta o meno alla richiesta di un “porto sicuro”. Inoltre ha chiesto notizia circa la consistenza numerica delle persone migranti a bordo e la presenza di particolari vulnerabilità; la sistemazione in ambienti coperti o esterni; le condizioni materiali della nave (inclusa la fruibilità dei servizi igienici e la disponibilità di acqua corrente) e infine notizie circa le misure messe in atto per rispettare gli obblighi inderogabili di cui all’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani “che vieta trattamenti inumani o degradanti- con particolare riferimento all’accesso a cibo e acqua e alla tutela della salute”. Di quei 116 i migranti che avrebbero lasciato la Libia il 25 luglio scorso su alcuni gommoni, salvati da autorità maltesi e pescherecci italiani e trasportati sulla Gregoretti. E in mare dalla perentoria posizione del ministro Salvini: nessuno può sbarcare se non c’è la redistribuzione Ue. Canapa, la Cassazione opta per l’ambiguità di Riccardo De Vito* Il Manifesto, 31 luglio 2019 La decisione delle Sezioni Unite sulla cosiddetta cannabis light (Cass. Pen. 2019/30475) sfugge in parte al suo compito nomofilattico, ossia a quel dovere di fare chiarezza nelle idee del diritto e nelle cose del mondo. Le severe certezze che emergono dalle motivazioni, depositate lo scorso 10 luglio, sono accompagnate da nodi problematici che spetterà al giudice (o al legislatore) sciogliere. La legge 242/2016 ha previsto che le coltivazioni di alcune varietà di canapa, derivanti da sementi con principio psicoattivo (Thc) inferiore allo 0,2% e destinate a finalità produttive tassative, “non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti” e che tali colture sono legali se si accerta un tasso di Thc compreso tra 0,2% e lo 0,6%. Nulla è detto sulla commercializzazione dei derivati (infiorescenze e resine) di quelle “piante lecite” e, di conseguenza, è nato il problema della legalità della loro vendita nei “cannabis shop”. Sulla questione la magistratura si è divisa. Un orientamento, autorevolmente patrocinato dalla sesta sezione penale della Cassazione, ha ritenuto che, in assenza di divieti espressi, dalla liceità della coltivazione di piante con tasso di Thc inferiore a 0,6% possa farsi scaturire, come corollario logico-giuridico, la liceità della vendita (e dell’uso) dei derivati: legali e non stupefacenti le piante, legali e non stupefacenti tutti i derivati. La sentenza delle Sezioni Unite, viceversa, ha scelto di conformarsi all’orientamento restrittivo e ha precisato che la legge 242 rende lecita soltanto la coltivazione delle piante con Thc inferiore a 0,6% indirizzata a usi agroindustriali tassativamente elencati. La commercializzazione dei derivati della cannabis - che per il testo unico rimane pianta stupefacente indipendentemente dalla varietà e dal tasso di Thc - integra gli estremi dello spaccio, salvo che tali derivati “siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”. Non vi è dubbio che la sentenza metta a nudo le ipocrisie di una legge che, nel promuovere la filiera agroindustriale della canapa con contenuti di Thc irrilevanti, ha colpevolmente omesso di disciplinare le conseguenze della vendita dei derivati. Tuttavia, nelle maglie di un ragionamento giuridico rigoroso, si percepisce anche una certa coloritura ideologica. La scelta di ritenere criminalizzata la vendita dei derivati con tasso di Thc inferiore allo 0,6%, salvo che siano privi di “concreta efficacia drogante”, non permette di uscire dalle secche di un paradosso che dovrà essere sciolto di volta in volta al banco del giudice: vietato sequestrare le piante lecite, ma possibile sequestrare i derivati e perquisire e arrestare chi li vende. I recenti sequestri di Parma stanno lì a dimostrare che occorrerà attendere un processo per capire cosa è lecito e cosa no. Tutto dipende da come la magistratura interpreterà il concetto di offensività, che comunque