Cancellata la Circolare del Dap che vieta la tv dopo mezzanotte la-riviera.it, 29 luglio 2019 È stata revocata la circolare che spegneva la tv dei detenuti dopo la mezzanotte, un provvedimento all’origine di una accesa protesta in carcere a Sanremo. “Ricordiamo benissimo la notte tra il 4 e il 5 giugno 2019, quando il Capo dell’amministrazione penitenziaria con apposita Circolare ordinò lo spegnimento delle Tv e di tutti gli apparati elettronici durante le ore notturne - spiega Fabio Pagani, segretario regionale Uil Pa Penitenziari. La protesta dei 270 detenuti di Valle Armea, presenti, durò circa tre ore: con schiamazzi, urla, lancio di bombolette e battitura delle stoviglie”, aggiunge Fabio Pagani. E poi. “Un vero leader non agisce così - mettendo a rischio non solo la sicurezza dei carceri, ma anche l’ordine pubblico delle città. Un’organizzazione efficace, efficiente e programmata fa sì che ci siano più accorgimenti e più livelli di sicurezza. Sono mesi che denunciamo lo stato di gravità del sistema penitenziario e nessuno ci ascolta, sono anni che diciamo che continuano a diminuire le unità di Polizia e di contro aumentano i padiglioni detentivi, ma soprattutto i detenuti”. Prosegue: “Mezzi e strumenti di lavoro sono inadeguati; un sistema consacrato non tanto all’orientamento rieducativo della pena, quanto autoreferenziale rispetto al fatto che la pena “deve” rieducare per forza, anche chi magari non lo vuole. Il bello è che gli indirizzi e le regole le dettano il capo del Dap e i dirigenti generali dell’amministrazione ma a risponderne è la Polizia Penitenziaria, troppo comodo così! I numeri sono impietosi e sono lì a dimostrare tutta l’inefficienza di un’amministrazione penitenziaria alla sbando”. Bonafede: “Riforma della giustizia da approvare subito: la Lega non freni” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 luglio 2019 Il ministro: è fondamentale per l’economia e la vita dei cittadini. Salvini sostiene che sia timida? Se si inserisce il tema delle intercettazioni, o la separazione delle carriere, si allungano i tempi: e il Paese non se lo può permettere. Ministro Alfonso Bonafede, che fine ha fatto la sua riforma della giustizia? “La porteremo questa settimana in Consiglio dei ministri”. Perché tanta urgenza? “Perché non si può più aspettare. Abbiamo fatto investimenti con un piano assunzioni per 8.000 unità e avviato un concorso per funzionari che non si faceva da vent’anni. Bloccare una riforma che riduce i tempi della giustizia civile e penale significa bloccare l’economia italiana, e questo non è tollerabile. Ce lo chiedono i cittadini italiani e gli investitori stranieri, che guardano alle classifiche internazionali in cui siamo fanalino di coda; penso ad esempio al recupero crediti”. Però il suo collega dell’Interno, nonché vicepremier, Matteo Salvini sostiene di aver letto una bozza che non gli piace, troppo timida. “Non so a quale testo si riferisse, ma quello che abbiamo presentato è il frutto di costanti incontri avuti con la ministra della Lega Giulia Bongiorno, oltre che del confronti con magistrati e avvocati. Io resto aperto al dialogo con tutti, ma al punto in cui siamo arrivati mi aspetto un atteggiamento costruttivo e favorevole per ridurre i tempi dei processi”. I leghisti dicono di volere tempi ancora più rapidi, separazione delle carriere tra giudici e pm e riforma delle intercettazioni. Se insistono lei che fa? “Sui tempi abbiamo introdotto termini perentori entro i quali, se un procedimento non è concluso, i magistrati saranno chiamati a rendere conto del loro operato…”. Si parlava di nove anni, un tempo “irricevibile” per la ministra Bongiorno. “Li abbiamo portati a sei anni. E comunque inserire in questa proposta che tocca tantissimi aspetti, dal processo civile a quello penale alla riforma del Consiglio superiore della magistratura, il tema delle intercettazioni che non incidono sui tempi della giustizia, o la separazione delle carriere che prevede modifiche costituzionali, significa affrontare altri tipi di questioni e quindi procrastinare i tempi di questa riforma. Il Paese non se lo può permettere”. Lo dice perché a fine anno entra in vigore il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che la Lega ha condizionato alla riduzione dei tempi dei processi? “Anche. Quell’accordo politico io l’ho voluto fortemente, introducendo la moratoria sulla prescrizione per avere il tempo di fare l’altra riforma. Sarebbe assurdo bloccarla ora da parte della Lega, attendo di capire e vedere che atteggiamento avranno. Confido che anche stavolta non si voglia bloccare una riforma epocale, che è urgente a prescindere dalla prescrizione”. Anche Berlusconi, nel 2011, definì epocale la sua proposta sulla giustizia... “Ovviamente non accetto e rispedisco al mittente un simile parallelismo. Che ci siano sensibilità diverse con la Lega su certi temi lo sappiamo, ma è anche vero che in tema di giustizia, oltre alla Spazza-corrotti e al voto di scambio politico-mafioso, abbiamo approvato la legittima difesa che stava a cuore a loro. E pure sul decreto Sicurezza-bis noi del Movimento Cinque Stelle magari non condividevamo alcune parti, ma siamo stati costruttivi. Dire no a una riforma fondamentale per la politica, l’economia e la vita dei cittadini non appartiene al modo di agire di questo governo”. Nel frattempo Salvini non perde occasione di attaccare i giudici che prendono provvedimenti che non gradisce, e da ultimo ha parlato di lavori forzati per i condannati. Lei che ne pensa? “Abbiamo modi diversi di esprimerci. Io sono il garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, e l’ho ribadito anche dopo gli scandali che hanno coinvolto il Csm e alcuni magistrati. A me interessa che le sentenze vengano rispettate, poi ognuno può fare i commenti che crede. Ma se oggi, per alcuni delitti come l’omicidio, non si può più accedere al rito abbreviato con conseguenti sconti di pena, lo dobbiamo alle leggi proposte da questo governo e approvate dalla maggioranza che lo sostiene”. Tra i magistrati e gli avvocati, con i quali lei dice di avere dialogato, prevalgono i giudizi critici, soprattutto per la mancata depenalizzazione e lo scarsa incentivazione ai riti alternativi. Come risponde? “Io diffido dalle leggi che accontentato tutti. Magistrati e avvocati non possono che confermare di essere stati convocati e ascoltati, ma poi le decisioni finali spettano a me, che me ne assumo la responsabilità. E ritengo che sia nel settore civile che in quello penale abbiamo introdotto novità importanti di cui si gioveranno tutti”. Non crede che l’introduzione del sorteggio tra i togati eletti al Csm sia una stravaganza, oltre che una soluzione a rischio incostituzionalità? “Intanto, per evitare questo rischio, abbiamo modificato il meccanismo: prima ci sarà il sorteggio tra i candidati e poi l’elezione vera e propria, dunque i componenti del Csm saranno eletti, come prescrive la Costituzione. E poi è un modo per sottrarre l’organo di autogoverno alle derive del correntismo e restituire credibilità alla magistratura e alla giustizia, insieme alla regola che dopo aver fatto parte del Csm non si possono ricoprire incarichi apicali per quattro anni e altre modifiche”. L’abolizione dei procuratori aggiunti nominati dal Csm non dà troppo potere ai procuratori? “Anche quella parte è cambiata, i procuratori aggiunti resteranno. Queste modifiche alla bozza iniziale sono la dimostrazione che io sono disponibile a qualsiasi rilievo o integrazione. Però è arrivato il momento di decidere, e con urgenza. Per tutelare i diritti e l’economia l’Italia ha bisogno di una giustizia veloce e moderna”. Il sadismo mediatico dei nostri forcaioli di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 29 luglio 2019 I paladini del giustizialismo hanno stravolto il linguaggio giuridico e fatto a pezzi il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Egregi forcaioli, poco gentili paladini del giustizialismo, feticisti delle manette facili, ma voi conoscete il numero di vittime delle vostre ossessioni come Calogero Mannino, riconosciuto innocente dopo ventisette anni di gogna e ingiustizia? Immagino di no, ma si tratta di decine, forse di centinaia di persone innocenti che avete massacrato proditoriamente. Governatori di Regioni e Province, sindaci, assessori, parlamentari, politici della Prima, Seconda e Terza Repubblica con tutto il codazzo di clan, cricche, loggette creato appositamente per tracciare grandi disegni criminosi sui media senza mai arrivare a uno straccio di prova, tutti gettati nelle fauci della pubblica riprovazione quando montava l’ondata accusatoria, poi abbandonati a se stessi quando è stata riconosciuta loro l’estraneità ai fatti. Sapete quanti assolti, quanti prosciolti, quanti intercettati poi nemmeno rinviati a giudizio hanno costellato la vita giudiziaria di uno Stato che ha smesso da tempo di essere uno Stato di diritto? Avete anche devastato il linguaggio: avete lasciato intendere che indagato voglia dire imputato, e che imputato significhi condannato, e che la prescrizione sia un privilegio, e non un esito quasi sempre dovuto alla lentezza pachidermica della magistratura. Avete fatto a pezzi il sacrosanto principio costituzionale della presunzione di innocenza, caposaldo di uno Stato di diritto. Poi certo, esistono i tanti casi di innocenti non famosi perseguitati dall’ingiustizia: ma almeno su quelli non avete esercitato