L’conomia carceraria che crea indipendenza di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 2 luglio 2019 I prodotti che vengono dal carcere sono di qualità e creano circoli virtuosi, diminuendo recidiva e reati. Vi raccontiamo alcune storie di riscatto. Attenzione: possono creare indipendenza. Questo gioco di parole è una delle frasi di lancio di un prodotto molto particolare di cui vi abbiamo parlato qui circa un anno fa, le birre del birrificio Vale La Pena, un progetto che, tramite l’associazione Semi di libertà Onlus, ha dato lavoro ad alcuni detenuti ed ex detenuti, anche tramite l’apertura di un pub. È solo uno dei tanti esempi virtuosi dell’economia carceraria, una tendenza sempre più in voga oggi in Italia, una nicchia che sta trovando il suo spazio in un mondo, quello dell’impresa, che sembra guardare solo al profitto. Le realtà che si inseriscono nel filone dell’economia carceraria, invece, oltre che profitto creano valore sociale. I prodotti dell’economia carceraria sono di ottima qualità, e sono frutto del duro lavoro e dell’orgoglio di chi, davvero, sta cercando la propria seconda possibilità nella vita. I prodotti dell’economia carceraria puntano sulla qualità, e quindi sugli ingredienti tipici dei propri territori (e spesso anche di recupero, combattendo così gli sprechi) prima ancora che al profitto. E, soprattutto - ecco il senso della frase da cui siamo partiti - possono creare indipendenza: creano circoli virtuosi, diminuiscono recidiva e reati. E acquistarli diventa anche un gesto di responsabilità. Ricambiato dalla grande qualità dei prodotti. L’economia carceraria è qualcosa che, nel suo piccolo, può dare una spinta alla crescita del paese: è un business, pulito, solidale, è porta con sé quella passione e quella spinta di chi punta al riscatto sociale e alla scommessa su se stesso. È qualcosa che crea valore. A tutta birra contro gli sprechi. La prima bella storia che vi raccontiamo la conoscete. L’associazione Semi di libertà Onlus ha creato un micro-birrificio e una linea di birre dal nome, altamente simbolico, Vale la pena. Tra poco compirà un anno anche il pub Vale la pena, aperto la scorsa estata in Via Eurialo 22, in zona Appia, a Roma, in cui degustare le particolarissime birre del brand, ma anche altri prodotti dell’economia carceraria, presenti nelle ricette del pub e in vendita. Quando diciamo che l’economia carceraria crea valore, parliamo di tanti fattori. Semi di libertà e Vale la pena non sono solo attente al reinserimento lavorativo dei detenuti, ma anche alla lotta agli sprechi. È per questo che è nata RecuperAle (la potete leggere all’inglese, visto che il tipo di birra è una Ale, o all’italiana, recuperale), grazie all’incontro con la Onlus Equoevento, che recupera cibo di qualità da grandi eventi. Con il pane avanzato viene creata una birra ad alta fermentazione, una Pale Ale. Rebibbia: il caffè galeotto e il caseificio. Il Caffè Galeotto nasce nella torrefazione presente dentro l’Istituto Penitenziario di Rebibbia Nuovo Complesso di Roma, dove lavorano persone prive di libertà. Tutte hanno seguito dei corsi di formazione tenuti da esperti del settore, e in questo caso hanno appreso una professione spendibile nel momento in cui si riaffacceranno nella società. Il Caffè Galeotto è un ottimo prodotto solidale, nato dall’impegno della cooperativa sociale Pantacoop, ed è caratterizzato da una crema color nocciola tendente al testa di moro e da un profumo di fiori, frutta, pane tostato e cioccolato. Ma non tutti sanno che, all’interno della sezione femminile del carcere di Rebibbia si trova una grande area di terreno coltivato con metodo biologico, e allevamenti di animali come pecore, conigli e tacchini. In questa realtà, grazie a un progetto di Prolocodol, è stato realizzato un caseificio, un progetto grazie al quale hanno trovato lavoro 4 donne, oltre alle 18 già impiegate nell’azienda agricola. I formaggi nati qui dentro hanno dei nomi ben precisi: si chiamano Formaggio 1, Formaggio 2, Formaggio 3. Si chiamano così per un riferimento ai numeri, quelli che spesso diventano le persone una volta entrate in carcere. Numeri, come quelle della cella o della matricola, che creano alienazione. Ed è proprio a questo pericolo di alienazione, a un bisogno di uscire dalle celle, che risponde questo progetto. Pasticceria a Palermo. Cotti in fragranza è un progetto che nasce nel carcere minorile di Palermo, ed è la prima attività imprenditoriale realizzata all’interno di un Istituto Penale per i Minorenni del sud, e la terza in tutta Italia. Come potete immaginare dal nome, Cotti in fragranza è un progetto teso a realizzare prodotti da forno di alta qualità all’interno dell’Istituto Malaspina: uno degli aspetti fondamentali del progetto è la formazione, in grado di dare ai ragazzi un lavoro specializzato e autonomo, qualcosa che possa accompagnarli soprattutto una volta fuori dall’istituto. È un progetto della cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus, e si è avvalso della collaborazione di Giovanni Catalano, uno dei migliori pasticceri siciliani. È grazie a lui che è nato il primo prodotto di Cotti in fragranza, il biscotto Buonincuore, a cui è seguito il frollino Parrapicca. Il progetto è sostenuto da Istituto Penale per i Minorenni di Palermo, Opera Don Calabria, Associazione Nazionale Magistrati e Fondazione San Zeno. Nisida: un biscotto portafortuna. Si creano biscotti anche nel carcere di Nisida, a Napoli, ed è un biscotto molto particolare. Il Ciortino di Nisida è un biscotto la cui forma riprende quella del classico corno portafortuna napoletano. Ciorta, infatti, è un termine che significa fortuna, e il biscotto vuole essere una sorta di portafortuna per chiunque lo assaggi. Ma anche, non serve dirlo, per chi lo produce. Sono i ragazzi dell’istituto penitenziario per minori di Nisida con l’aiuto dell’antico tarallificio napoletano Leopoldo. Il Ciortino è un biscotto di pasta frolla, dalla tipica forma del cornetto napoletano: è di colore rosso, con copertura di cioccolato fondente. È realizzato dai ragazzi dell’area penale esterna, segnalati dall’U.S.S.M. di Napoli, che frequentano il laboratorio professionalizzante di pasticceria curato dall’ Associazione Scugnizzi. I biscotti sono commercializzati attraverso una rete di vendita solidale, e il ricavato è reinvestito nella prosecuzione del lavoro del laboratorio e per borse lavoro ai minori coinvolti. L’augurio è che questi biscotti portino fortuna soprattutto a loro. Roma: apre un ristorante a Rebibbia. A Rebibbia è stato da poco inaugurato il primo ristorante all’interno di un carcere di Roma. È gestito dalla cooperativa Men At Work e si chiama l’Osteria degli uccelli in gabbia. Nei mesi di giugno e luglio l’osteria sarà aperta tutti i venerdì sera, presso l’area verde del carcere. I piatti saranno preparati e serviti da persone detenute, tutti dipendenti della cooperativa Men At Work e partecipanti al loro progetto di inserimento lavorativo. Il nome non è casuale, ma deriva dalla tradizione romana. È così che venivano chiamate tutte quelle trattorie che si trovavano vicino al carcere di Regina Coeli, i cui avventori erano detenuti in libera uscita dal carcere, o visitatori della struttura. Per cenare all’osteria è necessario prenotare il martedì precedente alla cena, e pagare la quota di partecipazione, che è di 42 euro. Per entrare bisogna essere muniti di documento d’identità, non si possono portare all’interno telefoni cellulari e non si possono fare foto né riprese. Bologna: l’osteria in un carcere minorile. Le ultime buone notizie ci arrivano da Bologna. Dove, in via del Pratello, uno dei luoghi tipici delle serate bolognesi, aprirà la prima osteria dentro un carcere minorile. Il locale sarà gestito da detenuti minorenni e sarà ospitato all’interno di un corridoio della struttura, che in questi giorni è in via di ristrutturazione. È il primo progetto del genere in Italia, e a sostenerlo è la Fondazione del Monte, che verserà 30mila euro all’anno. L’Osteria, un esperimento di un anno che, in caso di successo, potrà anche essere ampliato, dovrebbe aprire i battenti tra la fine di ottobre e i primi di novembre. I ragazzi, già da mesi, si stanno formando con un gruppo di educatori, e saranno pronti per servire ai tavoli e lavorare in cucina. È probabile che per accedere all’osteria serva una prenotazione, visto che, per entrare nel perimetro carcerario, serve un’autorizzazione preventiva. Qualche anno fa, parlando del film Fiore, vi abbiamo raccontato quanto dura possa essere la vita in carcere per dei minorenni. Questa osteria può essere una bella forma di riscatto. Caso Palamara. Rischia di slittare il giudizio disciplinare di Valentina Errante Il Messaggero, 2 luglio 2019 Il Csm paralizzato da indagini e astensioni. L’azione disciplinare nei confronti di Luca Palamara, il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, l’ha promossa ugualmente, senza pensare di astenersi. Anzi, per il pm romano, indagato a Perugia per corruzione e protagonista degli incontri con i membri del Csm e i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, per gestire le nomine ai vertici delle Procure, ha chiesto la misura cautelare (per nulla dovuta) più pesante: sospensione dalla funzione e dallo stipendio. Eppure, lo scorso 21 maggio era proprio Fuzio a parlare con Palamara: in auto, intercettato grazie al trojan installato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm, gli dava notizie dell’indagine che lo riguarda e discuteva di nomine, facendo conti esatti per arrivare all’elezione di Marcello Viola a capo della procura di Roma. E la rivelazione del segreto istruttorio è stata contestata, nell’atto di incolpazione, al consigliere Luigi Spina, indagato a Perugia e costretto alle dimissioni. Oggi la sezione disciplinare, chiamata a decidere, si chiuderà con un nulla di fatto. Di certo Fuzio non si presenterà all’udienza a porte chiuse: Palamara ha ricusato Sebastiano Ardita, consigliere del Csm e componente supplente del disciplinare, tirato in ballo nelle intercettazioni, che avrebbe dovuto sostituire Giuseppe Cascini, che ha deciso di astenersi in quanto titolare dell’inchiesta che ha coinvolto Palamara ed è che stata trasmessa a Perugia. Anche Marco Mancinetti e il vicepresidente del Csm, David Ermini, hanno scelto l’astensione in quanto tirati in ballo nelle intercettazioni. Oggi il terna sarà la ricusazione, ed è probabile che si rinvii tutto a ottobre, dopo le elezioni suppletive dei componenti del Consiglio che dovranno sostituire gli astenuti. Nel ruolo di pm non ci sono infatti altri componenti supplenti. Ma intanto su Palazzo dei Marescialli si abbatte un’altra tegola, con le imbarazzanti conversazioni di