non pare possa risolversi nella totale assenza di Thc (in tale evenienza, infatti, non di reato inoffensivo si dovrebbe parlare, ma di non-reato). Sfuma, dunque, la possibilità di fare ordine nella materia e di raggiungere, come aveva scritto la sesta sezione, quel ragionevole equilibrio - la fissazione del limite di 0,6% di Thc, supportato peraltro da evidenze scientifiche ormai inoppugnabili sulla assenza di effetti psicotropi - fra esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell’ordine pubblico e le conseguenze della commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni lecite. Sarà il giudice, di volta in volta, a stabilire cosa possa essere lecitamente venduto in quei posti che, comunque la si pensi, avevano sottratto alla criminalità organizzata e allo spaccio di strada una fetta di mercato. *Presidente di Magistratura Democratica La Cina “rieduca” i musulmani e il mondo islamico all’Onu difende Pechino di Giulio Meotti Il Foglio, 31 luglio 2019 Sette paesi europei hanno votato due risoluzioni dell’Onu che colpiscono duro Israele. Lo stato ebraico è l’unico paese condannato dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Francia, Olanda, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo e Malta si sono unite a Cina, Russia, Iran e Venezuela nel sostenere le risoluzioni che condannano Gerusalemme per violazioni dei diritti umani, fra cui l’accusa di essere un “ostacolo” alle donne palestinesi. Solo Canada e Stati Uniti contro. Nikki Haley, già ambasciatrice americana all’Onu, ha twittato: “Che beffa totale consentire ad Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Yemen di indicare Israele come violatore dei diritti. Imbarazzante”. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Compresa l’ipocrisia di paesi come l’Iran, che ha appena condannato a dieci anni di carcere le donne che condividono foto di se stesse senza velo. Se non fosse che le stesse Nazioni Unite nei giorni precedenti siano state al centro di un’altra iniziativa sui diritti umani, questa volta meritoria. 22 paesi hanno inviato una lettera di protesta contro la Cina “che rimarrà come documento ufficiale agli atti del Consiglio dei diritti umani”. Vi si denuncia l’incarcerazione in campi di rieducazione di un milione di musulmani cinesi. Ma stavolta, il blocco dei paesi islamici ha fatto muro a favore di Pechino. In una contro-lettera firmata da 35 paesi (Corea del nord, Venezuela, Russia, Cuba, Bielorussia, Myanmar, Filippine, Siria, Pakistan, Oman, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Arabia Saudita e diversi paesi africani) si elogia la Cina per quei campi. Quasi la metà dei firmatari sono nazioni a maggioranza musulmana. Regimi che non hanno taciuto quando il Myanmar ha espulso i Rohingya, la sua minoranza musulmana, né quando l’Amministrazione Trump ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme. Sulla Cina che perseguita i musulmani, non solo tacciono, ma la coprono. Tante le ragioni economiche dietro il voto islamico a favore di Pechino. La Cina è il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita e la nuova Via della sete passa da tanti di quei paesi. La Cnn denuncia così il “mito della solidarietà musulmana”. Il Consiglio dei diritti umani non ha ancora pubblicato un rapporto sui musulmani che la Cina sta tenendo in campi di internamento e il segretario generale, António Guterres, è accusato dalle ong di tacere. Pechino nega, dice che quelle strutture servono per “uscire dalla povertà”. Diciassette ong a febbraio avevano invitato l’Unhcr a inviare una missione conoscitiva nello Xinjiang cinese per indagare. Migliaia di musulmani uiguri trascorrono le giornate in programmi di indottrinamento, dove sono costretti ad ascoltare lezioni comuniste, a cantare inni che lodano il Partito e a scrivere saggi di “autocritica”. Niente barbe, Corano, carne halal, preghiere alla Mecca, ma l’obbligo