il vostro sadismo mediatico. Perché questo siete: un po’ sadici. Che degli anni di galera da innocente di Mannino non vi importa nulla, ancora ad inseguire i fantasmi dei vostri teoremi politici celebrati nei tribunali, che sarebbero ridicoli se non fossero tragici. E bisognerebbe fare un elenco aggiornato degli innocenti che avete distrutto. Ma ci vorrebbe Amnesty International. Caso Cerciello Rega. Bendare prima di interrogare è un metodo di tortura molto utilizzato farodiroma.it, 29 luglio 2019 Il Garante dei detenuti scrive all’Arma dei Carabinieri e alla Procura di Roma. Il pg Salvi precisa: interrogati senza torture. A seguito della pubblicazione sulla stampa di una fotografia ritraente il sospettato per l’omicidio del Vice-Brigadiere Cerciello Rega, mentre si trovava ammanettato e con gli occhi bendati all’interno di una struttura dei Carabinieri, il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha inviato una lettera al Comandante provinciale dei Carabinieri di Roma, Francesco Gargaro e, per conoscenza, al Comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, esprimendo profondo disappunto per un episodio grave di lesione della dignità di una persona privata della libertà, che peraltro testimonia una pratica configurabile come trattamento inumano e degradante. Ritenendo altrettanto grave il comportamento di chi ha permesso o tollerato tale condotta senza denunciarla alle autorità competenti prima che emergesse attraverso la diffusione della foto, il Garante nazionale ha apprezzato l’intervento del Comandante Generale in termini di forte dichiarazione d’inammissibilità di tali comportamenti, di avvio di una indagine interna e di preannuncio di conseguenti provvedimenti nei confronti dei responsabili. Il Garante vigilerà sullo sviluppo di quanto annunciato. Tuttavia, nella sua lettera, il Garante sottolinea la necessità che si agisca preventivamente sul piano della formazione culturale di chi esercita il difficile compito di tutelare sicurezza e diritti. Contestualmente, il Garante nazionale ha segnalato il caso alla competente Procura della Repubblica di Roma, contenente le proprie valutazioni sull’episodio. Da parte sua il Procuratore Generale di Roma Giovanni Salvi, comunica, ai fini dell’accertamento delle responsabilità disciplinari derivanti dall’uso di mezzi di costrizione su persona in stato di custodia e dalla diffusione di una fotografia della persona in manette, di aver avviato indagini disciplinari. Le informazioni fornite dalla Procura della Repubblica di Roma circa le modalità con le quali è stato condotto l’interrogatorio consentono di escludere ogni forma di costrizione in quella sede: Gli indagati sono stati presentati all’interrogatorio liberi nella persona, senza bende o manette. All’interrogatorio é stato presente un difensore. Inoltre l’interrogatorio é stato condotto da due magistrati, è stato registrato e ne è stato redatto verbale integrale”. Salvi sottolinea inoltre che gli indagati sono stati avvertiti dei loro diritti. Le indagini proseguono per accertare chi, per quali ragioni e per disposizione di quale autorità abbia bendato l’indagato e abbia ritenuto di tenere l’indagato in manette; si accetteranno anche eventuali responsabilità per omessa vigilanza. Caso Cerciello Rega. La giustizia ferita da una foto di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 29 luglio 2019 L’estrema gravità della vicenda di droga e denaro che ha visto l’uccisione del carabiniere Mario Cerciello Rega si è ora aggiunto un fatto allarmante: uno dei due arrestati, nell’ufficio dei carabinieri era tenuto seduto ammanettato dietro la schiena, bendato. Così costretto è stato fotografato. La fotografia è stata fatta giungere ai giornali. Il fatto mette in discussione metodi di condotta adottati da parte di carabinieri. Pesa ancora la vicenda dell’uccisione di Cucchi e della lunga copertura gerarchica delle relative responsabilità, che ha sfregiato l’immagine dell’Arma, cui contribuiscono ogni giorno la dedizione, la professionalità, il coraggio delle migliaia di carabinieri in servizio. Una serie di domande deve avere risposta. Inammissibile sarebbe pretendere che la vicenda si chiuda con il trasferimento del carabiniere che avrebbe preso l’iniziativa di bendare l’arrestato. Il contesto in cui quel trattamento è stato imposto a un arrestato - un ufficio dei carabinieri - e la rigida struttura gerarchica dell’Arma indica che ben altro occorre accertare e valutare. Da dove veniva la benda messa sugli occhi di quell’arrestato in attesa di interrogatorio? Escluso che esista un protocollo di condotta che ne preveda l’uso negli uffici dei carabinieri, vi era però in quell’ufficio una simile prassi? È difficile pensare che in una vicenda tanto grave, in cui si indagava sulla uccisione di un collega, quella bendatura sia frutto della iniziativa occasionale di un singolo carabiniere. Nessun ufficiale aveva preso la direzione? Come e quando era stata informata la Procura della Repubblica? Come è stato trattato l’altro arrestato? Le domande che si pongono e chiedono risposta credibile sono numerose. Partiamo dal fatto certo: la fotografia e la sua pubblicazione. Sembra si tratti di fotografia non ufficiale, ma “rubata”. Segno dell’esistenza tra i carabinieri operanti di dissenso sul metodo usato nei confronti dell’arrestato? Qualcuno ha voluto tar conoscere all’esterno ciò che all’interno si svolgeva. Il richiamo ai colleghi, il ricorso ai superiori sono stati ritenuti inutili? Le regole italiane ed europee indicano che le restrizioni imposte agli arrestati sono giustificate se ridotte allo stretto indispensabile. L’uso delle manette è ammesso quando vi è pericolo di fuga o di violenza da parte dell’arrestato. Escluso il pericolo di fuga, bisognerebbe pensare che il ragazzo fosse ritenuto pericoloso. Strano in quella situazione concreta. Nessuna giustificazione però emerge per l’uso della benda sugli occhi, per impedirgli di vedere. Di vedere dove si trovava e vedere chi lo attorniava e gli parlava. Il primo effetto della bendatura è lo spaesamento, l’incertezza, la paura. È incompatibile con le regole di rispetto della libertà psicologica della persona. L’impossibilità di identificare coloro che si occupano di chi è stato privato della vista è l’ulteriore effetto. È da sperare che quell’arrestato non dica, nel corso dell’indagine, di essere stato minacciato e di non poter indicare i responsabili proprio a causa della bendatura. Non sappiamo ora cosa l’arrestato abbia detto al pubblico ministero nell’interrogatorio in cui avrebbe ammesso sue responsabilità. Il magistrato del pubblico ministero si è reso conto della condizione da cui l’interrogato proveniva e verso cui probabilmente stava per tornare? Sappiamo che davanti al giudice ha scelto di non rispondere. Gli interrogativi troveranno forse risposta in seguito. Essi però indicano come il trattamento imposto all’arrestato sia capace di inquinare il seguito dell’indagine giudiziaria e il giudizio che la concluderà. L’esperienza indica che ogni deroga alle regole di comportamento si dimostra una scorciatoia che conduce a esiti opposti a quelli voluti. Tutti noi cittadini dobbiamo pretendere la scrupolosa correttezza in ogni occasione negli uffici pubblici, tanto più quando si tratti degli uffici in cui lo Stato esercita il suo monopolio della forza legittima. In qualunque circostanza entrare dai carabinieri o dalla polizia di Stato deve garantire sicurezza e rispetto della legge. Quella fotografia ci mette di fronte alla prova che quella sicurezza non è garantita. A quel possibile assassino soltanto? No, a ciascuno di noi. Caso Cerciello Rega. Benda e scatto, l’autogol che può valere l’estradizione per i due accusati di Carlo Bonini La Repubblica, 29 luglio 2019 Chi ha deciso, venerdì 26 luglio, nella caserma del Reparto Investigativo dei carabinieri di via In Selci, di annichilire il diciottenne cittadino americano Christian Natale Hjorth ammanettandolo alla schiena e bendandolo? E perché? E chi è il militare che ha scatto quella foto che doveva fissare il momento dell’umiliazione? Per farne cosa? Fino a quando non troverà risposte convincenti, la storia della foto della vergogna, le domande che sollecita, promettono ora di fagocitare tutto il resto. O, comunque, di diventare dirimenti negli umori dell’opinione pubblica americana tuttora prigioniera del fantasma di Amanda Knox. Fino al punto da poter orientare il Governo degli Stati Uniti nel valutare la possibilità di chiedere l’estradizione per i due “teneri” assassini di San Francisco armati di baionetta perché ne vengano assicurati i diritti di difesa all’interno del porto sicuro della giurisdizione statunitense. Perché, ora, di questo si tratta. Sapere cosa è successo in via In Selci tra il momento del fermo di Gabriel Christian Natale Hjorth, 18 anni, e Elder Finnegan Lee, 20 anni, e la confessione di uno dei due al pm Maria Sabina Calabretta e dalla Procuratrice aggiunta Nunzia D’Elia, significa sapere anche se e quale valore la confessione di uno dei due potrà avere. Le inchieste della magistratura sono due. Una aperta dal Procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, che riguarderà esclusivamente i profili disciplinari dei militari che risulteranno coinvolti in questa vicenda. La seconda, dell’attuale Procuratore reggente di Roma Michele Prestipino che, domani, riceverà dal Comandante provinciale di Roma dei