Fuzio. Il pg a Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Antonio Lepre e Corrado Cartone, costretti alle dimissioni, e a Paolo Criscuoli, ancora autosospeso dopo la diffusione delle intercettazione della cena con i parlamentari e Palamara per discutere di nomine, ha infatti contestato nell’atto di incolpazione che “si è determinato l’oggettivo risultato che la volontà di un imputato abbia contribuito alla scelta del futuro dirigente dell’ufficio di procura deputato a sostenere l’accusa nei suoi confronti”. Adesso anche la posizione di Fuzio, membro di diritto del Consiglio e componente del comitato di presidenza, è in bilico. L’humus storico del Csm e i frutti avvelenati dell’attivismo delle correnti di Vincenzo Vitale Il Dubbio, 2 luglio 2019 La novità dei giorni scorsi è che il dottor Luca Palamara - che il prossimo 2 di luglio dovrà difendersi davanti alla sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura - ha ricusato uno dei componenti, vale a dire il dottor Sebastiano Ardita, chiedendo perciò che venga sostituito. E ciò per il semplice motivo che Ardita, nel corso delle conversazioni notturne intercettate mentre Palamara discuteva in albergo con i suoi colleghi le vicende della poltrona di Procuratore capo di Roma, veniva a più riprese qualificato da Cosimo Ferri e anche da altri come un “talebano”. Ora, non potendosi con certezza intendere cosa questo termine voglia significare, possiamo solo avanzare delle ipotesi. E la prima, e forse la più accreditata, è questa: che cioè Ardita sia - come pare siano i talebani - inflessibile, tutto d’un pezzo, non incline ai compromessi; e perciò tale da destare preoccupazione in chi, come Palamara, avrebbe invece bisogno di molta comprensione e spirito di collaborazione e partecipazione, allo scopo di rendere credibili e condivisibili le proprie difese. Ora, a parte il fatto che una preoccupazione di questo tipo non pare possa porsi a fondamento di una istanza di ricusazione - tanto meno del dottor Ardita, conosciuto invece come persona dotata di grandissimo equilibrio, dote purtroppo non molto comune fra gli esseri umani e perciò neppure fra i magistrati - rimane una domanda: quali possono essere le difese di Palamara? Ebbene, a titolo personale, ritengo che l’ex presidente dell’Anm possa e debba essere difeso, sol che si ponga mente alla realtà in cui egli è sempre professionalmente vissuto e si è sempre mosso. Infatti, è impossibile, in quanto irreale, ritenere che il dottor Palamara abbia inventato di sana pianta il metodo di cui si è fatto interprete allo scopo di spartirsi i posti direttivi di Procure e Tribunali con gli esponenti delle altre correnti. Piuttosto, occorre riconoscere che egli, avendo oggi credo 50 anni, ed ipotizzando sia entrato in magistratura da circa vent’anni, si muova da circa due decenni in un medesimo brodo di coltura, fatto e tessuto appunto con i comportamenti suddetti. Intendo dire che Palamara, appena divenuto uditore giudiziario, avrà trovato davanti alla sua porta diversi colleghi più anziani che premevano perché egli si iscrivesse ad una corrente invece che ad un’altra, allo stesso modo di come è accaduto a tanti altri neo- magistrati. Dopo aver ottenuto il suo assenso alla iscrizione, sarà poi toccato ai suoi nuovi associati di corrente mostrargli il percorso ordinariamente seguito per discutere ed assegnare specialmente i posti direttivi, vale a dire una logica di spartizione di poltrone che, nella contrapposizione fra le correnti, emula in tutto il confronto di carattere politico fra diversi partiti. Insomma, Palamara, come gli altri magistrati attivisti di corrente, è stato prima un semplice discepolo e soltanto dopo è divenuto un professore, in senso metaforico, s’intende. Sono stati prima i suoi colleghi a mostrargli come fare e perciò come spartirsi i posti e solo dopo aver imparato egli si è mosso di conseguenza. Non solo. Ciò che Palamara faceva, insieme a lui lo facevano anche altri suoi colleghi, lo hanno fatto per anni e non risulta che costoro lo abbiano criticato o denunciato; al contrario, hanno collaborato con lui, propiziando gli esiti sperati e voluti. Ecco perché Palamara merita almeno le attenuanti generiche, dovute al fatto che egli è nato e cresciuto professionalmente in un ambiente di questo tipo, e non l’ha certo inventato lui: forse egli credeva addirittura in buona fede che fosse cosa buona e giusta. Si pensi che già a metà degli anni settanta, Salvatore Satta - insigne giurista e profondo scrittore - annotava che i magistrati avrebbero dovuto difendere la propria indipendenza da quel Csm che sulla carta avrebbe dovuto custodirla, ma che invece rappresentava per essa la più temibile minaccia, in quanto espressione delle correnti. E allora, sorge la sgradevole impressione che troppe mani si siano oggi alzate per accusare Palamara; mani forse di coloro che - come notava Elias Canetti - si affrettano ad accusare altri al solo scopo di assolvere se stessi. E invece bisogna ricordarlo chiaro e forte: solo chi è senza peccato può scagliare la prima pietra. Quanti saranno? Odio e violenza social: i casi in cui si rischia il carcere di Biagio Simonetta Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2019 In rete le principali tipologie di reato sono la diffamazione, l’estorsione, lo stalking, la nuova fattispecie del cyber-bullismo: dallo scorso anno è diventato applicabile il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr) che aumenta gli strumenti a tutela delle vittime. Ad esempio gli insulti a Carola Rackete sono punibili con la reclusione fino ad un anno ed è una condotta aggravata nei casi un cui il reato sia commesso tramite stampa o web. Odio, violenza, revenge porn. E le donne nel mirino. Siamo davanti al lato oscuro dei social network, che quotidianamente fa registrare numeri sconcertanti (solo su Twitter 40mila attacchi contro le donne negli ultimi tre mesi). Ma cosa succede dal punto di vista legale? Quali sono le conseguenze per chi, convinto che dietro a uno schermo tutto sia lecito, commette veri e propri reati. Anna Italiano, avvocato specializzata in diritto dell’informatica e delle telecomunicazioni, ci aiuta a capire. “L’iper-connessione e l’estrema rapidità e facilità con cui i dati viaggiano in rete - racconta - hanno progressivamente eroso i confini tra vita pubblica e vita privata, creando, anche dal punto di vista della tutela dei diritti dell’individuo, dei rischi nuovi, del tutto sconosciuti anche fino solo ad un decennio fa, di cui gli utenti non sempre sono consapevoli”. Lo scorso anno è diventato applicabile il nuovo Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali (Gdpr), che è una normativa profondamente “tecnologica” secondo la Italiano. Gli strumenti di tutela, dunque, esistono. Il vero problema da cui nascono i casi più spinosi (come sex extortion o revenge porn, che arrivano a prostrare ed umiliare la vittima al punto talora di indurla al suicidio), secondo il legale di Partners4Innovation “è la scarsa educazione digitale e la scarsa consapevolezza nell’utilizzo delle tecnologie e delle conseguenze delle proprie condotte digitali. Occorre acquisire consapevolezza del fatto che modo reale e mondo virtuale non sono sfere distinte, ma che, al contrario, ognuno di noi ha, al giorno d’oggi, un’identità digitale che acquista un ruolo sempre più importante nella vita reale”. Ma come può difendersi una vittima da un attacco via social? “Innanzitutto, - dice Anna Italiano - è bene circoscrivere quali possano essere le fattispecie di reato, realizzabili tramite strumenti digitali, che possono colpire una donna oggigiorno. Le principali sono senz’altro la diffamazione, l’estorsione, lo stalking, la nuova fattispecie del cyber-bullismo recentemente introdotta dal legislatore, il “revenge porn”, su cui allo stato esiste una proposta di legge, nonché l’accesso abusivo ai sistemi informatici (come possibile atto propedeutico alla commissione delle fattispecie di reato precedenti)”. Per garantire una difesa adeguata contro questi “reati digitali” o commessi tramite strumenti digitali “requisito indispensabile è che la notizia di reato giunga alla Procura della Repubblica”. Ciò può avvenire “tramite una denuncia, oppure una querela. Senza addentrarsi in eccessivi tecnicismi, la denuncia può essere sporta da chiunque abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio, mentre la querela solo dalla persona che ha subito il reato. È possibile presentare denuncia e querela sia direttamente alla Procura in Tribunale, sia alla polizia o ai carabinieri (in questo caso, anche oralmente)”. Nella fase delle indagini preliminari - e quindi ancor prima dell’inizio del processo - “il pubblico ministero potrà tutelare in via anticipata la donna vittima di alcuni di questi reati tramite il sequestro preventivo, misura cautelare che permette l’oscuramento delle pagine web tramite le quali si è stata integrata la fattispecie di reato”. E cosa rischia, allora, chi commette reati online, come revenge porn, insulti, stalking, minacce? “Le condotte citate - risponde il legale - sono a tutti gli effetti fattispecie criminose che hanno rilevanza penale, anche se spesso non si è consapevoli di questo, e il fatto che le condotte vengano poste in essere in una realtà virtuale anziché nel mondo reale non vale ad attenuarne il disvalore. Al contrario, in talune circostanze può addirittura configurare un’aggravante. Se pensiamo, infatti, alle potenzialità delle tecnologie sotto il profilo del grado e della velocità di diffusività delle informazioni, nonché sotto il profilo dell’ampiezza dei possibili destinatari, ci rendiamo subito conto di come, solo per fare un esempio, una condotta di ingiuria o di diffamazione effettuata tramite mezzi digitali potrebbe rivelarsi esponenzialmente più lesiva della corrispondente condotta effettuata con modalità “tradizionali”. Il punto è sempre lo stesso: dietro a un monitor si tende a ritenere - erroneamente - che nel mondo virtuale chiunque possa agire impunemente, senza alcuna ripercussione. Le conseguenze, invece, come sottolinea Anna Italiano “esistono, e hanno in talune ipotesi anche carattere penale, comportando nei casi più gravi la pena della reclusione”. A proposito degli insulti via social, di cui è stata vittima per ultima Rakele Carola, comandante della Sea Watch, si entra nel campo della diffamazione. “Questa tipologia di reato - commenta il legale, consulente di P4I - può essere punita con la reclusione fino ad un anno ed è aggravata nei casi un cui il reato sia commesso tramite stampa o web”. Alla base, come sempre, deve esserci un’azione di denuncia. Lotta al riciclaggio, misure più severe di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2019 