Carcere, tornare alla Costituzione di Nicola Galati einaudiblog.it, 28 luglio 2019 24.07.2019. Roma. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha visitato la Casa Circondariale Rebibbia “Raffaele Cinotti” ed ha cenato presso il ristorante realizzato all’interno dell’Istituto Penitenziario. 25.07.2019. Roma. L’Associazione Antigone ha presentato il proprio rapporto di metà anno sulle carceri italiane. Due notizie importanti, seppure passate in sordina, che devono essere lette in correlazione. Dal rapporto di Antigone emerge la condizione drammatica in cui versano le persone ristrette. Il dato più preoccupante riguarda il perdurante stato di sovraffollamento che rende ulteriormente ed ingiustamente gravosa la condizione dei ristretti: “Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea”. La percentuale di persone presenti in carcere in attesa di condanna definitiva, e quindi presunte innocenti, si è attestata, in leggero calo rispetto allo scorso anno, al 31,5%, a fronte di una media europea del 21%. Il sovraffollamento rende le condizioni della detenzione prossime al limite del senso di umanità. Il problema non è certo nuovo, si ripropone puntualmente ogni anno ma nessun intervento sistematico è stato adottato. Anzi, la riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto del lavoro degli Stati generali, è stata svuotata e depotenziata. La condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti a causa del sovraffollamento non è bastata a scuotere il legislatore. L’unica risposta fornita dalla politica, che tende a negare e minimizzare il problema, è la proposta di costruire nuovi istituti. Come ben argomenta il rapporto di Antigone, non è questa la soluzione al problema: i tempi sarebbero troppo lunghi, non rispondendo all’emergenza in corso, ed i costi sarebbero eccessivi. Sarebbe molto più utile, invece, come suggerisce il rapporto, incentivare le misure alternative alla detenzione, che hanno anche il merito di abbassare la probabilità di recidiva, e ricondurre la custodia cautelare in carcere a strumento eccezionale cui ricorrere come extrema ratio. Peccato che il clima politico vada in senso contrario. Proprio la parte della riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe facilitato l’accesso alle misure alternative è stata affossata. Il legislatore ha addirittura esteso i casi di applicazione del regime ostativo alla concessione delle misure alternative. Il dato ancora più preoccupante è la montante campagna di opinione, fomentata da politici e mass media, contro la concessione delle misure alternative, in nome della fantomatica “certezza della pena”, e delle misure cautelari diverse dalla custodia in carcere. Si è diffusa la falsa convinzione della detenzione carceraria come unica pena in nome di slogan raccapriccianti quali “marcire in galera” e “gettare la chiave”. In un tale momento storico appare ancora più significativo il gesto del Presidente Mattarella che segue la meritoria iniziativa dei Giudici della Corte Costituzionale che hanno visitato numerosi istituti della Penisola. Il valore simbolico del gesto delle istituzioni di garanzia della Costituzione è stato quello di portare la Carta fondamentale tra le mura delle carceri e di porre l’attenzione sulle condizioni dei detenuti. È giunta l’ora di rispettare ed applicare in pieno il dettame originario dei Padri costituenti, molti dei quali avevano subito sulla propria pelle la condizione delle carceri fasciste, secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona è il fondamento di uno Stato liberale. Le condizioni dei reclusi in Italia non sono degne di un paese liberale. Carceri. Due suicidi in due giorni. Antigone: “discutere la nostra proposta di legge” di Andrea Oleandri* articolo21.org, 28 luglio 2019 Con due suicidi negli ultimi due giorni sono diventati 28 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Un numero che segna un vero e proprio dramma del sistema penitenziario del nostro paese. Gli ultimi due detenuti ad uccidersi sono stati un polacco di 32 anni nel carcere di La Spezia e un romeno di 37 anni nel carcere di Reggio Calabria. Proprio in questo istituto l’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione aveva trovato una situazione complicata, in particolare riferimento al sostegno psicologico che, dei penitenziari visitati nel 2018, era risultato tra quelli più carenti. Erano state rilevate infatti solo 2,1 ore di presenza degli psicologi per 100 detenuti a fronte di una media nazionale di 13,5. Anche il personale di polizia penitenziaria era risultato molto carente. Mentre la media nazionale da noi rilevata era di 1,8 detenuti per ogni agente nel carcere di Reggio Calabria Arghillà erano 3,8. “Prevenire i suicidi non è mai semplice” sottolinea il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. “Non si può pensare di sottoporre a stringente sorveglianza tutti gli oltre 60.000 detenuti al momento presenti nelle galere italiane. Bisogna dunque intervenire sul miglioramento della qualità della vita e su tutti quegli aspetti che possono far desistere da pensieri suicidari. Per questo - ricorda Gonnella - abbiamo predisposto una proposta di legge con tre obiettivi precisi. Il primo è quello di aumentare il numero delle telefonate a disposizione dei reclusi. 10 minuti a settimana forse erano sufficienti nel 1975, quando fu scritta la riforma dell’ordinamento penitenziario, ma non possono esserlo di certo oggi. Telefonare ad un proprio famigliare in un momento di sconforto può essere un aiuto importante per prevenire istinti suicidi. Il secondo punto è quello di garantire dei rapporti intimi tra il detenuto e il suo partner. Il terzo, infine, quello di ridurre al minimo l’istituto dell’isolamento. Spesso è proprio in queste sezioni che avvengono i suicidi. La proposta è a disposizione dei parlamentari e ci auguriamo - conclude Gonnella - che qualcuno voglia farla propria, promuovendo così una discussione seria in Parlamento su questi temi”. * Ufficio Stampa Associazione Antigone Bonafede: “useremo i droni nelle carceri, effettuato esperimento a Viterbo” tusciaweb.eu, 28 luglio 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel corso di una comunicazione in commissione al Senato - L’esperimento eseguito lo scorso 11 giugno. “Useremo i droni nelle carceri, un sopralluogo è stato effettuato a Mammagialla”. Così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel corso di una comunicazione in commissione al Senato. “Un esperimento con l’uso di questa tecnologia - ha ricordato il ministro - è stato fatto lo scorso 11 giugno nel carcere di Mammagialla con una società specializzata nel settore. Sono tutti strumenti con cui cerchiamo di migliorare la qualità lavorativa della polizia penitenziaria”. Bonafede nel suo intervento ha rimarcato che “il problema della sicurezza negli istituti penitenziari rimane sempre un tema di primaria importanza” e ha poi fornito qualche dato in merito. Nel 2015 sono state 424 le aggressioni al personale di istituto penitenziaria, nel 2016 sono state 541, nel 2017 circa 587, nel 2018 sono state 681 e nel 2019 (dato in aggiornamento) 272. Il ministro ha poi parlato di sovraffollamento: “Sono 60.320 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 46.782 posti regolamentari disponibili”. Bonafede ha riferito di un “tasso di affollamento al 128,94%”, con i dati aggiornati al 16 luglio scorso. Per gli Icam, l’istituto a custodia attenuata per detenute madri, Bonafede ha sottolineato che “non c’è un problema di sovraffollamento ma di distribuzione sul territorio. Infatti spesso le detenute non ci vanno perché sono lontani”. Il ministro ha concluso ricordando che sono stati messi in bilancio 30 milioni per 3 nuovi Icam, uno dei quali sarà a Bagnoli. Salvini parla di lavori forzati per i detenuti, ma la legge dice altro di Alessandro D’Amato nextquotidiano.it, 28 luglio 2019 “Stiamo mutuando da alcuni Paesi europei anche la forma del lavoro obbligatorio in carcere perché è troppo comodo uccidere e poi starsene sdraiati sul lettino”: Matteo Salvini a Unomattina ha precisato meglio rispetto a Twitter cosa intendeva quando parlava di lavori forzati per i detenuti. L’idea non è nuovissima e ovviamente non è esente da un alto grado di fanfaronate, visto che secondo il ministro dell’Interno si fanno talmente tanti soldi con il lavoro dei detenuti da aumentarci gli stipendi della polizia penitenziaria (si tratta di una sciocchezza, secondo il modello proposto dallo stesso ministro). Salvini questa cosa l’aveva già proposta durante la campagna elettorale per le elezioni 2018. E ne aveva parlato nel luogo più serio che conosceva all’epoca, ovvero su Twitter. E sparandola evidentemente grossa: “Lavoro obbligatorio in carcere, per tutti i condannati con pena definitiva, come in Austria. E con quei soldi, aumentare gli stipendi degli agenti di Polizia Penitenziaria. Espulsione per tutti i delinquenti stranieri. Lo proporrò per il programma comune di governo”. In realtà in Austria non funziona come crede il ministro. Ogni detenuto ha l’obbligo, durante il periodo di permanenza in carcere, di contribuire alle spese derivanti dal proprio mantenimento. Il contributo è pari al 75% dell’indennità che il detenuto percepisce per l’attività lavorativa svolta e ne sono esenti i detenuti che per fatto a essi non imputabile, non sono in grado di lavorare. I Gefangenen sono obbligati a svolgere l’attività lavorativa a essi assegnata, ma non possono essere adibiti a lavori gravemente pregiudizievoli per la loro salute (§ 44, comma 2, StVG); devono in ogni caso esercitare attività di lavoro che sia utile. Il detenuto in Austria paga le spese del suo mantenimento con una trattenuta sullo stipendio che percepisce e che è pari a tre quarti dei soldi che guadagna lavorando. Non va a spaccare le pietre nel deserto e viene pagato per il suo lavoro. Davvero il ministro vuole introdurre un principio del genere obbligatorio per tutti e pagarlo, come in Austria? E c’è anche altro: tutti i lavori necessari, all’interno delle JVA, devono essere eseguiti da detenuti; se i detenuti non possono essere impiegati in questi lavori, sono tenuti a prestare attività lavorativa in favore di pubbliche amministrazioni o a svolgere lavori socialmente utili, a produrre oggetti destinati alla vendita; vendita, alla quale provvede la JVA. Se non vi è pericolo di fuga, i detenuti sono ammessi a lavorare all’esterno degli stabilimenti carcerari, prestando attività lavorativa in favore d’imprese convenzionate con la JVA. Davvero Salvini vuole impiegare i detenuti obbligatoriamente in lavori socialmente utili o nella pubblica amministrazione? Con tutti i potenziali effetti che questo potrebbe avere sul mercato del lavoro, ad esempio? Attendiamo che il ministro porti una proposta concreta, visto che ne parla dal gennaio 2018. C’è però da dire che attualmente ciò che propone il ministro contrasta con l’ordinamento penitenziario. L’art. 20, sostituito dal d.lgs. 124/2018 che riforma l’ordinamento penitenziario, definisce le principali caratteristiche del lavoro negli istituti penitenziari. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo (Carattere che ricalca i contenuti dell’art. 71 delle regole minime Onu ed è confermato dell’articolo 26,1 delle regole penitenziarie europee - adottate con la raccomandazione R 2006 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che considerano il lavoro elemento positivo del trattamento) ed è remunerato. L’art. 22 sostituito dal d.lgs. 124/2018 sulla determinazione della remunerazione, stabilisce che la remunerazione per ciascuna categoria di detenuti e internati che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. I “lavori forzati in carcere” e la campagna elettorale permanente di Charlotte Matteini tpi.it, 28 luglio 2019 Commentando l’omicidio del carabiniere Mario Rega Cerciello, ucciso a Roma da due malviventi nella notte tra giovedì 25 e venerdì 26 luglio nel quartiere Prati di Roma, il ministro dell’Interno Matteo Salvini non ha perso occasione per fare una delle sue solite sparate demagogiche, populiste e totalmente prive di fondamento giuridico. “Caccia all’uomo a Roma, per fermare il bastardo che stanotte ha ucciso un Carabiniere a coltellate. Sono sicuro che lo prenderanno, e che pagherà fino in fondo la sua violenza: lavori forzati in carcere finché campa”, ha dichiarato con la solita nonchalance che tradisce l’assoluta e conclamata inadeguatezza istituzionale del capo del Viminale. Incapace di affrontare qualsiasi argomento in maniera civile e approfondita, anche questa volta Matteo Salvini ha nuovamente lanciato sconclusionati e inconcludenti messaggi politici. No, non è quel “bastardo” utilizzato in un tweet ufficiale a scandalizzare, a questo linguaggio colorito e poco istituzionale siamo ormai abituati da tempo, malauguratamente. È più il concetto qualunquista, la soluzione destituita di fondamento data in pasto all’opinione pubblica al solo scopo di proseguire la solita propaganda elettorale permanente ad essere assolutamente fuori luogo. “Lavori forzati in carcere finché campa”, la classica frasetta da “uomo della strada” che un vicepremier e ministro dell’Interno di un Paese civile e democratico non dovrebbe mai pronunciare. Non dovrebbe mai pronunciarla perché dovrebbe saper bene che in Italia, il Paese che governa, da tempo immemore non esistono più i “lavori forzati in carcere” a vita. Dovrebbe anche sapere, da uomo che rappresenta le istituzioni, che non è il ministro dell’Interno a decidere quale pena infliggere a un reo, ma sono casomai i giudici dopo un processo. Come al solito Matteo Salvini non si preoccupa minimamente della pericolosità sociale dei messaggi sbagliati che diffonde; d’altronde è proprio questo qualunquismo senza connessione con la realtà il vero asso nella manica della sua strategia elettorale. A Matteo Salvini non interessa spiegare ai cittadini la reale portata di determinati eventi di cronaca, più o meno cruenti. Qualsiasi caso funzionale alla propria campagna elettorale permanente viene sacrificato sull’altare della propaganda e spremuto fino all’osso per trarre il massimo consenso. A Matteo Salvini non interessa governare il Paese secondo le leggi, per il ministro dell’Interno che tanto invoca il “principio di legalità” a ogni piè sospinto la legge può essere mediaticamente manipolata e piegata al proprio volere e alla propria sete di popolarità. I lavori forzati non esistono nel nostro ordinamento - se non a determinate condizioni (e non sono comunque lavori forzati come il ministro lascia intendere) e al solo fine di reinserire rei particolarmente pericolosi e recidivi nella società, dunque non certo a vita - ma a Matteo Salvini questo non importa, a lui interessa diffondere a più non posso messaggi funzionali alla propria propaganda elettorale. Esattamente come per il caso Diciotti o per la nave Gregoretti della Guardia Costiera a cui sta impedendo l’attracco a Lampedusa, Matteo Salvini arriva a inventarsi leggi e a raccontare leggi inventate ai suoi seguaci solo per accrescere la propria popolarità elettorale, ma di governare e infilarsi i panni da uomo delle istituzioni non se ne parla nemmeno. Forte del suo granitico consenso elettorale, Matteo Salvini si sente onnipotente e al di sopra delle leggi, e non perde occasione per dimostrarlo e ricordarlo agli avversari politici. Inadeguato e inconcludente, non essendo in grado di governare efficacemente il Paese preferisce lanciarsi nella narrazione di un distopico Paese che non esiste, costruendo continui allarmi sociali e paure e proponendo soluzioni inesistenti da dare in pasto all’opinione pubblica. Potrà anche essere una strategia comunicativa efficiente, ma ha ben poco a che fare con la ragion di Stato. Il 29 luglio a Firenze, per ricordare il pensiero di Alessandro Margara di Franco Corleone L’Espresso, 28 luglio 2019 Ritrovarsi nel terzo anniversario della scomparsa di un grande giudice di sorveglianza, di un efficace garante dei diritti delle persone private della libertà, di un capo riformatore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non è un fatto rituale, ma un’occasione di impegno civile in tempi duri e cupi. Nella sede del Consiglio Regionale della Toscana, sarà presentato (nella Sala Gigli alle ore 11) il volume “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione” che raccoglie la discussione nata sull’uso populistico della giustizia penale e del carcere, quali armi contro i nemici sociali avvenuta in un convegno sullo stesso tema svoltosi l’8 e 9 febbraio scorso. Come riferimento per la lettura viene presentato un testo di Margara di estrema attualità su come rispondere alle leggi ingiuste e razziste. “Meno stato e più galera”, così si esprimeva profeticamente Margara e questa affermazione consente di mettere al centro del dibattito due questioni: l’intreccio tra penale e politica, il significato che la giustizia e il carcere hanno assunto nel senso comune. La violenza del linguaggio di molti politici che ripudiano i principi della Costituzione, obbligano a tornare ai valori fondamentali del diritto di Cesare Beccaria. Le reazioni all’omicidio di un carabiniere a Roma ad opera di due giovani americani sono davvero impressionanti per falsità, strumentalità, demagogia e cattiva retorica. Davvero un insulto alla concezione del diritto penale di Aldo Moro. L’egemonia culturale di Michele Serra La Repubblica, 28 luglio 2019 “Devono marcire in galera” è uno dei mantra del vasto fronte post-democratico che presidia i social e governa il Paese. Ne fa parte non solamente l’anonimo frustrato che gode solo se insapona il canapo; anche fior di uomini e donne di potere, parlamentari, leader di partito, addirittura un vicepremier che infiora di “bastardi” e “zecche” il suo gergo curvaiolo. In carcere, dunque, non si sconta una pena; neppure - figuriamoci - ci si può riabilitare. No: si marcisce. Come carcasse al sole, o in fondo a un pozzo putrido. In questo mucchio avariato, la sub-umanità della quale gli attuali capi promettono di mondare il nostro laborioso e onesto Popolo, può anche capitare di finirci a prescindere da tutto. Soprattutto dalla realtà. Per esempio se Daniele Capezzone (per lunghi armi galleggiante sulla superficie della politica e oggi approdato al sovranismo) accusa i giornali di tenere nascosta la notizia che gli assassini del carabiniere sono “nordafricani”, salvo correggersi (ops!) dopo poche ore; oppure se Giorgia Meloni scrive che l’Italia “non deve essere il punto di approdo di questi animali”, dando per scontato che tutti gli assassini arrivino su un barcone anche se sono scesi da una scaletta d’aereo, bianchi e americani; o se da fonti interne all’Arma vengono diffuse foto segnaletiche di “nordafricani” che poi si scopre non c’entrano un bel nulla; beh, vuol dire che i tempi sono già maturi per organizzare qualche bel repulisti su basi razziali o anche politiche. Si chiama egemonia culturale. Da non pochi anni è esercitata da quanti (giornali, politici, conduttori televisivi, intellettuali) pensano che il mondo sia pieno di bastardi e di zecche che devono marcire in galera. Ma niente paura: l’ex radicale Capezzone saprà spiegare ai suoi capi che perfino un carcerato ha dei diritti. Contro il luogo comune dell’uomo nero di Luigi Manconi La Repubblica, 28 luglio 2019 Quante volte davanti alle espressioni d’odio urlate nei microfoni e pubblicate nei canali social, si è sentito dire: si tratta solo di parole, non attribuiamo loro troppo peso e non diamo corpo ai fantasmi. D’accordo, ma poi capita che nell’apprendere della morte a Roma di un giovane carabiniere, dopo il dolore per un delitto tanto atroce, le notizie successive suscitino un sentimento tutt’affatto diverso: una sorta di innaturale sollievo perché, a ucciderlo, non sarebbero stati due “nordafricani”, come si è ipotizzato per tutta una mattinata, bensì un giovane statunitense di ottima famiglia. Analogamente, in passato mi era accaduto di augurarmi che l’autore di questo o di quell’efferato delitto fosse “un italiano” (magari di Legnano o di Castelfranco Veneto) e di dover poi riconoscere che la verità era un’altra. Viene da dire: come ci siamo ridotti, e come siamo stati ridotti da anni di costruzione scientifica, metodica, e ossessiva della figura del capro espiatorio sul corpo vivo dell’immigrato straniero. Che la campagna degli imprenditori politici della paura abbia ottenuto un suo cupo successo è confermato da tante prove: tra le quali, anche la reazione mia e di, credo, molti come me, alla notizia dell’assassinio del carabiniere. Questo non dimostra, certo, che l’Italia sia un “Paese razzista” (ma che scemenza), bensì che la xenofobia, che è cosa assai diversa dal razzismo e che significa ciò che dice