Carabinieri, Francesco Gargaro, una prima informativa con la ricostruzione di quanto accaduto in via In Selci nella tarda mattinata di venerdì. Ad oggi, la storia ha solo un primo abbozzo di verità. E un primo responsabile. Un sottufficiale del Reparto Investigativo che - per quanto riferisce il Comandante Provinciale dei carabinieri di Roma Francesco Gargaro - avrebbe assunto la decisione di costringere in una posizione di stress quel ragazzo, “in autonomia, per un tempo limitato e senza alcuna indicazione della catena di comando”. E che per questo è stato ieri trasferito per decisione del Comando Generale ad altro incarico. Manca al contrario chi ha scattato la foto. Mancano i nomi dei carabinieri che in quella stanza in cui Natale Hjorth era costretto hanno assistito a quanto stava accadendo senza sollevare alcuna obiezione. Bisogna dunque, al momento, stare a quello che il Comando Provinciale dei carabinieri ha raccolto nella sua indagine interna e che, a Repubblica, fonti interne dell’Arma raccontano così. I due cittadini americani vengono fermati dai carabinieri del Reparto Investigativo intorno alle 11 del mattino di venerdì nella loro stanza all’hotel Meridien Visconti. Sul posto, è il comandante del Reparto, il colonnello Lorenzo D’Aloia. E un ufficiale per bene. Che si è guadagnato la stima della Procura di Roma e molti nemici nel Corpo. Perché è l’ufficiale che ha fatto “girare” l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Che si è sottratto all’omertà di Corpo contribuendo a individuare chi aveva depistato, nell’Arma, la ricerca della verità. D’Aloia è insomma ufficiale avveduto. E, quel venerdì mattina, dispone che i due americani vengano separati e trasferiti dall’hotel alla caserma di via In Selci su due diverse auto. Sottraendo entrambi - questa l’indicazione - a ogni genere di pubblicità. D’Aloia si trattiene nella stanza di albergo per sigillare la scena del fermo. Perché, ricca come è di tracce, non venga contaminata. Le due pattuglie in borghese, con entrambi i fermati, dunque, lo precedono di una quindicina di minuti verso la caserma. Quella che ha a bordo Natale Hjorth entra dal retro del caserma di via In Selci e il ragazzo, dopo essere sceso dall’auto, viene fatto entrare in una stanza a piano terra, che affaccia sul cortile interno del complesso, normalmente destinata a “sala ascolti” per le intercettazioni telefoniche. Ed è a questo punto che cominciano i problemi. Per quello che l’inchiesta interna ha sin qui accertato, il capo pattuglia, un sottufficiale del Reparto, decide non solo che a Natale Hjorth non vengano tolte le manette. Ma che debba essere anche messo nella condizione di non poter vedere dove i militari lo stanno conducendo. Per questo, si sfila il foulard azzurro che ha al collo e lo stringe intorno alla fronte del ragazzo come una benda. Quindi, dopo averlo fatto sedere al centro della stanza, si allontana. Da quel momento in poi, nella saletta dove Natale Hjorth è stato parcheggiato comincia un via vai di militari. Alcuni dei quali appartengono anche alla stazione Farnese (quella del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega). Ed è uno dei tanti carabinieri che si avvicendano in questo passeggio indistinto a scattare la foto. Verosimilmente dalla porta finestra della sala che affaccia sul cortile interno. All’arrivo in caserma di D’Aloia - stando sempre all’inchiesta interna - la scena cambia. Natale Hjorth viene portato in un’altra stanza. Rimanendo separato da Lee. E, per entrambi, si decide di evitare le camere di sicurezza. Fino all’arrivo dei magistrati. Poi, sabato sera, comincia un’altra storia. La foto comincia a circolare. Forse anche per danneggiare il comandante del Reparto, D’Aloia. Come se in quello scatto, dovesse compiersi un unico destino. L’umiliazione di un detenuto diventato trofeo. E la vendetta su un ufficiale che ha rotto l’omertà. Caso Cerciello Rega. Flick: “Un abuso inaccettabile, si mettono a rischio le indagini” di Liana Milella La Repubblica, 29 luglio 2019 “Un’inaccettabile violazione della Costituzione e della legge”. È netta la critica alla foto dell’ex presidente della Consulta ed ex Guardasigilli Giovanni Maria Flick. Nessun dubbio professore? “Ci troviamo di fronte a una palese violazione di una legge penale, l’articolo 608 del codice, che vieta al pubblico ufficiale di sottoporre “a misure di rigore non consentite una persona arrestata o detenuta di cui abbia la custodia o verso la quale sia rivestito di una qualsiasi autorità”. Siamo di fronte a un reato? “Certo. Un reato che è conseguenza diretta e grave “della violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” come dice la Costituzione”. La rabbia dei colleghi del carabiniere ucciso non giustifica la benda? “Non credo che il regolamento dell’Arma consenta o addirittura imponga di usare una misura di questo tipo. Comunque sarà il giudice ad accertare se ve ne fosse la necessità in quel caso specifico, che non può comunque e in alcun modo giustificarsi con la legittima e doverosa indignazione dei colleghi”. È mai possibile che con il caso Cucchi ancora aperto l’Arma ricada in errori così grossolani? “Non mi pare che l’Arma ricada in alcun errore perché ha subito provveduto a fare denunzia all’autorità giudiziaria, che è esattamente il contrario di quanto sembra essere avvenuto nel caso Cucchi”. Il linguaggio abitualmente usato dal ministro Salvini, “bastardi, marciranno in galera, ci staranno a vita”, è un incentivo? “Non chieda a me, ma semmai ai carabinieri che hanno compiuto il gesto. Io lo giudico un linguaggio assolutamente inaccettabile di fronte alla Costituzione, soprattutto da parte di chi abbia giurato di osservarla. Non si tratta di piangere sulla benda al detenuto, ma di chiedere il rispetto della legge. E comunque la Cedu ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo a vita”. Però parole simili dette dal titolare del Viminale fanno scuola, e la destra sta con lui. “Questo dimostra quanta strada bisogna ancora fare per attuare la Carta in questo Paese. Con particolare riferimento agli articoli 13 e 27 della Costituzione sul divieto della violenza verso i detenuti e sulla funzione rieducativa della pena”. Resta il fatto che Salvini e la Lega giustificano la foto perché per loro conta solo la morte del carabiniere. “Sono due realtà assolutamente diverse e non comparabili. È ovvia la gravità di un omicidio come quello, che va punito con tutto il rigore che la legge prevede. Ma ciò non ha nulla a che vedere con il rispetto della legge medesima da parte di chi ha in custodia l’accusato. E un comportamento del genere, se non verrà giudicato necessario da parte del giudice per le condizioni particolari dell’indagine, è una flagrante violazione di un principio di legge fondamentale: l’uso di una misura di rigore “non consentita”, cioè un abuso di autorità che potrebbe anche avere conseguenze”. Di che tipo? “Sulla credibilità della giustizia italiana, sulla valutazione delle prove o confessioni rese nell’immediatezza, secondo uno schema, anch’esso inaccettabile, che mi pare già emerga dai commenti della stampa Usa”. Caso Cerciello Rega. Luca Petrucci: “Le manette in caserma violano il diritto europeo” di Edoardo Izzo La Stampa, 29 luglio 2019 Il legale: andavano tolte nell’interrogatorio. “La domanda è se è legale o meno ammanettare e bendare un arrestato? Ovvio che non è un atto corretto”. Non ha dubbi l’avvocato Luca Petrucci, 61 anni, legale dell’ex presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, che di “pressioni” fatte dai carabinieri è stato testimone in prima persona. “Con Piero fu diverso”, precisa Petrucci, che aggiunge: “Oserei dire che qui siamo davanti a una situazione ancora peggiore, che viola qualsiasi procedura”. Il commento del legale è alla foto pubblicata ieri sui giornali nella quale si vede Christian Gabriel Natale Hjort, l’americano di 19 anni accusato, insieme al coetaneo Finnegan Lee Elder, dell’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri, Mario Cerciello Rega. Nello scatto il 19enne è bendato e ammanettato. Che effetto le ha fatto vedere quella foto? “Sono rimasto molto colpito, direi scosso. L’immagine è molto forte e onestamente mi sembra che ci siano quasi gli estremi per ipotizzare la tortura, non è possibile ovviamente condurre un atto istruttorio in questo modo. Vedo pesanti violazioni anche al diritto Europeo”. Cosa prevede di norma la procedura al momento del fermo di un sospettato di reato? “Quando un soggetto viene sottoposto a fermo viene portato in caserma e lì viene raggiunto dal pubblico ministero, che procede all’interrogatorio. Va considerato che il fermo non è un arresto con ordinanza cautelare, quindi va convalidato”. Come avviene la convalida? “Entro 48 ore da quando la persona è stata fermata deve essere interrogata dal gip che poi deciderà se convalidare o meno il fermo. In caso di convalida non è detto che vi sia l’emissione di una misura cautelare: il giudice potrebbe convalidare il fermo, ma ritenere che non vi siano i presupposti per il carcere, ad esempio, o anche solo per i domiciliari”. Durante l’interrogatorio il presunto colpevole viene trattenuto in manette oppure no? “Assolutamente no. Durante l’atto istruttorio il fermato o arrestato che sia non è in manette. Possono essere usate per il trasferimento, in caso di fermo, dal luogo dove è avvenuto alla caserma dei carabinieri o al commissariato, ma poi l’atto deve avvenire con la persona libera”. Un arrestato può essere interrogato con la benda sugli occhi? “Ma che siamo matti. Si tratterebbe di una violenza contro l’umanità. Non può assolutamente essere utilizzata una benda. Gli unici strumenti che si possono usare, e solo nella traduzione nel luogo dell’interrogatorio, sono quelli necessari ad evitare la fuga: le manette”. A che punto del fermo interviene l’avvocato? “Il legale interviene fin dal primo interrogatorio ma può vedere il cliente anche prima. Ciò che conta è che al primo atto istruttorio sia presente, anche perché non può esservi interrogatorio senza la presenza del legale, pena la nullità dell’atto”. A suo parere quali sono state le violazioni di legge nella procedura? Sono stati commessi reati? “Sarà la magistratura a stabilire se sono stati commessi reati. A mio modo di vedere vi sono almeno due profili penali chiari: violenza privata e maltrattamenti”. Le ipotesi di ricusazione del giudice penale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2019 Processo penale - Soggetti del processo - Ricusazione - Causa di cui all’art. 37, lett. b), c.p.p.