Lavori forzati? Vengono invocati ma il governo ha cancellato l’obbligo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2019 La riforma dell’Ordinamento penitenziario li prevede solo su base volontaria. Secondo la Corte europea è possibile utilizzare gratis, per lavori di pubblica utilità, i condannati, ma deve essere un’alternativa al carcere. Il ministro degli Interni, in merito al barbaro omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ha parlato di lavori forzati come pena da comminare all’omicida. Ma è il suo governo stesso che ha varato la riforma dell’ordinamento penitenziario dove valorizza il lavoro come opera trattamentale ma, soprattutto, rimuovendo il carattere dell’obbligatorietà del lavoro penitenziario, eliminando un riferimento normativo potenzialmente suscettibile di interpretazioni e letture non compatibili con le istanze rieducative della pena. Ricordiamo che, dopo un iter di approvazione accidentato a causa delle tensioni politiche dovute alle elezioni ed al cambio di maggioranza parlamentare, sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale i decreti legislativi attuativi della riforma penitenziaria, entrati in vigore il 10 novembre 2018. Con specifico riferimento al lavoro penitenziario, la riforma introduce significative novità di rilevanza giuslavoristica. Preliminarmente, si rileva l’ampliamento degli elementi del trattamento rieducativo con la modifica dell’art. 15: si introduce l’esplicito riconoscimento, quali elementi trattamentali, della formazione professionale e della partecipazione a progetti di pubblica utilità, che così acquisiscono la medesima dignità trattamentale del lavoro. Il fulcro della revisione degli aspetti giuslavoristici dell’ordinamento penitenziario è la riscrittura dell’art. 20 dell’Ordinamento penitenziario che contiene importanti modifiche. Con la riformulazione del primo comma, si esplicita la possibilità (in capo all’Amministrazione penitenziaria) di organizzazione e gestione di lavorazioni attraverso l’impiego di prestazioni lavorative di detenuti e internati. Tale esplicitazione si realizza congiuntamente a un ampliamento, consistente nella possibilità di organizzare e gestire non solo lavorazioni ma anche servizi, e di poter fare ciò non solo all’interno ma anche all’esterno dell’istituto di pena. La gestione e l’organizzazione delle lavorazioni, così come l’istituzione di corsi di formazione, resta ammessa anche ai soggetti terzi. In recepimento delle prassi interpretative successive alla legge Smuraglia, si ha anche sul piano formale l’estensione di tale facoltà dalle imprese pubbliche o private ad enti pubblici e privati. Inoltre, è stata eliminata all’interno del testo normativo la specificazione dell’obbligo di sottoscrizione di una convenzione con la Regione per l’attivazione di corsi di formazione professionale da parte di soggetti privati. Ma la parte più interessante, come detto, è quella che - in conformità alle indicazioni sovranazionali - è stato rimosso il carattere dell’obbligatorietà del lavoro penitenziario. Nel contempo c’è l’elevazione del lavoro volontario e gratuito dei detenuti nell’ambito di progetti di pubblica utilità a fattispecie autonoma e distinta dal lavoro esterno di cui all’art. 21 o. p., cui è riservato l’art. 21ter o.p., con contestuale abrogazione del comma 4ter dell’art. 21 o.p. In conformità a ciò, a differenza del precedente assetto normativo tale attività d’impiego del detenuto o internato può svolgersi anche all’interno degli istituti penitenziari, fermo restando che non possono in alcun caso avere ad oggetto la gestione o l’esecuzione dei servizi d’istituto. È confermato che l’attività volontaria può consistere in attività da svolgersi a favore di amministrazioni dello Stato, regioni, province, comuni, comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, sulla base di apposite convenzione, mentre è stato eliminato il profilo strettamente riparatorio consistente nel prestare la propria attività a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. Non a caso si parla di riferimenti sovranazionali. Secondo la Corte europea è possibile far lavorare gratis i condannati senza farli diventare schiavi a una sola condizione: il lavoro gratuito deve essere un’alternativa al carcere. Così la condanna assume un significato completamente diverso, non è più una punizione fine a se stessa, ma serve a riparare il danno arrecato dal reato. Il Dap annulla la regola di spegnere la tv entro le 24 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2019 Ritenuto opportuno ripristinare le precedenti disposizioni. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini annulla, attraverso un provvedimento ha annullato la circolare che obbligava lo spegnimento della tv entro mezzanotte per tutti i detenuti. La motivazione è ben spiegata. “La fruizione dei servizi e dei benefici offerti dagli apparecchi radio e/ o televisivi - si legge nel provvedimento - costituisce un fattore di sostegno al benessere della popolazione detenuta, contribuendo a lenire l’acuirsi dei disagi tipici della stagione estiva”. Aggiunge che, in un’ottica più generale, un’imposizione oraria rigorosamente vincolante, che non tenga conto delle singole realtà e dei casi concreti, “può risultare priva di qualsiasi utilità non solo per la popolazione detenuta, ma anche per l’amministrazione”. La decisione di annullamento della scorsa circolare, come si legge nel provvedimento, è stata presa considerando soprattutto la stagione estiva che crea disagi all’interno degli istituti penitenziari, in ragione delle elevate temperature che aggravano le condizioni della detenzione. “Tali circostanze - si legge nel provvedimento - posso causare un aumento del rischio di atti autolesionistici e autosoppressivi, ma anche contribuire a determinate aggressioni contro il personale in servizio e azioni rivolte contro l’ordine e la sicurezza degli istituti penitenziari”. Si fa cenno, per corroborare le motivazioni dell’annullamento, che l’entrata in vigore delle scorse disposizioni aveva di fatto impedito la visione del docu-film “Viaggio nelle carceri”, promosso dalla Corte Costituzionale, tanto che si rese necessario, su sollecitazione del Dap, un intervento di rettifica sulle modalità orarie di utilizzo degli apparecchi televisivi. Sempre nel provvedimento, il capo del Dap sottolinea l’importanza della televisione, il mezzo di informazione più utilizzato e che, a livello normativo, “viene preso in considerazione, tra l’altro, dalle regole penitenziarie europee, quando si stabilisce che ai detenuti deve essere permesso di tenersi informati regolarmente degli avvenimenti pubblici anche mediante la visione di trasmissioni televisive, a me che non vi sia un divieto specifico imposto dall’autorità giudiziaria su un singolo caso e per un periodo determinato”. Sulla scorta di tali argomentazioni, quindi, al Dap appare opportuno ripristinare le disposizioni preesistenti. Resta però la discrezionalità di ogni singolo direttore di istituto. “Saranno i regolamenti interni di singoli istituti - si legge sempre nel provvedimento - a prevedere la possibilità di spegnere coattivamente luci, radio e televisioni così come, del resto, già previsto all’articolo 6 comma 3, del regolamento penitenziario”. Quindi, l’organizzazione della vita quotidiana all’interno degli istituti penitenziari, l’orario di inizio e di conclusione delle attività, ed anche il tempo da dedicare al riposo notturno, saranno determinati da ciascuna realtà territoriale e potranno essere modificati al variare delle stagioni. Sarà quindi cura delle direzioni degli istituti penitenziari impartire le necessarie disposizioni affinché gli orari di accensione e spegnimento di radio e tv nelle celle, rispondano alle regole di ordinata convivenza. In sintesi non c’è più l’uniformità dell’obbligo di spegnere la televisione a mezzanotte per tutti gli istituti, ma la decisione sarà, appunto, discrezionale. “Mi riscatto per il Messico”, fase finale: delegazione Ministero in missione di Marco Belli gnewsonline.it, 30 luglio 2019 Il lavoro di pubblica utilità svolto dai detenuti di Città del Messico secondo il modello italiano del progetto “Mi riscatto per…” sta per diventare realtà. Una delegazione del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sarà in questa settimana nella capitale messicana per sottoscrivere, insieme a rappresentanti del Governo e del sistema penitenziario dello Stato di Città del Messico e dell’Ufficio delle Nazioni Unite per la lotta alla Droga e al Crimine, un Memorando de Entendimiento per l’implementazione nel sistema messicano del modello italiano di reinserimento sociale dei detenuti attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. La firma conclude sei mesi di lavoro congiunto e serrato, avviato nel dicembre 2018 su impulso del Rappresentante Unodc in Messico Antonino De Leo con l’intenzione di proporre alle autorità del Paese nordamericano il sistema previsto nel progetto “Mi riscatto per Roma”. A quel primo atto ha fatto seguito, nell’aprile scorso, la missione oltreoceano di una delegazione del Dap, conclusasi con la sottoscrizione di un accordo fra Nazioni Unite, Messico e Italia per studiare le modalità di importazione del modello italiano. Nel giugno scorso, la missione in Italia delle delegazioni Unodc e del sistema penitenziario messicano, ha permesso ai loro rappresentanti di toccare con mano, a Roma e Palermo, l’esperienza del modello italiano e di confrontarsi con tutti i suoi protagonisti: agenti, detenuti, magistrati di sorveglianza, sindaci e vertici di aziende già coinvolte nel progetto o interessate a farne parte. Tutto ciò ha permesso ai rappresentanti delle Nazioni Unite e del Messico di mettere a punto quanto necessario per stilare il Memorandum di intesa che sarà firmato giovedì 1° agosto prossimo a Città del Messico. La delegazione del Dap è composta dalla Vice Capo Lina Di Domenico e dal Coordinatore nazionale della Task-force per il lavoro di pubblica utilità Vincenzo Lo Cascio. Riforma della giustizia: in Consiglio dei ministri ne arrivano quattro di Errico Novi Il Dubbio, 30 luglio 2019 Il maxi Ddl Bonafede sarà inserito domani all’ordine del giorno. Nello stesso testo le modifiche al processo sia civile che penale, le norme ordinamentali e quelle sul Csm. Ancora divergenze con la Lega, ma ora il Guardasigilli vuole una risposta dall’alleato. Manca poco. Domani sarà ufficializzato l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, e a quel punto diventerà ufficiale la fissazione del primo esame collegiale, da parte del governo, sulla riforma della giustizia. Nelle ultime ore la tensione sul dossier è salita. Prima le Lega - con Salvini innanzitutto, ma anche con il sottosegretario Morrone - ha dichiarato la necessità di rendere gli interventi “meno timidi”. Poi il titolare della partita, il guardasigilli Alfonso Bonafede, ha rotto gli indugi e ha detto che porterà il suo testo, in ogni caso, “questa settimana in Consiglio”, appunto. Annuncio affidato ieri a