alla lettera, ovvero paura del diverso e dello sconosciuto, si diffonde e riguarda tutti noi. Anche coloro che si dichiarano fieramente anti - razzisti. Ed è proprio la xenofobia, che non è destinata necessariamente a tradursi in aggressività razzista, a dettare o comunque condizionare i nostri comportamenti e, ancor prima, i nostri pensieri in presenza di un evento traumatico (come, appunto, il delitto di due giorni fa). Accade tutto in pochi istanti: negli attimi in cui apprendiamo la notizia già abbiamo formulato un pregiudizio, che influenzerà opinioni e atti successivi. Li influenzerà sia nel momento in cui accoglie uno stereotipo e lo fa proprio (straniero=criminale) sia quando tenta, goffamente, di sottrarsi a esso: magari con la maldestra e un po’ ottusa ingenuità di sperare che un buon incremento dei reati nostrani possa riequilibrare il conto, oggi largamente favorevole ai reati forestieri. Ecco, quel sollievo e la rassicurazione che abbiamo voluto cogliere nel succedersi contradditorio delle notizie, costituiscono alcune delle impacciate strategie adottate per difendersi dal prevalere dei luoghi comuni. E dimostrano, per converso, quanto questi siano penetrati in ciascuno di noi, nella nostra mente e nel nostro cuore. Il fatto criminale rischia di passare in secondo piano - come già è successo in numerosi casi precedenti - sopraffatto dal conflitto ideologico intorno all’identità del suo autore. A tal punto è diventata abnorme l’attività di propaganda e di manipolazione che, proprio a partire dall’enfasi sulla nazionalità del criminale, la questione etnica sostituisce quella penale. Per reagire a questa autentica mascalzonaggine che si fa politica di governo, non è certo sufficiente ribaltare lo schema oggi prevalente, anche se la tentazione è forte come segnala quel nostro sospiro di auto consolazione. Anni fa, Giuliano Ferrara che, notoriamente, non è un ardente militante del politically correct (anche se recentemente sembra ripensarci, e va a suo merito) aveva sostenuto l’opportunità di non segnalare nei titoli dei giornali l’origine regionale degli autori di reato. Personalmente la cosa non mi ha mai turbato ma conosco la frustrazione di tanti sardi bennati e di siciliani probi e di calabresi integerrimi nel vedere la propria identità territoriale sfigurata dall’accostamento alle imprese criminali dell’Anonima Sequestri (o delle cosche o delle ‘ndrine), oggi tale preoccupazione non è più così attuale, superata dalla brutale evidenza delle foto segnaletiche di criminali stranieri con la pelle diversa dalla nostra: di conseguenza, non è sufficiente affidarsi alla deontologia professionale e ai codici di auto regolamentazione. Questi ultimi ci sono, sono strumenti preziosi e indicano criteri saggi da rispettare, così come va apprezzata l’attività di un organismo quale Carta di Roma, che si batte per l’onestà dell’informazione e contro la cialtronaggine del diabolico impasto tra ignoranza e intolleranza. Ma la questione va oltre e riguarda l’opinione pubblica e ciascuno di noi. Non esistono scorciatoie. I dati che ci consegnano le scienze sociali ed economiche sono inequivocabili: le fasi iniziali dei flussi migratori, in assenza di adeguate politiche di regolarizzazione e inclusione, producono ovunque un incremento dei crimini (è successo tra gli italiani a Dusseldorf e a Brooklyn): ed è altrettanto vero che l’immigrazione albanese e quella romena in Italia, dopo i primi anni di assestamento, ha visto ridursi i relativi tassi di criminalità. Dunque, non è negando la realtà ma approfondendo l’analisi (compresa quella sul tragico fallimento delle politiche proibizioniste in materia di sostanze stupefacenti), che è possibile acquisire consapevolezza e intelligenza politica. Fino a quando si trascurerà il fatto che un crimine è un crimine, che un criminale è un criminale, qualunque sia la sua nazionalità e la sua origine sociale e che una vittima è sempre una vittima da piangere; fino a quando, cioè, un delitto sarà considerato per la sua matrice etnica e non per le cause che lo originano - il mercato criminale dove prospera, il clima di insicurezza nel quale matura, l’impotenza delle misure di prevenzione e di controllo - la politica del ministro dell’interno - aldilà dei suoi tonitruanti proclami - è destinata a fallire ed è già fallita. E questo in un Paese dove, ricordiamolo, il numero degli omicidi volontari nel corso dell’ultimo quarto di secolo si è ridotto di oltre l’80%. E parallelamente è cresciuta l’intolleranza etnica. Attenzione, qualcuno sta imbrogliando le carte. Sicurezza, le accuse di Di Maio. E Salvini evoca la pena di morte di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 28 luglio 2019 Il M5S chiama in causa il Viminale. Il leghista: ai buonisti ricordo le condanne Usa. Un lungo intervento su Facebook del vicepremier Luigi Di Maio sulla “sicurezza precaria nelle città” apre la polemica politica il giorno dopo la morte del carabiniere ucciso a Roma. “Si poteva evitare tutto questo? Io dico di sì”. Così Di Maio entra nel merito di un argomento, la sicurezza, di stretta competenza del Viminale di Matteo Salvini: “Chi conosce città come Roma - scrive il vicepremier allargando la riflessione alle altre grandi città italiane - sa bene che ci sono condizioni precarie di sicurezza interna, che questi giri di droga, spaccio, violenza sono all’ordine del giorno. Lo Stato deve farsi un grande esame di coscienza”. Immediata la reazione della Lega, coi sottosegretari Nicola Molteni e Jacopo Morrone che chiedono un’accelerazione del progetto di legge “Droga zero” che inasprirebbe le pene per i “piccoli spacciatori”, impianto però non condiviso dai grillini. Mentre Salvini, che già il giorno dell’omicidio non aveva polemizzato della sindaca Virginia Raggi (“a Roma servono più agenti”), anche questa volta evita di rispondere direttamente all’alleato di governo: “Sperando che l’assassino non esca più di galera - ha scritto il leader della Lega - sempre ricordo ai buonisti che negli Stati Uniti chi uccide rischia la pena di morte. Non dico di arrivare a tanto, ma al carcere a vita (lavorando ovviamente) questo sì”. Anche il Pd alza i toni. Il segretario Nicola Zingaretti invita Salvini “a garantire la sicurezza anziché lucrare sulla cronaca nera”. Matteo Renzi pubblica la petizione dei suoi comitati civici per chiedere le dimissioni della deputata di FdI Maria Teresa Baldini “che mi ha accusato di essere responsabile politico e morale dell’omicidio”. Mentre la vicesegretaria Paola De Micheli torna sulla caccia allo straniero dopo l’omicidio denunciando “una centrale di odio aizzata da Salvini e Meloni”. La coordinatrice nazionale di FI, Mara Carfagna, ragiona di risorse: “Invece di finanziare il reddito di cittadinanza, che non dà lavoro a chi è disoccupato, usiamo il denaro per assumere nuovi poliziotti e carabinieri e per pagare in modo adeguato quelli già in servizio”. Giustizia, recuperare credibilità di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 28 luglio 2019 La magistratura deve riacquistare la propria funzione di regolatore delle relazioni umane svolgendo il ruolo che le è proprio di garante dell’ordine sociale. Più che di nuove riforme, è necessaria una profonda rivisitazione delle disposizioni esistenti. Al momento della sua istituzione, nell’ormai lontano 24 marzo del 1958, il legislatore non poteva supporre che a distanza di oltre sessanta anni il Consiglio Superiore della Magistratura, vale a dire la massima espressione dell’autonomia dei giudici rispetto agli altri ordini dello Stato, potesse essere travolto da una serie di eventi che pur riguardando soltanto alcuni, anche se non pochi, suoi componenti giungesse a minarne l’autorevolezza e la credibilità. Si tratta di una problematica straordinariamente rilevante, poiché la magistratura è per antonomasia l’istituzione che esprime il grado di libertà e di sicurezza dei singoli individui e della società nel suo complesso. Ciò implica che la sua disfunzione inevitabilmente determina uno scompenso della giustizia. Non a caso, infatti, le ragioni dei primi dibattiti in Italia sulla crisi della giustizia, iniziati a partire dalla prima metà degli anni cinquanta del secolo scorso, vanno individuate nel tutt’altro che infondato timore di una contrazione dell’indipendenza dei magistrati attraverso il controllo governativo della amministrazione della giustizia. D’altra parte proprio i due capisaldi della magistratura (l’indipendenza e l’autogoverno) erano stati concretamente minacciati dall’ideologia del regime fascista con l’inquadramento dei giudici in gradi burocratici; la soppressione della libertà associativa; l’istituzione dei tribunali speciali fino a giungere, con l’ordinamento del 1941, ad annullare ogni garanzia formale degli stessi con la proclamazione della supremazia della volontà del ministro competente. Ad oggi non è in discussione, quantomeno formalmente, il principio di autonomia dell’ordinamento giudiziario né tantomeno la funzione di tutela dei diritti, anche verso i pubblici poteri, svolta dalla magistratura. Semmai la minaccia all’indipendenza della stessa è rappresentata dall’influenza esercitata sugli assetti istituzionali interni e dai conflitti personali che, non di rado, sono alimentati dalla attrazione che i mezzi di comunicazione esercitano verso alcuni giudici che talvolta anche sfidando l’obbligo di riservo al quale sono tenuti, non rinunciano ad inserirsi nei dibattiti sociali e culturali che per loro natura comunque appaiono condizionati da un orientamento politico. Il punto nodale, tuttavia, è la netta impressione che l’attuale ordinamento della giustizia non corrisponda alle esigenze del Paese. La tematica, della cui complessità non è dato di dubitare, prende le mosse da una stortura di fondo del sistema che, in difetto di una definizione di giustizia, si ostina a conferire alla stessa unicamente una funzione giurisdizionale benché i casi di ingiustizia non codificati, quelli relativi ad esempio alla violazione di regole comportamentali di correttezza e onestà, siano parimenti rilevanti quantomeno dal punto di vista assiologico. È pur vero che diversamente dal passato ora la magistratura, nel suo complesso, è pronta a mettere in discussione dal proprio interno l’originaria organizzazione monolitica e la separatezza, mostrando apertura ai problemi posti dal mutamento sociale. Un