- Configurabilità. L’ipotesi di ricusazione di cui all’art. 37, comma 1, lett. b), del Cpp fondata sull’indebita manifestazione del convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione, ricorre quando il giudice esprima valutazioni di merito della res iudicanda, ovvero sulla colpevolezza o innocenza dell’imputato, in ordine ai fatti oggetto del processo, laddove l’avverbio indebitamente va interpretato nel senso di atto arbitrario nel contenuto. Nel caso in cui il giudice esprima valutazioni nell’esame di una questione incidentale la causa di ricusazione sussiste sole se tali valutazioni travalichino i limiti imposti dall’adozione del provvedimento incidentale, con l’espressione indebita di un giudizio non giustificato da un nesso funzionale con l’indicato provvedimento. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 5 luglio 2019 n. 29430. Giudice - Ricusazione - Casi - Inimicizia grave - Dissenso ideologico e culturale nei confronti dell’attività svolta dagli imputati - Rilevanza - Esclusione - Fattispecie. In tema di ricusazione, non integrano inimicizia grave, ai sensi degli artt. 36, comma 1, lett. d) e 37, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., le manifestazioni di dissenso ideologico e culturale, anche radicale, rispetto all’attività svolta dagli imputati, non accompagnate da alcun rapporto di conoscenza con gli stessi che possa tradursi in un’avversione di tipo personale del giudice o dei suoi prossimi congiunti. (Nell’enunciare tale principio, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la dichiarazione di ricusazione fondata sulla circostanza che il coniuge di un magistrato risultava aderente a movimenti e associazioni ambientaliste che avevano denunciato, anche attraverso pubblicazioni sui “social network”, l’inquinamento asseritamente prodotto dall’azienda gestita dagli imputati). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 novembre 2018 n. 50848. Giudice - Incompatibilità - Atti compiuti nel procedimento - Ricusazione - Manifestazione indebita del proprio convincimento - Requisiti - Fattispecie. In tema di ricusazione, il carattere indebito della manifestazione del convincimento del giudice sui fatti oggetto dell’imputazione, richiede che l’esternazione venga espressa senza alcuna necessità funzionale e al di fuori di ogni collegamento con l’esercizio delle funzioni esercitate nella specifica fase procedimentale e va escluso nel caso di esternazione incidentale e occasionale fatta in diverso procedimento, su particolari aspetti della vicenda sottoposta al giudizio. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima l’esclusione della causa di ricusazione eccepita nel caso in cui lo stesso giudice per le indagini preliminari, chiamato a decidere della misura interdittiva nei confronti dell’ente, nell’ambito del medesimo procedimento, aveva espresso considerazioni sul contesto organizzativo e decisionale della società in un precedente provvedimento cautelare nei confronti dell’indagato, persona fisica e socio dell’ente). • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 23 gennaio 2018 n. 3033. Giudice - Ricusazione - Casi - Manifestazione indebita del proprio convincimento - Provvedimento di conferma di una misura cautelare reale adottato come componente del tribunale del riesame - Sussistenza - Esclusione - Ragioni. Non costituisce indebita manifestazione del convincimento del giudice, in grado di fondare una richiesta di ricusazione, il fatto che egli, nel corso del procedimento, come componente del tribunale del riesame, abbia confermato una misura cautelare reale, atteso che l’adozione di quest’ultima prescinde da qualsiasi valutazione sulla sussistenza o meno dei gravi indizi di colpevolezza in capo all’imputato. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 29 dicembre 2017 n. 58024. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Procedimento - Causa di ricusazione del giudice prevista dall’art. 37, comma primo, lett. b) cod. proc. pen. - Applicabilità in caso di valutazioni espresse dal giudice in un altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale - Esclusione - Fattispecie. Non è applicabile al procedimento di prevenzione la causa di ricusazione prevista dall’art. 37, comma primo, lett. b) cod. proc. pen. nel caso in cui il giudice abbia in precedenza espresso una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in un altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale. (Fattispecie relativa alla presentazione di un’istanza di ricusazione di un componente del collegio incaricato dell’impugnazione di una misura di prevenzione che aveva già espresso considerazioni sulla posizione del proposto, in ordine al medesimo fatto, in altro precedente procedimento di prevenzione). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 12 ottobre 2016 n. 43081. Riciclaggio, la prova dell’elemento soggettivo del reato anche da fattori indiretti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2019 Cassazione -Sezione II - Sentenza 24 giugno 2019 n. 27848. Sequestro penale e reato di riciclaggio. Questi i temi affrontati dai giudici della Cassazione penale con la sentenza n. 27848 del 24 giugno 2019. Sequestro probatorio o preventivo - Per la Suprema corte in sede di impugnazione, il giudice, nel compiere il controllo di legalità sul sequestro probatorio o preventivo, non deve limitarsi a “prendere atto” della tesi accusatoria, ma, senza però spingersi sino a una verifica in concreto della sua fondatezza, deve valutare se gli elementi di fatto rappresentati consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro (cfr. Sezioni unite, 20 novembre 1996, Bassi). Configurabilità del riciclaggio - Poi, la tracciabilità delle operazioni compiute di per sé non esclude la configurabilità del riciclaggio, perché per realizzare la condotta di detto reato non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni provento di reato, ma è sufficiente anche che essa sia solo ostacolata. Infine, per la configurabilità del reato di riciclaggio (così come per quello di ricettazione) è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto sul quale poi vengono compiute le operazioni indicate nell’articolo 648-bis del Cp, ma non è tuttavia indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto e la prova dell’elemento soggettivo del reato può trarsi anche da fattori indiretti, qualora la loro coordinazione logica sia tale da consentire l’inequivoca dimostrazione della malafede. Per i truffatori nelle vendite online scatta il reato con sanzioni aggravate di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2019 Il mercato globale, ampliando la piazza degli incontri domanda-offerta, permette di acquistare online servizi e prodotti a costi ridotti ma, inevitabilmente, porta con sé rischi per chi si affida alla rete senza prestare la massima attenzione. L’e-commerce diventa così, per gli utenti meno prudenti, terreno fertile per insidie e trabocchetti. Si moltiplicano, infatti, i processi a carico di quei venditori che, schermandosi dietro a un pc, intascano soldi senza offrire niente in cambio o consegnando merce di qualità inferiore a quella acquistata. E se in alcuni casi si tratta di semplice frode contrattuale, quindi di un inadempimento civile, nella gran parte delle ipotesi si è vittime di vere e proprie truffe punite dall’articolo 640 del Codice penale. Ma quando scatta il reato? A chiarirlo sono i giudici, sempre più orientati verso una stretta punitiva del fenomeno e verso una maggiore tutela del consumatore inesperto. Le pronunce emesse in materia non lasciano spazio a dubbi: è truffa, e non insolvenza fraudolenta, quella commessa da chi, intenzionato fin dall’inizio a non tener fede ai suoi impegni (Corte d’appello di Cagliari, 87/2019) usi raggiri o artifici per trattenere la merce o rendersi irreperibile (Cassazione, 18821/2017) e sfuggire al rimborso del denaro. Basti pensare alle vendite di auto da parte di privati registrati con nome fittizio o da parte di concessionarie fantasma che, incassato un prezzo “civetta”, temporeggiano - rassicurando sulla disponibilità del mezzo e inviando all’acquirente carteggi che attestano l’apparente avvenuto passaggio di proprietà - per poi svanire nel nulla (Tribunale di Genova, 1652/2018). Le sanzioni, però, non