Il recepimento della V direttiva antiriciclaggio ha superato ieri l’esame preliminare del Consiglio dei ministri. Il decreto legislativo, proposto dal presidente Giuseppe Conte e dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, modifica e integra i decreti legislativi n. 90 e 92 del 25 maggio 2017, che avevano a loro volta attuato la IV direttiva, anticipando in alcuni punti i target della V direttiva in materia. Il recepimento mira tra gli altri obiettivi a puntualizzare le categorie tenute agli obblighi antiriciclaggio, allargandoli alle succursali “insediate” degli intermediari assicurativi (ossia le succursali insediate in Italia di agenti e broker con sede dentro o fuori l’Ue. Inoltre individua misure di adeguata verifica rafforzata che gli intermediari bancari o finanziari devono attuare sulla clientela che opera con Paesi ad alto rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, tra cui specifici obblighi di segnalazione periodica per le transazioni effettuate con soggetti operanti in questi Paesi. Ancora, punta a introdurre strumenti che le autorità di vigilanza possono utilizzare per mitigare il rischio connesso ai Paesi terzi, quali, per esempio, il diniego all’autorizzazione all’attività per intermediari bancari o finanziari esteri o all’apertura di succursali in Paesi ad alto rischio per gli intermediari italiani. Scatterà inoltre, coerentemente con il vigente divieto di conti e libretti di risparmio in forma anonima o con intestazione fittizia, il divieto di emissione e utilizzo di prodotti di moneta elettronica anonimi e, infine, verranno modificate le sanzioni e le relative procedure di irrogazione, per la violazione delle norme dei due decreti modificati. Novità anche per gli organi di controllo e per gli organi inquirenti e investigativi. Lo schema di decreto di recepimento autorizza infatti l’accesso da parte della Guardia di finanza e della Direzione investigativa antimafia all’anagrafe immobiliare, analogamente a quanto già previsto e autorizzato per la Unità di informazione finanziaria. Per gli organismi di autoregolamentazione - tra cui anche gli Ordini professionali - sarà previsto l’obbligo di pubblicare una relazione annuale quale compendio delle attività annuali svolte con riferimento, in particolare, al numero dei decreti sanzionatori e delle misure disciplinari adottate, a fronte di violazioni gravi, ripetute, sistematiche ovvero plurime degli obblighi da parte degli iscritti nei confronti dei medesimi. Il ministero dell’Economia e delle Finanze, le Autorità di vigilanza di settore, l’Unità di informazione finanziaria per l’Italia, la Direzione investigativa antimafia e la Guardia di finanza, nella previsione del decreto potranno dialogare tra loro scambiando informazioni, anche in deroga all’obbligo del segreto d’ufficio, e con le omologhe autorità e istituzioni straniere. Omicidio stradale incompatibile con gli sconti di pena di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 25538/2019. No della Cassazione agli sconti di pena previsti in caso di morte o lesioni in conseguenza di altro delitto doloso, se il decesso o il ferimento si verificano in un incidente stradale. Dunque i benefici dell’articolo 586 del Codice penale non si possono applicare ai nuovi reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali introdotti dalla legge 41/2016.Inoltre, se il sinistro consiste nello sviluppo possibile, ma ancillare, di un progetto criminoso concepito solo nelle sue linee essenziali, il colpevole può comunque beneficiare dell’istituto della continuazione, il cui effetto è una mitigazione della sanzione penale, ma non di quella accessoria sulla patente. Lo afferma la sentenza 25538/2019, depositata il 10 giugno. La pronuncia ha riguardato un soggetto che, trasportando cocaina in auto con alcuni complici, non si è fermato all’alt delle forze dell’ordine, scappando a velocità elevata e cercando di travolgere un’auto della Polizia. Dopo l’urto contro un muro, è precipitato in un greto: uno dei passeggeri è morto, l’altro si è ferito gravemente. La difesa ha invocato l’applicazione dell’articolo 586, ritenendo che le violazioni del Codice della strada derivanti dalle manovre spericolate dell’imputato si identificassero nel reato (doloso) di resistenza a pubblico ufficiale, mentre la morte e le lesioni gravi dei due passeggeri ne sarebbero stati gli eventi colposi, e non delle fattispecie autonome di omicidio stradale e lesioni stradali gravi, come avevano invece ritenuto i giudici di merito. La Cassazione ha rigettato la tesi, spiegando che l’articolo 586 non opera per ogni categoria di omicidio e lesioni, ma solo per le condotte configurabili come omicidio o lesioni colpose “generiche” ai sensi degli articoli 589 e 590, mentre i reati stradali contro la persona previsti dagli articoli 589-bis e 590-bis sono delle ipotesi speciali che riguardano la circolazione stradale. Le differenze non sarebbero state da poco: l’articolo 586 avrebbe determinato l’applicazione delle pene previste per l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi “generiche”, aumentate fino al massimo di un terzo, sempre molto inferiori a quelle dell’omicidio stradale e delle lesioni stradali gravi. Inoltre: il reato di lesioni colpose gravi, in assenza di querela del diretto interessato, avrebbe potuto non essere perseguibile; l’applicazione della pena prevista per l’omicidio colposo, a seguito del recente intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 88/2019), avrebbe potuto consentire all’imputato di evitare la revoca automatica della patente. La Corte ha invece accolto il ricorso nella parte in cui ha chiesto il riconoscimento della continuazione tra i reati di detenzione di cocaina e resistenza a pubblico ufficiale e quelli previsti dagli articoli 589-bis e 590-bis. Se è pur vero che la continuazione mal si concilia con i reati colposi, tale affermazione trova una deroga nei casi più intensi di colpa: una deroga ben compatibile con il caso in esame, dove le condotte di guida dell’imputato erano uno sviluppo possibile dell’azione criminosa complessivamente intesa ed “erano talmente dissennate da metterlo in condizione di prevedere la morte e le lesioni dei passeggeri”. Maggiore la tutela penale dei “quasi-umani”, gli animali antropizzati di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2019 Corte di Cassazione - Sezione III -Sentenza 17 aprile 2019 n. 16755. Il sentimento di umana empatia verso l’altro uomo, base strutturale della tutela penale della persona, è naturalmente più mitigato verso gli animali. Tuttavia si affaccia nell’Ordinamento un gradino intermedio occupato dagli animali integrati nel gruppo umano: gli animali antropizzati, sorta di “quasi-umani”. La recente sentenza n° 16755 della Corte di Cassazione Penale rappresenta un ulteriore tassello della evoluzione esponenziale che sta avendo nel diritto vivente, giurisprudenziale, la tutela degli animali nel nostro Paese. La più recente “propulsione” giurisprudenziale - Nella recente giurisprudenza sul maltrattamento degli animali è possibile assistere a un fenomeno evolutivo sia di plesso penale che amministrativo, per il quale ai fini della condanna per maltrattamento degli animali assumono rilievo non più soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà verso gli animali, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell’animale stesso procurandogli dolore e afflizione, anche interiori. Si evidenzia sempre più chiara la scelta di considerare gli animali come esseri suscettibili di tutela diretta e non mediata dalla pietà degli esseri umani. Dal verso di questa veduta, il concetto di sofferenza animale non risponde più a una visione antropocentrica, ma a un’esigenza biocentrica e di emancipazione dalla sensibilità dello stesso giudice. Una spinta interpretativa verso la tutela dell’animale quale essere autonomamente senziente in grado di percepire dolore fisico e afflizione al pari delle amorevoli cure dell’uomo. A ben vedere, in tale prospettiva assume rilievo la “disumanità” della persona umana che si presta a condotte di “insensibilità” verso l’animale. Si inseriscono in questo contesto: la sentenza n. 14734/2019, in cui la Cassazione Penale affronta una vicenda riguardante il maltrattamento degli animali da soma; la sentenza n. 5892/2019 in cui il Tar Lazio affronta il tema dell’utilizzo dei cetacei per le pratiche di interventi assistiti con gli animali, altrimenti definite di pet therapy; la sentenza n. 17691/2019 in cui la Cassazione Penale affronta il tema dell’utilizzo dei volatili vivi per alcune tipologie di pesca sportiva. La vicenda all’esame della Cassazione - Nel caso in esame la Cassazione affronta la vicenda di 41 cani stipati in un furgone e trasportati per un lungo viaggio per fortuna interrotto dall’intervento degli agenti della Polizia stradale. Gli animali erano stati stipati nel piccolo mezzo di trasporto senz’aria e senza possibilità di protezione dalle proprie stesse deiezioni. La persona responsabile aveva sostenuto di aver deciso di “salvare” i cani, in quanto prelevati in pessime condizioni generali. Dal che ancor più grave si presentava la condotta perseguita, atteso che le condizioni di trasporto oltremodo penose per i cani, sarebbero state imposte deliberatamente ad animali già in difficoltà, le cui condizioni di malattia e sofferenza erano indubbie. Responsabilità quindi dolosa della persona coinvolta, tanto più che il comportamento era stato posto in essere da un soggetto che per la sua attività commerciale e professionale era perfettamente in grado di comprendere esigenze e bisogni degli animali coinvolti. Gli animali antropizzati: i quasi-umani - Nel provvedimento in esame la Cassazione ha osservato che in tema di delitti contro gli animali, le nuove fattispecie di maltrattamento si differenziano dalle più vecchie fattispecie per la diversità del bene oggetto di tutela penale: l’animale era tutelato come un oggetto, spesso come una proprietà privata, mentre le nuove fattispecie tutelano il “sentimento” per gli animali. L’Ordinamento oggi sanziona colui che, per crudeltà, senza necessità o per incuria, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche. Una normativa profondamente innovata, indotta dalla necessità di adeguare la disciplina penale alla mutata sensibilità sociale nei confronti del mondo animale. L’odierna Cassazione si spinge oltre. A ben vedere nelle nuove fattispecie il bene offeso è la “pietà”: sentimento umano che induce alla “ribellione” nei confronti di coloro che incrudeliscono ovvero infliggono sofferenze agli animali, invocando la tutela penale. Ebbene tale tutela è secondo la Cassazione di maggiore forza e potenza nei confronti degli animali