un’intervista al Corriere della Sera. Tutto sta a capire se davvero le diverse valutazioni all’interno della maggioranza faranno tornare ai box l’ampio disegno di legge definito a via Arenula. O se invece, come sembra probabile, il Carroccio si riserverà di presentare le proprie “integrazioni” nel corso dell’esame parlamentare. Certo è che il testo di Bonafede già si è evoluto rispetto alla bozza inviata lo scorso 12 luglio all’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. Nelle due settimane intanto trascorse sono intervenuti diversi ritocchi. Alcuni illustrati dallo stesso ministro della Giustizia nell’intervista di ieri. Primo fra tutti, la diversa collocazione del sorteggio per eleggere i togati al Csm: verrà effettuato prima della fase elettorale propriamente detta, che servirà dunque a scegliere i futuri consiglieri all’interno di un bacino ristretto e individuato in modo casuale. In tal modo sarà evitato il rischio dell’incostituzionalità, ha spiegato il guardasigilli. Non è il solo punto rivisto negli ultimi giorni, sulla base di analisi compiute dai “tecnici” di via Arenula e Palazzo Chigi e in virtù di un confronto con la plenipotenziaria leghista sulla giustizia, Giulia Bongiorno, definito “costante” da Bonafede. Se è così allora, perché la maggioranza dovrebbe dividersi sul dossier? In parte il nodo è in una certa confusione sorta attorno ai contenuti effettivi della riforma. In realtà il ddl messo a punto al ministero della Giustizia contiene almeno quattro distinti interventi: uno riguarda il processo civile, un altro il penale, un altro ancora modifica l’ordinamento giudiziario, mentre la parte finale dell’articolato è riservata alle nuove norme sul Csm, ed è la sola a non assumere la forma della legge delega. “Su una materia del genere”, ha più volte ripetuto il guardasigilli, “è giusto lasciare campo aperto alle Camere”. Il punto è che degli interventi sul processo civile, per esempio, si è discusso finora pochissimo. Sono meno seducenti e spendibili dal punto di vista della comunicazione politica. Ma si tratta pur sempre delle questioni che hanno le ricadute più immediate sugli investimenti e l’economia del Paese. Si è parlato poco, in realtà, persino delle misure effettivamente previste in ambito penale. E qui in effetti potrebbero esserci dei margini di intervento ulteriore. Ad esempio sull’estensione dei riti alternativi: si è rinunciato a innalzare la pena massima per la quale è applicabile il patteggiamento. Ma proprio su tale versante è la Lega ad avere le resistenze più forti. Non c’è stato finora uno specifico dibattito su alcune misure ordinamentali pure importanti. Tra queste, una già rimessa da parte: l’abolizione della figura del procuratore aggiunto, che nella prima bozza era stata soppressa a vantaggio di quella del “magistrato coordinatore”. Il dibattito si è concentrato sulle sanzioni previste per i magistrati che dovessero sforare ripetutamente i tempi massimi di fase nella trattazione dei fascicoli loro assegnati: il termine di 9 anni è sembrato intollerabile all’Anm ma, al contrario, troppo alto alla Lega, ed è stato ridotto a 6 anni. Sul punto il dibattito resta aperto, anche con l’avvocatura che, come ha ricordato il presidente del Cnf Andrea Mascherin, intende continuare ad essere interlocutore privilegiato della magistratura. Non si è fatto in tempo a inserire nel ddl la riforma delle procedure riguardanti la giustizia minorile, che la ministra Locatelli ora intende promuovere e che la stessa avvocatura ritiene urgenti. La Lega e Forza Italia puntano sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, messa a punto dall’Unione Camere penali, grazie alla quale il testo è ora a Montecitorio. È stata finora del tutto sottaciuta la risposta, pure offerta dal ddl Bonafede, sulla possibile revisione della geografia giudiziaria e sul divieto di ritornare alle precedenti funzioni per i magistrati che assumano incarichi elettivi o di governo. Non ci sono dubbi, insomma, sul fatto che il testo potrebbe essere ancora integrato. Ma non si può certo dire che si tratti di un approccio riformatore poco ambizioso. Bonafede lo definisce “epocale”. Di certo è imponente per l’ampiezza delle questioni trattate. E sarebbe bizzarro se un disegno del genere fosse rimasto ancora escluso dalla discussione ufficiale in Consiglio dei ministri, dove approderà nelle prossime ore. La prova del nove in Senato, Decreto sicurezza verso la fiducia di Marco Conti Il Messaggero, 30 luglio 2019 Ormai siamo agli insulti e poi agli emoticon. Le faccette per dirsi arrabbiato e altrettanti disegnini per fare pace. Salvini ne manda in grande quantità e ieri lo ha ricevuto anche dal collega, ed alleato, Luigi Di Maio, che si è giustificato per “quell’altro”, usato per chiamare l’alleato. Nell’altalena dei ruoli, di chi finge di stare all’opposizione e chi finge anche di governare, si usa la Tav come il decreto sicurezza, la riforma della giustizia o le intese autonomiste. Molte parole divisive e tanti annunci subliminali di possibili crisi di governo mentre i due vice, e i rispettivi partiti, sono ancora pronti a sostenere - ognuno a modo suo - il governo Conte. Un continuo tirare la corda nella speranza che sia l’altro a cadere perché Salvini va dicendo che si è stancato dell’alleanza - ma si guarda bene dal farlo in Parlamento - e Di Maio lo sfida stando bene attento a non superare quel limite che finirebbe per attribuire la rottura al M5S. Ma se la Tav potrebbe rappresentare un argomento buono per provocare la crisi di governo solo se le opposizioni dovessero decidere di restare fuori dall’aula dove si vota la risoluzione, anche l’autonomia regionale con convince per la sua carica nordista che poco si addice ad un partito che punta al 40%. E così si galleggia con Salvini che annaspa cercando motivi di rottura e sperando che siano i grillini ad autoaffondarsi in una crisi di governo. Mentre Di Maio, in versione vietcong, attacca e scompare nella giungla delle questioni irrisolte, delle riforme al palo e delle tante vertenze sindacali all’attenzione del ministero di via Veneto. Il prossimo appuntamento sul quale si misurerà in concreto lo stato dei rapporti dentro la maggioranza si chiama “decreto sicurezza-bis”. L’appuntamento è per la prossima settimana a palazzo Madama dove il testo arriverà in aula lunedì per essere votato il giorno seguente. I numeri della maggioranza al Senato si sono ridotti dall’inizio della legislatura ed è forte il mal di pancia grillino per l’ennesima prova d’amore che devono dare all’alleato. Alla Camera i dissenzienti del M5S hanno avuto vita facile e in diciassette si sono permessi l’uscita dall’aula, compreso i presidente Fico. A palazzo Madama è invece già scattata la mobilitazione. Anche se la richiesta di voto di fiducia non è stata ancora annunciata, è quasi improbabile che non ci sia. Puntare al voto del decreto senza porre la fiducia significa far affidamento - e quindi trattare su qualche punto del testo - sulla pattuglia di senatori di FdI guidata da Ignazio La Russa. Di fatto un allargamento della maggioranza, o la costruzione di maggioranze variabili, con FdI o con la pattuglia autonomista che si è già aggiunta sulla riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari. Ma poiché un conto è aggiungersi e un conto è risultare essenziale, ecco che l’appuntamento a palazzo Madama della prossima settimana diventa paradossalmente importante per capire se - ironia della sorte - alla fine saranno i Cinque Stelle, e non la Lega, a far saltare il governo facendo mancare i voti di fiducia su un tema particolarmente caro al Carroccio. Ma poiché l’interesse del Movimento di sostenere sino all’ultimo la legislatura non sembra cambiato, ciò potrebbe spiegare il nervosismo del leader della Lega costretto ad immaginare altri argomenti e altri tempi per segnare definitivamente la distanza dai grillini. D’altra parte l’accusa di voler interrompere la legislatura per impedire che vada in porto il taglio dei parlamentari ha il suo peso e rischia di spostare da una parte all’altra quella fetta di elettorato che M5S e Lega si contendono a suon di bastonate. Il rischio per Salvini, ma forse anche per il Paese, che solo nella stesura della legge di Bilancio si potrebbe trovare l’argomento buono per far saltare il banco. Ma a quel punto chi vorrà farlo dovrà andare in Parlamento e spiegarlo. Non basterà un post sui social. Giustizia senza ombre di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 30 luglio 2019 L’umiliazione inflitta a Gabriel Christian Natale Hjorth in quella stanza di una caserma, viola infatti la legge e rischia di gettare ombre sull’intera indagine. Più complesso è il percorso per arrivare al risultato, più rigorosi devono essere gli accertamenti. È straziante vedere il viso stravolto di Rosa Maria mentre arriva al funerale del suo amato Mario. E poi ascoltarla quando dal pulpito della chiesa di Somma Vesuviana invoca l’angelo che piange e rinnova la promessa di matrimonio. Ma soprattutto rivendica con orgoglio di essere “la moglie di un carabiniere”. Solo un equo processo individuerà ruoli e responsabilità dei due giovani statunitensi in cerca di sballo nella notte romana, accusati di aver aggredito e accoltellato il vicebrigadiere. E di averlo ammazzato come un cane. Deve essere fatta giustizia. E per questo non si deve invalidare alcun atto fino alla sentenza definitiva. Rosa Maria dovrà avere la garanzia di vivere in uno Stato dove gli assassini del marito vengano puniti come meritano. Senza rischiare che, pur riconosciuti colpevoli, riescano a farla franca. Ecco perché è importante rispettare la legge, osservare tutte le regole. Tenere sempre a mente che uno dei principi cardine della nostra democrazia è il rispetto della dignità umana. E dunque non sottovalutare il comportamento del sottufficiale che ha bendato Gabriel Christian Natale Hjorth, l’ha costretto a tenere le braccia dietro la schiena con i polsi stretti dalle manette. I vertici dell’Arma dei carabinieri hanno compreso subito quanto grave sia stata la sua decisione. E oltre a prendere immediati provvedimenti disciplinari, hanno presentato una denuncia alla Procura di Roma per abuso dei mezzi di costrizione. L’umiliazione inflitta a Gabriel Christian Natale Hjorth in quella stanza di una caserma, viola infatti la legge e rischia di gettare ombre sull’intera indagine. Agli iniziali dubbi sulla ricostruzione di quanto avvenuto la notte tra il 25 e il 26 luglio, si è infatti aggiunta la polemica per quella foto che ha fatto il giro del mondo, alimentando anche negli Stati Uniti le accuse contro gli investigatori italiani. E rendendo concreto il rischio di inficiare il loro lavoro e dunque l’esito di questa inchiesta. La ricerca della verità non può e non deve mai far venire meno il rispetto delle regole. Anzi, più complesso è il percorso per arrivare al risultato, più rigorosi devono essere gli accertamenti. Senza giustificazioni di sorta per chi sbaglia. Il sottufficiale è stato trasferito ad altro incarico - non operativo - su disposizione del comandante generale Giovanni Nistri. Una decisione che - alla luce di quanto accaduto in passato in altri casi - fa onore all’Arma e spinge lo stesso Nistri a chiedere “rispetto per i carabinieri che fanno lo stesso lavoro di Mario”, a mettere in guardia tutti “per non infliggergli la dodicesima coltellata”. Servirà poco tempo alla procura generale di Roma per individuare gli altri militari presenti nell’ufficio, che hanno consentito l’abuso e non lo hanno denunciato. La celerità in questi casi è necessaria. Ma è altrettanto necessario porre fine alla contrapposizione aspra che da due giorni accende il dibattito politico e scatena i commenti sui social. Nelle ultime ore si è arrivati a mettere sullo stesso piano il carabiniere ammazzato e l’indagato con la benda sugli occhi, invitando i cittadini a scegliere da che parte stare. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha chiarito che a lui interessa soltanto “la vittima, un servitore dello Stato”. Il capo politico del Movimento 5 Stelle, e suo alleato alla guida del governo, ha addirittura sostenuto che parlare della foto “serve a buttarla in caciara”, cioè a fare confusione per distrarre dal vero problema. Altri politici dell’opposizione si sono concentrati soltanto sull’episodio della caserma per attaccare il governo. In realtà parlare della foto serve a denunciare un abuso e dunque a dimostrare che l’Italia è un Paese dove i diritti di tutti, anche di chi è in custodia, sono garantiti. Serve ad evitare che gli indagati possano denunciare un “ingiusto processo”. Serve, per garantire a Rosa Maria Esilio che lo Stato per cui suo marito ha perso la vita, troverà i colpevoli dell’omicidio e li punirà secondo la legge. Chi difende questa foto è fuori dalla Costituzione di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 30 luglio 2019 Nelle caserme e nei commissariati nessun fine giustifica i mezzi. La retorica sostanzialista nel lavoro di polizia è quella per cui tutto è lecito pur di ottenere giustizia o di raggiungere rapidamente la verità. Si tratta di una retorica pericolosa, fuori dall’arco di ciò che è lecito in una democrazia. Il confine ai poteri di polizia è ciò che distingue un regime illiberale da uno Stato costituzionale di diritto. In quest’ultimo nessuno deve abusare dei propri poteri di custodia. Uno Stato forte è quello che reprime il crimine nel rispetto delle proprie regole. Le immagini che hanno fatto il giro del mondo della persona arrestata, bendata e ammanettata, evocano la retorica sostanzialista delle mani libere. È del tutto privo di senso logico, strumentale, nonché istituzionalmente scorretto giustificare la condotta dei carabinieri, così come ha fatto il ministro degli Interni Matteo Salvini quando ha scritto che: “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un Carabiniere, un servitore della Patria morto in servizio per mano di gente che, se colpevole, merita solo la galera a vita. Lavorando. Punto” Questo breve post del ministro merita almeno tre diverse considerazioni. In primo luogo contrappone la vittima alla persona arrestata, come se i diritti di quest’ultima non fossero anche funzionali a dare giustizia alla vittima stessa. Oggi il processo nei confronti dei due americani ha qualche certezza in meno rispetto a quelle che avrebbe potuto avere, se fosse stato condotto, sin dalle fasi iniziali, secondo legge. Cosa avrebbe scritto su Facebook il ministro Salvini se uno dei suoi uomini di partito, finito giustamente o ingiustamente sotto inchiesta, fosse stato bendato e ammanettato durante la fase dell’arresto? Gli interrogatori formali e informali non possono, come vorrebbe forse il ministro, cambiare modalità e severità a seconda del reato di cui si è accusati. È questa un’assurdità scritta e urlata da chi non ha la capacità di ragionare in termini astratti e generali, da chi non si rende conto che se esiste una regola essa vale per tutti ed è a garanzia di tutti, innocenti o colpevoli, custodi e custoditi. Ogni forma di pressione psicologica o fisica coarta la volontà delle persona indagata, non facilita la ricerca della verità storica, inserisce elementi di paura che inquinano il lavoro degli inquirenti. In secondo luogo il ministro evoca una pena illegale, i lavori forzati. E su questo dovrebbe esserci la reazione di tutti gli altri ministri, a partire da quello della Giustizia e dal presidente del Consiglio. Chi ha giurato sulla Costituzione si ricordi dell’articolo 13 che sancisce che è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Non sappiamo se e quale sarà l’ipotesi di reato contestata a chi ha bendato il giovane americano e a chi ha permesso che ciò accadesse, sappiamo però che con quell’operato si è calpestata la dignità della persona sottoposta a indagine e si è messa a rischio l’azione investigativa a ricerca della verità. Chi sui social ridimensiona quanto accaduto in caserma non ha evidentemente a cuore né una né l’altra delle due questioni. Infine, due riflessioni. La prima è che fortunatamente il nostro sistema giuridico non consente l’estradizione verso paesi che praticano la pena di morte. La seconda è che non è rassicurante ipotizzare cosa sarebbe potuto accadere qualora la persona arrestata fosse stata nordafricana anziché statunitense. *Presidente di Antigone L’applausometro dell’indignazione di Salvatore Merlo Il Foglio, 30 luglio 2019 L’osceno derby tra difesa dell’Arma e difesa dello stato di diritto. Due fatti completamente diversi, che il buon senso, il rispetto e l’intelligenza avrebbero imposto di tenere separati, sono stati invece unificati e trasformati in una sola grande questione dalla sbrigliatissima politica italiana, da alcune televisioni e persino da certi giornali di complemento, che in un attimo sono riusciti nell’oscenità di banalizzare la morte di un servitore dello stato e a degradare in fetecchia twittarola la civilissima questione del habeas corpus. Ed ecco allora il cortocircuito ideologico, la porcheria stupidissima in cui si è avvitata la politica tutta, quella di destra e quella di sinistra: è più giusta l’indignazione verso il brutale assassinio del carabiniere Mario Circiello Rega o quella verso l’umiliazione della bendatura subita dal sospettato Natale Hjort? Aveva cominciato Matteo Salvini, ovviamente, il padrone della scena e del coro, amanuense di sé stesso ma anche delle opposizioni di sinistra capaci di saturare il loro uditorio di slogan che si specchiano in quelli del loro avversario Truce. “A chi si lamenta della bendatura di un arrestato, ricordo che l’unica vittima per cui piangere è un uomo, un figlio, un marito di 35 anni, un Carabiniere”, ha scritto Salvini sui social. E il suo sconcio invito a scegliere, a stilare una classifica, è stato ovviamente accettato, al punto che da due giorni si è scatenata tra lui e il Pd, ma pure sui quotidiani - per non citare quegli horror-show che vanno sotto il nome di talk- una sconfortante sassaiola di accuse reciproche. Salvini accusa il Pd di non indignarsi a sufficienza, mentre il Pd lo accusa di fomentare la giustizia sommaria e comportamenti vessatori da parte delle forze dell’ordine. A riprova forse che la grammatica populista dell’iper-semplificazione è un virus ad ampio raggio infettivo. Sintassi naturale della politica e del giornalismo. Succubi di una forsennata banalità ideologica che ci sta avvelenando tutti, ieri persino diversi quotidiani, vicini alla destra ma anche altri vicini alla sinistra, si sono prestati a suonare lo spartito dettato da Salvini, ed esattamente nei termini imposti da Salvini. “Peggio morti che bendati. L’indignazione per l’errore non può superare quella per l’omicidio” (La Verità). E poi Repubblica, speculare e opposta: “La vergogna e il dolore”, con richiami ai terribili fatti del G8 di Genova, all’orrore dell’omicidio di Stefano Cucchi, compresa un’inquietante rievocazione di Scelba, il ministro dell’Interno che aveva favorito l’arruolamento nelle forze dell’ordine dei famigerati “scelbini”, uomini dai metodi risoluti e spicci, spesso torturatori. Per gli uni è peggio l’omicidio di un carabiniere, e per gli altri sono invece in gioco i diritti civili e addirittura i principi democratici, come se le due vicende, l’omicidio del carabiniere e il sopruso subito da un uomo sottoposto a fermo di polizia, debbano procedere collegate fino a risolversi in una questione di tifo che sarebbe fuffa senza interesse se non rappresentasse invece l’intero spettro della politica: cosa vi indigna di più? Come ben si vede, in tutta questa vicenda c’è forse la malattia del paese, il codice e il virus del populismo diffuso che permea il dibattito pubblico, vive sui social e infantilizza i giornali. Perché è comprensibile che dinanzi alla furia e alla brutalità di un omicidio, come di fronte alla coercizione e al bullismo vendicativo da caserma, si rimanga paralizzati come dinanzi all’esondazione di un fiume. Non è comprensibile, ed è anzi preoccupante, l’eccesso di parole e di slogan contrapposti, il metabolismo accelerato: la guerra sulle spoglie, ovvero il morto che diventa il pasto dei vivi. Ma l’Italia non è un enclave premoderna, non è (ancora) una caverna di trogloditi. “Il cuore di Mario è stato trafitto da undici coltellate”, ha detto ieri il Comandante Generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, prendendo la parola ai funerali del brigadiere Cerciello Rega. “È bene che noi tutti si eviti la dodicesima coltellata”, ha aggiunto. “Serve rispetto. Giusti i dibattiti, sono legittimi, ma teniamoli lontani”. Ed è forse un paradosso rivelatore che, per ricordare a tutti dove portano i pensieri puliti e i sentimenti sereni, sia costretto a parlare proprio un ufficiale dei carabinieri, cioè un uomo “uso a obbedir tacendo”. Mai era forse capitato che fosse un generale a dover spiegare ai parlamentari e ai ministri, a maggioranze e opposizioni, a intellettuali e giornalisti che scatenano il linguaggio, dove stia invece l’eleganza del pensare e del parlare, la resistenza al fumo dogmatico, la dignità, l’intelligenza, persino la saggezza e il rispetto che sempre si deve alla faccende gravi. Tutto questo sembra rendere in un attimo l’interezza di un tempo impazzito. Il padre è in carcere per mafia. “La colpa non ricada sul figlio” di Andrea Cannizzaro livesicilia.it, 30 luglio 2019 I giudici del Cga annullano una interdittiva antimafia: i soli rapporti familiari non la giustificano. Le colpe dei padri non possono ricadere sui figli. È questo il principio che il Cga, il Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia ha riaffermato in una recente sentenza con cui è stata annullata un’informativa antimafia del 2009. La storia in questo caso riguarda un’impresa agricola, difesa dagli avvocati Girolamo Rubino e Calogero Marino. L’impresa chiese di accedere a un bando per gli anni 2009/2011 della misura del Psr Sicilia, il piano di sviluppo rurale che eroga i fondi europei nel mondo dell’agricoltura. Durante l’istruttoria, però, la Prefettura