sono trascurabili e la condanna sarà più pesante, perché aggravata dalla minorata difesa, se si prova (Cassazione, 40045/2018) che il venditore ha sfruttato la distanza tra il cliente e il bene per sabotare il controllo preventivo di qualità (Tribunale di Pescara, 1574/2018). L’inasprimento di pena, tuttavia, non è automatico ma si ha solo se si dimostra il consapevole abuso della posizione di vantaggio (Cassazione, 17937/2017). Esclusa a priori, invece, la non punibilità per particolare tenuità del fatto (Cassazione, 9318/2019). Le pronunce dei giudici aiutano anche a individuare il momento in cui si consuma la truffa online: se si paga con un accredito su una carta ricaricabile intestata al venditore, il reato si configura con la ricarica perché è allora che il patrimonio del cliente diminuisce e che il venditore trae profitto (Tribunale di Napoli, 115/2019). Se, viceversa, si salda con un bonifico, conta il giorno in cui la somma è riscossa e non quello in cui è effettuato l’odinativo dell’operazione (Cassazione, 9291/2019). La modalità di corresponsione del prezzo influisce, inoltre, sulla competenza territoriale. Se si sceglie l’accredito revocabile (pur temporaneamente), il processo si terrà nel luogo del prelievo. Invece, in caso di accredito immediato con mandato irrevocabile la causa si svolgerà nella città in cui risulta effettuato il versamento (Cassazione, 55147/2018). È poi in crescita esponenziale il sistema escogitato dagli strateghi del commercio web grazie al quale i navigatori, su promessa di percentuali sulle vendite, diventano testimonial spontanei di alcuni prodotti promuovendoli tramite social o interagendo su piattaforme dedicate. Si chiama cash-back, si ispira al sistema di distribuzione piramidale del multilevel marketing e non sempre è illegale. È però suscettibile di scivolare nella truffa se, ad esempio, il moderno imbonitore vi ricorre per rifilare beni inutili o pericolosi. Roma: il carcere e il riscatto del lavoro di Nicola Saldutti Corriere della Sera, 29 luglio 2019 Il lavoro, come i padri costituenti hanno stabilito, non è soltanto una questione economica. Certo, quando le statistiche vedono crescere la figura del “né studente-né lavoratore”, l’attivazione di percorsi più efficaci diventa un’emergenza sociale. E il lavoro, dall’esperienza del terzo settore, è naturalmente anche una forma di riscatto, di riequilibrio in una società sempre più frammentate. E qui le esperienze si stanno moltiplicando, talvolta senza molto clamore. Quello che accade, ad esempio al carcere di Rebibbia, a Roma. Un progetto realizzato da Unindustria e che coinvolge i detenuti. Nella fase uno si è svolto un corso di orientamento al lavoro organizzato da Orienta con i fondi FormTemp, laboratori formativi. Come scrivere un curriculum vitae. Come affrontare un colloquio di lavoro. Come leggere una busta paga. Sono alcuni step del corso che ha portato i partecipanti a conseguire un attestato. Nella fase due, quella in programma da fine settembre alcuni imprenditori verranno invitati a parlare a Rebibbia, raccontare le loro storie imprenditoriali e in questa occasione raccoglieranno i curriculum dei detenuti che hanno frequentato il corso di orientamento al lavoro. Un programma realizzato dalla sezione Consulenza, attività professionali e formazione di Unindustria, guidata da Roberto Santori, con il patrocinio del garante detenuti Lazio, Stefano Anastasia. Certo, non è facile conciliare le esigenze del carcere con quelle del lavoro, ma queste strade, che anche in altre strutture, si stanno sperimentando, raccontano di un’altra possibilità di reinserimento. Un progetto che vede coinvolti la direttrice del carcere, Nadia Cersosimo, e l’associazione degli imprenditori. E allora si scopre anche che per chi assume persone ex detenute la legge prevede alcune agevolazioni fiscali, delle quali gli stessi imprenditori non sempre sono a conoscenza. Perché il punto resta sempre il lavoro. Con tutte le complessità legate alla possibilità di rendere effettivi i principi che la Costituzione stabilisce. Varese: buona cucina nelle ricette dei detenuti di Andrea Camurani Corriere della Sera, 29 luglio 2019 Il magazine “Cucinare al fresco”. Ricette da tutto il mondo preparate dentro a una cella. Dicono che il couscous preparato da Jussef sia quasi uguale a quello che si mangia a Rabat. Alla fine basta chiudere gli occhi, abbandonarsi alle sensazioni, e le sbarre del carcere di Varese si aprono per diventare finestre dalle quali esce un buon profumo di cucina che conquista i compagni di cella. “Qui in carcere l’estate non passa facilmente, vale per tutte le stagioni. Allora che fare? C’è chi gioca a carte o mette su muscoli. A noi piace cucinare”, spiega Salvatore, specialista delle ricette col pesce finite nero su bianco in un magazine battezzato Cucinare al fresco che contiene ingredienti e preparazioni per decine di piatti che provengono dal Bassone di Como, da Bollate e dall’istituto di pena di Varese, dove sei carcerati hanno aderito a questo percorso. I detenuti spadellano, sperimentano e assaggiano. Il risultato è pubblicato sul periodico che, abbinato alle foto, mette l’acquolina in bocca. L’iniziativa è nata da una chiacchierata tra i detenuti e due volontari che si occupano di progetti di sostegno culturale nelle carceri: Arianna Augustoni e Virginio Ambrosini, da 24 anni anima di moltissimi laboratori nelle carceri varesine. Oltre a raccontare la preparazione di ogni piatto, viene spiegato come arrangiarsi per mettere in pratica una ricetta, con quali strumenti e con dei tempi molto dilazionati nell’arco della giornata: un vero e proprio percorso di vita e di speranza. La cucina, la preparazione di un piatto è un linguaggio che ha accomunato quanti sono obbligati a scontare una pena e da cui sono nate amicizie e contaminazioni culturali. Così, tra bavaresi di anguria e giardiniere in agrodolce, ecco il segreto di come cucinare senza il forno quell’alimento che accomuna quasi tutti i palati, la pizza: “Ci vogliono due fornelli a gas da campeggio, una pentola abbastanza larga e della carta stagnola che funge da cappa. Una volta cotta c’è la fila per mangiarla”, spiega Antonino mentre il capo delle guardie fissa il soffitto con un sorriso stampato sul volto, quasi a non guardare, né a sentire quello che avviene nelle celle fra detenuti che diventano chef utilizzando quel che hanno, ingredienti compresi, acquistati di volta in volta a loro spese. Un ricettario completo sui piatti varesini verrà realizzato a ottobre e messo in vendita a 8 euro (il magazine, già stampato, ne costa 2): il ricavato andrà a sostegno di progetti per l’inserimento lavorativo dei detenuti. Livorno: “cocomerata con papà” alla Casa circondariale con la Sant’Egidio di Alessia La Villa* Ristretti Orizzonti, 29 luglio 2019 Proseguono all’interno della Casa circondariale di Livorno le iniziative legate al sostegno della genitorialità e la piena adesione alla campagna “Non un mio crimine ma una mia condanna”. Dopo il pic nic di primavera a base di pane e olio, la festa di Maggio con pony e clown, Venerdì 26 Luglio è stata la volta della “Cocomerata con papà”. Come nelle migliori tradizioni estive, grazie ai volontari della Comunità di Sant’Egidio e alla sinergia con la Direzione e gli operatori penitenziari, bambini, mamme e papà hanno vissuto un pomeriggio davvero entusiasmante. Ombrelloni, tavoli in legno, giochi d’acqua, musica ma soprattutto tanto cocomero fresco: questo lo scenario che i piccoli si sono trovati davanti una volta entrati nell’Area Verde del carcere. Ad accoglierli all’ingresso, come di consueto, l’educatrice e il responsabile area esterna della Polizia Penitenziaria “Per noi è molto importante che i bambini, vengano accolti non appena varcato il cancello, da figure che ormai hanno imparato a conoscere e che a loro volta li conoscono per nome uno per uno” riferisce l’educatrice. La cura della genitorialità è il fiore all’occhiello della Direzione del Dott. Carlo Mazzerbo: “l’attenzione al bambino e l’implementazione delle competenze genitoriali sono sicuramente tra gli elementi centrali del nostro progetto d’istituto” dichiara il Dott. Mazzerbo “ecco perché oltre a singole giornate d’incontro tra bambini e papà, colloqui in ludoteca con Telefono Azzurro, abbiamo recentemente organizzato con la Misericordia di Livorno un corso di “Manovre di disostruzione pediatrica” rivolto a tutti i papà e al personale che opera a contatto con i bambini. È giusto che i papà, anche se detenuti, sviluppino competenze di cura e responsabilità verso i loro bambini e che in questo percorso venga coinvolto anche il personale”. Grazie alla straordinaria animazione dei volontari della Sant’Egidio, nonostante le temperature elevate, il pomeriggio a base di cocomero è volato via. Stringendo un piccolo acquario colorato costruito insieme ai papà, i bambini si sono avviati verso l’uscita con il sorriso sulle labbra ed un ciao che per noi che li aspettiamo ha sempre il sapore di un arrivederci a presto. *Funzionario Giuridico Pedagogico Casa Circondariale Livorno Reparto Media Sicurezza Migranti. Il sovranismo che fa da schermo al cialtronismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 29 luglio 2019 Il decreto “sicurezza bis” incostituzionale o inutile. I rimpatri che non funzionano. Il flop della strategia nei confronti delle navi che salvano vite. O è una legge incostituzionale