di “onorare” i banchetti organizzati per festeggiare l’”anno del maiale”. “Chiunque sia infetto da un ‘virus’ ideologico deve essere inviato alle classi di trasformazione prima che insorga una malattia”, recita un documento del Partito comunista cinese a Hotan. C’è questo. E poi c’è Israele, dove ci sono 400 moschee (73 solo a Gerusalemme, quintuplicato dal 1988), dove il 19,6 per cento dei cittadini sono musulmani (decuplicati dal 1948), dove trecento imam sono pagati dal governo israeliano, duemila musulmani servono nell’esercito israeliano e durante il Ramadan i dipendenti pubblici fanno festa. È la famosa “apartheid israeliana” che mette d’accordo tutti, i sinceri democratici di Pechino, i loro soci in affari della umma islamica e certi utili idioti occidentali. Iran. Dieci anni di carcere per chi pubblica foto sui social senza velo di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 31 luglio 2019 In Iran le donne che pubblicano sui social foto o video senza velo rischiano da uno a dieci anni di carcere. L’accusa del gel governo. Ancora una stretta alla libertà delle donne in Iran. Fino a dieci anni di carcere per chi pubblica sui social foto o video in cui si mostra senza velo. Nel Paese, l’hijab è diventato obbligatorio durante la Rivoluzione islamica del 1970. Qualche anno dopo, nel 1983, la norma venne estesa a tutte le donne iraniane e straniere, indipendentemente dal proprio orientamento religioso. Dopo quarant’anni, le donne iraniane hanno deciso di ribellarsi e dal 2014, in seguito alla campagna lanciata dalla giornalista Masih Alinejad, oggi esule negli Usa, hanno iniziato a pubblicare foto e video in cui bruciavano il velo e si mostravano col capo scoperto. È il movimento dei Mercoledì Bianchi, giorno in cui le donne si filmano e pubblicano i video senza hijab sui social e sulla pagina My Sthealthy Freedom, fondata dalla blogger Alinejad per spingere le donne a rivendicare il diritto di scegliere se indossare o meno il velo. La giornalista è stata ricevuta dal segretario di Stato Mike Pompeo ed è stata ringraziata “per il suo coraggio e la sua dedizione alla causa della libertà delle donne iraniane”. “Masih Alinejad ha un contratto con gli Stati Uniti”, ha accusato il capo della Corte rivoluzionaria di Teheran, Mousa Ghazanfarabadi. “Tutte le donne che le invieranno spontaneamente filmati in cui rimuovono l’hijab dal proprio capo saranno condannate da uno a dieci anni di carcere in base all’articolo 508 dell’Atto di Giustizia Criminale Islamica”. “Non sono io lo stato ostile”, ha risposto Alinejad in un video pubblicato dopo l’annuncio del governo iraniani. “Non avete paura di me, avete paura del fatto che le persone non vi temono più e si ribellano. Ogni donna che mi ascolta vede che le nostre voci sono ascoltate da tutto il mondo e si sente più forte”. Sono molte le donne che, dall’inizio della protesta, sono state arrestate per essersi scoperte il capo. Tra le ultime c’è Yasaman Ariyaee, 23 anni. È stata fermata insieme alla madre e portata in prigione con l’accusa di essersi tolta il velo in occasione dell’8 marzo. Stop ai negoziati, il Sudan si ferma dopo il massacro dei ragazzini di Michele Farina Corriere della Sera, 31 luglio 2019 Quattro uccisi mentre marciavano pacificamente e con le divise scolastiche: migliaia di studenti in marcia. Scuole chiuse. Migliaia di studenti per le strade del Sudan protestano per l’uccisione dei loro compagni. Sono ragazzi e ragazze con la cartella e la divisa stirata, l’unica cosa davvero in ordine nel secondo Paese più grande dell’Africa. Le divise sono le stesse che indossavano i quattro alunni di scuola media uccisi lunedì a Obeid, capoluogo del Nord Kordofan. Avevano dai 14 ai 16 anni. Marciavano pacificamente assieme a tanti altri, contro il “caro pane” e il “caro diesel”. Li hanno uccisi a colpi di arma da fuoco uomini con un’altra divisa e il kalashnikov al posto della