ha emanato l’interdittiva perché sia il padre che il cognato dell’imprenditore erano stati condannati al carcere per reati di stampo mafioso. Come spesso accade, quindi, l’informativa è arrivata in seguito alla richiesta di un ufficio pubblico, in questo caso, dell’amministrazione regionale che stava accertando che l’impresa che richiedeva i fondi europei per l’ammodernamento delle imprese fosse “pulita”. La nota prefettizia ha portato gli uffici regionali a ritenere l’istanza irricevibile. Per i giudici amministrativi di secondo grado, quindi, sia la Prefettura, sia l’amministrazione regionale, sia il Tar - col giudizio di primo grado - hanno sbagliato. Nella sentenza, infatti, i magistrati affermano che “non può configurarsi un rapporto di automatismo tra un legame familiare, sia pure tra stretti congiunti, e il condizionamento dell’impresa” da parte della mafia. Gli indizi su cui si deve basare l’interdittiva non possono essere i soli legami familiari. Per affermare che un’impresa sia a rischio infiltrazione sarebbe piuttosto necessario “basarsi anche su altri elementi, sia pure indiziari, tali nel loro complesso da fornire obiettivo fondamento al giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiziaria, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata”. Quindi, come detto, l’impresa non può essere ritenuta a rischio infiltrazione mafiosa per via delle colpe dei familiari. L’atto del prefetto deve invece basarsi su degli indizi che coinvolgano gli affari e la gestione dell’imprenditore stesso. L’assenza di questi elementi avrebbe portato il Cga ad accogliere il ricorso e ad annullare i provvedimenti. Nel caso delle interdittive, in particolare, i giudici notano che queste “limitano libertà” come quella del “diritto al lavoro e “impattano dunque con diritti fondamentali che spettano a tutti, in quanto uomini, senza distinzione alcuna e producono a volte effetti devastanti di gran lunga più gravi delle sentenze penali”. Per questo, secondo i giudici, i provvedimenti non sarebbero stati suffragati da elementi così gravi da giustificarli. Diritto all’oblio e cronaca: “la sofferenza” del giudice di Francesco Barra Caracciolo Il Mattino, 30 luglio 2019 Le Sezioni Unite della Cassazione, alcuni giorni fa, hanno provato a porre i confini (definitivi?) al complesso rapporto tra il diritto all’oblio, the right to be forgotten (declinazione rivolta al passato della riservatezza, con bella immagine, definita come right to be let alone) e i diritti di rievocazione storiografica e cronachistica (distinzione rilevante). Ma il crinale tra le due opposte esigenze, entrambe di rilievo costituzionale e sovra nazionale (soprattutto, ma non solo, art 2, 3 e 21 Costituzione e 7 e 8 Carta di Nizza) è friabile, e richiede ineluttabilmente “ la sofferenza” del giudicare il caso concreto. Non facile quando è in gioco l’eterna aspirazione dell’Uomo ad immergersi nel fiume Lete per dimenticare - e far dimenticare - il passato onde (aver la forza di) assurgere a nuova vita. Diritto che anche (Il fu) Mattia Pascal comprese esser per nulla scontato. Le Sezioni Unite distinguono tra la rievocazione storiografica e quella cronachistica, quest’ultima quando nuove vicende inducono a ripercorrere quelle (più o meno) remote. E richiamano (tra altre fonti) anche, e salutandola con favore, la Carta dei Doveri del giornalista del 2016: la narrazione di vicende lontane nel tempo è ammessa solo se essenziale per la completezza dell’informazione e dovendosi, comunque, tener conto anche del “reinserimento sociale”, una volta scontata la pena, che non va compromesso dalle nuove luci della cronaca. la soluzione indicata è quella di garantire l’anonimato nella pur legittima rievocazione. Con l’opportuna eccezione che l’identità può ben disvelarsi qualora la persona è ancora nota o ricopre ruoli pubblici. E allora, ai posteri le ardue sentenze. Lombardia: epatite C e disagio psichico nelle carceri, più fondi dalla regione milanotoday.it, 30 luglio 2019 Per l’epatite C, in tutta la Lombardia, c’è solo una struttura che ospita detenuti malati. Disagio psichico ed epatite C sono in crescita nelle carceri, in Italia e in Lombardia. L’Osservatorio Antigone ha calcolato che, nel 2016, il 65% della popolazione carceraria soffriva di disturbi di personalità e il 48% di disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti, ma nelle carceri lombarde, nel 2016, si è registrata la presenza di uno psichiatra per appena 8,5 ore ogni 100 detenuti. Troppo poco. Sul fronte dell’epatite C, invece, sono vari i fattori che stanno causando la sua sempre maggior diffusione in carcere. Tra questi la ristrettezza degli spazi, la promiscuità forzata, l’alta incidenza (34%) di detenuti tossicodipendenti, la presenza di oggetti provenienti da aree geografiche in cui il morbo è diffuso, la presenza di persone detenute che esercitavano la professione di sex worker. Eppure, in tutta la Lombardia, l’unica struttura di medicina protetta che ospita pazienti provenienti dagli istituti penitenziari si trova presso l’Asst San Paolo e San Carlo. Anche qui, troppo poco. Ma c’è una buona notizia: i consiglieri regionali, all’unanimità, hanno approvato - in sede di assestamento di bilancio - un ordine del giorno che impegna la giunta a stanziare più risorse su entrambi i fronti: per il trattamento del disagio psichico negli istituti di pena e anche per potenziare screening e terapie per eradicare il virus dell’epatite C dalle carceri e dai Serd (servizi contro le dipendenze), incrementando il numero di reparti dedicati ai detenuti nelle Ast. “La Regione ha finalmente compreso l’importanza degli investimenti per la salute in carcere, determinanti per la riabilitazione del reo imposta dalla Costituzione e per ridurre i tassi di recidività. Garantire il diritto alla salute dei pazienti detenuti, che spesso vengono da contesti di disagio e vulnerabilità, è un imperativo categorico che fa bene a tutta la società”, dichiara Michele Usuelli (+Europa), presentatore dell’ordine del giorno. Reggio Calabria: suicidio al carcere di Arghillà, il rapporto del Garante dei detenuti citynow.it, 30 luglio 2019 Le modalità del suicidio ricalcano quelle tragicamente note in casi simili. Di seguito il rapporto del Garante dei detenuti, Agostino Siviglia. A seguito del suicidio per impiccagione del cittadino di nazionalità rumena, Golovanschi Antonio Petru (classe 1972), detenuto presso l’istituto penitenziario di Reggio Calabria Arghillà, avvenuto nel pomeriggio di venerdì 26 luglio 2019, intorno alle ore 17:30, N.Q. di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria, nella mattina di lunedì 29 luglio 2019, mi sono recato presso il detto istituto penitenziario al fine di assumere le informazioni del caso. Ho potuto apprendere che nel pomeriggio di venerdì 26 luglio 2019, intorno alle ore 17:30, il sanitario di guardia in carcere veniva allertato dalla sezione “Afrodite”, all’interno della quale sono reclusi i cosiddetti “protetti” (per reati di riprovazione sociale), essendo in atto un tentativo di suicidio. Risulta in atti - presso l’Area Sanitaria dell’istituto penitenziario - che non appena il sanitario di guardia giungeva nella detta sezione “Afrodite”, il detenuto Golovanschi Antonio Petru, disteso per terra nel corridoio della sezione, attorniato da altri detenuti e agenti di polizia penitenziaria, non era più vigile e cosciente, non respirava ed il battito cardiaco risultava assente. Nonostante il tentativo di rianimazione con il defibrillatore portatile ed il contestuale massaggio cardiaco per circa 50 minuti, alle ore 18:20, i sanitari del 118, nel frattempo giunti sul posto, ne constatavano l’avvenuto decesso. Le modalità del suicidio ricalcano quelle tragicamente note in casi simili: impiccagione con lenzuola legate alle inferriate della finestra della cella. Dalle informazioni acquisite, non risulta che al detenuto Golovanschi Antonio Petru, entrato in istituto il 16 luglio 2019, fosse stato applicato alcun regime di vigilanza particolare, essendo in cella con altri tre detenuti e non avendo avuto alcuna diagnosi di patologia psichiatrica rilevante. Sul punto si segnala la visita del 25 luglio 2019 - reperibile in atti - del referente sanitario dell’istituto penitenziario di Arghillà, dalla quale non si evidenzia alcun sintomo di patologia psichiatrica rilevante, nel mentre emerge una condizione di estrema marginalità sociale e solitudine del cittadino rumeno in questione, persona senza fissa dimora che dormiva nei vagoni della stazione ferroviaria di Reggio Calabria, senza familiari, né parenti, né amici, senza nessuno, semplicemente, solo. Per dare seguito al suo gesto suicidario ha aspettato di rimanere solo in cella, di oscurare lo spioncino che permette dall’esterno di guardare all’interno della cella stessa, di legare le lenzuola alle grate della finestra dell’antibagno della sua cella e, quindi, di impiccarsi. Un detenuto che transitava nella stessa sezione per prepararsi alla distribuzione dei pasti, accortosi che in quella cella non rispondeva nessuno e che lo spioncino era oscurato, allertava l’unico agente di polizia penitenziaria presente nella sezione, che prontamente interveniva, unitamente ad altri detenuti in transito, nel tentativo di portare i primi soccorsi, premurandosi nel contempo di avvisare con urgenza il sanitario di guardia. L’epilogo è noto, per come su riportato. Nel comunicare per la Loro più opportuna conoscenza quanto dallo scrivente appreso, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, non può non segnalarsi la grave carenza strutturale di cui soffre l’istituto penitenziario di Arghillà, più volte segnalata formalmente e pubblicamente da questo Garante. In specie, anche in questo caso, rilevano le carenze di personale penitenziario e sanitario: un solo agente stabilmente presente nel posto di guardia per ogni sezione detentiva è insufficiente, con gravi e tragiche conseguenze sia per le concrete possibilità di monitorare, intervenire e magari prevenire eventi tragici come quello in questione, sia per la sicurezza interna all’istituto sia, infine, per le stesse condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, che, in assoluta carenza di personale, sono costretti, come del resto il personale sanitario (mancano infermieri, psicologi, psichiatri, cardiologi, medici di guardia), a fronteggiare una popolazione detenuta di oltre 300 reclusi. Le ragioni che inducono al suicidio sono così complesse ed impenetrabili da non trovare spazio di approfondimento in Questa Sede, permangono tuttavia le urgenze strutturali da fronteggiare - qui segnalate, ancora una volta - in particolare per quel che concerne l’istituto penitenziario di Reggio Calabria Arghillà, che se non risolte o quantomeno seriamente arginate, continueranno inesorabilmente a degenerare, con irreparabili conseguenze tanto nei confronti dei detenuti quanto del personale che a vario titolo opera in carcere. Treviso: dal carcere all’ufficio, i murales dei detenuti sulle pareti del Fablab di