oppure è una legge inutile. In un intervento alla Camera di qualche giorno fa, il deputato del Pd Stefano Ceccanti ha riassunto nel modo migliore possibile il senso di un decreto importante che proprio in queste ore il Parlamento italiano sta convertendo in legge. Il decreto in questione è quello genericamente denominato dai partiti di governo “sicurezza bis” e l’onorevole Ceccanti, esaminando il contenuto del provvedimento, ha giustamente notato che il cuore della legge, ovvero gli articoli 1 e 2 del provvedimento, configurano una normativa che è o incostituzionale o inutile. “Se il provvedimento è o incostituzionale o inutile - sostiene Ceccanti - allora non favorisce né gli ultimi, né i penultimi, né i terz’ultimi, né i primi, ma è semplicemente sbagliato”. Nell’articolo 1 del decreto sicurezza si stabilisce che il ministro dell’Interno “può limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale” per ragioni di ordine e sicurezza, ovvero quando si presuppone che sia stato violato il testo unico sull’immigrazione e in particolare si sia compiuto il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Nell’articolo 2 si prevede invece una sanzione che va da un minimo di 150 mila euro a un massimo di un milione di euro per il comandante della nave “in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane” e come sanzione aggiuntiva viene previsto anche il sequestro della nave e l’arresto in flagranza per il comandante che compie il “delitto di resistenza o violenza contro nave da guerra, in base all’art. 1100 del codice della navigazione”. Prosegue Ceccanti portando avanti un filo logico che vale la pena non perdere: “Questa cosa non è importante che la dica il gruppo del Partito democratico. L’ha detta un organismo di questa Camera. L’ha detta, all’unanimità, il Comitato per la legislazione e l’ha detta, lavorando a dieci metri dalla sala del Mappamondo, quella in cui ci siamo riuniti, come commissioni. Evidentemente, pur stando a dieci metri di distanza, quello che si dice in una stanza non si capisce nell’altra. E lo ha detto con una relazione, non mia, ma della collega Dadone del Movimento 5 stelle, esposta quel giorno dalla collega Corneli del Movimento 5 Stelle”. E cosa dice la relazione? Dice questo: “Andrebbe approfondita l’effettiva portata normativa dell’articolo 1, che appare suscettibile di determinare contenziosi. L’articolo 1 consente, infatti, con provvedimenti del ministro dell’Interno di limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di determinate tipologie di navi nel mare territoriale, nel rispetto, però, degli obblighi internazionali. Anche se non esplicitamente richiamato nella relazione illustrativa tra tali obblighi rientra evidentemente anche il principio di non respingimento, non-refoulement, come ricavabile dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Conseguentemente, un eventuale provvedimento del ministro dell’Interno che vietasse l’ingresso nel mare territoriale a una nave che avesse rifiutato l’attribuzione, in base alla Convenzione di Amburgo sulla sicurezza del salvataggio marittimo, di un porto sicuro, non italiano, invocando il principio di non respingimento, potrebbe essere comunque ritenuto in sede giurisdizionale in violazione del disposto dell’articolo 1, qualora il giudice ritenesse legittima l’invocazione di tale principio, vanificando così parzialmente la finalità della norma indicata nella relazione illustrativa”. In estrema sintesi: o il testo che sta esaminando il Parlamento è incostituzionale - e in contrasto con la normativa internazionale e in particolare con le convenzioni Unclos, Solas e Sar e con l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, che stabilisce il principio di non respingimento - o è del tutto inutile ed è solo propaganda, propaganda, propaganda. Il principio vale quando si ragiona attorno al singolo decreto sicurezza ma vale anche quando si ragiona più in generale sulla strategia adottata da Salvini per governare l’immigrazione. E la verità è che ci sono diversi indizi che suggeriscono che la strategia del ministro dell’Interno sui migranti è sempre più destinata a essere un successo solo a livello mediatico. Nella pratica, oltre a essere un bluff, è una truffa che si basa tutta sull’assenza di problemi reali da risolvere. Matteo Salvini, come qualcuno ricorderà, aveva promesso seicentomila rimpatri durante la campagna elettorale, ma dopo dieci mesi di governo i risultati sono quelli che forse già conoscete. Di rimpatri ne sono stati fatti poco più di seimila (l’1 per cento) e a dirlo sono gli stessi dati diffusi pochi mesi fa dal Viminale: 7.383 rimpatri nel 2017, 7.981 nel 2018 e 2.143 fino al 23 aprile del 2019. Il che significa, come ha ricordato qualche settimana fa Linkiesta, che siamo passati da una media di 20,2 rimpatri al giorno con il ministro Marco Minniti durante il governo Gentiloni a 19,30 del ministro Salvini e che a questo ritmo il Viminale ne farà 7.046 nel 2019 (di questo passo ci vorranno 85 anni per rimandare a casa tutti gli irregolari), il dato peggiore degli ultimi tre anni, lontano dai diecimila rimpatri l’anno promessi da Salvini durante la campagna elettorale (senza contare che secondo l’Ispi il decreto sicurezza voluto dal governo, rendendo irregolari tutti i richiedenti asilo, farà aumentare di 140 mila il numero di migranti irregolari nel nostro paese). Su questo tema, poi, Matteo Salvini è riuscito nella non semplice impresa di far dire una cosa giusta persino al Movimento 5 stelle, che lo scorso 21 aprile ha scritto sul blog delle stelle che la politica dei rimpatri del suo stesso governo non funziona, che l’Italia deve capire che “l’Unione europea ha un potere negoziale decisamente superiore rispetto a quello dei singoli stati membri” e che “gli accordi di riammissione (è bene che) vengano conclusi a livello europeo”. I rimpatri non funzionano dunque per questioni di incapacità. Mentre per questioni legate alla volontà non funziona neppure la strategia messa in campo dal ministro dell’Interno per giustificare i suoi atti di ritorsione politica nei confronti di buona parte delle imbarcazioni che salvano persone in mare. Venerdì scorso il ministro dell’Interno ha affermato di non voler dare nessun permesso di sbarco a una nave della Guardia costiera italiana con 135 migranti a bordo salvati da un peschereccio (mentre Salvini negava il permesso di sbarco il ministro responsabile della Guardia costiera, Danilo Toninelli, faceva dichiarazioni sull’importanza dei monopattini) “finché dall’Europa non arriverà l’impegno concreto ad accogliere tutti gli immigrati a bordo della nave”. L’elemento significativo presente nella dichiarazione di Salvini non è tanto la rivendicazione dell’ennesimo sequestro illegale di una nave della Guardia costiera italiana (era successo anche con la Diciotti e sappiamo come è finita) ma è il fatto che il ministro dell’Interno abbia sequestrato una nave per chiedere la ridistribuzione dei richiedenti asilo nell’Ue dopo aver fatto di tutto nell’ultimo anno per evitare che l’Ue ridistribuisse i richiedenti asilo. Lo ha fatto, Salvini, imponendo delle alleanze suicide in Europa, che non avevano altro scopo strategico se non quello di rafforzare il profilo di lotta della Lega di governo. Lo ha fatto, Salvini, ribaltando la promessa fatta in campagna elettorale, dimenticando cioè di far sentire la voce dell’Italia alle riunioni dei ministri dell’Interno dell’Europa (la percentuale di presenze si aggira attorno al 10 per cento) e ritrovandosi così nel giro di poco tempo da ministro che doveva battere i pugni sul tavolo a ministro che ha preso molti pugni sul tavolo delle trattative. Lo ha fatto, Salvini, accettando che l’Europa trasformasse la sua missione navale nel Mediterraneo, la Sophia, in una missione navale senza navi, lasciando dunque il Mediterraneo centrale di fatto sguarnito. Lo ha fatto, Salvini, rinunciando a combattere con il suo partito e con il suo governo l’unica battaglia europea che un paese come l’Italia avrebbe il dovere di combattere e continuando cioè a insultare e a osteggiare tutti coloro che in Europa suggeriscono di cambiare il trattato di Dublino. L’illusione del Salvini domatore di leoni è un’illusione che può reggere la scena solo a condizione che in Italia e in Europa non esistano veri problemi relativi all’immigrazione e il ministro dell’Interno italiano può permettersi di giocare con il diritto del mare e fare il bullo con le navi che salvano vite nel Mediterraneo solo perché da anni e non per merito di Salvini le partenze dal nord Africa verso l’Italia si sono drasticamente e gradualmente ridotte. Ma se la guerra civile a bassa intensità della Libia dovesse tornare a essere ad alta intensità (secondo il premier libico Serraj ci sono 800 mila tra libici e migranti pronti a sbarcare in Italia dalla Libia in caso di ulteriore destabilizzazione del paese) e se il trend delle partenze dovesse crescere con un ritmo più sostenuto rispetto a quello registrato negli ultimi mesi (a gennaio 2019, la percentuale di sbarchi in Italia rispetto al 2018 era calata del 96 per cento, a luglio la percentuale è peggiorata di 16 punti) l’Italia rischia di scoprire con la sua pelle cosa può significare avere un ministro sciacallo, non in grado di sfruttare i periodi favorevoli per mettere in sicurezza la sua nazione e incapace di portare avanti politiche finalizzate a migliorare non il benessere del