passo avanti di non poco conto, verosimilmente favorito anche dalla mobilità che ne ha consentito il rinnovamento della classe sociale e conseguentemente la segmentazione ideologica, ma incora insufficiente. La magistratura deve recuperare la propria funzione di regolatore delle relazioni umane svolgendo il ruolo che le è proprio di garante dell’ordine sociale. Ma soprattutto deve riacquistare piena credibilità, contrastando in prima linea anche soltanto la possibilità che possa essere costituito un partito dei giudici che, in uno stato moderno e di diritto, non si può neanche immaginare. Più che di nuove riforme, quindi, è necessaria una profonda rivisitazione delle disposizioni esistenti, perseguendo, nel caso della giustizia penale, troppo spesso ritenuta politicizzata, solo eventuali reati, poiché i tentativi di colpire il sistema, oltre a non aver prodotto grandi risultati, quando hanno riguardato la politica governativa, hanno lasciato forti dubbi che il vero obiettivo fosse quello di sostituirla per promuovere l’instaurazione di un apparato tecnocratico. Non di meno la giustizia civile dovrà conformarsi ai criteri europei sia per dei tempi di definizione delle controversie che per quanto concerne i profili di salvaguardia della certezza del diritto, frequentemente messa in discussione da decisioni estemporanee volte ad avvalorare la tesi che l’esito di una causa sia un terno a lotto. Soltanto in tal modo possiamo scongiurare il rischio di isolamento internazionale ed evitare che unicamente imprenditori stranieri con il diletto dell’azzardo decidano di investire in Italia. Decreto sicurezza bis. Torna il carcere per chi offende le forze dell’ordine di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 28 luglio 2019 Il provvedimento atteso in Senato comprende i reati di violenza, minaccia o resistenza nei confronti dei pubblici ufficiali. Il carcere per chi offende le forze dell’ordine. La novità è contenuta nel decreto sicurezza bis dove è stato inserito un emendamento che impedirà ai giudici di ritenere “di particolare tenuità” i reati di oltraggio a pubblico ufficiale. La norma è stata inserita su iniziativa del deputato della Lega Gianni Tonelli, ispettore di polizia ed ex sindacalista del Siulp. Il testo dell’intero decreto sicurezza bis, approvato giovedì alla Camera, è atteso ora al Senato. Il voto finale entro luglio. Il provvedimento comprende non solo il reato di oltraggio a pubblico ufficiale ma anche quelli di violenza, minaccia o resistenza nei loro confronti. Riguarderà tutti i casi di offese ed aggressioni in danno del personale delle forze dell’ordine, sia durante le manifestazioni pubbliche o sportive, dove si registrano i maggiori episodi, sia nell’ambito dei normali controlli di polizia su strada o in occasione di interventi. Il decreto, nella versione iniziale, si limitava ad intervenire solo sui reati commessi in occasione di manifestazioni sportive, mentre ora contempla tutte le fattispecie, senza limitazioni. “Da ora chi sputa su una divisa ne dovrà rispondere”, ha ricordato Tonelli, sottolineando come la norma intenda tutelare l’operato delle forze dell’ordine, mettendole al riparo da offese e aggressioni, punendo i colpevoli più severamente di quanto non sia accaduto fino ad oggi. La norma non inasprisce le pene e non “allarga” le ipotesi punibili, più semplicemente elimina un aspetto procedurale. Per gli autori di questi reati la punibilità era esclusa se il loro comportamento veniva giudicato non grave ed occasionale o, meglio “di particolare tenuità”. Ciò impediva l’esercizio dell’azione penale e quindi la possibilità di instaurare il processo in modo da arrivare, eventualmente, ad una sentenza di condanna. In sostanza, i casi di oltraggio denunciati dalle forze dell’ordine non arrivavano a processo perché venivano archiviati dal gip su richiesta del pm. Le statistiche dicono che le denunce per questi reati, dopo il calo degli anni precedenti, siano in aumento. C’è da capire se le modifiche proposte funzioneranno da deterrente o meno. La corruzione per oltre 8 italiani su 10 non è calata dai tempi di Mani Pulite di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 28 luglio 2019 Per il 50% è uguale, per il 34% è aumentata. Il 44% considera indulgenti i magistrati. La scomparsa del procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli ha riportato alla memoria collettiva l’inchiesta Mani Pulite e, più in generale, la stagione di Tangentopoli che ebbe un elevato impatto mediatico suscitando un vero e proprio choc nel Paese, unitamente a un’ondata di riprovazione e di sdegno. A distanza di tempo, due italiani su tre (67%) ritengono che Mani Pulite rappresentò un’azione positiva per l’Italia, l’8% è di parere opposto e il 25% non si esprime: a sospendere il giudizio sono soprattutto i più giovani (18-30 anni), che non vissero quella stagione. Le aspettative di debellare la corruzione nella politica alimentate in quella stagione sono state largamente disattese, infatti il 50% dell’opinione pubblica è convinto che la corruzione nel settore pubblico e nella politica oggi sia diffusa come allora e uno su tre (34%) è del parere che sia ancor più diffusa rispetto agli anni 90. Inoltre, secondo il 48% è un fenomeno che riguarda prevalentemente la politica nazionale e i grandi appalti mentre il 31% è del parere che la corruzione sia diffusa capillarmente, annidandosi soprattutto in ambito locale. Allora come oggi si dibatte delle responsabilità: sono i politici che impongono le tangenti per arricchirsi o gli imprenditori che corrompono i politici per ottenere appalti e fare affari? Due italiani su tre (68%) attribuiscono le responsabilità a entrambi, il 19% è del parere che nella maggior parte dei casi siano soprattutto i politici a imporre le condotte illecite, mentre solo il 2% ritiene che siano gli imprenditori. La corruzione è tra i motivi principali del discredito verso la politica, non a caso la fiducia nei partiti, che si attesta al 15%, da tempo è all’ultimo posto nella graduatoria della fiducia nelle istituzioni. Infine, rispetto all’azione della magistratura contro la corruzione prevale l’idea che sia spesso troppo indulgente nei confronti della politica (44%), mentre il 5% è di parere opposto e ritiene che sia eccessiva e persecutoria; nel complesso solo il 14% ritiene che sia quasi sempre corretta e il 20% pensa che sia talora corretta e talora eccessivamente persecutoria. Se all’epoca di Tangentopoli, sull’onda dell’indignazione, la magistratura era sostenuta da un elevato consenso popolare e i magistrati del pool di Milano guidati da Borrelli erano considerati alla stregua di veri e propri eroi, oggi le cose sono cambiate: come abbiamo visto nel sondaggio pubblicato a fine giugno dopo la vicenda Palamara-Csm, solo il 35% dichiara di avere fiducia nella magistratura. Insomma, quella della corruzione è una storia infinita: la maggior parte degli italiani è convinta che non sia cambiato nulla dai tempi di Mani Pulite e oggi sia diffusa come allora, se non di più; e agli occhi dei cittadini sul banco degli imputati finiscono non solo politici e imprenditori, ma anche la magistratura, considerata troppo indulgente o, al contrario, politicizzata. Oggi come allora prevale uno spirito giustizialista ma, mentre all’epoca di Tangentopoli il giustizialismo fu sostenuto dall’aspettativa di archiviare la Prima Repubblica e favorire il cambiamento della classe politica e dei partiti, dalla Seconda Repubblica in poi il giustizialismo è diventato asimmetrico e intermittente sia tra i politici sia nell’opinione pubblica, facendo prevalere lo spirito del tifoso. Infatti, quando le accuse di corruzione riguardano direttamente gli esponenti del proprio partito sono considerate una sorta di complotto, un’invasione di campo, un atto politico architettato da un soggetto che, viceversa, dovrebbe essere super-partes. Oppure sono guardate con indulgenza, nella convinzione che, comunque, la corruzione riguarda tutti i partiti, non solo il proprio. Le parole che hanno accompagnato le dimissioni di Raffaele Cantone dalla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione rappresentano un elemento di ulteriore criticità laddove, sottolineando i risultati positivi ottenuti, sostiene che “l’Autorità rappresenta un patrimonio del Paese, diventato un modello di riferimento anche all’estero, ma si è concluso un ciclo e si è manifestato un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo”. Sono parole che fanno riflettere. Le nuove baby gang: coltelli a 10 anni. Furti, spaccio e anche omicidi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 luglio 2019 Da Manduria a Vimercate, aumenta il fenomeno delle bande di ragazzini. Un dato comune: “Proliferano con l’abbandono scolastico”. “Quando siamo andati a prenderli nessuno si è messo a piangere o si è disperato. Noi a dire “prepara la borsa, ti portiamo in carcere” e loro a rispondere “ok, va bene”. Imitavano scene viste nei film, ma quella era la realtà, la loro vita...”