cartella, non molto più vecchi di loro, ragazzi dell’esercito e della Forza di Intervento Rapido che si sono fatti le ossa nel genocidio in Darfur, dove erano conosciuti come Janjaweed: provengono dalla scuola di violenza di Mohamed Dagolo, ex commerciante d’oro e di cammelli diventato il generale più potente del Sudan. Il suo soprannome è Hemeti, vezzeggiativo che le mamme danno ai loro “piccoli Mohammed”. Perché ha la faccia da ragazzo, il burattinaio della giunta militare che lo scorso aprile ha disarcionato Omar al Bashir, il presidente-dittatore che chiamava Himayti, “mio protettore”, il generale faccia d’angelo che alla fine l’ha tradito. Il caso ha voluto che Bashir proprio ieri lasciasse la sua prigione dorata di Khartoum per seppellire la madre, mentre a centinaia di chilometri di distanza in Kordofan erano le madri a seppellire i figli, uccisi dalle forze di sicurezza durante la rivolta del pane. Non è una novità: lo scorso dicembre la caduta di Bashir cominciò con le proteste per il prezzo del cibo. Le associazioni dei professionisti (medici, insegnanti, avvocati) presero la guida del movimento. Hemeti aveva mollato il vecchio dittatore, che in passato aveva promosso e ribattezzato gli ex Janjaweed a forza regolare dell’esercito, dando al loro capo analfabeta il rango di generale. È stata la Forza di Intervento rapido a massacrare la folla il 3 giugno nella capitale: almeno 125 civili uccisi e gettati nel Nilo. L’ordine dall’alto era far sloggiare l’accampamento della società civile nato davanti al quartier generale dell’esercito. Ma il massacro non ha fermato la protesta pacifica dei sudanesi. Con la mediazione dell’Etiopia e l’ok dei padrini di Hemeti (Emirati, Arabia Saudita, Egitto) il dialogo tra giunta militare e società civile è ripreso fino alla definizione di un governo di coalizione che porti il Paese a nuove elezioni. Ma le tensioni restano sotto la polvere. L’inchiesta dei militari sull’eccidio del 3 giugno scagiona i capi e punta il dito su una manciata di miliziani. Da sabato scorso le proteste sono riprese. Lunedì il massacro degli studenti: anche in questo caso, le autorità denunciano la presenza di “infiltrati” tra i manifestanti, annunciando un’inchiesta rigorosamente non indipendente. L’opposizione “dei professionisti” ha sospeso il dialogo con i militari. Il nome Kordofan viene forse da una parola del popolo Nuba, kurta, che significa uomini. I ragazzini con la cartella e la divisa sepolti ieri a Obeid hanno onorato la loro terra. Meritano giustizia. Vietnam. Attivista condannato per aver scritto post contro la corruzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 luglio 2019 L’attivista vietnamita Ha Van Nam è stato condannato ieri a 30 mesi di carcere per “disturbo all’ordine pubblico”, ai sensi del famigerato articolo 318 del codice penale. Rischiava fino a sette anni. Si è trattato di una mera vendetta per via giudiziaria, nei confronti di un pacifico e coraggioso uomo che attraverso Facebook si ostinava a denunciare le violazioni dei diritti umani, l’ingiustizia e la corruzione. Il 28 gennaio era stato rapito da sconosciuti, caricato su un’automobile, portato in un luogo a lui ignoto, picchiato e “invitato” a smettere di scrivere. Aveva sporto denuncia alla polizia. Non solo non era stata aperta alcuna indagine ma il 12 febbraio gli erano fatte trovare delle teste di galli mozzate sul tetto della sua automobile, imbrattata ovunque di sangue. Nonostante questi “avvertimenti”, Ha Van Nam aveva continuato a scrivere. L’ultimo post risale al 4 marzo, il giorno prima dell’arresto. Le organizzazioni per i diritti umani hanno immediatamente chiesto la scarcerazione di Ha Van Nam. Il numero dei prigionieri di coscienza, condannati a pene detentive solo per aver esercitato il loro diritto alla libertà d’espressione, è arrivato a 128. Il 10 per cento di loro è stato condannato per l’attivismo sui social.