proprio partito ma il benessere del proprio paese. E dato che Salvini tutto è tranne che un fesso, la domanda a cui sarebbe utile rispondere nei prossimi mesi suona più o meno così: ma Salvini i problemi non li sa risolvere, perché non ha idea di dove cominciare, o non li vuole risolvere perché sa che il suo consenso è direttamente proporzionale all’incapacità di avere un sistema capace di risolvere i problemi legati all’immigrazione? La risposta forse la conoscete già: si scrive sovranismo, si legge cialtronismo. Migranti. Salvini non trova più sponde da Mattarella e Conte di Federico Capurso La Stampa, 29 luglio 2019 Questa volta Matteo Salvini se la dovrà cavare da solo. La nave Gregoretti è ormeggiata da ieri al porto militare di Augusta, con i suoi 131 migranti a bordo, ma nel governo, lontano dai lidi leghisti, inizia a prendere forma l’idea di non agire più come fatto in passato, offendo sponde e collaborazione attiva al ministro dell’Interno per risolvere in tempi rapidi la situazione. La nave della guardia costiera rimane bloccata nel porto ma Di Maio preferisce andare in Calabria per un incontro con gli attivisti; Giuseppe Conte, invece, fa visita alla camera ardente per il carabiniere ucciso a Roma. Nessuno dei due, almeno per ora, sembra volersi occupare del dossier. “L’Europa risponda”, è l’ultima invocazione politica di cui si tiene traccia nella giornata di ieri, lanciata dal ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Ma se i partner europei devono “rispondere”, offrendosi di prendere in carico una quota dei 131 migranti, qualcuno dall’Italia dovrà contattarli per chiederglielo. Eppure, il premier - che in passato si era reso più volte protagonista delle intese con i partner dell’Ue - questa volta assiste da spettatore. “Per ora non si muove nulla”, fanno sapere da palazzo Chigi. Il telefono del presidente del Consiglio, ieri, non si è mai alzato. E la stessa risposta viene riportata dal ministero dell’Interno, dove si è costretti a confermare lo stallo. È “una strategia rischiosa”, ammettono uomini di governo sponda Cinque stelle, perché rischia di far esplodere un nuovo caso-migranti tra le mani di Salvini e, di conseguenza, di attrarre nuovi consensi verso la Lega. Ma se la situazione dovesse protrarsi a lungo questa la strategia allora potrebbero iniziare ad arrivare anche le grane per il titolare del Viminale. Innanzitutto, perché verrebbe resa indisponibile per più giorni una nave della Guardia costiera, e poi perché a bordo ci sarebbero delle donne e sedici minori non accompagnati. Tutti elementi capaci di rendere poco agevole una prolungata prova di forza da parte del Viminale. Si lascerà comunque a Salvini piena libertà di iniziativa, nei limiti dei suoi poteri di ministro, ma l’appoggio dell’intero governo, di cui avrebbe goduto mesi fa, potrebbe venire a mancare. Gli inusuali silenzi di Di Maio e di Conte sulla vicenda sono un primo campanello d’allarme. E senza soluzioni alternative a quella di tenere ferma la nave in porto, l’unico epilogo possibile potrebbe diventare quello di far sbarcare i migranti. Insomma, una sconfitta per Salvini sul suo campo di battaglia. Tra le file del Carroccio inizia a prendere piede il sospetto che intorno al caso della nave Gregoretti, i grillini stiano costruendo la loro vendetta per la Tav. Salvini aspetterà ancora l’inizio della settimana per capire in che direzione si sta muovendo palazzo Chigi ed evitare di rivivere situazioni spiacevoli. Come quando lo scorso luglio a essere ferma nel porto di Trapani era la Diciotti, anch’essa della Guardia costiera, e dovette intervenire il Presidente Sergio Mattarella, con una telefonata a Conte, per sbloccare l’impasse e far sbarcare i migranti, nonostante la contrarietà di Salvini. Una situazione che in casa Lega si preferirebbe non rivivere, visti anche i rapporti ormai logori coni partner di governo e i pericolosi risvolti giudiziari che ne potrebbero scaturire. Se Salvini tornasse di fronte alla commissione per le Autorizzazioni a procedere del Senato, infatti, dovrebbe fare i conti con un cambio di atteggiamento da parte degli alleati e affidarsi a un gruppo, quello dei senatori dei Cinque stelle, non più compatto come qualche mese fa. Droghe leggere legalizzate: per lo Stato un risparmio tra 6 e 8 miliardi di Emanuele Isonio valori.it, 29 luglio 2019 Meno spese per ordine pubblico e carceri, maggiore gettito fiscale e prodotto più sicuro: uno studio dall’università di Messina spiega perché l’antiproibizionismo è un buon affare. Per avere un ordine di grandezza: il reddito di cittadinanza tanto sbandierato dal governo Conte ha richiesto poco più di 4 miliardi di euro di spese. Ebbene, un’eventuale legalizzazione delle droghe leggere produrrebbe un beneficio netto per lo Stato anche maggiore: tra 6 e 8 miliardi di euro. I legislatori non possono certo dire di non conoscere questi numeri, perché sono stati presentati, ormai tre anni fa, proprio alla Camera da Ferdinando Ofria, professore associato di Politica economica dell’università di Messina. Mai come nella precedente legislatura infatti l’Italia era arrivata vicina a permettere una legalizzazione della cannabis. 218 fra deputati e senatori, riuniti in uno specifico intergruppo parlamentare, avevano firmato una proposta di legge. Rimasta, nonostante tutto, lettera morta. Le voci considerate - Il calcolo di Ofria, spiegato nell’audizione alle Commissioni Giustizia e Affari Sociali, non è difficile da comprendere. Altro non è che un’analisi costi-benefici (e di questi tempi, dopo la querelle-Tav del ministro Toninelli, il termine dovrebbe essere ormai di ampio dominio). Da un lato, tra i costi connessi a un’eventuale liberalizzazione, sono state considerate due voci: le maggiori spese sanitarie di cura e disintossicazione, i costi legati alla regolamentazione del nuovo mercato legale (struttura dell’agenzia per la gestione di produzione e vendita, controllo sul rispetto della legislazione, campagne di informazione per i consumatori). Dall’altro lato, vengono conteggiati i risparmi: una riduzione delle spese di repressione, un maggiore gettito fiscale, una migliore qualità del prodotto venduto, un contrasto alla criminalità organizzata. Sul fronte delle maggiori spese da prevedere, si è fatto riferimento all’esperienza del Colorado. “Lo Stato americano, nel 2014, ha introdotto una regolamentazione simile a quella proposta dall’intergruppo parlamentare” spiega Ofria. “I risultati empirici verificati in quel caso hanno smentito che ci siano aumenti nei consumi di droghe leggere in seguito alla legalizzazione, né ha mostrato aumenti significativi nei costi sanitari”. L’indagine statistica era stata condotta dal Dipartimento per la Salute Pubblica e l’Ambiente dello stato del Colorado: ad essere coinvolti, 17mila ragazzi delle scuole medie e superiori. Lo studio aveva registrato un numero di studenti che avevano fatto uso di cannabis nel 2015 minore rispetto alle precedenti indagini del 2009 e del 2011 effettuate nello stesso Stato. Negli ultimi 30 giorni prima dell’intervista, solo il 21,2% ha consumato marijuana nel Colorado, stessa percentuale riscontrata negli altri stati Usa (21,7%) dove il mercato della cannabis non è legale. Anche per quanto riguarda i costi per regolare il nuovo settore, non sono stati registrati aumenti rilevanti: “quantitativamente - spiegava Ofria ai parlamentari - possono essere assimilati a quelli sostenuti per il controllo pubblico del consumo di tabacco e sigarette”. Ben diverso il discorso per le spese evitate. A partire da quelle relative alla repressione: “si tratta principalmente - prosegue Ofria - di minori costi che forze dell’ordine, magistratura e sistema carcerario si troverebbero ad affrontare se venisse cancellato il reato di produzione e vendita delle droghe leggere, le quali, stando alle stime della Direzione Investigativa Antimafia, rappresentano oltre il 50% del mercato degli stupefacenti”. Nelle nostre carceri, il costo dei detenuti per reati di droga si attesta su 1,083 miliardi di euro l’anno, pari al 37% del costo totale dei detenuti. Il risparmio legato ai detenuti per droghe leggere quindi si aggirerebbe su 540 milioni di euro. Ad essi si devono aggiungere poi quasi 230 milioni di euro, relativi alle spese evitate per contrastare i reati di traffico e possesso di droghe leggere (che già oggi rappresentano una quota minima delle spese totali di ordine pubblico, circa lo 0,6%). Totale: 770 milioni di risparmi. La fonte di gran lunga più significativa di benefici per lo Stato deriva però da un’altra voce: quella del gettito fiscale derivante dalla liberalizzazione. Oggi, l’acquisto di cannabis da pusher e criminalità è ovviamente esentasse (senza considerare la dubbia qualità del prodotto commercializzato). Se gli acquisti fossero fatti alla luce del sole, verrebbero ovviamente tassati, al pari di quanto avviene ad esempio per le sigarette. E infatti l’aliquota ipotizzata nel calcolo dell’università di Messina è analoga a quella per i tabacchi, circa il 75% del prezzo di vendita. Le maggiori entrate sotto forma di imposte, a seconda del prezzo ipotizzato di vendita, oscillerebbe tra i 5,3 e il 7,9 miliardi di euro l’anno. Tutto considerato quindi, la stima dei benefici varia dai 6 gli 8,7 miliardi. “Il calcolo - spiega Ofria - può variare per eccesso se si considera la possibilità di coltivare in proprio la cannabis, o per difetto se ti