Silvia Madiotto Corriere del Veneto, 30 luglio 2019 “Il vostro tempo è limitato perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro”. Le parole di Steve Jobs, il fondatore della Apple e creatore degli iPhone, oggi decorano la sala conferenze della casa tecnologica degli industriali trevigiani, il FabLab di Unis&f in via Venzone. Quel motto era un incitamento rivolto ai giovani, a chi prenderà in mano il futuro, e sono proprio dei ragazzi ad averlo trasformato in un murale nato dalla stampa digitale e dalla computer grafica. Ragazzi speciali, che hanno avuto i loro problemi e oggi si stanno ricostruendo una vita all’interno del carcere minorile: hanno partecipato a un laboratorio che li ha portati a confrontarsi con le aziende, a esprimere la loro creatività e a realizzare progetti sfidanti per i grandi industriali, per portare un giorno ciò che hanno imparato all’istituto penale nel mondo del lavoro. Il “Progetto restyling pareti” ha coinvolto sei giovani detenuti di Santa Bona: lì, oltre alle lezioni tradizionali fanno sport, educazione alla cittadinanza, educazione cinofila con i cani abbandonati, studiano informatica e mettono a frutto la loro fantasia e la loro manualità nei laboratori della Bottega Grafica. “Il corso si è inserito in un percorso che da diversi anni si realizza nell’istituto penale minorile - spiega la direttrice Carla Sorice. La collaborazione con Assindustria ha però aperto ai ragazzi una nuova e diversa prospettiva, consentendogli di confrontarsi con una realtà formativa e produttiva con cui normalmente non avrebbero avuto contatti”. Seguiti da due docenti esperti di grafica, Marco Morbiato e Leonardo Marzi, hanno lavorato in gruppo ma con un impegno individuale molto forte e deciso: “Entrambe queste dimensioni di lavoro - sottolinea la direttrice - non sono scontate né usuali per i ragazzi”. E il risultato ha lasciato tutti a bocca aperta. Unis&f, la società di servizi e formazione degli industriali di Treviso e Pordenone, ha deciso di non concentrarsi solo sulle aziende ma di aprirsi alla comunità: “Non possiamo non tenere conto del ruolo e della valenza sociale e culturale che ha il mondo dell’impresa nel nostro tessuto socio-economico” sottolinea la presidente Sabrina Ferraro. Per questo ha contribuito a finanziare un corso di computer grafica all’interno dell’Ipm trevigiano (che è l’unico di tutto il nordest). Dai manager e dal responsabile di Unis&f Giuseppe Antonello è arrivata una sola indicazione, ovvero la centralità del logo cubico del FabLab. Da quel concetto chiave in poi sono stati i ragazzi a ideare e sviluppare il progetto, grazie a disegni fatti a mano e inserti tipografici con frasi che fossero significative e adeguati ai luoghi. Ed ecco che i cubi escono dalle pagine aperte sopra la libreria, si tuffano nella tazza di caffè della stanza relax come zollette di zucchero, sfondano lo schermo di un computer e volano verso un drone nel laboratorio di informatica. Nell’officina i cubi si prendono la scena accanto a bulloni e viti leggeri come piume, mentre diventano un robot parlante sopra la stampante. In sala conferenze invece accompagnano le frasi pronunciate da Socrate “L’unica vera saggezza è sapere di non sapere nulla”, dal filantropo W. Clement Stone, “La chiarezza di intenti è il punto di partenza di ogni successo” e dall’allenatore di football Vince Lombardi, “Vincere non è tutto, lo è il provare a vincere”. La collaborazione fra gli industriali e il carcere minorile non si ferma qui, ci sono già altre idee per avvicinare i giovani alle realtà produttive della Marca. Torino: dentro e fuori le mura del carcere grazie alla realtà virtuale di Giovanni Barbato sentichiparla.it, 30 luglio 2019 Dall’interno di una macchina della polizia a un grigio cortile coperto di nuvole, il documentario VR Free trasporta lo spettatore nei panni di un detenuto attraverso un’esperienza totalmente immersiva, resa possibile grazie alla realtà virtuale (VR, dall’inglese virtual reality). “La mia idea è stata quella di portare questa nuova tecnologia all’interno di uno spazio già di per sé carico, denso, forte”, spiega il regista Milad Tangshir. Iraniano di origine, Tangshir approda a Torino nel 2011 con già una laurea in ingegneria e tre dischi pubblicati. “Suonavo in una band post rock e anche quando sono arrivato in Italia volevo proseguire con la musica”. Milad tuttavia capisce presto che è la strada del cinema quella che vuole seguire. Una passione che cresce assieme a lui fra le mura di casa: “Mio padre aveva un proiettore super otto e guardavamo moltissimi, film, anche italiani”. Quindi Torino, “la città in cui è nato il cinema”. Qui si laurea al Dams e consegue un master, per poi rimanervi in pianta stabile, dando inizio alla sua produzione che vede all’attivo diversi cortometraggi, un lungometraggio prossimo all’uscita e numerosi riconoscimenti. “VR Free è nato dopo qualche anno in cui ero completamente immerso in un altro progetto chiamato Star Stuff: quindi anni di sviluppo, progettazione, riprese, viaggi, produzione, postproduzione e via dicendo, così ho sentito l’esigenza di sperimentare qualcosa di nuovo”. Fondamentale in questo passaggio è stato l’apporto di Valentina Noya dell’Associazione museo nazionale del cinema, che ha prodotto il corto. Valentina è anche Project manager del festival LiberAzioni (all’interno del quale sono rientrate le proiezioni del documentario all’Infopoint Emergency), un insieme di iniziative che hanno come obiettivo il dialogo fra interno ed esterno del carcere grazie agli strumenti dell’arte e della tecnologia. LiberAzioni propone ogni anno anche un concorso cinematografico sul tema della libertà e i suoi limiti che lo scorso anno aveva visto trionfare lo stesso Tangshir con il corto “Displaced”. Abbiamo mostrato loro riprese realizzate in situazioni quotidiane, banali per noi, ma che a loro sono precluse. VR Free non vuole assolutamente essere un esercizio feticistico centrato sul mezzo. È un progetto legato quasi più al tema che alla forma che ha finito con l’assumere. Vuole “stimolare nello spettatore libero una consapevolezza maggiore delle condizioni di vita e della realtà della detenzione”, come spiega lo stesso regista. E anche “offrire immagini più vivide del carcere a chi sta fuori, ma anche e soprattutto poter portare dentro le immagini dell’esterno”. È forse questo uno degli aspetti più interessanti del documentario, che vede il visore di realtà virtuale non soltanto come medium ma come oggetto della narrazione e strumento di dialogo e partecipazione dei carcerati. Per esempio, in una scena ci si ritrova in una stanza con davanti una persona che indossa il visore. Inizialmente ci si sente un po’ spaesati, non si capisce bene cosa stia succedendo, si vede questa persona muovere leggermente le gambe, poi le braccia. Un sorriso, una frase troncata (“da quanto tempo non vado…”) e improvvisamente si è all’interno di una discoteca con luci soffuse, musica e persone tutt’intorno. “Abbiamo mostrato loro (ai carcerati, ndr) riprese realizzate in situazioni quotidiane, banali per noi, ma che a loro sono precluse”, spiega Valentina Noya. In questo modo, Tangshir è riuscito a creare una sorta di dialogo fra spettatore e soggetto che spinge il confine ancora un più oltre le stesse possibilità del mezzo, rendendo questo documentario un’esperienza davvero unica nel suo genere. Un’esperienza quasi di “libertà virtuale”, oltre che di realtà virtuale. Il percorso di VR Free, tuttvavia, è ancora lungo. Il progetto di realtà virtuale (simile, per tema, a un progetto di realtà virtuale di qualche anno fa del Guardian che trasporta lo spettatore, invece, in una cella di isolamento) ha avuto il suo battesimo di fuoco al Festival di Cannes. Qui è stato presentato sotto l’ampio ombrello della nuova applicazione Rai “Rai Cinema Channel VR” e ha ricevuto sin da subito molte attenzioni. Adesso partirà per la giostra dei festival nazionali e internazionali (a partire dalla Biennale di Venezia) che “in questi ultimi anni stanno investendo molto sulle produzioni a 360 gradi”, spiega Tangshir che, con sorriso scaramantico, conclude, “Se ci prendono”. Corleone: “Disubbidire a leggi ingiuste e razziste, la lezione di Margara” gonews.it, 30 luglio 2019 Il pensiero di Alessandro Margara, il suo essere radicale fino al limite della disobbedienza, la sua concezione del diritto e il necessario rispetto della verità libera dalle ideologie. In palazzo del Pegaso ieri, lunedì 29 luglio, il Garante regionale dei detenuti Franco Corleone ha presentato un testo del magistrato che trattava i detenuti come uomini, “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione”. A tre anni dalla scomparsa, la discussione da lui iniziata sull’uso populistico della giustizia penale e del carcere come armi contro i nemici sociali, è”quanto mai attuale”. Lo confermano recenti fatti di cronaca su cui Corleone, incalzato dai giornalisti, ha dato la sua opinione. L’immagine del ragazzo bendato fermato per l’omicidio di un carabiniere a Roma è “stupida, non aiuta la giustizia. Anzi, rischia di compromettere la fase processuale e la ricerca della verità per un fatto che è di una gravità straordinaria”. E sulla polemica politica che ha innescato, Corleone è ancora più chiaro: “Un surplus di accanimento. Se non si ha la concezione del diritto e dei diritti, ma ci si abitua solo all’uso della forza, si procede su un terreno estremamente pericoloso. Sentire frasi - ha continuato il Garante toscano - in cui si afferma che bisogna far marcire in carcere le persone è grave. Va contro i principi della Costituzione”. Anche per questo il pensiero di Margara “può insegnare tanto”. Il suo “disubbidire alle leggi ingiuste e razziste” è l’appello che Corleone ha lanciato per celebrare sì il grande magistrato, ma anche per “segnare un impegno: rileggere Margara ci aiuta a essere preparati rispetto a un tempo duro, fatto di odio e discriminazione”. In sala anche il difensore civico della Toscana, Sandro Vannini, che ha ricordato l’intensa collaborazione tra i due uffici in ambito sociale e di “applicazione della libertà”. “Lavoriamo per la tutela dei cittadini, per la garanzia dei loro diritti e di verifica di situazioni delicate”, ha detto. Su questo si è inserita Camilla Bianchi, garante regionale per l’infanzia insediata di recente: “Il sistema può avere delle falle. Il nostro compito è prevenire, non distogliere mai l’attenzione e arginare quanto più possibile situazioni gravissime”, ha detto riferendosi a quanto sta accadendo a Bibbiano. “È fondamentale aspettare che la magistratura faccia il suo corso perché anche così garantiamo coloro che sono il nostro futuro”. Ad ascoltare la rilettura del pensiero di Margara, anche il presidente del Comitato regionale per le comunicazione Enzo Brogi. Fonte: Regione Toscana Si uscirà mai dalla propaganda e dall’odio? di Alberto Leiss Il Manifesto, 30 luglio 2019 Oggi me la cavo citando un articolo di Letizia Paolozzi sul sito DeA (donnealtri.it) intitolato “Violenze familiari, violenze politiche, violenze istituzionali”. Si parte dall’inchiesta sui bambini di Bibbiano e l’uso strumentale che ne hanno fatto Salvini, Di Maio e Meloni, per registrare poi le reazioni di odio mediatico suscitate a colpi di fake-news dopo l’uccisione del carabiniere Mario Cerciello Rega. Per tornare sulla vicenda dei piccoli che, secondo gli inquirenti, sarebbero stati strappati alle loro madri e famiglie sulla base di perizie infondate o addirittura contraffatte. “La famiglia - scrive Paolozzi - a volte funziona, altre no. Non in tutte si ascolta ciò che i bambini dicono. A Bibbiano donne in sofferenza hanno provato - non sono riuscite - a sostenere l’impalcatura di famiglie disastrate. E loro, queste donne sole, chi le ascolta? Se avete presente il disegno di legge Pillon sulla famiglia (…) vi sarà chiaro che si accanisce sulla donna separata con figli, progettando che mamma e papà (magari un violento conclamato) gestiscano in perfetta parità i figli. Se i figli si rifiutano, dovrebbe intervenire l’affidamento ad una “struttura specializzata”, con lo scopo del “pieno recupero della bigenitorialità del minore”. Allontanare il bambino dalla madre e dai genitori “per il suo bene” ma anche costringerlo a restare con genitori violenti e inadatti, in nome della famiglia naturale, non è violenza?”