. Il capitato Antonio Stanizzi comanda la compagnia dei carabinieri di Vimercate (Monza) e i suoi uomini, nei giorni scorsi, hanno arrestato quattro minorenni fra i 14 e i 16 anni. Sono proprio loro quelli che “ok, va bene”, sottotitolo: il carcere non mi fa paura. Facce da bambini e desiderio di sopraffazione. Sono accusati di dodici rapine aggravate e di un furto ai danni di coetanei, scelti tutti per fragilità, isolati, presi a calci e pugni e rapinati di pochi euro, del cellulare. “Il più giovane dei quattro”, dice il capitano, “aveva 13 anni quando abbiamo avviato le indagini ed era già il più attivo del gruppo”. In aumento - Baby gang, così le chiamano. E, a giudicare dal numero dei casi che la cronaca racconta, sembrano moltiplicarsi. L’ultimo dato disponibile è del 2017: quell’anno il 6,5% dei ragazzi fra gli 11 e i 19 anni si sono dichiarati parte di una baby gang nel questionario dell’Osservatorio nazionale per l’adolescenza diretto dalla psicoterapeuta Maura Manca. Ma chi lavora ogni giorno con gli adolescenti fa dei distinguo. Una baby gang è un gruppo di ragazzini che si coalizza in nome della microcriminalità, con atteggiamenti organizzati, intenzionali, ripetuti. Adolescenti che vivono di piccolo spaccio, furtarelli, rapine, che rispondono a un capo. Ciascuno con una identità criminale singola e - assieme - con un territorio di “caccia” che difendono da gang rivali. Bande giovanili - Altro è invece quel tipo di aggregazione fra giovanissimi che tutti chiamiamo comunque baby gang e che però non ha niente a che vedere con la struttura organizzata di una gang. “È questo il fenomeno più preoccupante e crescente”, riflette la dottoressa Maura Manca. “Noi non le chiamiamo gang ma bande giovanili: ragazzi che si riconoscono in un modo di essere di passare il tempo, che quando si muovono all’unisono creano un “io” di gruppo capace di comportamenti devianti che ciascuno da solo non avrebbe mai. Se fra loro una parte decide l’azione, gli altri lo seguono. Il caso di Manduria è un esempio perfetto di banda giovanile”. Il caso Manduria - A Manduria, pochi mesi fa, la vittima fu Antonio Stano, un pover’uomo di 66 anni dalla mente malata, bullizzato, deriso, offeso, umiliato da ragazzini che si divertivano tormentandolo. Vista dalla vittima ovviamente poco importa che ad agire sia stata una gang o una banda di giovani. L’esito è lo stesso. “Cambia però la valutazione a livello clinico e cambiano le scelte sul tipo di intervento da adottare”, dice sempre Maura Manca. Come si è modificato il fenomeno negli anni? “In due modi”, risponde. “Aumenta sempre più l’uso di armi come coltelli o manganelli: i nostri dati ci dicono che nel 2018 l’8% dei ragazzi fra 11 e 19 anni ha usato un’arma. E poi si è abbassata l’età di chi ha comportamenti devianti: oggi sono crescenti casi di bambini di 9-10 anni”. Comportamenti asociali - Ciro Cascone, a capo della procura per i minori di Milano che ogni anno valuta la sorte di circa 5 mila ragazzi, punta sull’”intervenire subito con misure cautelari. Ci sono comportamenti antisociali che vanno bloccati sul nascere perché è più facile che così capiscano il disvalore di quello che hanno fatto”. Anche lui, che con i minorenni ha a che fare da molti anni, ha notato “un preoccupante abbassamento dell’età” fra chi commette reati. E sarebbe pronto a scommettere che c’è anche un legame fra il tasso di scolarizzazione e la propensione a delinquere. I dati oggi non ci sono “ma io ricordo”, racconta, “una ricerca di tanti anni fa che diceva esattamente questo: più scuola meno reati, e viceversa”. La scuola - I ragazzini arrestati dal capitano Stanizzi a Vimercate, per esempio: il quattordicenne non ha nemmeno finito la scuola dell’obbligo. E certo non hanno una buona carriera scolastica gli adolescenti fra i 13 e i 18 anni che in questi mesi hanno imperversato nell’area Venezia-Mestre-Marghera. In un caso hanno massacrato di botte un ragazzo fino a fargli rischiare la paralisi. E poi la spedizione punitiva dei 30 giovani e giovanissimi che l’altro giorno se la sono presa con i bagnini di Jesolo colpevoli di averli fatti spostare dall’arenile. Altri episodi a Napoli, Pordenone, Cremona... Il procuratore Cascone la riassume così: “Il vuoto”, e parla di vuoto educativo. A volte chiede al ragazzo di turno: “Ti rendi conto di quello che hai fatto?”. Lui biascica qualcosa, parole vuote, appunto. Quasi sempre se ne rende conto, sì. Ma non ne capisce il disvalore. Si uccise in carcere da innocente: “Ancora nessun colpevole” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 28 luglio 2019 Aldo Scardella fu accusato di aver rapinato un supermercato e ucciso l’esercente. Ma era innocente. I familiari aiutati dall’Associazione italiana vittime di malagiustizia. “Sono abituato alle ingiustizie, mi sento sconfitto come uomo e come cittadino”. Con queste parole Cristiano Scardella commenta il suicidio del fratello Aldo, suicida in carcere 33 anni fa e vittima di malagiutsizia. La vicenda è quella di Aldo Scardella, 24enne studente universitario a Cagliari. È il 23 dicembre 1985. Due criminali derubano il supermercato di proprietà di Giovanni Battista Pinna. Camuffati con dei passamontagna, irrompono nel negozio ed esplodono colpi d’arma da fuoco. L’esercente muore nella sparatoria e i due malviventi scappano dal luogo del delitto attraverso una via che porta al complesso residenziale dove vive Scardella, che verrà ingiustamente incarcerato. Lo studente fu arrestato su ordine del pm Sergio De Nicola, nonostante l’esito negativo di una perquisizione in casa sua. Il giovane Scardella fu trovato morto per impiccagione nella sua cella il 2 luglio, dopo 185 giorni di durissima prigionia con lunghi giorni di isolamento. “Dopo 33 anni dalla morte di mio fratello, nessuno ha pagato, non sono emerse le responsabilità degli inquirenti, non si è dato risposta concreta alla sua morte”. Cristiano trova analogie col caso Cucchi: “La vicenda di mio fratello è simile, soprattutto per quanto riguarda il mistero che aleggia sopra la sua morte, non si capisce se si è ucciso o se è stato ucciso”. L’associazione Aivm (Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia) offre sostegno gratuito alle persone che si ritengono vittime di malagiustizia ed errori giudiziari. In occasione dell’anniversario della morte di Scardella, ha intervistato il fratello Cristiano Scardella. “Coloro che si occuparono della vicenda di Aldo sapevano che era innocente, perché sapevano in quale mondo era maturato il delitto del commerciante - ha detto Cristiano - Volevano lui come colpevole per non disturbare qualcuno che in quel momento faceva comodo”. Secondo Cristiano, quella vicenda “ha sensibilizzato l’opinione pubblica ed anche le coscienze nell’ambiente sardo: l’isolamento adesso può durare al massimo 15 giorni”. Anche il giornalista Enzo Tortora, vittima anche lui di malagiustizia, si occupò del caso e fece la sua prima uscita pubblica dopo la sua definitiva assoluzione il 23 settembre 1986, andando a rendere omaggio alla tomba di Scardella, morto due mesi e mezzo prima. In quell’occasione, Tortora disse: “Capisco profondamente che cosa l’ha spinto a uccidersi. È stata la disperazione, il dolore per un’accusa ingiusta”. Prima del suicidio, Scardella scrisse un biglietto con su scritto: “Vi chiedo perdono, se mi trovo in questa situazione lo devo solo a me stesso, ho deciso di farla finita. Perdonatemi per i guai che ho causato. Muoio innocente”. Il caso fu chiuso soltanto nel 2002, con la condanna di Walter Camba e Adriano Peddio, facenti parte della “banda di Is Mirrionis” e già noti alle forze dell’ordine per precedenti penali. Morte di Riccardo Magherini, ammesso il ricorso a Strasburgo di Luca Salici Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2019 Violazione del diritto alla vita e del giusto processo. Su questi due punti dovrà esprimersi la Corte Europea dei diritti dell’Uomo che ha ammesso il ricorso della famiglia di Riccardo Magherini contro la sentenza di Cassazione che ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la sua morte dopo essere stati condannati nei precedenti gradi di giudizio. “Il fatto non costituisce reato”, avevano detto nel novembre 2018 i giudici della quarta sezione penale della Corte di Cassazione. Una sentenza clamorosa che aveva scatenato tantissime reazioni e che ha portato a presentare un ricorso lo scorso giugno proprio alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Riccardo Magherini, ex calciatore, è morto a Firenze la notte del 3 marzo 2014, durante un fermo dei carabinieri. È morto chiedendo aiuto in preda a una crisi di panico. Urlava “sto morendo” mentre i carabinieri continuavano a tenerlo immobilizzato in tutti i modi, anche con un ginocchio sopra al collo mentre veniva ammanettato a terra. Per ricorrere alla Corte di Strasburgo era nata una raccolta fondi su GoFundMe per sostenere economicamente la famiglia Magherini, promossa da Giulia Innocenzi, giornalista de Le Iene. “L’accoglimento del ricorso della famiglia di Riccardo Magherini contro l’assoluzione dei tre carabinieri da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo è un risultato di tutti noi - scrive la Innocenzi - in tantissimi avete donato perché ciò fosse possibile”. “Grazie alle persone che ci hanno supportato. Siamo una bella squadra - ha dichiarato Andrea, fratello di Riccardo su GoFundMe - Dobbiamo dimostrare allo Stato Italiano che la tutela dei diritti umani non tollera mediazioni o compromessi”. Adesso i giudici di Strasburgo nei prossimi mesi dovranno esprimersi sulla legittimità del processo e potrebbero condannare l’Italia per non aver rispettato il diritto alla vita. Il ricorso alla Corte di Strasburgo è stato depositato sia per le modalità con cui è stato arrestato Riccardo che su alcuni aspetti delle indagini e del processo. Lazio: tutor aiutano i detenuti che si iscrivono all’università di Teresa Valiani redattoresociale.it, 28 luglio 2019 Il progetto, promosso dall’ufficio del Garante e dalla Regione, aiuterà chi vuole frequentare corsi universitari a districarsi nel percorso amministrativo tra iscrizioni, piani di studio, prenotazione degli esami e reperimento dei testi. Quattro tutor, al lavoro da alcuni giorni, aiuteranno gli studenti detenuti del Lazio, che vogliono frequentare corsi universitari, a districarsi tra iscrizioni, piani di studio, prenotazione degli esami reperimento dei testi e tutto quello che riguarda il percorso amministrativo. Il “Piano strategico per l’empowerment della popolazione detenuta” è finalizzato a contrastare la situazione di disagio che colpisce gli adulti, i minori e i giovani adulti dai 14 ai 25 anni sottoposti a provvedimento penale, è proposto dall’assessorato formazione, ricerca, scuola e università e turismo in collaborazione con il Garante dei detenuti e presenta una programmazione pluriennale di azioni che intervengono nel percorso di recupero e reinserimento sociale e lavorativo. L’attività di tutoraggio è realizzata anche grazie al supporto di Porta Futuro Lazio, progetto della regione Lazio, “pubblico e gratuito, promosso in collaborazione con gli atenei regionali - si legge nel progetto - che offre ai cittadini l’opportunità di crescere professionalmente attraverso servizi di orientamento e di formazione, per posizionarsi al meglio sul mercato del lavoro”. “La formazione universitaria - spiega Stefano Anastasìa, garante di Lazio e Umbria - rappresenta per i detenuti una importante opportunità nel percorso di riabilitazione e reinserimento sociale. Nel Lazio abbiamo 14 istituti penitenziari, con una presenza, al 30 giugno 2019, di 6.484 persone e nell’anno accademico 2018/2019 sono risultati iscritti agli atenei della regione 146 detenuti. La condizione detentiva