che definisce “antropizzati”. Tra questi vi è per eccellenza il cane, rimarca la Cassazione quasi a voler intendere che il sentimento di umana capacità di “mettersi nei panni” dell’altro, per natura più mitigato verso gli animali, ha per vero uno scalino intermedio nei “quasi-umani”, gli animali che condividono con l’uomo spazi comunicativi e familiari, e per ciò stesso sentimenti e dunque tutele anche penali, prima riservati alla sola specie umana. Napoli: è allarme suicidi a Poggioreale, due in tre giorni di Maria Pirro Il Mattino, 2 luglio 2019 Un 49enne si impicca in cella. Un terzo recluso morto per infarto. Il sovraffollamento, sotto accusa, fa scattare la protesta dei detenuti. Ciro e Francesco si sono impiccati in cella, un anziano ha avuto un infarto ma questa è stata la scintilla che ha acceso una nuova protesta a Poggioreale dopo la rivolta dell’altra settimana. “Salgono così a tre i morti in tre giorni, e il bilancio rischia di aggravarsi ancora”, avverte il garante dei detenuti Samuele Ciambriello che in mattinata è stato nel padiglione Firenze, lì dove si è registrata l’ultima tragedia. Sempre in giornata, una delegazione del M5 s e i volontari di Antigone hanno visitato la struttura che conta 2.324 reclusi anziché 1.637 previsti, e ha diversi reparti, peraltro, in ristrutturazione. “Il sovraffollamento - aggiunge Ciambriello - è una vera e propria pena accessoria, che destabilizza”. Il primo suicidio risale alle 3 di sabato 28 giugno: Ciro Monacella, 38enne di Cercola, recluso con il cognato e altri sette in cella, nel padiglione Napoli e iscritto al laboratorio teatrale, sarebbe tornato in libertà nel 2022. Domenica, alle 16, il secondo decesso per cause naturali: stroncato dall’infarto, un 72enne nel padiglione Roma. Ieri, dunque, il gesto estremo di Francesco Verde: da un anno in carcere, per la prima volta, e da qualche mese provato dall’improvvisa scomparsa della sorella che andava sempre ai colloqui. “Il 49enne, come puntualmente accade, non aveva manifestato segnali di disagio”, riferisce Ciambriello, che aggiunge questo dettaglio: “In serata lui aveva anche cucinato per i suoi compagni di cella”, sette in una stanza. Ma come si può intercettare e affrontare una condizione di malessere più profonda senza avere un’assistenza adeguata? Insufficiente è il numero di educatori e psicologi e altre figure indispensabili dietro le sbarre, così come resta carente la rete ospedaliera. Scarseggiano i posti letto per i ricoveri (“Solo 36 riservati nella regione”, denuncia il garante), e c’è da aspettare più di 12 mesi per banali interventi: non a caso, a far scattare la precedente agitazione è stato il ritardato trasporto di un recluso con la febbre (poi curato per un’intossicazione alimentare al Cardarelli). “L’occasione per ribadire anche altri problemi, dalle criticità igieniche alle condizioni dei reparti”, segnala Ciambriello. “Ci sono 12 milioni stanziati tre anni fa dal ministero delle infrastrutture, ma il provveditorato regionale delle opere pubbliche ha eseguito solo due sopralluoghi”. E, nell’attesa degli interventi, è stato disposto il trasferimento di 203 persone, di cui 17, su richiesta, fuori regione. Tuttavia, Emilio Fattorello, segretario campano del Sappe, fa notare: “Siamo preoccupati perché agli annunci di sfollamento della struttura fatti dopo la rivolta nel padiglione Salerno, tra l’altro gravemente danneggiato in quella circostanza, non è seguito alcun provvedimento concreto. E il caldo afoso di questi giorni mette a serio rischio la vivibilità delle celle sovraffollate, lasciando dunque la situazione di criticità nella esclusiva gestione del personale di polizia penitenziaria”. Nel pomeriggio, tutte le attività sono sospese. “Già dalle 16 non si fa più niente e si vedono solo gli agenti”, interviene Ciambriello. Non bastasse, “la polizia penitenziaria è sottorganico di circa 200 unità”, dicono i sindacalisti dell’Osapp, Vincenzo Palmieri e Luigi Castaldo, che aggiungono: “Purtroppo, la realtà del “Salvia” non fa sconti a nessuno”. Di qui la richiesta di “urgenti interventi da parte dell’amministrazione penitenziaria” ribadisce Fattorello. A Poggioreale e altrove. In altri istituti l’acqua, ad esempio, è contingentata. E Donato Capece, segretario del Sappe, sottolinea: “Nel 2018 sono nettamente aumentati gli atti di autolesionismo, i suicidi per fortuna sventati in tempo dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria, le colluttazioni, i ferimenti e persino i tentati omicidi in carcere. Ed è grave che il ministero della giustizia non sia in grado di mettere in campo efficaci strategie di contrasto a questa spirale di sangue e violenza”. In Campania ci sono stati, per l’esattezza, 77 tentativi e 11 suicidi (di cui quattro a Poggioreale) nei dodici mesi. Quest’anno gli altri due suicidi sono avvenuti, invece, nel carcere di Avellino e a Benevento. Napoli: un altro suicidio in carcere, appello a Mattarella dei penalisti di Irene de Arcangelis La Repubblica, 2 luglio 2019 Poggioreale, negli ultimi tre giorni tre detenuti morti. Gli avvocati penalisti della Onlus “Il carcere possibile” scrivono al presidente della Repubblica: “Incivile sproporzione tra presenze e posti effettivamente disponibili”. Caldo insopportabile, celle sovraffollate e senza spazio vitale, nessuna prospettiva per i giorni a venire. Questa la fotografia del carcere di Poggioreale alla luce dei recenti avvenimenti. Negli ultimi tre giorni tre detenuti morti: uno per cause naturali (settant’anni ex tossicodipendente), due perché si sono tolti la vita. Tutto nello stesso carcere teatro, lo scorso 16 giugno, di una rivolta nel padiglione Salerno, quando i detenuti devastarono le loro celle per protestare contro il mancato trasferimento in ospedale di un detenuto con la febbre alta. Struttura che raggiunge l’insostenibile quota di 2.300 ospiti e dove domenica è avvenuto un altro suicidio, un cinquantenne in carcere per la prima volta nella sua vita. Arriva dunque l’allarme da più parti, a cominciare dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria). “Siamo preoccupati - dicono al Sappe - perché agli annunci di sfollamento della struttura dopo la rivolta nel padiglione Salerno non è seguito alcun provvedimento concreto. Il carcere di Poggioreale ha oggettive difficoltà che meriterebbero urgenti interventi da parte dell’amministrazione penitenziaria che però non vengono adottati”. La deputata 5 Stelle Gilda Sportiello ieri va in ispezione a Poggioreale e commenta: “La visita conferma che Poggioreale è una struttura penitenziaria incompatibile con la detenzione”. Si rivolgono invece con una lettera, direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, gli avvocati penalisti della Onlus “Il carcere possibile”, presieduta dall’avvocato Anna Maria Ziccardi. “In questi anni di lavoro - si legge - abbiamo visto più volte mutare lo stato del pianeta carcere e il clima all’interno e al di fuori di esso, in un alternarsi di stagioni di luce (poche) e di anni di buio, molti. Eppure, non abbiamo mai assistito a quanto sta accadendo in questi ultimi mesi all’interno dei nostri istituti di pena”. Quindi l’elenco delle numerose rivolte nelle carceri (da Trento a Campobasso) fino a Poggioreale. “Impossibile - si legge - dimenticare coloro che, persa ogni speranza di essere ascoltati, hanno deciso di farla finita o di compiere gesti estremi. Dal 2018 a oggi: 87 suicidi (dati nazionali), più di mille quelli sventati dall’intervento della polizia penitenziaria, e migliaia di atti di autolesionismo. Si sottolinea, proprio come nel caso di Poggioreale, “la incivile sproporzione tra presenze e posti effettivamente disponibili, che continua ad essere aggravata dalle tragiche condizioni strutturali di molti penitenziari e dall’assoluto fallimento dell’assistenza sanitaria, le cui croniche e gravissime inefficienze sono sovente la causa prima delle sommosse”. Così “le nostre carceri sono polvere pirica destinata a incendiarsi a ogni scintilla”. I penalisti de “Il carcere possibile” si appellano dunque a Mattarella e al suo ruolo di garante della Costituzione, affinché “voglia valutare l’opportunità di esercitare la sua autorevolezza e le sue prerogative per esortare le istituzioni tutte a prendere atto della drammaticità della situazione e ad adottare i provvedimenti necessari a rendere i nostri istituti detentivi, e la vita che in essi si svolge, conformi alle leggi nazionali e sovranazionali e degne di uno stato democratico occidentale”. Napoli: a Poggioreale si muore di sovraffollamento e tagli al personale di Maria Panariello ilpaesesera.it, 2 luglio 2019 “Non si può morire di carcere in uno stato di diritto”. Tre morti in tre giorni. Il carcere di Poggioreale a Napoli fa da sfondo all’ennesima tragedia in poche ore. L’ultima questa mattina, il suicidio di un 50enne recluso da un anno. La prima sabato alle 15, quando un uomo di 38 anni si è tolto la vita in una cella del padiglione Napoli - tra i più sovraffollati della struttura - legando i lacci delle scarpe alle inferriate del bagno. Un’altra domenica, questa volta per cause naturali. Non c’è tregua nel penitenziario campano. E a dire il vero non c’è mai stata. Tra rivolte e decessi, le vittime della mala gestione sono e sono state sempre molte. Sin dalla storica rivolta del 1968, quando, come ricorda Napoli Monitor, circa 600 detenuti immobilizzarono gli agenti di custodia per una grave mancanza di acqua. Dopo 50 anni la condizione dietro le sbarre resta critica. Gli interventi fatti finora hanno contribuito a cambiare in meglio le cose, ma alcuni tipi di assistenza, come quella sanitaria, continuano ad essere inaccessibili per certi detenuti. La piaga più grande si chiama sovraffollamento ed è ciò che priva dei diritti più elementari le persone recluse. “In tutta Italia il sovraffollamento sta diventando una pena accessoria e questo non è giusto” dichiara Samuele Ciambriello, garante per i diritti dei detenuti in Campania. “La media campana di sovraffollamento è al 133,9%, solo a Poggioreale è del 157,81%”. Numeri che rimbombano se ascoltati in “regime” di libertà, figurarsi se si patiscono ogni giorno in una cella. I problemi sono tanti. Le strutture sono poche rispetto alle persone che vi entrano - in Campania ci sono 7.872 detenuti in 15 istituti - e ormai per ogni reato è prevista la reclusione in carcere. “Sono circa 1.800 i detenuti che scontano una pena inferiore a un anno, 2.500 sotto i due anni” prosegue Ciambriello. “Ci sono pene che andrebbero scontate a casa oppure in centri specialistici e invece tutti sono condotti in carcere”. Il garante denuncia che nel regime carcerario nazionale le attività si arrestano alle ore 15. Mancano assistenti sociali, educatori - 95 in tutta la Campania - e medici. “Per fortuna che a Poggioreale operano decine di associazioni di volontariato, la prova che il carcere è meno “Caino” di noi che siamo fuori” commenta Ciambriello. “Un detenuto ci costa 136 euro al giorno, 3.80 euro è la quota per colazione, pranzo e cena, solo 2.00 euro quella per l’investimento educativo. Non vi sembra un po’ poco?”