. Di fronte ai continui interventi di politici che soffiano sui sentimenti più elementari di scandalo, rancore e vendetta, qui si osserva quanto siano complesse e in ogni singolo caso uniche le dinamiche familiari che spesso sfociano in comportamenti violenti, ma anche quanto possa essere violenta - persino senza ipotizzare crimini e misfatti - la risposta istituzionale che pretenda di “mettere ordine” con immediata certezza nelle sofferenze sentimentali e materiali di madri, padri, figli e figlie. Ma che cosa si può fare per spezzare con qualche efficacia il discorso pubblico che rincorre la semplificazione dell’odio e della propaganda? Forse il Pd - e non solo il Pd - partito fatto oggetto di ingiuste accuse, che riattualizzano i vecchi slogan sui “comunisti che mangiano i bambini”, potrebbe rispondere affrontando pubblicamente e con la dovuta consapevolezza culturale il problema del rapporto difficile che oggi si profila tra la realtà familiare che è profondamente cambiata, aggredita anche da nuove forme di povertà e disagio, e il ruolo dei servizi sociali e degli stessi uffici giudiziari - stretti dalla mancanza di risorse e probabilmente da inadeguatezze della formazione tecnica e scientifica - per la definizione di interventi adeguati. “Varrebbe la pena - conclude l’articolo - che un partito come il Pd, che ha governato quelle terre per decenni, piuttosto che perdere tempo nella battaglia interna, affrontasse le domande sollevate dalla vicenda. Una buona politica dovrebbe essere capace di elaborare su questioni tanto drammatiche e complesse un abbozzo di risposta. Con il linguaggio della cura e non quello della propaganda sul corpo delle vittime”. Ecco il punto. Contro parole che solleticano i peggiori istinti solo un discorso radicalmente opposto, basato sul dialogo, sull’ascolto e sulla ricerca trasparente e condivisa della verità - una verità sempre relativa e perfettibile - può avere successo. Evitando altre “commissioni di inchiesta” che scimmiottano il ruolo della giustizia (oggi peraltro in patente crisi di autorità). “Parole che incitano all’odio”. Facebook cancella post dall’account Lega di Vladimiro Polchi La Repubblica, 30 luglio 2019 La segnalazione del movimento “Cara Italia” guidato da un giornalista originario del Kenya: “La nostra campagna è appena iniziata e andremo avanti fino in fondo”. Davide contro Golia. La sfida impossibile. Da un lato, il neonato (e minuscolo) movimento “Cara Italia”, che aspira a diventare il primo partito dei migranti del nostro Paese, dall’altro l’imponente macchina propagandistica di un partito di governo: la Lega. In mezzo, Facebook che avrebbe deciso di eliminare alcuni post del partito di Salvini. Un passo indietro. Stephen Ogongo è un giornalista 44enne, originario del Kenya. È arrivato in Italia per motivi di studio 25 anni fa, ha insegnato all’università Gregoriana, ha due figlie, è caporedattore di 10 testate del gruppo “Stranieri in Italia”. Con la sua redazione ha lanciato a ottobre scorso un nuovo movimento: “Cara Italia”. Oggi ha 11mila adesioni su facebook. A breve dovrebbe varare uno statuto per darsi una forma politica. Insomma, un partito per “per dare voce a chi non ce l’ha, ai tanti delusi della mancata riforma della Bossi-Fini, dello Ius soli e delle politiche razziste dell’attuale maggioranza”. L’appello a Facebook. A metà luglio, Ogongo ha pubblicato un video in cui chiede a Facebook “di chiudere le pagine di Salvini e della Lega e applicare le proprie politiche contro il razzismo e l’incitamento all’odio. Queste pagine - dichiara Ogongo - sono diventate luoghi di ritrovo virtuale per le persone che portano avanti apertamente discorsi sessisti, razzisti e di odio nei confronti degli immigrati, dei rifugiati, dei Rom, delle Ong e dei volontari che salvano le persone in mare”. “Alcuni post cancellati”. Ebbene, dopo aver segnalato la pagina “Lega - Salvini Premier”, Ogongo mostra in rete un messaggio del servizio assistenza di Facebook che sarebbe arrivato a un attivista di Cara Italia, in cui si legge: “Lega-Salvini Premier è stata esaminata e abbiamo riscontrato che alcuni contenuti sulla pagina non rispettano i nostri standard della community. Abbiamo rimosso quei contenuti specifici (ad esempio foto e post) anziché l’intera pagina”. Secondo Ogongo è la prima volta che in Italia vengono rimossi dei post di Salvini: “Si tratta di un segnale piccolo, ma di una bella soddisfazione - dichiara all’agenzia Dire - non ci fermeranno. La nostra campagna è appena iniziata e andremo avanti fino in fondo. Ne va della sicurezza e della democrazia dell’Italia”. Così la “razza” è diventa grave indizio di colpevolezza di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 30 luglio 2019 Forse non è ben chiaro che il problema non sta nel fatto che i presunti responsabili dell’omicidio fossero statunitensi, come poi sarebbe stato accertato, anziché nordafricani come inizialmente ipotizzato. Il problema sta piuttosto nel fatto che queste precisazioni sulla nazionalità (o peggio sulla “origine”, che è un modo ipocrita per non dire “razza”) di un delinquente presunto o accertato a dir poco non servono a nulla e più facilmente sono fatte con l’intento, o almeno con l’effetto, di rivolgere appunto verso quella caratteristica (la nazionalità, l’origine, la razza) la pretesa di giustizia che invece dovrebbe riguardare l’accertamento della responsabilità di una persona, di pelle bianca o nera essa sia. L’obiezione è nota. Dice: “Ma se sono nordafricani, perché bisogna sottacerlo? È cronaca”. A parte il fatto che c’è caso che l’indicazione sia sbagliata, si può opporre che altrettanta esigenza di precisazione su base etnica non ci sarebbe se si trattasse di finlandesi o austriaci. Giusto? E quali motivi cospirano allora puntualmente alla confezione dei lanci di agenzia etnicamente profilati, dei titoli e commenti giornalistici concentrati sulla provenienza regionale del responsabile, quando non alla stesura di una maldestra requisitoria di una celebre magistratessa milanese articolata sulla “furbizia orientale” di una ragazzotta implicata nel processo? Quali motivi meccanicamente inducono a misurare la notizia meno sul fatto di sangue che sulla nazionalità di chi lo ha commesso? Questi motivi: il pregiudizio razziale impastato con il più radicato rifiuto di accettare la regola minima dello Stato di diritto costituzionale, e cioè che ti arresto e punisco per ciò che fai, non per ciò che sei. L’abbiamo sentito in questi giorni a destra e a manca (letteralmente): che quel titolare sui nordafricani era dopotutto scusabile perché i nordafricani che delinquono sono tanti. E fa il paio con lo scippo quotidiano, che è notizia innanzitutto perché lo scippatore è uno zingaro, o peggio una zingara che si regala uno stillicidio di gravidanze per sfuggire alla galera. Da tutto questo non viene più sicurezza. Viene il rischio che la causa di imputazione risieda già nella provenienza di chi commette un illecito. Ed è uno spettacolo che un Paese civile - specie se fu il Paese delle leggi razziali - dovrebbe risparmiarsi. Turchia. La Corte costituzionale annulla i processi a oltre duemila Accademici della pace di Ezio Menzione* Il Dubbio, 30 luglio 2019 Nel 2016, nei mesi in cui il governo turco poneva in stato d’assedio intere cittadine curde o interi quartieri di grandi città bombardandoli senza tregua e commettendo altri feroci soprusi nei confronti degli inermi cittadini del Kurdistan turco, 1100 accademici, professori e ricercatori, delle università di tutta la Turchia firmarono un appello affinché il governo cessasse queste pratiche sciagurate. L’appello, pur accorato, usava termini molto equilibrati, tanto che in capo a qualche tempo altri 1100 accademici si unirono ai primi. Alcuni erano professori in università straniere e risiedevano all’estero, ma sentirono il dovere di intervenire. In totale, dunque, più di 2.200 che in questi anni sono stati conosciuti come Accademici per la Pace. La procura di Istanbul (nella persona di un notissimo procuratore, poi finito indagato e rimosso per corruzione) iniziò una crociata contro questi accademici: alcuni (non molti, per fortuna) finirono in carcere, e tutti iniziarono ad essere perseguiti per propaganda sovversiva. Piano piano ci sono stati i rinvii a giudizio e poi i processi. Ad oggi sono andati a processo in 779; le condanne sono state finora 203, di cui 36 definitive; 1973 le udienze che si sono tenute e 240 le giornate di udienza di fronte a 18 corti penali. Molto si era discusso di chi fosse la competenza territoriale a conoscere dei casi: unificata su Istanbul oppure nei luoghi (le università) in cui avevano firmato? E gli stranieri? Nonostante l’intervento della Corte Suprema a favore della competenza diffusa, di fatto tutti i processi si stanno svolgendo a Istanbul (eccetto per i professori all’estero, per i quali c’è Ankara) e fioccano le condanne che di solito si attestano su 15 o 18 mesi, ma talora arrivano anche a tre anni. Una sola la assoluzione. Proprio recentemente sono finiti in carcere Fusun Ustel da più di 60 giorni perché non gli hanno dato la sospensione della condanna nel mentre che non le hanno ammesso l’appello e Tuna Altinel, professore turco che insegna all’università di Lione ed aveva partecipato ad un dibattito sulla situazione in Turchia e poi era rientrato per rivedere i familiari: arrestato, è dentro da più di due mesi. Intanto, in 10 casi vi è stata rimessione alla Corte Costituzionale per essere l’imputazione violativa del diritto alla libera espressione, costituzionalmente garantito. In una prima udienza i dieci casi sono stati riuniti ed il caso è stato sottoposto alla Assemblea Plenaria della Corte, composta da 