presenta forti limitazioni nella praticabilità di un percorso di studi universitari, in particolare nell’acquisizione di materiali didattici e nell’espletamento delle pratiche universitarie, soprattutto per l’impossibilità di accedere a Internet. Questo servizio rappresenta dunque un anello fondamentale nel coordinamento delle attività didattiche e favorisce lo studio per quanti hanno titolo e interesse a iscriversi all’università”. Gli atenei che a oggi hanno proposto una offerta didattica all’interno degli istituti penitenziari del Lazio sono La Sapienza, Roma Tre, Tor Vergata e l’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale. Il progetto di tutoraggio prevede l’attivazione di quattro sportelli, organizzati a seconda del numero della popolazione detenuta, della posizione geografica del carcere e della presenza di iscritti all’università, con personale chiamato a svolgere questo genere di funzioni: orientamento rivolto a chi vuole iscriversi a un corso universitario, in relazione alle offerte formative proposte dai singoli Atenei, relazioni con la Segreteria studenti per immatricolazione, pratiche per passaggi da altre università e/o corsi di laurea, definizione del piano carriera, registrazione esami, relazioni con le segreterie amministrative delle università per pratiche relative al pagamento delle tasse (immatricolazione, iscrizione, laurea), assistenza dei detenuti per le pratiche relative alle borse di studio, contatti con i docenti per l’organizzazione e i calendari degli esami, per l’indicazione dei testi d’esame da ordinare, per agevolare l’assistenza all’elaborazione delle tesi di laurea, cura dei rapporti con l’ufficio del Garante per la fornitura di libri e materiale didattico. “Grazie a una serie di protocolli d’intesa stipulati con università e provveditorato dell’amministrazione penitenziaria - conclude il Garante - il nostro ufficio si adopera per rendere effettive le agevolazioni previste dal Regolamento e che riguardano camere o reparti adeguati, appositi locali comuni, autorizzazioni a tenere nelle proprie camere e nei locali di studio i libri e il materiale didattico necessario. Nell’anno 2018 sono stati vigenti i tre protocolli d’intesa che rinnovano la collaborazione con l’università Roma Tre, con l’università Tor Vergata e con DiSCo, ente regionale per il diritto allo studio e la promozione per la conoscenza. L’obiettivo delle intese è quello di favorire l’accesso agli studi universitari delle persone detenute negli istituti penitenziari del Lazio e supportarle nel loro percorso formativo”. La Spezia: detenuto polacco di 32 anni muore suicida in carcere di Sondra Coggio Il Secolo XIX, 28 luglio 2019 Avrebbe dovuto affrontare il processo che lo vedeva imputato, con l’accusa di furto aggravato. Era in attesa di giudizio, associato alla casa circondariale di via Fontevivo. Improvvisamente, ieri, un giovane di 32 anni, originario della Polonia, si è tolto la vita in cella. Era l’ora di pranzo, attorno alle 13. Aveva preparato un cappio, senza farsi notare. È salito su uno sgabello ed è saltato giù. In quella stanza c’era soltanto il compagno di cella, che ha dato l’allarme. L’intervento della polizia penitenziaria è stato rapido, ma la situazione è apparsa subito molto grave. Si è tentato un prolungato massaggio cardiaco, per quasi un’ora. L’uomo non si è mai ripreso. Nel salto, ha probabilmente riportato traumi troppo gravi, che hanno impedito il salvataggio. Un episodio drammatico, che ha scosso e commosso l’intera comunità carceraria. Cordoglio per il giovane, che non c’è più. Vicinanza umana ai suoi familiari. E inevitabili polemiche sul sovraffollamento di Villa Andreino, che - a ieri - risulta avere al suo interno 238 ristretti, a fronte di una capienza di 151. “Solo pochi giorni fa è evaso un detenuto di trent’anni, che avrebbe concluso il periodo di detenzione nel 2021, per reati di furto - sottolinea il segretario regionale Uil penitenziaria, Fabio Pagani - ha approfittato di un permesso premio e non è più rientrato. Sono tutti episodi che fanno emergere una situazione di fragilità. L’istituto vive una emergenza sovraffollamento, servono nuove assunzioni, serve un potenziamento del personale, in difficoltà a far fronte alle esigenze che un carcere comporta”. Pagani fa notare che “Spezia è priva di un direttore titolare, in quanto la direttrice è stata assegnata altrove e qui risulta solo reggente”. Una situazione che va risolta, dice il sindacalista: “Si sommano problemi locali e generali - sottolinea - speriamo che governo e parlamento affrontino il tema delle criticità che affogano il sistema penitenziario nel degrado e nell’inefficienza”. A fine 2018 il sindacato Sappe ha calcolato un sovraffollamento delle carceri liguri pari a 370 detenuto, con 1.490 presenze a fronte di 1.128 posti. Fra questi, 788 stranieri. Alla Spezia la percentuale di ristretti non italiani è del 57%. Lo scorso anno la polizia penitenziaria ligure ha sventato 30 suicidi. In altri quattro casi non si è riusciti a evitarli. Nei primi mesi del 2019 i tentativi di suicidio in carcere sono stati già 11. Nel 2018 ci sono stati nelle carceri liguri 444 azioni di autolesionismo, 343 colluttazioni, 46 ferimenti, 142 scioperi dei detenuti, 28 rifiuto del vitto, 167 danneggiamenti a celle, 295 proteste, 50 proteste per le pessime condizioni di detenzione, 127 proteste con battitura alle inferriate, 11 rifiuti di rientrare nelle celle. Milano: Opera, il primo carcere esente da epatite C di Fabio Di Todaro La Stampa, 28 luglio 2019 Il risultato è stato raggiunto grazie a una campagna di informazione, screening e cura rivolta ai detenuti, anche di San Vittore e del carcere minorile Beccaria. Ma rimane il problema della tossicodipendenza. “L’emergenza sanitaria nelle carceri è rappresentata dalle epatiti B e C”, è il messaggio che ripetono da anni gli infettivologi, impegnati ad accendere una luce sulla salute dei detenuti. A destare le maggiori preoccupazioni è soprattutto la seconda, a causa dell’impossibilità di sottoporsi a una profilassi farmacologica (non esiste un vaccino) e della diffusione della tossicodipendenza (il virus si trasmette tramite contatto con il sangue infetto). Ma porre un argine all’epatite C anche nelle case circondariali è possibile. L’esempio giunge da Milano, nello specifico dal carcere di Opera: il primo in Italia in cui 99 per cento dei detenuti è “Hcv-free”. L’esempio dalle carceri milanesi - Il risultato è stato raggiunto grazie a una campagna di informazione, screening e cura rivolta ai detenuti di San Vittore, Opera e il carcere minorile Beccaria. A condurla gli esperti degli ospedali San Paolo e San Carlo, che gestiscono l’intera attività socio-sanitaria all’interno delle carceri milanesi. L’operazione è partita da uno screening di massa combinato (test Hcv sia sul sangue sia sulla saliva). Al cospetto di coloro che risultavano restii a sottoporsi all’indagine, gli specialisti hanno portato avanti attività di informazione individuale che si è aggiunta ai percorsi di educazione realizzati con i detenuti e con il personale operante nelle suddette carceri. Obiettivo: accrescere la consapevolezza in materia di epatite C. Alle persone positive al test è stato infine offerto il trattamento farmacologico con i nuovi antivirali, in grado di debellare il virus in due, massimo tre mesi. Un passaggio che può apparire scontato, ma che tale non è. I carcerati rappresentano una popolazione vulnerabile, con maggiori difficoltà di accesso alle cure. Così facendo, invece, “abbiamo portato a compimento un progetto di riabilitazione sanitaria che comporta anche un notevole risparmio economico per il sistema sanitario regionale e nazionale”, per dirla con Matteo Stocco, direttore generale dell’Asst Santi Paolo e Carlo. Il problema della tossicodipendenza - A San Vittore - struttura a elevato turnover - lo screening dell’Hcv è stato proposto a tutti i nuovi detenuti. A Opera - dove la popolazione carceraria è più stabile - ci si è invece basati sui dati degli screening precedenti per i vecchi detenuti, mentre si è proceduto con l’offerta attiva del test entro un mese dall’arrivo degli ultimi. Ancora diversa la situazione del Beccaria, dove un solo minore è risultato positivo al virus. Il risultato raggiunto a Milano mostra che la “micro-eradicazione” dell’epatite C è possibile. Il prossimo passo da compiere è far cadere i veli sulla tossicodipendenza, dal momento che secondo la Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) il 60 per cento dei detenuti continua a fare uso di sostanze stupefacenti anche una volta all’interno di una casa circondariale. Quello che non si conosce è il numero preciso delle infezioni da Hcv che vengono acquisite durante la detenzione. Ma il rischio è alto, come precisa Sergio Babudieri, a capo dell’unità operativa di malattie infettive dell’azienda ospedaliero-universitaria di Sassari e già presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe): “L’ambiente ristretto, l’elevata presenza di queste infezioni in un’ampia quota di detenuti, la promiscuità anche sessuale presente in alcune situazioni, la pratica diffusa dei tatuaggi e gli episodi di violenza fanno ritenere che il rischio in questo ambito possa essere elevato”. Bari: da “Made in Carcere” i biscotti vegani di alta qualità Corriere del Mezzogiorno, 28 luglio 2019 Sono vegani e realizzati con materie prime di qualità. “Scappatelle” sono Made in Carcere, prodotti presso l’Istituto penale minorile Fornelli di Bari in collaborazione con l’istituto penale di Nisida. Il progetto, messo in piedi col sostegno di Poste Italiane e Fondazione Megamark, serve ad offrire nuove opportunità ai giovani meno fortunati. E grazie ad un nome e ad una grafica accattivanti questi biscotti sono finiti (come intuibile) sul mercato. Si trovano nei punti vendita Megamark, A&O, Adhoc, nelle sedi dislocate nelle regioni del mezzogiorno. Per quanti invece non vivono dalla Campania in giù, questi biscotti si possono acquistare direttamente dallo store online della cooperativa sociale. Il ricavato dalla vendita serve a retribuire i ragazzi che li producono. Tutto il concept parte da “un progetto di educazione alimentare. Abbiamo voluto lavorare nella ricerca del prodotto che potesse parlare in termini di qualità. Facciamo attenzione della scelta della materia prima, attenzione alla cura del cibo”- ha