. C’è il problema della stabilizzazione del personale - medici, infermieri e assistenti - la sola rete a cui i detenuti si appoggiano quando sembra che tutto crolla, che cambia volto periodicamente, complice la temporaneità dei contratti. L’Osapp, l’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia penitenziaria, denuncia da tempo le pessime condizioni dell’istituto partenopeo e le condizioni di sovraffollamento: 2.400 persone, 1.000 in più rispetto alla capienza dell’istituto. In Campania sono state tagliate 750 guardie carcerarie e a Poggioreale il normale rapporto con il detenuto, che dovrebbe essere di 1 a 3, è invece di 1 a 10. “Fuori alle porte dell’istituto, i parenti che arrivano per parlare con i detenuti fanno la fila dalle 5 del mattino e escono alle 13, solo per un’ora di colloquio” denuncia a Il Paese Sera Vincenzo Palmieri, segretario campano del sindacato. “Con numeri così ridotti è difficile far funzionare la macchina e rendere dignitosa lo sconto della pena”. L’Osapp è da anni che protesta per avere migliori condizioni di lavoro per gli agenti penitenziari. Le richieste sono moltissime: dall’eliminazione della sorveglianza dinamica - che prevede l’introduzione della video sorveglianza in sostituzione dell’agente carcerario - allo sblocco del turnover a misure alternative alla detenzione, per deflazionare il carcere. “Se un detenuto si ammazza o muore per cause naturali, la colpa è dello Stato. Di medici, assistenti sociali, pedagogici, enti comunali, enti regionali, agenti penitenziari. In carcere si lavora in rete e tutti devono tendere alla rieducazione del condannato, come prevede l’art. 27 della Costituzione” prosegue Palmieri. “Il lavoro dell’assessorato alla Sanità e delle Asl è lacunoso. A Poggioreale ci sono due medici, uno di pomeriggio e uno di notte, quest’ultimo insediato dopo una nostra segnalazione”. Genova: reinserimento dei detenuti, nell’accordo c’è Autostrade e Bonafede non firma di Mario De Fazio Il Secolo XIX, 2 luglio 2019 Il governo ha deciso di rinviare la firma del protocollo d’intesa con il Comune di Genova per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. A comunicarlo è stato il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a Genova per presentare a palazzo Tursi proprio l’accordo quadro in cui è presente anche Autostrade per l’Italia. “C’è un problema tecnico, la firma non potrà esserci oggi ma il progetto va avanti” si è limitato a dire Bonafede al suo arrivo. Secondo indiscrezioni raccolte a Tursi sarebbe proprio la presenza di Autostrade per l’Italia, con la procedura di revoca della concessione su cui insistono gli esponenti Cinque Stelle dell’esecutivo, ad aver indotto il governo a rinviare la firma. A chiedere maggiore chiarezza sarebbe stato il Ministero dei Trasporti, guidato da Danilo Toninelli, dicastero su cui pende la procedura di revoca. “Mi è arrivata stamattina una richiesta dal Ministero dei Trasporti per rivedere il protocollo visto che si parla anche di infrastrutture ma credo che in un mesetto ci potrà essere la firma. La comunicazione mi è arrivata stamattina ma ci tenevo comunque ad essere qui a Genova” ha detto il ministro Bonafede. E alla domanda se la mancata firma dipendesse da una questione politica o dalla procedura di revoca della concessione ad Autostrade, il rappresentante del governo ha detto “non posso né confermare né smentire: dei problemi nel dettaglio ve ne potrò parlare a seguito di un confronto con il Mit”. Firenze: Milani a Sollicciano “nel carcere la situazione del caldo è allarmante” controradio.it, 2 luglio 2019 Lo ha detto il presidente del Consiglio comunale di Firenze Luca Milani che due giorni fa ha visitato l’istituto penitenziario fiorentino accompagnato dal garante dei detenuti Eros Cruccolini. Nel penitenziario si “sta a celle chiuse e non è possibile passeggiare lungo i corridoi”. “C’è un ventilatore in quasi tutte le celle - conferma il presidente del Consiglio comunale attraverso un posto sul suo profilo Facebook - ma in un paese civile pensare che ci sono ancora istituti di pena dove nello stesso spazio sono presenti due persone e un solo ventilatore fa riflettere. Anche lo stesso direttore ci ha detto chiaramente che, in questo periodo, è dura fronteggiare questa ondata di caldo solo con dei ventilatori”. Per Milani è stata la prima uscita in qualità di presidente del consiglio comunale fiorentino: “Ho voluto dare un segnale di vicinanza e di attenzione delle istituzioni fiorentine verso questa realtà che facciamo fatica a considerare parte della città - ha spiegato. L’amministrazione comunale di Firenze ha cercato, da sempre, di farsi interprete dei bisogni dei carcerati e del personale in servizio. Negli ultimi tempi sono stati intrapresi diversi progetti per permettere l’inserimento lavorativo dei carcerati - ha proseguito Luca Milani -, sento però la necessità di rivolgere un appello alle imprese del territorio affinché possano condividere questo impegno sociale”. Milani ha sottolineato che “nonostante i miglioramenti, le condizioni di vivibilità a Sollicciano sono dure per tutti, reclusi e dipendenti”. “Un progetto della Regione Toscana per la riqualificazione energetica, che prevede la coibentazione delle pareti e l’installazione di pannelli fotovoltaici è fermo. Questo progetto di riqualificazione oltre a migliorare le condizioni nelle celle - spiega Luca Milani - permetterebbe anche la dotazione di piastre ad induzione anziché dei fornelli a gas, che purtroppo vengono utilizzati anche allo scopo di inalazione del gas con conseguenze anche drammatiche come è accaduto un mese fa con il decesso di un detenuto. È altresì importante attivare finalmente la nuova cucina che consentirebbe di migliore la qualità ed il carico di lavoro sulla cucina attuale. Massima disponibilità per aiutare il Direttore ed il neo nato consiglio dei detenuti per tutte quelle iniziative che si potranno intraprendere per aiutare lo sviluppo delle attività del carcere nella direzione della promozione umana con l’obiettivo di ridurre la recidiva che vede oggi 7 detenuti su 10 tornare in carcere dopo aver scontato il loro periodo di pena. Martedì, sempre con Eros Cruccolini - afferma in conclusione il presidente del Consiglio comunale - prosegue il mio impegno presso la Casa Circondariale Mario Gozzini”. L’Aquila: al 31esimo giorno le detenute sospendono lo sciopero della fame abruzzoweb.it, 2 luglio 2019 Le detenute anarchiche del carcere dell’Aquila, al trentunesimo giorno, hanno sospeso lo sciopero della fame. A darne notizia l’aquilano Giulio Petrilli, che ha scontato sei anni di carcere prima dell’assoluzione della Cassazione dall’accusa di essere tra gli organizzatori della banda armata Prima Linea “per presunte cattive frequentazioni da me avute” e che nei mesi scorsi si è rivolto al Parlamento Europeo in quanto “vittima di una detenzione ingiusta”. Anna Beniamino, 46 anni, e Silvia Ruggeri, 32 anni, imputate per reati di matrice anarchico insurrezionalista, rinchiuse nel carcere “Le Costarelle” di Preturo (L’Aquila) erano in sciopero della fame dal 29 maggio scorso, contro le restrizioni imposte dal regime carcerario del 41bis. E all’Aquila, per solidarietà, lo scorso 17 giugno, si è svolta la clamorosa azione di protesta contro il regime carcerario del 41bis da parte di due gruppi di anarchici, che hanno occupato la sala “Cesare Rivera” della sede municipale di palazzo Fibbioni, e sono saliti su una gru esponendo un lungo striscione con la scritto: “Chiudere la AS2 (Alta sicurezza 2) dell’Aquila”. Nei giorni scorsi il garante nazionale ha deciso di visitare la sezione femminile di alta sicurezza 2 dell’Aquila, “a seguito di una segnalazione proveniente da alcuni legali di persone detenute che si trovano in sciopero della fame”. La delegazione del Garante nazionale, guidata dal presidente Mauro Palma, ha avuto modo di parlare con le donne, di consultare la relativa documentazione e di verificare le modalità con cui la protesta viene seguita dall’Amministrazione del carcere. “Felice della notizia, in quanto seguitare lo sciopero della fame metteva a repentaglio la loro vita - scrive in una nota Petrilli - Hanno con questa loro protesta evidenziato la durezza dell’isolamento totale e della detenzione estrema. Poi quella sezione femminile che io ho visitato tante volte anche con Pannella è realmente unica, sembrava di entrare dentro un caveau sotterraneo di una banca. Non si può concepire la detenzione in luoghi simili. Anche in carcere devono essere rispettati i diritti umani”. Bologna: chiuso il caseificio della Dozza “da mesi stipendi non pagati ai detenuti” Redattore Sociale, 2 luglio 2019 La denuncia arriva dal Sinappe, sindacato della Polizia penitenziaria che, già nel 2018, aveva scritto alla direttrice per “irregolarità nella gestione da parte dell’azienda esterna”. A ottobre al minorile aprirà un’osteria gestita dai detenuti. Fu una impresa salentina, a stipulare la convenzione con la Direzione del carcere, grazie anche alle Legge Smuraglia che prevede, ogni anno, sgravi fiscali per le imprese che assumono detenuti. Ora, in una nota, il Sindacato di Polizia penitenziaria Sinappe denuncia le problematiche “connesse alla cattiva organizzazione della suddetta azienda che, per logica di consequenzialità” che avrebbe avuto “crescenti ricadute negative sull’organizzazione del lavoro dei Poliziotti penitenziari. E pensare che proprio i poliziotti penitenziari sono stati i primi a credere, nella fase iniziale, alla buona riuscita dell’attività, in un ambiente tanto particolare, dove il lavoro può davvero restituire speranza e dignità alle persone detenute e, conseguentemente, serenità e sicurezza per gli stessi Poliziotti - continua la nota - all’enfasi iniziale, purtroppo la realtà dei fatti ha voluto contrapporre il fallimento del progetto, culminato con la recente chiusura dell’attività”. Il Sinappe sottolinea che “restano degli interrogativi e delle domande che attendono delle risposte, perché il carcere non può e non deve fabbricare carcerati, ma cercare di restituire alla società uomini riabilitati e, possibilmente, avviati ad una professione e/o un percorso di studio e di reinserimento - quindi - la nostra speranza è che si possa immediatamente voltare pagina rispetto a tale esperienza e avviare nuove attività lavorative per le persone detenute, tali da