16 membri. Venerdì scorso, alle 5 del pomeriggio, la Corte si è espressa e ha deciso che le imputazioni mosse violano il diritto di espressione. I giudici del massimo collegio si sono espressi 8 a 8: ma in tal caso prevale lo schieramento in cui si è collocato il Presidente, che è stato favorevole alla dichiarazione di incostituzionalità. La decisione si applica de plano in tutti i giudizi pendenti in ogni grado, i detenuti debbono essere rimessi in libertà e probabilmente i processi futuri non vedranno nemmeno la luce (a meno che non cambi l’imputazione, ma appare difficile). Non si sa invece che fine faranno le 36 condanne definitive intervenute nel frattempo. Magari potranno trovare una soluzione di giustizia in sede di esecuzione. Non sarebbe giusto attribuire a questa pur importante decisione il significato di un cambio di rotta nella politica giudiziaria (o nella politica in generale) dovuta alla vittoria dell’opposizione nelle recenti elezioni di Istanbul, ma certo, soprattutto se letta assieme ad altri segnali che provengono proprio dal mondo giudiziario, è lecito pensare che qualcosa si stia muovendo in Turchia. Il Sultano scricchiola. *Osservatore Internazionale per l’Ucpi Gran Bretagna. Deportata da Londra in Uganda: “stuprata e quasi uccisa” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 luglio 2019 Una donna lesbica, ingiustamente deportata in Uganda, ha vinto la causa in appello e rientrerà oggi in Gran Bretagna. La sentenza dell’Alta Corte, la prima di questo tipo, apre la strada migliaia di pronunciamenti simili. Una buona notizia che, però, non cancella i terribili traumi subiti in questi anni nel suo Paese natale dalla giovane, che chiameremo Pn. Arrivata in Gran Bretagna nel 2011 la giovane, che oggi ha 26 anni, è stata rimpatriata nel 2013 grazie al meccanismo di espulsione veloce introdotto nel 2005 e poi cancellato, per decidione dei giudici, nel 2015. “Una notte mentre dormivo hanno bussato alla porta, sono entrati, mi hanno rubato tutto e mi hanno stuprato. Non ho potuto denunciare il crimine alla polizia per paura che scoprissero la mia omosessualità. Ho semplicemente cambiato casa” ha raccontato Pn all’Independent. Pn era scappata nel Regno Unito quando aveva 17 anni dopo l’assassinio della nonna con cui era cresciuta. “Quando vivevo in Uganda con mia nonna la gente sapeva della mia sessualità, così minacciavano me e la ragazza con cui stavo. Poi hanno ucciso mia nonna per colpa mia. Mi stavano cercando e io sono scappata, così loro l’hanno massacrata”. A quel punto la giovane riesce a fuggire in Gran Bretagna con un visto turistico e comincia a lavorare come parrucchiera. “Ero felice perché nessuno poteva più farmi del male, avevo degli amici e un dono nell’acconciare i capelli. Forse la mia vita stava andando finalmente per il verso giusto”. Tre anni dopo però il visto di Pn scade e lei si ritrova agli arresti. “Ho spiegato agli ufficiali dell’immigrazione quello che avevo passato e che non potevo tornare indietro, loro hanno detto che stavo mentendo. Ma chi può mentire su una cosa del genere?” Dal suo ritorno in Uganda Pn è stata aiutata da un Ong britannica, il movimento per la Giustizia. Oggi ha un bambino nato in seguito allo stupro. Stati Uniti. Le chiese protestanti degli contro la pena di morte federale riforma.it, 30 luglio 2019 Forti critiche da parte del Consiglio nazionale delle chiese Usa all’annuncio del presidente Trump del ripristino di esecuzioni federali, sospese dal 2003. Gli Stati Uniti ripristinano la pena di morte per le persone condannate dai tribunali federali, che sono altra cosa rispetto alla possibilità concessa a ognuna dei 50 Stati che compongono la nazione di attuare o meno moratorie in materia. Sono 29 gli Stati in cui la pena capitale è ancora in vigore, mentre le esecuzioni federali sono ferme dal 2003. Non certamente perché abolite, ma per una sorta di moratoria delle esecuzioni cui ora il presidente Donald Trump vuol porre fine. Il ministro della Giustizia statunitense, William Barr, ha annunciato di aver chiesto alla direzione delle carceri di avviare le procedure di esecuzione per cinque detenuti che si trovano nel braccio della morte. La pena capitale negli Stati Uniti è rientrata in vigore a livello federale dal 1988, dopo che la Corte Suprema l’aveva nei fatti messa al bando ovunque dal 1972. Cambierà anche la procedura legata all’iniezione letale: dal cocktail di tre farmaci si passerà alla somministrazione del solo Pentobarbital, questo perché molte case farmaceutiche hanno interrotto la produzione dei farmaci necessari. La motivazione ufficiale del ripristino è legata alla gravità dei reati commessi da cinque detenuti. Il Consiglio Nazionale delle Chiese si oppone alla decisione del Dipartimento di Giustizia di ripristinare la pena di morte federale e di programmare l’esecuzione di cinque persone: “Affermiamo ancora una volta la nostra posizione secondo la quale la pena di morte è sia una violazione della dignità che del valore degli esseri umani, e ha anche dimostrato di essere inefficace come deterrente (la nostra dichiarazione in materia porta la data del 13 settembre 1968). Inoltre, la pervasività del razzismo sistemico e del classismo intrinseci all’interno del processo legale penale significa che la pena di morte non è né giusta né corretta. In effetti, sappiamo che centinaia di persone che sono state condannate a morte - o effettivamente giustiziate dallo Stato - sono state in seguito giudicate innocenti. In un momento in cui gli Stati stanno cessando questa pratica abominevole, è orribile che il governo federale cerchi di rianimarla. La nostra fede cristiana ci rende chiara che la vita e la dignità della persona umana sono doni sacri di Dio e come tali non devono essere violati. L’uccisione istituzionalizzata contribuisce alla brutalizzazione della società. Una decisione così atroce non dovrebbe essere lasciata alla discrezione degli esseri umani. Inoltre, la società è servita meglio da un sistema di giustizia riparativa: poiché tutti sono fatti a immagine di Dio, siamo fermi nella nostra convinzione di cristiani che tutti possono essere redenti”. Gran Bretagna. Melzer (Onu): “gravemente preoccupato per la situazione di Assange” di Stefania Maurizi La Repubblica, 30 luglio 2019 Gravemente preoccupato. L’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, non usa mezzi termini nell’esprimere seri timori per la situazione del fondatore di WikiLeaks. Già nel maggio scorso, subito dopo aver fatto visita a Julian Assange nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, accompagnato da due medici specializzati nell’esame di pazienti che hanno subìto tortura fisica o psicologica e trattamenti inumani e degradanti, Nils Melzer aveva denunciato pubblicamente come Assange mostrasse “i segni tipici dell’esposizione prolungata alla tortura psicologica”. Ora, però, in uno scambio diplomatico appena reso pubblico, Melzer accusa Inghilterra, Svezia, Ecuador e Stati Uniti delle gravi condizioni di Assange e denuncia il rischio che l’estradizione negli Usa lo esponga a una pena severissima e a gravi maltrattamenti. In una cella due metri per tre - La corrispondenza diplomatica tra l’Inviato speciale Onu e gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Svezia, l’Ecuador fa emergere per la prima volta informazioni fattuali sulle condizioni in cui è detenuto Julian Assange, dopo che l’11 aprile scorso l’Ecuador del presidente Lenin Moreno gli ha revocato l’asilo e lo ha fatto arrestare proprio all’interno dell’ambasciata. Assange è stato condannato a 50 settimane di detenzione per aver violato il rilascio su cauzione nel 2012, quando invece di consegnarsi alle autorità inglesi che volevano estradarlo in Svezia, si rifugiò nella sede diplomatica dell’Ecuador a Londra e chiese asilo all’allora presidente Rafael Correa. L’estradizione era stata richiesta dai magistrati svedesi per interrogarlo in merito alle accuse di stupro e molestie contro due donne svedesi. Assange aveva sempre dato la sua disponibilità a essere interrogato, mentre invece aveva combattuto con le unghie e con i denti contro l’estradizione in Svezia, convinto che lo avrebbe esposto al rischio di finire trasferito negli Usa e condannato per aver pubblicato i documenti segreti del governo americano. Dall’11 aprile, il fondatore di WikiLeaks si trova nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, a Londra, e in aggiunta alla pena di 50 settimane rischia una condanna negli Usa a 175 anni per avere rivelato i file segreti del governo americano. Gli Stati Uniti hanno presentato la richiesta di estradizione immediatamente dopo il suo arresto e nel febbraio 2020 si terrà un’udienza cruciale. Contemporaneamente al caso americano, il 13 maggio scorso, la Svezia ha riaperto per la terza volta in nove anni l’inchiesta per stupro contro Julian Assange. A Belmarsh, scrive l’Inviato dell’Onu, il fondatore di WikiLeaks è detenuto in una cella singola di due metri di larghezza per tre di lunghezza per 2,3 metri di altezza. Ha diritto a spendere solo 15 sterline alla settimana tra telefonate, penne e carta da lettere, ha diritto da 30 a 60 minuti d’aria al giorno, a seconda delle condizioni del tempo. In teoria, in prigione potrebbe lavorare e poi socializzare con gli altri detenuti, ma in pratica dal 18 maggio ad oggi, Julian Assange rimane ricoverato nell’infermeria del carcere, a causa delle sue condizioni di salute molto precarie, tra cui un serio calo ponderale. Le restrizioni del suo regime carcerario sono tali che l’accesso limitato ai suoi avvocati e l’impossibilità di usare i computer (anche se privi di collegamento a internet) “compromettono seriamente la sua capacità di prepararsi in modo adeguato ai numerosi e complessi casi legali che lo attendono”, scrive l’Inviato dell’Onu. Il grave declino della salute di Julian Assange - Da anni emergono preoccupazioni per il serio deterioramento della salute di Julian Assange, che prima ha passato un anno e mezzo agli arresti domiciliari, poi è rimasto confinato per sette anni nell’ambasciata dell’Ecuador senza neppure accesso a un’ora d’aria al giorno e oggi è detenuto in una prigione di massima sicurezza. Già un anno e mezzo fa, tre medici americani di alto profilo, Sondra Crosby, Sean Love e Brock Chisholm, avevano denunciato la sua situazione in un articolo per il quotidiano londinese Guardian. Ora, l’Inviato Speciale dell’Onu conferma queste preoccupazioni con dati aggiornati e raccolti dai due medici specialisti che lo hanno accompagnato nella sua visita in carcere. Melzer non rende noti dettagli delicati sulla salute del fondatore di WikiLeaks, protetti dalla privacy, ma per esempio, scrive: “Da un punto di vista psicologico, Mr. Assange [durante la visita ] ha mostrato tutti i sintomi tipici della prolungata e sostenuta esposizione a grave stress psicologico, ansia e sofferenza mentale che conducono a una depressione maggiore e alla sindrome da stress post traumatico. Entrambi gli esperti, che mi hanno accompagnato, hanno concluso