dichiarato in un’intervista la fondatrice della cooperativa, Luciana Delle Donne. Il marchio infatti è nato nel 2007 e Made in Carcere lo individuiamo su ciò che nasce dalla cooperativa sociale Officina Creativa. I biscotti sono in realtà l’ultimo arrivato perché da oltre dieci anni l’organizzazione produce manufatti come borse ed accessori. Chi non ne ha uno? A realizzarli venti detenute alle quali viene offerto un percorso formativo con lo scopo di un definitivo reinserimento nella società lavorativa e civile. Sono gadget personalizzati con gli scarti dei tessuti che alcune aziende italiane mandano e soprattutto si rivelano sensibili alle tematiche sociali e ambientali, manufatti confezionati tra Lecce e Trani, cuore pulsante dell’organizzazione. Palermo: l’arte entra nel carcere dell’Ucciardone terranuova.it, 28 luglio 2019 La pratica artistica come nuova metodologia per generare condivisone e stabilire una connessione tra il carcere e le istituzioni culturali è al centro del progetto “L’arte della libertà”, introdotto all’interno della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo, a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone. Il progetto, a cui attualmente partecipano trenta persone, tra detenuti, operatori socio sanitari e operatori museali, e che per la prima volta in Italia coinvolge anche la polizia penitenziaria, utilizza la formula del workshop con l’artista come dispositivo relazionale in grado di migliorare il clima interno e attivare percorsi di cambiamento. Persone provenienti da mondi diversi, sotto la guida dell’artista Loredana Longo e la supervisione scientifica dello psichiatra Sergio Paderi dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo (ASP), da qualche mese si ritrovano per discutere di arte contemporanea e di libertà, sperimentando differenti linguaggi artistici per dare vita a una nuova rappresentazione del carcere dal volto umano: un racconto corale, una sorta di grande rete in cui mettere in scena con parole, immagini, fotografie e performance l’ambiguità insita nel concetto di libertà. Il workshop, la cui frase manifesto è “Volare per una farfalla non è una scelta” è il primo step di questo ambizioso progetto che, partito a febbraio 2019, andrà avanti fino a febbraio 2020. L’obiettivo è di costruire ponti tra il dentro e il fuori, attraverso differenti azioni che scaturiscono dalla fiducia nel credere che riqualificando esteticamente gli spazi di detenzione e offrendo occasioni di produzione e di fruizione culturale al gruppo di lavoro, sia possibile migliorare la qualità dei rapporti e trasmettere all’esterno un’immagine positiva del carcere. Oltre al workshop, diversi saranno gli interventi messi in campo in questi mesi: dalla creazione di un nuovo spazio laboratoriale, alla realizzazione di un’opera d’arte site specific di Loredana Longo all’interno del carcere; dalla costruzione di un ricco palinsesto di attività per garantire una formazione continua ai detenuti, introducendo in carcere lezioni di arte contemporanea, invitando esponenti del mondo culturale e sociale a raccontare e far sperimentare la loro pratica (Letizia Battaglia, Stefania Galegati, Marco Mirabile, Ignazio Mortellaro, Giulia Ingarao e Marco Stabile), alle visite guidate nei principali luoghi culturali cittadini (Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Branciforte e Palazzo Butera). Il progetto si concluderà a febbraio 2020 con una mostra presso la Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Branciforte, in cui saranno raccolte le opere e le installazioni prodotte con la regia di Loredana Longo. Un racconto polifonico di immagini e parole emerse nel corso del progetto che darà spazio a voci diverse che difficilmente dialogano tra loro, per veicolare il tema della libertà e delle possibilità trasformative dell’arte come nuova forma di welfare culturale. Dice Loredana Longo: “Lo spazio di una cella coincide con uno spazio vitale negato al carcerato. Il concetto di spazio vitale è ambiguo e assolutamente personale, così come il limite è qualcosa d’immateriale e indescrivibile. Può essere rappresentato da un velo, da un pensiero, da una parola, o da una barriera fisica costituita da veri e propri oggetti che si frappongono fra le persone. Il mio obiettivo è di riuscire con la pratica artistica a creare una serie di lavori che infine svelino le capacità e anche le possibilità intrinseche delle persone con le quali mi relazionerò”. Loredana Longo è nata nel 1967 a Catania, vive e lavora a Milano. Artista poliedrica e performer, crea installazioni con tecniche diverse: video, fotografia, scultura e scenografia. Per molti anni ha lavorato su un concetto che definisce “Estetica della distruzione”, in cui attraverso un processo di costruzione, distruzione e ricostruzione cerca di superare l’idea del limite e dei condizionamenti familiari e culturali. Dal 2005 realizza una serie di lavori, The Explosions, veri e propri set teatrali in cui recupera filologicamente arredi e orpelli di interni borghesi, per poi farli esplodere ricomponendone simbolicamente i pezzi. Nella serie Floors, la sua attenzione si sposta sull’utilizzo del cemento impoverito nelle costruzioni siciliane denunciandone l’abuso in molti dei lavori che utilizzano pavimenti di cemento con oggetti di recupero al suo interno. Negli ultimi anni il suo lavoro sviluppa temi sociali e politici con performance e installazioni, documentati da video e fotografie. Il suo medium preferito è il fuoco con cui scrive e scava ogni superficie. Salviamo i sommersi e i dannati di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 28 luglio 2019 Crisi economica e crisi climatica stanno dando origine a nuovi rifugiati. Ma per affrontare questi fenomeni migratori serve ancora più responsabilità. L’intera storia del breve Reich Millenario può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima”, così scriveva Primo Levi in “I sommersi e i salvati”. Manipolare la lettura della realtà porta con sé anche la negazione della complessità dei processi che la compongono. Una lettura attenta della realtà consiste altresì nella capacità d’indagare fenomeni nuovi che sono espressioni di processi altrettanto nuovi. L’avvento della globalizzazione ha dato luogo a nuove figure che vanno emancipate dal giogo dell’attuale paradigma economico. Se da un lato la globalizzazione ha radicalmente trasformato i sistemi economici e quelli produttivi, con la proliferazione di player globali che agiscono incuranti della politica e dei diritti dei lavoratori sempre più atomizzati, dall’altro lato ha favorito l’esplosione delle disuguaglianze sociali, mettendo sotto lo stesso rullo compressore la classe media e quella popolare. Questa è la vera svolta di un sistema economico che ha prodotto e che continua a generare dannati e sommersi. Molti di questi dannati della globalizzazione, in una logica di geometria variabile a seconda delle convenienze politiche, vengono chiamati migranti economici o cervelli in fuga. In sostanza, si tratta di vittime dello stesso paradigma economico che costringe uomini e donne in fuga ad affrontare “porti chiusi o muri disumani” sul proprio cammino verso la ricerca della felicità. Queste persone, espressioni di una pluralità e di una moltitudine priva di collocazione geografica, non sono certamente più nomadi degli esploratori e dei colonizzatori di ieri ed oggi. Le stesse persone che partono dall’Italia verso altri paesi europei o americani, con l’aiuto di voli o treni con biglietti last minute, sono semplicemente alla ricerca di una felicità che va intesa nella sua accezione più nobile, altruistica e collettiva capace di trascendere la dimensione egoistica che tende a calpestare la dignità e i diritti altrui. Chi è portato ad analizzare questi processi sociali dovrebbe essere in grado di immedesimarsi nei dolori, negli affetti e nei bisogni delle persone. Questa metodologia dovrebbe conferire allo studio sociale un maggiore senso di responsabilità capace, nel contempo, di attribuire ai processi i giusti concetti. In questa ottica, chiamerei queste vittime dell’attuale paradigma economico, dei rifugiati economici. Creare degli strumenti che tutelino nei fatti questi rifugiati economici, sarebbe a mio avviso un atto doveroso capace di svincolarsi dal canto lusinghiero delle sirene della strumentalizzazione, della banalizzazione o della falsificazione della realtà. Nel corso degli anni sono stati varati solamente dei provvedimenti destinati a tutelare la persona timorosa di “essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi” come recita l’articolo 2 della Convenzione di Ginevra del 1951. Preservare quest’istituto di asilo dall’uso improprio è il miglior modo per tutelare i rifugiati inquadrabili in questa Convenzione. Nel corso degli anni, accanto agli oppressi dell’attuale modello economico sono emersi anche le vittime dei fenomeni legati alla crisi climatica. Una crisi che si manifesta attraverso la mancanza di cibo, le inondazioni, le ondate di calore, la siccità, i cicloni e che causerà, come conseguenza diretta, la fuga di circa 143 milioni di persone entro il 2050 secondo le Nazioni Unite. Oggi la crisi climatica e quella economica sono le vere sfide che il mondo deve imperativamente affrontare. Difatti, i rifugiati economici e quelli climatici, anche se sono due categorie distinte, sono due facce della stessa medaglia. Questa sfida deve essere affrontata con gli strumenti adeguati. Dotarsi degli istituti idonei capaci di tutelare queste nuove forme di rifugiati sarebbe il modo migliore per dare soluzioni strutturali a questioni complesse, come i processi migratori, senza cedere alle lusinghe propagandistiche che tendono, oltre a polarizzare l’opinione pubblica, a falsificare o a negare la realtà, come ci ha insegnato Primo Levi. Le terre dimenticate dove impera la fame di Roberto Saviano L’Espresso, 28 luglio 2019 Ogni giorno muoiono 25 mila persone per denutrizione. Soprattutto in Africa, in società arcaiche e mancanti di tutto. Nella nostra indifferenza. Ci sono parole che pronunciamo di continuo, che usiamo senza sapere che in altre parti del mondo hanno un significato completamente diverso. Da ragazzino sentivo i racconti di chi si era rifugiato negli antri di tufo di Napoli sotterranea durante la Seconda guerra mondiale, una delle costanti in quei ricordi, oltre alla paura, era la