poter interessare un numero sempre maggiore di reclusi e rasserenare gli animi, a volte, fin troppo agitati, che si riscontrano, soprattutto, nelle sezioni detentive”. Padova: detenuti-imbianchini al Liceo “Fermi”, ora li vuole anche il Comune di Serena De Salvador Il Mattino di Padova, 2 luglio 2019 Salvatore e Vocri i due “fortunati” che tinteggeranno le aule della scuola. Il direttore del carcere: Giordani interessato ad affidare lavori su strade e parchi. Un’opportunità per la scuola, che avrà aule rimesse a nuovo. Ma anche per i detenuti che potranno ricompensare la collettività e riaffacciarsi alla vita sociale, oltre che per gli alunni che verranno a contatto con la realtà carceraria. “I progetti di reinserimento del Due Palazzi lo rendono un penitenziario d’eccellenza. Un valore aggiunto per Padova che si appresta a essere capitale del volontariato nel 2020 ma anche la città delle opportunità per tutti”. È il commento del presidente della provincia Fabio Bui che ieri nel carcere padovano ha firmato il protocollo d’intesa che porterà due detenuti a tinteggiare gli interni del liceo Fermi durante l’estate. Un accordo tra la Onlus Operatori Carcerari Volontari (Ocv), il carcere, la Provincia e l’istituto che ha visto presenti il direttore del penitenziario Claudio Mazzeo, il presidente della Provincia Fabio Bui, la preside Alberta Angelini e Ludovica Tassi, presidente dell’Ocv. Ad applaudire l’iniziativa anche 76 detenuti tra cui Salvatore e Vocri, i due fortunati scelti per i lavori. Da oggi al 9 settembre con una pausa a Ferragosto, dal lunedì al venerdì usciranno dal carcere per raggiungere il liceo di corso Vittorio Emanuele II, dove tinteggeranno il piano della torretta dell’antica costruzione dalle 8 alle 14. Saranno totalmente autonomi negli spostamenti mentre a scuola saranno seguiti da personale dell’istituto, della Onlus e della Provincia. “Gli diamo fiducia per dimostrare che redimersi è davvero possibile. Hanno seguito l’apposito corso di edilizia e hanno superato una rigida selezione. Dovevano essere di più, ma solo loro due sono risultati completamente idonei”, spiega Tassi. “Speravo tanto che qualche altro compagno avesse questa possibilità”, Salvatore non riesce a nascondere l’emozione, “per la prima volta posso ripagare la società dopo il male che ho fatto”. “I lavori di pubblica utilità sono una grande risorsa per i carcerati e per la città. Proseguiremo senz’altro le collaborazioni con la provincia”, spiega Mazzeo. Il direttore annuncia una novità: “Ho parlato con il sindaco Giordani per avviare analoghi progetti con il Comune. Sarebbe la prima volta che dei carcerati possono mettere gratuitamente le loro abilità al servizio della cittadinanza”. Mazzeo auspica che i progetti partano già a settembre: “Proponiamo i nostri ragazzi per la sistemazione delle strade e dei parchi pubblici, con le competenze acquisite grazie ai corsi di edilizia, sicurezza e giardinaggio”. I detenuti infatti seguono diversi percorsi formativi, come il laboratorio di musica che stasera porterà dieci di loro a esibirsi sul palco del castello Carrarese, nell’ambito del “Castello Festival”. “Gli alunni, pur non incontrando direttamente i detenuti, avranno un grande beneficio educativo da quest’esperienza”, conclude il dirigente scolastico Angelini, “che si aggiunge agli incontri che il Due Palazzi già organizza. Il modo migliore per imparare il significato delle parole “cittadinanza” e “Costituzione”. Roma: “VolontariaMente”, studenti in mezzo ai detenuti per capire le ingiustizie di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 2 luglio 2019 L’università Roma Tre con il progetto VolontariaMente aiuta gli studenti a fare esperienza nelle organizzazioni non profit. In sette anni sono stati coinvolti in attività durante il periodo estivo oltre duemila tra ragazzi e ragazze. Quando sono arrivati per la prima volta in carcere, li hanno trascinati in teatro a vedere uno spettacolo: “Eravamo circondati da 150 detenuti divisi per gang, di qua gli ispanici, di là i trans, eravamo terrorizzati. Quando si sono alzati tutti in piedi commossi per applaudire, abbiamo capito che non eravamo in mezzo a criminali, ma a persone”. È commovente il racconto di Michele Tafano, 25 anni, originario di Pomigliano d’Arco (Na). Partecipa a un progetto di tutoring per studenti detenuti nel carcere di Rebibbia con l’università Roma Tre. “Poiché per laureami in Giurisprudenza servono almeno cinque anni, i detenuti che studiano con me diritto pubblico sono tutti condannati a pene severe, hanno alle spalle reati pesanti. Eppure sono tutti preparati, motivati, e grazie a loro capisci tanto. Per esempio che è solo un caso e una fortuna essere nati nel posto giusto, che il carcere può davvero rieducare, che i tempi necessari per riabilitassi non sono uguali per tutti. L’esperienza serve a loro, ma serve soprattutto a noi: ti permette di confrontarti coi titoli di giornale, ti racconta il “mostro”, dai un volto e una storia al delitto. Ad esempio, c’è Antonio che scrive racconti straordinari e ha realizzato un progetto con Accalcati su come cambia l’amore in carcere. E poi Alessio, finito dentro per spaccio, che una volta uscito ha deciso di continuare gli studi: ora viene a casa mia a fare ripetizioni”. Questa esperienza “condizionerà molto le mie scelte. Uno come me che studia Relazioni internazionali alla Luisa - conclude - pensa di poter cambiare il mondo a vent’anni. Ora che le ingiustizie le ho toccate con mano, perché il carcere è un luogo di ingiustizie, di chi le commette e di chi le subisce, so che non posso accontentarmi di diventare parte del problema”. Foggia: “Sportivamente”, nuova edizione per il torneo della Casa circondariale immediato.net, 2 luglio 2019 Nelle prossime settimane si sfideranno in campo le squadre delle diverse Sezioni dell’Istituto penitenziario. L’ideatore, Luigi Talienti: “La popolazione detenuta manifesta enorme entusiasmo e coinvolgimento costruttivo rispetto a questi percorsi”. Nuovo calcio d’inizio per “Sportivamente”, il torneo organizzato nella Casa Circondariale di Foggia dal docente e volontario Luigi Talienti. Nelle prossime settimane si sfideranno in campo le squadre delle diverse Sezioni dell’istituto penitenziario foggiano, per una manifestazione che vuole promuovere lo sport e affermare i valori fondanti del senso civico, del rispetto del proprio prossimo e del valore della regola. “Attraverso tali iniziative - sottolinea Talienti - si riesce a carpire la volontà di reinserimento dei reclusi. Per la realizzazione dell’intero torneo desidero ringraziare la Direzione della Casa Circondariale di Foggia, l’Area Trattamentale, gli agenti di Polizia Penitenziaria e tutti i volontari operanti all’interno dell’Istituto di Pena, spesso con il sostegno del Csv Foggia. Un plauso particolare va all’Acsi di Foggia che non fa mai mancare il suo supporto”. La manifestazione terrà compagnia ai ristretti durante l’estate, periodo in cui si fermano le attività scolastiche e diventa più forte la necessità di trascorrere qualche ora all’aria aperta. “La popolazione detenuta rispetto a questi percorsi manifesta enorme entusiasmo e coinvolgimento costruttivo. I ristretti - evidenzia Talienti - vanno considerati parte integrante della comunità civile, solo così si concede una effettiva seconda possibilità a loro e alle famiglie che, indirettamente, espiano una pena dura, quella determinata dalla lontananza dai propri cari”. “Lo sport è spesso presente nelle iniziative di volontariato - il commento del Presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese - perché aiuta a superare le barriere sociali. Ha un ruolo formativo e costruttivo e, proprio grazie ai valori che lo animano, svolge una funzione di traino nei processi di integrazione. Contribuisce in modo efficace a diffondere la cultura del rispetto e della legalità”. Migranti. Ciò che il diritto non dice, ciò che i numeri gridano di Maurizio Ambrosini Avvenire, 2 luglio 2019 Il caso Sea Watch, le vere proporzioni e vie dell’irregolarità. La drammatica vicenda della “Sea Watch 3”, giunta a una svolta con il travagliato approdo a Lampedusa e l’arresto della capitana Carola Rackete, si è prestata a una narrazione suggestiva che contrappone Antigone e Creonte, i valori etici universali e la legge positiva. Questo aspetto è indubbiamente in gioco, e la solidarietà verso la capitana coraggiosa e gli operatori umanitari è davvero condivisibile. Ma la vicenda è più complessa, per almeno due motivi. In primo luogo, non è affatto certo che la legge stia dalla parte di Salvini-Creonte. I suoi Decreti Sicurezza e la sua interpretazione delle norme su salvataggi, porti sicuri, responsabilità dei governi sotto la cui bandiera navigano i soccorritori devono ancora passare al vaglio delle istituzioni di garanzia nazionali e internazionali. Non è vero, come hanno affermato il ministro dell’Interno e i sostenitori della linea dei “porti chiusi”, che la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo gli abbia dato ragione. Come emerge dalla lettura della sentenza, e come hanno sottolineato con un accurato fact checking” Avvenire” e “Lavoce.info”, la Corte si è limitata ad appurare che non ricorrevano circostanze eccezionali che esponessero a rischi irreparabili la vita o la salute delle persone a bordo della “Sea Watch”. La Cedu ha quasi sempre respinto queste richieste di misure straordinarie, ma ha affermato che la sua decisione non pregiudica le valutazioni future in ordine alla fondatezza del ricorso. La deduzione di quanti sostengono che “l’immigrazione non è un diritto degli esseri umani” è un tipico esempio di strumentalizzazione politica, senza alcun fondamento nel merito della sentenza. Vale la pena ricordare che la tendenza a criminalizzare il soccorso umanitario e la solidarietà verso i migranti è in atto in diversi Paesi del mondo, dall’Ungheria di Orban agli Stati Uniti di Trump, ma non è un processo incontrastato. Un anno fa la Corte costituzionale francese ha emesso una sentenza esemplare, stabilendo che il principio di fraternità inscritto tra i valori cardine della Repubblica, insieme alla libertà e all’uguaglianza, impedisce di criminalizzare la solidarietà con i migranti. Le norme che perseguono chi fornisce aiuto agli stranieri, ancorché privi di regolari permessi, sono state dichiarate incostituzionali. Così il Global Compact for Migration, pur riconoscendo la sovranità degli Stati in materia di accessi al territorio, stabilisce il dovere di salvare le vite in pericolo e di concedere ai migranti l’accesso ai servizi essenziali. Il secondo motivo per cui l’idea che la legge respingente, incarnata da Salvini-Creonte, abbia chiuso le porte all’immigrazione, è palesemente