che Mr. Assange ha urgente bisogno di cure psichiatriche da parte di uno psichiatra di fiducia e non associato alle autorità che lo detengono in prigione, e che è probabile che la sua attuale condizione deteriori drammaticamente”. Le responsabilità di Svezia, Inghilterra e Ecuador - Nella corrispondenza con le autorità di Svezia, Inghilterra, Ecuador e Stati Uniti, Nils Melzer contesta loro gravi responsabilità e tutte le anomalie del caso, a partire dall’inchiesta svedese per i presunti reati sessuali di stupro e molestie contro due donne svedesi. Le accuse di molestie sono andate in prescrizione nell’agosto del 2015, senza che peraltro Assange potesse rinunciare alla prescrizione (la legge svedese non lo consente), ma Melzer sottolinea che la prova portata dalla presunta vittima delle molestie era un preservativo che, esaminato, non conteneva né il Dna di Julian Assange né quello della donna stessa: un dettaglio “che dunque mina seriamente la credibilità di questa accusa”, scrive Melzer. Quanto alle accuse di stupro, che andranno in prescrizione solo il 17 agosto 2020, l’Inviato speciale Onu scrive: “Tutta la documentazione che mi è stata resa disponibile dimostra che Mr. Assange ha collaborato volontariamente e in modo consistente con la polizia svedese e con i magistrati sia quando si trovava in Svezia nel 2010, sia dopo essersi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador nel giugno 2012”. L’indagine per stupro era stata già chiusa nel 2010, appena cinque giorni dopo che era stata aperta, dalla procuratrice capo di Stoccolma, Eva Finné, che aveva concluso: “la condotta descritta (dalla donna) non ha rivelato alcun reato”. Negli ultimi nove anni l’indagine per stupro è stata aperta tre volte e l’Inviato speciale nota come “per quasi nove anni, le autorità svedesi hanno mantenuto, ravvivato e alimentato la narrativa di Assange come sospettato di stupro” e come “in realtà, le due donne non hanno mai avuto intenzione di denunciare un reato sessuale contro Assange, ma sono state messe in condizione (“railroaded”) di farlo dalla polizia svedese e hanno successivamente deciso di vendere la loro storia a un tabloid”. Nils Melzer contesta alle autorità svedesi e inglesi di aver creato le condizioni che hanno portato il fondatore di WikiLeaks a finire detenuto arbitrariamente - come concluse nel 2015 lo UN Working Group on Arbitrary Detention (Unwgad) - e accusa l’Ecuador di Lenin Moreno di aver fatto sì che le condizioni di vita nell’ambasciata fossero sempre più difficili, tra restrizioni, sorveglianza, molestie, diffamazioni pubbliche, fino alla revoca dell’asilo l’11 aprile scorso. Gli Stati Uniti vogliono fare di Julian Assange un esempio - Le preoccupazioni più gravi dell’Inviato speciale Onu, Nils Melzer, riguardano il rischio concreto che il fondatore di WikiLeaks finisca estradato negli Usa o direttamente attraverso l’Inghilterra o indirettamente nel caso in cui venisse prima estradato in Svezia. Ad oggi, la procuratrice svedese titolare dell’indagine dopo la riapertura, Eva-Marie Persson, non ha deciso se incriminare Assange o se archiviare una volta per tutte il caso, ma l’Inviato Onu scrive che “in questo caso, la narrativa del sospetto di stupro appare essere stata usata per minare in modo deliberato la sua reputazione e facilitare il suo indiretto trasferimento dall’Inghilterra agli Stati Uniti”. Melzer si dice “gravemente preoccupato” che le autorità americane intendano fare di Assange “un esempio” sia per punirlo personalmente sia per scoraggiare altri che vogliano imitare quanto fatto da lui e dalla sua organizzazione, WikiLeaks. Questa preoccupazione scaturisce in modo particolare dai forti pregiudizi che ci sono negli Stati Uniti contro Assange e dal fatto che le pubblicazioni di WikiLeaks siano percepite come “una minaccia alla sicurezza nazionale”. L’inviato speciale sottolinea l’impunità di cui godono negli Usa i funzionari che si sono macchiati di gravi violazioni dei diritti umani e torture in nome della difesa della sicurezza nazionale e ricorda come a lui stesso sia sempre stato impedito dal governo degli Stati Uniti di fare un’ispezione nelle prigioni americane per verificare casi di tortura e maltrattamenti. Usa e Svezia? Negano tutto - Le autorità inglesi ed ecuadoriane non hanno ancora risposto alle conclusioni dell’Inviato speciale Onu, mentre quelle americane e svedesi hanno prontamente replicato. Negano tutto: Julian Assange non è mai stato detenuto arbitrariamente da Svezia e Inghilterra, come ha stabilito quattro anni fa lo Un Working Group on Arbitrary Detention (Unwgad): si è segregato da solo nell’ambasciata e poteva uscirne quando voleva. Questa risposta negazionista della Svezia e degli Stati Uniti non spiega come mai, se la Svezia riteneva infondata l’accusa, non ha fatto appello contro la decisione dell’Unwgad, e come mai l’Inghilterra che, invece ha fatto appello, l’ha perso. Le autorità americane negano di avere qualsiasi responsabilità nel caso Assange e, in particolare, respingono l’idea che corra il rischio di subire maltrattamenti e un ingiusto processo se verrà estradato: “Gli Stati Uniti prendono molto seriamente i loro obblighi in tema di diritti umani. Gli individui estradati negli Usa vengono processati secondo le leggi americane e godono delle garanzie processuali”. Brasile. Scontro tra gang rivali in carcere, 57 vittime Corriere della Sera, 30 luglio 2019 Regolamento di conti fra bande: i membri di una hanno fatto irruzione nella zona riservati a quelli dell’altra, attaccandoli e appiccando il fuoco. È salito ad almeno 57 morti il bilancio dello scontro di lunedì tra due fazioni criminali all’interno della prigione di Altamira, nello stato del Para nel nord del Brasile, tra cui 16 vittime decapitate. Un massacro che colpisce soprattutto il sistema penitenziario di questa regione strategica dove diverse fazioni criminali sono in guerra per accaparrarsi il traffico di cocaina. Lo scontro è scoppiato alle 7 del mattino ora locale ed è terminata qualche ora più tardi. “Due guardiani sono stati presi in ostaggio ma sono stati liberati quasi subito perché l’obiettivo era mostrare che si trattata di un regolamento di conti tra bande rivali e non di una rivolta per protestare contro le condizioni di detenzione”, ha spiegato il governatore del Para, Jarbas Vasconcelos. Alcuni detenuti di una sezione della prigione riservata ai membri di una banda hanno fatto irruzione in una zona dove si trovavano dei prigionieri appartenenti a una gang rivale e poi hanno appiccato il fuoco. “È probabile che molti detenuti siano morti asfissiati”, ha sottolineato la portavoce del carcere, precisando che il numero delle vittime potrebbe essere più alto di quanto ipotizzato. Un video circolato online mostra le teste di sei detenuti ammassate con un muro: un detenuto ne fa rotolare una spingendola con il piede come se si trattasse di un pallone di calcio. In un altro video si vedono dei corpi sopra un tetto dal quale fuoriesce del fumo nero, mentre dei prigionieri armati di machete si aggirano nei dintorni. Le autorità penitenziarie hanno riferito che 46 detenuti saranno trasferiti in altre carceri, 10 dei quali andranno in strutture federali più rigorose. Non è il primo episodio di questo tipo: nella prigione di Altamira, a settembre, sette prigionieri erano morti durante altri scontri, stavolta però attribuiti a un tentativo di evasione finito male. La città di Altamira, situata a circa 800 km dalla capitale dello stato del Para Belem, conta oltre 110mila abitanti e ha visto la sua popolazione aumentare sensibilmente negli ultimi dieci anni. Da quando, cioè, è stato lanciato il progetto per la costruzione della centrale idroelettrica di Belo Monte, che dovrebbe essere pronta entro la fine dell’anno. Uno dei principali problemi della zona riguarda però la deforestazione di territorio che dovrebbero essere riservati alle tribù indigene e che invece sono nel mirino dei grandi proprietari terrieri. Cina. Il cyber-dissidente Huang condannato a 12 anni, è il primo caso a Pechino Il Dubbio, 30 luglio 2019 Aveva accusato le autorità di corruzione. Un tribunale cinese ha condannato a 12 anni di carcere Huang Qi, il primo “cyber-dissidente” del Paese a subire la ritorsione della giustizia a causa delle sue idee politiche. Huang Qi era finito nel mirino delle autorità per via del sito web che ha fondato e che ha fatto luce negli anni su diversi episodi di corruzione e violazione dei diritti umani da parte di esponenti della nomeklatura di Pechino. Huang, già finito in passato in prigione ma per aver partecipato a delle manifestazioni di piazza, è stato ritenuto colpevole di aver “fatto trapelare segreti di Stato e averli consegnati a entità straniere”. Oltre ai 12 anni di carcere, all’attivista 54enne sono stati revocati per 4 anni i diritti politici e dovrà pagare una multa di 20 mila yuan (circa 2.600 euro). Il suo sito web 64 Tianwang, chiamato così in onore delle proteste di piazza Tienanmen del 4 giugno 1989, dava risalto a notizie di corruzione, violazioni dei diritti umani e aiutava anche a ritrovare persone scomparse; tutte informazioni che non si trovano sui media cinesi tanto è vero che nella Repubblica popolare l’accesso risulta bloccato. Nel 2016 aveva ricevuto il premio di Reporters Without Borders, e poche settimane dopo Huang era stato fermato a Chengdu; già nel 2009 era stato condannato a tre anni di carcere per aver manifestato a sostegno dei genitori dei bambini morti nel devastante terremoto del Sichuan che aveva suscitato molte critiche e polemiche nei confronti delle autorità e della loro disastrosa gestione dell’emergenza. Marocco. Il re del grazia migliaia di detenuti per festeggiare i 20 anni del suo regno La Stampa, 30 luglio 2019 Tra loro alcuni esponenti del movimento di protesta Hirak che nel 2016 scosse il Paese con le manifestazioni per chiedere equità sociale e sviluppo economico della regione del Rif. Il re del Marocco, Mohammed VI, in occasione del ventesimo anniversario del suo regno, ha graziato migliaia di detenuti. Tra di loro, anche alcuni esponenti del movimento di protesta Hirak che nel 2016 scosse il Paese maghrebino con manifestazioni in cui chiedevano equità sociale e sviluppo economico della regione del Rif. Un comunicato ufficiale ha annunciato la grazia per 4.764 persone. Tra i risultati più significativi del regno di Mohammed VI c’è la nuova Costituzione firmata nel 2011. Le precedenti risalivano al 1962, 1970, 1972, 1992 e 1996. La nuova costituzione è stata considerata rivoluzionaria perché recepiva proposte arrivate dal mondo sindacale e giovanile, anche sull’onda delle Primavere arabe. Un altro risultato riguarda la Moudawana (Codice di stato personale marocchino), che è il diritto della famiglia marocchina codificata nel 1958 sotto il regno del defunto re Mohammed V. Questo codice è stato modificato per la prima volta nel 1993 dal defunto re Hassan II, poi rivisto nel febbraio 2004 dal parlamento marocchino e promulgato infine il 10 ottobre 2004.