tiene in considerazione il possibile indotto di questo nuovo mercato (produzioni agricole, dolciarie, tessili, medicali) e l’ipotesi che lo Stato si renda garante della genuinità del prodotto, con significativi effetti sulla salute e costi sanitari”. Il legame tra liberalizzazione e aumento della qualità del prodotto non è affatto da sottovalutare: “con il mercato delle droghe leggere in mano alle organizzazioni criminali nessun consumatore sa esattamente cosa sta assumendo”. Lo aveva confermato nel 2016, uno studio dell’università di Berna: erano stati analizzati 191 campioni di marijuana sequestrati sul territorio svizzero. Il 91% di essi risultava contaminato. Mischiate con la cannabis venduta dai pusher erano state riscontrate ammoniaca, lacca per capelli, lana di vetro, piombo, ferro, alluminio, cromo, cobalto e altri metalli pesanti altamente nocivi. Tutte queste sostanze vengono aggiunte per aumentare il peso dell’erba ed avere più profitti, ma che possono causare al consumatore anche danni più gravi rispetto al thc. Peraltro, in favore della liberalizzazione, pesa anche un po’ di sano pragmatismo: il consumo è ormai un fenomeno di massa, soprattutto in Italia. Secondo l’Osservatorio europeo delle droghe, il 19% dei ragazzi italiani tra i 15 ed i 34 anni, ha fatto uso di cannabis nel corso degli ultimi dodici mesi: in Europa una percentuale maggiore ce l’ha solo la Francia. “Come tutti i fenomeni di massa è più efficace regolarlo che proibirlo: impedire l’accesso al mercato legale non riduce la domanda: sposta solo i consumatori su quello illegale” commenta Ofria. Russia. L’oppositore Aleksey Navalny dal carcere all’ospedale per una “grave allergia” di Giuseppe Agliastro La Stampa, 29 luglio 2019 Aleksey Navalny ieri mattina è stato trasportato urgentemente dal carcere all’ospedale. Mentre si trovava in cella, il più popolare degli avversari politici di Putin è stato colpito da un misterioso malessere che la sua portavoce, Kira Yarmish, ha definito un “grave attacco allergico”. È stata proprio Kira Yarmish a dare la notizia e a far sapere che il dissidente era giunto in ospedale con il viso gonfio ed eruzioni cutanee rosse sulla pelle. Le parole di Yarmish hanno destato enorme preoccupazione tra i sostenitori di Navalny, anche perché pare che l’oppositore non avesse mai avuto reazioni allergiche di questo tipo in precedenza. La portavoce ha poi precisato che al blogger anti-Putin era stata fornita “la necessaria assistenza medica” pur rimanendo controllato a vista dagli agenti di polizia. E in serata ha finalmente tranquillizzato tutti: le condizioni di salute di Navalny - ha fatto sapere - sono “soddisfacenti”. A non essere ancora chiaro però è cosa abbia fatto stare male Navalny. Leonid Volkov, fedele braccio destro del dissidente, ha detto di aver sofferto anche lui di una simile e “strana allergia” lo scorso giugno, dopo aver trascorso 28 giorni nella stessa cella in cui adesso è rinchiuso Navalny: la numero 1 del primo centro di reclusione di Mosca. Secondo lui il malessere potrebbe essere stato provocato dalle cattive condizioni igieniche del carcere. “È improbabile - ha scritto Volkov su Twitter - che ci sia spazio per la cospirazione. C’è invece spazio per un controllo di questo penitenziario, per vedere che razza di impurità appiccicose si trovano nell’impianto di aerazione o da qualche altra parte”. Salgono a 1.400 gli arresti Navalny è il principale avversario di Putin. È stato lui a organizzare le più massicce proteste antigovernative in Russia di questi ultimi anni. Manifestazioni che sono state regolarmente represse dal Cremlino con ondate di arresti e per le quali l’oppositore entra ed esce dal carcere. L’ultima di queste proteste risale appena a sabato scorso. Migliaia di persone sono scese in piazza chiedendo che anche gli oppositori possano correre alle elezioni comunali di Mosca a settembre. La polizia ha reagito fermando quasi 1400 dimostranti. È proprio per aver spronato i suoi sostenitori a manifestare lo scorso sabato che Navalny adesso si trova dietro le sbarre. Mercoledì mattina la polizia lo ha arrestato non appena ha messo piede fuori di casa per comprare un mazzo di fiori per il compleanno della moglie. La sera stessa è arrivata puntuale la condanna: 30 giorni di reclusione, cioè la pena massima possibile. Bulgaria. Jock Palfreeman rimane in carcere di Gianni Sartori noblogs.org, 29 luglio 2019 Dopo aver già trascorso oltre undici anni nelle carceri bulgare, Jock Palfreeman si è visto rifiutare nuovamente la libertà condizionale. Arrestato a Sofia nel 2007, il trentaduenne antifascista australiano era stato condannato nel 2009 a venti anni per aver ucciso un estremista di destra (definito un “hooligan” ossia un teppista del calcio, ma imparentato con un noto pezzo grosso della politica) che con altri neonazisti stava aggredendo e picchiando due rom. L’australiano era intervenuto in difesa delle vittime del brutale pestaggio consentendo loro di mettersi in salvo, ma venendo a sua volta aggredito dal gruppo di fascisti. Nello scontro uno di loro rimaneva ucciso da una coltellata inferta, per legittima difesa, da Jock. Lo svolgimento del processo risale al 2008-2009, l’appello al 2010-2011. Nonostante in questa circostanza venisse confermata la versione di Jock (ossia di essere intervenuto per fermare il pestaggio dei rom) la condanna è rimasta invariata. Pare che le autorità bulgare abbiano messo in campo ogni genere di sotterfugi per impedire un processo equo (per esempio impedendo alla difesa di visionare le immagini delle telecamere di sicurezza), ottenere una pena esorbitante e rifiutarne (in contrapposizione anche ai propri stessi trattati) l’estradizione in Australia. E nonostante tutti gli appelli contro la condanna non gli viene ancora consentito di poter rientrare nel suo paese per scontarvi gli anni di pena residui. In aprile Jock era entrato in sciopero della fame (per 33 giorni) per protestare sia contro i maltrattamenti inflitti ai detenuti, sia contro la corruzione e gli abusi di potere delle dalle autorità carcerarie (in particolare del capo del personale della prigione di Sofia, Desilav Angelov Traykov). Altro scioperi della fame, e azioni di protesta organizzati dalla Bpra (Bulgarian Prisoners Rehabilitation Association, Associazione dei prigionieri bulgari), si erano svolti nel 2018 (uno sciopero era iniziato ancora nel dicembre 2017) per ottenere le dimissioni del direttore del carcere centrale di Sofia, Peter Krestev. Costui si era reso responsabile di un inasprimento delle condizioni detentive: riduzione e soppressione delle attività, dei congedi penitenziari, dell’ora d’aria e della possibilità di acquistare alimenti e altro. Non solo. Durante il suo mandato erano aumentati gli episodi qualificabili come tortura e alcuni gruppi di narcotrafficanti - protetti se non addirittura manovrati dalla direzione - agivano indisturbati con ogni genere di abusi nei confronti degli altri detenuti. Le azioni di protesta erano proseguite nonostante la repressione (i detenuti in agitazione rischiavano il raddoppio puro e semplice della pena) ottenendo che il primo ministro Borissov richiedesse le dimissioni sia del direttore Krestev, sia di Svilen Tsvenatov (responsabile dell’esecuzione delle pene). Significativamente Jock ha sempre chiesto che eventuali donazioni in suo favore vengano inviate alla Bpra di cui è stato tra i fondatori nel 2014. Camerun. Oppositori torturati mentre il loro leader resta in carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 luglio 2019 Oggi Maurice Kamto, leader del Movimento per la rinascita del Camerun, la principale forza di opposizione del paese, entra insieme a 107 suoi sostenitori nel sesto mese di carcere. Dovranno rispondere, di fronte a un tribunale militare (già di per sé un atto illegale), di ribellione, ostilità contro la madrepatria, incitamento all’insurrezione, distruzione di proprietà ed edifici pubblici e insulto al presidente della Repubblica. Per Amnesty International si tratta di prigionieri di coscienza che dovrebbero essere prosciolti da ogni accusa. Oltre a chiedere il rilascio dei 108 detenuti, l’organizzazione per i diritti umani ha reso pubbliche le testimonianze di 59 oppositori arrestati il 1° giugno durante una protesta pacifica nella capitale Yaoundé e successivamente rilasciati. Non prima di essere stati umiliati e torturati negli uffici del ministero della Difesa. I soldati se la sono presa soprattutto con sei donne: “Quando siamo arrivate, i gendarmi ci hanno obbligate a fare esercizi fisici: braccia larghe, piegate sulle ginocchia. Mentre ero in quella posizione mi hanno preso a calci sulla testa e sul seno. Poi ci hanno detto di stenderci a terra e rotolare, e continuavano a prenderci a calci. Ci hanno portato su e giù per le scale mentre assumevano la posizione dell’anatra.. Poi, le flessioni. Quando non ce l’ho fatta più, mi hanno presa a cinghiate”. Questa è un’altra testimonianza: “I gendarmi ci stavano aspettando, ognuno di loro era munito di un bastone di legno, un cavo di gomma e un manganello. Hanno iniziato a picchiarci, in particolare sulle orecchie. Poi ci hanno costretti a muoverci come le anatre nel fango. Dopo il rilascio ho trascorso una settimana in ospedale, avevo delle fratture e ferite su tutto il corpo”. La storia del Camerun degli ultimi anni è piena di orrori (si legga qui e qui). Ora si è aggiunto questo nuovo capitolo.