lontana dai fatti, risiede nella composizione dei flussi migratori. Non solo, come è stato registrato e sottolineato più volte da “Avvenire”, si susseguono “sbarchi spontanei” sulle nostre coste, ma le persone che arrivano dal mare in cerca di asilo sono solo una componente minoritaria della popolazione immigrata: in tutto, tra richiedenti e rifugiati riconosciuti, si tratta di 300mi1a persone su 5,5 milioni circa di immigrati regolari, più una stima di 5-600.000 in condizione irregolare. Spesso si dimentica che l’unica immigrazione davvero deregolata, del tutto libera, o se si vuole “disordinata”, è quella che arriva da altri Paesi dell’Unione Europea: 1,5 milioni di persone in Italia, 16,9 milioni nella Ue. Senza contare la relativa facilità d’ingresso da molti Paesi dell’Europa orientale candidati all’ingresso nell’Unione ed esentati dall’obbligo del visto per soggiorni turistici di durata inferiore ai tre mesi: dall’Albania all’Ucraina, passando per la Moldova. Ora, se domani qualche milione di cittadini europei decidessero di spostarsi verso l’Italia o verso altri Paesi Ue nessuna norma di legge li fermerebbe. Nel Regno Unito quanti hanno votato per la Brexit lo hanno fatto soprattutto per questa ragione: decisione gravemente negativa e dannosa, per loro e per noi, ma in sé non priva di coerenza. Altri fortunati titolari del diritto a migrazioni deregolate sono poi i cittadini dei Paesi sviluppati e le élite dei Paesi meno sviluppati, compresi in una certa misura gli studenti. Anche se non tutti e non sempre si comportano bene, non sono poveri e, dunque, anche per loro vige a priori il diritto alla libertà di movimento. In definitiva, l’accanimento istituzionalizzato nei confronti della “Sea Watch 3” e della sua comandante è da catalogare nella categoria della campagna elettorale permanente, solleva emozioni e polarizzazioni, ma in realtà incide ben poco sulle politiche migratorie effettive. *Sociologo Università di Milano e Cnel Migranti. Antigone e la Costituzione di Tomaso Montanari e Francesco Pallante Il Manifesto, 2 luglio 2019 Il nostro ordinamento giuridico è costruito per gradi gerarchici. Al vertice sta la Carta. Le leggi e i decreti stanno sotto. E ciò che sta sotto non può contraddire ciò che sta sopra, pena il suo annullamento da parte della Corte costituzionale. Carola Rackete ha assunto apertamente il rischio di violare la legge, convinta della sua contrarietà alla nostra Costituzione. La battaglia legale intorno alla Sea Watch 3 si annuncia complicata. Non sarà facile districarsi tra diritto umanitario, trattati internazionali, normativa europea, diritto della navigazione, legislazione penale e amministrativa. Un complesso normativo, oltretutto, che si sviluppa lungo un arco temporale lunghissimo, se è vero che ai divieti recentemente sanciti dal decreto Salvini bis si contrappongono doveri risalenti ai tempi in cui il Mediterraneo si chiamava Mare Nostrum. Non a caso, alla mente di tanti è istintivamente riaffiorata la tragedia di Antigone, il dramma - allora come oggi - di una giovane donna coraggiosa, costretta da un potere feroce a scegliere tra l’obbedienza alle leggi della città o alle leggi dell’umanità. È un terreno scivoloso. Farsi interpreti di cosa dicano le leggi dell’umanità o, come dicono i filosofi del diritto, di quale sia il contenuto del diritto naturale implica ricorrere a giudizi di valore soggettivi. Giudizi certamente argomentabili secondo ragione, ma pur sempre di parte. Un librino di Hans Kelsen - Il problema della giustizia (1960) - dimostra come qualsiasi principio di giustizia rimandi, in ultima istanza, a scelte di carattere soggettivo. “A ciascuno il suo”, “non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te stesso”, “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, ecc.: sono tutti principi astratti, che necessitano di venire “riempiti” di contenuto. Cos’è il “suo” di ciascuno? Cos’è che non vorresti fosse fatto a te stesso? Quali sono le capacità di ciascuno, quali i suoi bisogni? Anche escludendo gli interlocutori in malafede, le risposte possibili restano tantissime: potenzialmente, tante quante le persone interrogate. Dal 1948 in Italia c’è un modo più semplice per uscirne: nella sua famosa arringa per Danilo Dolci (1956), Piero Calamandrei scrive: “Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi “non scritte”. (Perché, per chi non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni)”. E non è una mera dichiarazione di valori: il nostro ordinamento giuridico è costruito per gradi gerarchici. Al vertice sta la Costituzione. Le leggi e i decreti stanno sotto. E ciò che sta sotto non può contraddire ciò che sta sopra, pena il suo annullamento da parte della Corte costituzionale. Carola Rackete ha assunto apertamente il rischio di violare la legge, convinta della sua contrarietà alla Costituzione. Se venisse rinviata a giudizio, il giudice non potrà evitare di considerare l’obbligo di soccorrere i naufraghi e di condurli in un porto sicuro sancito dalle consuetudini internazionali sul diritto del mare e dai trattati internazionali che le specificano, ben sapendo che si tratta di fonti normative che - in quanto richiamate dagli articoli 10, co. 1, e 117, co. 1, della Costituzione - hanno rango superiore al decreto Salvini. Per questa via, sanzioni penali e amministrative potrebbero finire nel nulla. Occorre, inoltre, ricordare che le stesse fonti di rango legislativo sono molteplici e, in alcuni casi, prevedono deroghe o scriminanti rispetto a quanto sancito dalla legislazione. È quanto verrebbe a verificarsi se - come pare ipotizzabile - alla comandante della Sea Watch 3 venisse riconosciuto di aver agito in stato di necessità, scriminante prevista dall’art. 54 del codice penale che non rende punibile chi, per salvare se stesso o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, non ha potuto agire altrimenti che violando la legge. È esattamente per questa ragione che la vicenda riguarda tutti noi, ed è una questione non (solo) giuridica, ma sostanzialmente politica. Se per salvare vite umane bisogna necessariamente violare delle leggi, che razza di leggi ci siamo dati? Quante delle nostre leggi - dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, dal decreto Minniti a quelli di Salvini - sono in larga parte incompatibili con l’articolo 2 della Costituzione, per cui la Repubblica italiana “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”? E che dire dell’intesa sul contrasto all’immigrazione firmata da Gentiloni con le milizie libiche? È grazie a quell’accordo che il governo poteva pretendere che la Sea Watch 3 riconsegnasse ai libici i naufraghi. In fondo, Matteo Salvini e i suoi sono coerenti: perché vorrebbero abbattere il progetto di libertà e giustizia che la Costituzione promette. Ma i deputati del Pd saliti su quella nave facevano anche loro propaganda sulla pelle dei migranti o hanno capito che le loro leggi stanno dalla parte di Creonte, e non da quella di Antigone, che in Italia si chiama Costituzione? Migranti. Tornano in mare Open Arms e Alan Kurdi. E salvano vite umane di Ilaria Solaini Avvenire, 2 luglio 2019 Il fondatore Oscar Camps: “Dal carcere si esce, dal fondo del mare no”. Soccorso un peschereccio con 55 migranti a bordo, anche un neonato, tre bambini e una donna incinta. “Affidati” agli italiani. “Water, water”. Urlavano le persone a bordo, mentre un uomo salito sul ponte alto del peschereccio si sbracciava per attirare l’attenzione dell’equipaggio della nave di Open Arms, che ha ripreso il mare da venerdì, a 6 mesi dal divieto della capitaneria di porto di Barcellona di fare attività di search and rescue nel Mediterraneo centrale. Un ritorno giustificato dal fondatore Oscar Camps con una frase che dice tutto: “Dal carcere si esce, dal fondo del mare no”. Chiaro il riferimento al decreto sicurezza bis che va a colpire proprio le navi umanitarie, come è appena accaduto con l’annosa vicenda della Sea Watch3. Va detto che questo ritorno nel Mediterraneo centrale degli spagnoli guidati dal comandante italiano Riccardo Gatti, che significa soprattutto osservazione, testimonianza e richiesta di aiuto alle autorità competenti, è già valsa la vita di quelle 55 persone che si trovavano a bordo del peschereccio avvistato domenica, in Sar maltese. Tra loro molte donne, di cui una incinta, un neonato e altri tre bambini. Tutte persone dell’area subsahariana. L’immediata segnalazione alla Valletta non ha sortito effetto, ma quella all’Italia sì. Le persone stremate e disidratate da tre giorni di navigazione dopo aver ricevuto acqua e viveri dai soccorritori spagnoli hanno potuto proseguire sulla rotta per Lampedusa, scortate a distanza dalla nave umanitaria che si curava della sicurezza dell’imbarcazione e dell’incolumità delle persone a bordo. Poco dopo aver passato la zona SAR maltese e una volta entrato in quella italiana, il peschereccio è stato intercettato dalla motovedetta italiana CP 302 e una della Guardia di Finanza. C’è stata un po’ di tensione al momento dell’incontro-scontro tra i finanzieri e la nave di Open Arms, come documentato in un video del reporter a bordo Valerio Nicolosi, ma l’operazione di trasbordo non è stata compromessa: 11 tra le persone nelle condizioni psicofisiche peggiori sono state subito portate a Lampedusa, le altre dirette nei porti siciliani di Licata e Pozzallo. Restando sul tema degli sbarchi e dei porti chiusi soltanto alle imbarcazioni umanitarie, nella notte a Lampedusa sono arrivate altre 17 persone su un barchini. Nel frattempo la nave di SeeEye, la Alan Kurdi, ha ripreso il mare da tre giorni, in direzione Sar libica e sul pennone più alto fa sventolare una bandiera bianca con la scritta “Free Carola”. Un gesto di solidarietà alla comandante della Sea Watch 3 che alle 15.30 è attesa al Tribunale di Agrigento per l’interrogatorio di garanzia. I legali di Carola Rackete stanno lavorando affinché le siano tolti gli arresti domiciliari e il divieto di lasciare la provincia agrigentina. Malaria e Tbc: più danni dal calo dei fondi contro le epidemie che dall’arrivo di migranti di Flavia Amabile La Stampa, 2 luglio 2019 Lo spiega Stefania Burbo del Network Italiano Salute Globale. Appello al governo: “Si inverta la tendenza alla decrescita dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Cancellare le epidemie di Aids, Tbc e malaria entro il 2030 è uno degli scopi del 3° Obiettivo di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, sottoscritta da 193 governi nel 2015 in ambito Onu ma gli impegni politici alterni, l’insufficienza dei finanziamenti e l’aumento della resistenza a insetticidi e farmaci potrebbero rendere vani i risultati finora ottenuti e molto difficile raggiungere l’obiettivo. È quanto emerge dal rapporto “Manteniamo la promessa, il tempo è adesso” presentato a Roma dal Network Italiano Salute Globale, Aidos e Action Global Health Partnership. L’Italia è una delle nazioni a maggior rischio di veder vanificato l’impegno del passato, spiega Stefania Burbo, del Network Italiano Salute Globale. Nel 2018 è diminuito l’Aiuto pubblico allo sviluppo da parte dell’Italia. Vi aspettate ulteriori riduzioni da parte di questo governo? Avete avuto dei segnali in questo senso? Ad esempio una chiusura di alcuni rapporti o di canali prima esistenti? “Siamo senz’altro preoccupati, come società civile chiediamo che si inverta la tendenza alla decrescita dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps) con maggiori investimenti sia attraverso il canale bilaterale sia attraverso quello multilaterale”. Che conseguenze può avere questo calo dei finanziamenti? “Meno investimenti rischiano di rallentare i progressi raggiunti in vari settori. Ad esempio, nel settore della salute, grazie a maggiori investimenti, scoperte scientifiche, riduzione dei costi e un migliore know how, sono stati raggiunti importanti successi nella lotta contro le epidemie: la diffusione dell’Hiv ha iniziato a rallentare e l’incidenza della Tbc e della malaria è diminuita. Le epidemie continuano, tuttavia, a imporre un tributo devastante in termini di vite umane ed economici. A livello globale le malattie correlate all’Aids rimangono la causa principale di morte per le donne di età compresa fra 15 e 49 anni, il 66% delle nuove infezioni fra persone di età 10-19 anni colpisce il sesso femminile, questa percentuale sale al 79% nell’Africa orientale e meridionale. Se non si incrementano gli investimenti si rischia di aprire la porta ad una recrudescenza delle epidemie”. Può portare a un aumento dell’incidenza di Hiv, malaria e Tbc in Italia? “No, in Italia l’incidenza di Hiv può essere tenuta sotto controllo con efficaci politiche ed educazione sessuale”. E per le altre? Una parte del governo dà la colpa della presenza in Italia di queste malattie ai flussi migratori. È così oppure ci sono altre cause? “Il caso della bambina di Trento morta per malaria l’anno scorso è un errore umano, non una malattia arrivata con i migranti come hanno titolato alcuni giornali. C’è una forte strumentalizzazione del tema delle migrazioni e delle eventuali malattie che potrebbero arrivare con loro. Evidenze medico scientifiche ci dicono il contrario, spesso i migranti che arrivano qui si ammalano piuttosto di malattie “nostre” che i loro corpi non conoscono. Per questo lo scorso anno abbiamo realizzato una campagna di sensibilizzazione volta a smantellare i maggiori stereotipi su queste tre epidemie, che aumentano invece lo stigma e le discriminazioni e non l’accesso alle cure”. L’Italia si trova per la prima volta di fronte a una seria carenza di medici italiani. Questo può avere delle conseguenze nella diffusione di Hiv, malaria e Tbc? “Non c’è correlazione fra le due questioni, ma la carenza di medici non aiuta il diritto alla salute globale con tutto quel che significa in termini di servizi sanitari”. Che cosa potrebbe fare l’Italia per far calare la diffusione di queste malattie all’interno dei suoi confini? E all’estero? “È importante che il nostro paese realizzi, per quanto riguarda per esempio l’Hiv, efficaci politiche di prevenzione ed educazione sessuale. Sono necessari poi maggiori investimenti a favore della salute globale. Al riguardo l’Italia dovrebbe incrementare l’impegno finanziario verso il Fondo Globale del 15% passando da 140 a 161 milioni di euro per il periodo 2020-2022, in linea con l’aumento complessivo che il Fondo ritiene necessario per contrastare efficacemente Aids, tubercolosi e malaria. Ma anche sostenere lo sforzo globale volto a sviluppare sistemi sanitari resilienti e il processo di attuazione della copertura sanitaria universale (Uhc). L’Italia dovrebbe inoltre mantenere la leadership nel promuovere politiche che regolino il prezzo dei farmaci, con iniziative come la risoluzione presentata dal nostro paese all’Oms sul miglioramento della trasparenza dei mercati di farmaci, vaccini e altre tecnologie relative alla salute e investire nell’istruzione e sostenere tutte le politiche volte a ridurre ed eliminare le discriminazioni di genere e la violenza contro le donne e le ragazze, eliminando le pratiche dannose (quali mutilazioni genitali femminili e matrimoni forzati e/o precoci)”. Messico. Viaggio sul fiume dei sogni spezzati di Anna Lombardi La Repubblica, 2 luglio 2019 Lungo il confine dove sono annegati Oscar Ramirez e sua figlia Valeria. La loro foto è diventata il simbolo della tragedia dell’immigrazione, ma non basta a fermare le migliaia di disperati che ogni giorno sognano di entrare negli Stati Uniti. “La gente ci chiama “il popolo del fiume”. Perché è sotto il Puente Internacional Ignacio Zaragoza, quello della dogana a cento metri dal Consolato americano, che si ritrovano i migranti che arrivano fin qui. Al fiume compri da mangiare a poco prezzo, scambi informazioni e, se puoi permettertelo, trovi un “coyote”, un trafficante che ti aiuta ad attraversare. Molti vengono per guardare l’America, che è lì a poche bracciate. Il Rio Bravo scorre tranquillo e non ti viene in mente che la corrente è così forte da portarti via. Fissi l’altro lato e anche se hai i figli piccoli pensi: “Ce la posso fare”“. Brenda Rodriguez, 38 anni, i capelli raccolti in una lunga treccia nera, si asciuga in fretta una lacrima mentre offre il seno a Mattias, 13 mesi. Si scusa: “Il bambino è grande, ma abbiamo viaggiato per mesi e non sono riuscita a svezzarlo. Prende solo il mio latte, Dio non voglia che me lo tolgano quando arriveremo di là”. Ha lasciato il Belize ad aprile col marito Carlos, il bebè al collo e Randi, 8 anni, che non si stacca dalla sua gonna: “Davanti all’officina di mio marito ci fu un omicidio e le gang pensarono che avesse visto qualcosa. Un amico ci ha avvertiti e siamo scappati così, senza avere neanche il tempo di spegnere i fornelli”. Alle otto di domenica mattina ci sono almeno trenta famiglie ad affollare il tavolone di plastica apparecchiato alla buona nel cortile della Casa del Migrante. Il rifugio con 100 letti a castello gestito dal prete cattolico Francisco Gallardo insieme a sei volontari, nell’estrema periferia di Matamoros, 520mila abitanti, la città messicana cantata anche da Bruce Springsteen proprio per la scia di tragedie, dove General Motors e Ford producono componenti d’automobili: affacciata su quel Rio Bravo le cui curve sinuose tracciano un confine naturale che l’America ha recintato d’acciaio. È qui, proprio in questo cortile bianco dominato da un’enorme Madonna rinchiusa in una teca, che una settimana fa sgambettava anche Valeria Ramirez: la bimba di 23 mesi annegata domenica 23 giugno col padre Oscar mentre guadavano il fiume cercando l’America. La loro immagine ha fatto il giro del mondo, trasformandoli in simbolo di sofferenza e ingiustizia. “Volevamo attraversare anche noi” piange Brenda. “Ma la notte che c’eravamo decisi è venuto giù un temporale tremendo. E lo abbiamo preso come un segno di Dio. Glielo avevamo anche detto, ai Ramirez. Ma loro, niente, avevano fretta di ricominciare”. E invece. È sempre qui che ha trovato riparo Tania, 21 anni, la moglie di Oscar e mamma di Valeria, unica sopravvissuta di quella tragedia. “Una ragazza modesta, ma di grande fede. No, non ha voluto vedere la foto dei suoi cari che pure ha commosso anche il Papa. Ha sempre e solo pregato, mentre noi l’aiutavamo con le pratiche burocratiche per il rimpatrio suo e dei corpi, avvenuto giovedì” confida Padre Francisco. “Di storie come la sua purtroppo ne ho viste tante” prosegue il parroco di Nuestra Señora de Guadalupe, 53 anni, da 15 anni responsabile di questo centro dove nel solo 2018 sono passate 26mila persone. “La storia dei Ramirez, arrivati dal Salvador inseguendo il sogno di una vita migliore e che invece alla fine del loro cammino hanno trovato l’America di Donald Trump che alza muri e gabbie per i bambini, è la stessa di tanti che sono qua”. Gente come Pedro, 40 anni, che ha viaggiato dall’Honduras col figlio di 13 sui carri merci dei treni. È orbo ma, dice, non ha alternative: “le nostre braccia sono le uniche valide della famiglia. Dobbiamo sfamare dieci persone”. Josè, 19 anni, arrivato dal Salvador con l’aiuto di un “coyote” pagato dalla sorella che vive a New York, vorrebbe inscriversi all’università. Ha già passato la frontiera due volte: lo hanno sempre rimandato indietro. Edgardo, 29 anni, dopo aver perso il lavoro come autista in un hotel ha invece lasciato il Guatemala con la moglie Lory e la piccola Ashley di 3 anni, unendosi ad una delle grandi carovane che dal Centro America hanno raggiunto il confine. “È un paradosso, ma è proprio la stretta di Trump al confine a spingere tanta gente a partire: pensano sia l’ultima chance”, dice John Carlos Frey, il giornalista investigativo messicano di The Marshall Project, vincitore di un Emmy col documentario Invisible Mexicans e autore di Sand and Blood, sabbia e sangue, dedicato alla situazione dei migranti al confine col Messico. “Alla frontiera queste persone trovano una situazione di guerra a cui non erano preparati: soldati che gli danno la caccia come fossero criminali, elicotteri sulla teste che terrorizzano i bambini e i prezzi dei generi di prima necessità alle stelle”. Di sicuro la sorpresa più grande è la lunga lista per chiedere quello status di rifugiato che può aprire legalmente i cancelli d’America: o chiuderli per sempre. E infatti davanti al Consolato degli Stati Uniti su Calle Primera, bivacca una folla infinita, appena smossa dai venditori di acqua, noccioline, mango e statue di santi. In attesa ci sono 800 persone: ma con soli tre appuntamenti disponibili al giorno, che spesso finiscono disertati perché le famiglie hanno già preso il volo, e prima di ottenere l’intervista passano mesi. “I migranti sono abbandonati a sé stessi, in balia della fame, della disperazione e della paura che il Cartello del Golfo rapisca i figli per il traffico d’organi” dice ancora il prete prendendo un foglio bianco su cui disegna i tornanti del fiume. “Oscar Ramirez ha provato a fare da sé, ignorando che il Rio Bravo è insidioso non solo per la corrente ma per le tante anse che confondono la prospettiva di chi lo guada. Il caso di Oscar non è isolato. Oggi tutti parlano della foto pubblicata da Julia Le Duc su La Jornada. Ignorando la donna con tre bambini morta tre giorni dopo e le 283 persone annegate in un anno”. Il popolo del fiume oggi ha paura. Da una settimana nessuno attraversa. “Presto dimenticheranno. E qui si ricomincerà a morire”.