fame. Quando si ha fame, fame vera, fame quotidiana, fame strutturale, si smette di usare espressioni come: “sto morendo di fame” o “sembra che tu voglia sanare la piaga della fame del mondo”. Quando si è conosciuto davvero qualcuno che ha patito la fame, questa parola inizia ad avere non solo un significato, ma anche un peso diverso. Anni fa lessi un libro fondamentale, “La fame” di Martin Caparrós, un libro che mi ha insegnato molto su me stesso e sulle mie convinzioni, più che sull’Africa e sulla fame strutturale di cui sono preda le popolazioni che vivono in terre aride, senza strumenti per poterle coltivare, ma ricche di minerali che valgono tantissimo e per le quali il mondo occidentale non paga nulla. E pensare che l’uomo è nato lì, è nato dove le scimmie sono scese dagli alberi per penuria di cibo e hanno, col tempo, assunto una postura sempre più eretta. È nato dove le scimmie hanno iniziato a usare i propri arti e il proprio cervello per procurarsi cibo. Veniamo da lì, veniamo dalle terre che ora chiamiamo Niger, da terre dove oggi si coltiva come da noi nel Medioevo, da terre dove l’unica presenza che porta aiuto concreto è Medici Senza Frontiere: non vorrei sembrare ripetitivo, ma basta leggere le prime pagine per avere prova di quanto scrivo. Ciò che colpirà il lettore di Caparrós è la sua lucidità nel dichiarare, sin dalle primissime pagine, che il libro è la storia di un fallimento perché la parola fame, e anche il concetto, è talmente usurato che sarà difficilissimo riuscire a vederlo con uno sguardo nuovo; che sarà difficilissimo superare una serie di luoghi comuni, non dettati né da ignoranza, né da cattiveria, ma dall’osservazione che parte dalle nostre esperienze. Due considerazioni: Caparrós descrive la società rurale nigerina come qualcosa di simile, pur nelle enormi differenze, alle società rurali occidentali dei tempi passati: i figli sono fondamentali per la sopravvivenza della famiglia. Le donne, date in sposa prestissimo, assicurano doti che consentono di sfamare la famiglia di provenienza per qualche tempo - spesso per pochissimo tempo - gli uomini sono le braccia che porteranno cibo a casa, anche per i genitori anziani. Non esistono metodi efficaci di contraccezione e dunque si fanno tanti figli. Non tutti, nelle campagne, sopravvivono. Ma il loro numero non dipende da calcolo: i figli sono un dono di Dio, dice una donna intervistata da Caparrós, quando li mettiamo al mondo non pensiamo che possano morire e non pensiamo di farne tanti perché qualcuno di loro sopravviva. Ma soprattutto c’è la fame, con cui tutti gli abitanti di queste terre inclementi e mai addomesticate per mancanza di risorse, devono fare i conti non solo all’ora dei pasti, ma in ogni momento della loro giornata, in ogni momento della loro vita. Si muore di malattie banali e non perché lì siano più diffuse, ma perché colpiscono organismi strutturalmente denutriti che non possono accedere a cure e che non avranno mai la possibilità di recuperare le forze. La proporzione tra medici e abitanti è spaventosa, nel 2010 in Niger c’era un medico ogni 43mila persone, medici che, se possono, emigrano per non essere risucchiati da malattie, indigenza e fame. E allora sì, questo libro è forse un fallimento, perché dopo averlo letto continueremo molto probabilmente ad avere un approccio “occidentale” alla fame, che resta per noi un concetto astratto e non un limite fisico, ma quel che è certo è che inizieremo a farci delle domande e a cercare delle risposte. Inizieremo a scavare per capire dove tutto è iniziato e perché non finisce. E perché non ne parliamo mai. E leggendo ci renderemo conto che la fame nel mondo non è causata da eventi eccezionali, ma è la normalità per almeno ottocento milioni di persone, eppure nessun telegiornale ne parla, nessun giornale: è un dramma quotidiano, un dramma rimosso. Per fame, e per ragioni ad essa connesse, ogni giorno muoiono nel mondo 25mila persone. Più di 1.000 ogni ora. Se impiegate 2 minuti e 30 secondi a leggere queste mie righe, sappiate che nel frattempo saranno morte per fame più di 35 persone. Così è e così sarà. Russia. Oltre mille arresti a Mosca nelle manifestazioni anti-Putin La Stampa, 28 luglio 2019 Le autorità hanno rifiutato all’opposizione e ai candidati indipendenti di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale. Giornata di proteste e di arresti a Mosca per la manifestazione non autorizzata che ha riunito alcune migliaia di persone nel pieno centro della capitale russa. Le persone fermate sarebbero oltre mille. Come confermato anche da un cronista dell’Afp sul posto, la polizia russa ha arrestato varie decine di persone mentre si radunavano davanti al municipio di Mosca per chiedere elezioni “libere ed eque” dopo che le autorità hanno rifiutato di consentire all’opposizione e ai candidati indipendenti di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Mosca fissato per settembre. In vista della protesta, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nelle case e nei quartieri generali di diversi candidati non ammessi alle elezioni, mentre il critico del Cremlino Alexej Navalny è stato incarcerato per 30 giorni per convocazione di “manifestazione illegale”. Altre figure di spicco dell’opposizione e aspiranti candidati sono stati arrestati nelle ore precedenti all’evento. Prima dell’inizio del corteo, la polizia aveva avvertito moscoviti e turisti di non prendervi parte, spiegando che gli agenti avrebbero “preso tutte le misure necessarie”. Il municipio è stato quasi completamente blindato, bloccando l’area con propri mezzi ma anche con gli autobus di linea. Molti partecipanti alla manifestazione sono stati controllati. La protesta di oggi è l’ultima di una serie di manifestazioni sulle elezioni locali, considerate dall’opposizione una rara opportunità di partecipare alla vita politica del Paese. Tra gli arresti, quelli di uno dei candidati “squalificati”, Dmitry Gudkov: “Se perdiamo ora, le elezioni cesseranno di esistere come strumento politico”, ha avvertito l’esponente dell’opposizione. “Ciò di cui stiamo parlando è se è legale partecipare alla politica oggi in Russia, stiamo parlando del paese in cui vivremo”. Anche un altro sodale di Navalny, Ivan Zhdanov, ha dichiarato di essere stato arrestato poco prima della manifestazione. Il sindaco di Mosca, Sergei Sobaynin, ha definito la “protesta non autorizzata” una “minaccia alla sicurezza”, aggiungendo che “l’ordine sarà assicurato in base alle leggi presenti”. Lo scorso fine settimana 22 mila persone si erano presentate per una protesta in Mosca, la più grande manifestazione di questo tipo da anni, dopo che le autorità elettorali avevano rifiutato di registrare dozzine di candidati. Mentre i candidati pro-Cremlino godono del sostegno dello Stato, i candidati indipendenti affermano di essere stati ostacolati in tutti i modi possibili. Tra i candidati respinti la 31enne Lyubov Sobol, che in segno di protesta ha iniziato uno sciopero della fame. Attualmente, quasi 11 mila persone hanno manifestato su Facebook il loro interesse a partecipare alla la manifestazione. Stati Uniti. Ok della Corte Suprema ai fondi del Pentagono per costruzione del Muro di Alberto Custodero La Repubblica, 28 luglio 2019 La battaglia di Donald Trump per costruire un muro alla frontiera con il Messico - osteggiato dai democratici - ha trovato una sponda nella Corte suprema. Con cinque voti a favore e quattro contrari, il più alto tribunale americano ha stabilito che il presidente può dirottare fondi del Pentagono per due miliardi e mezzo di dollari per la costruzione dei 160,9 chilometri di barriera di sicurezza lungo il confine meridionale. Ribaltata la sentenza della Corte d’Appello federale del Nono Circuito, in California, che si era schierata con il Sierra Club e una coalizione di comunità al confine nel definire nel definire una violazione della legge l’impiego di fondi che il Congresso aveva approvato per la difesa. Per i giudici della Corte Suprema, a maggioranza conservatori (cinque voti a favore e quattro contrari), l’Amministrazione Trump ha mostrato “sufficienti” prove per dimostrare che non vi siano le basi per bloccare il trasferimento di fondi. In sostanza, il più alto tribunale americano ha rovesciato la sentenza di una corte d’appello federale della California che aveva congelato i fondi sostenendo che non fossero stati autorizzati dal Congresso. Immediata l’esultanza di Trump su Twitter. “Wow! Una grande vittoria sul Muro. La Corte Suprema ha ribaltato un’ingiunzione precedente, consentendo al muro con il Messico di procedere. Una grande vittoria per la sicurezza al confine”. Il 4 luglio era arrivato lo schiaffo dei giudici a Trump sul muro col Messico: una corte d’appello federale aveva infatti confermato la decisione di congelare i fondi del Pentagono destinati alla lotta antidroga e dirottati con un ordine esecutivo del presidente Usa verso la costruzione della barriera anti-migranti. Con 2 voti contro 1, la Corte del 9° circuito (che comprende gli Stati della costa occidentale), aveva respinto la richiesta dell’amministrazione di cancellare l’ingiunzione che blocca l’utilizzo dei fondi, in attesa che si completi il procedimento di Appello. Trump aveva dichiarato un’emergenza nazionale per dirottare verso il muro i fondi del Pentagono che gli erano stati negati dal Congresso, facendo scattare una serie di ricorsi. Alla fine di marzo il Pentagono aveva notificato al Congresso la decisione di autorizzare lo stanziamento di un miliardo di dollari per iniziare il nuovo muro. La cifra, ottenuta stornando le risorse da altri fondi, rappresentava solo una prima tranche di risorse che sarebbero arrivate per il muro dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, con l’amministrazione che ha in programma di recuperare ancora 1,5 miliardi di dollari. A febbraio il presidente aveva dichiarato l’emergenza nazionale al confine con il Messico dopo due mesi di contrapposizione con il Congresso, tradottisi nello shutdown più lungo della storia americana. Durante il braccio di ferro con Capitol Hill, il presidente aveva sostenuto di poter usare fondi di altre agenzie governative per la costruzione del muro. Un annuncio seguito immediatamente da azioni legali, anche da parte della Camera. Un tentativo questo fallito, con il giudice Trevor McFadden che aveva messo l’accento sul fatto che i tribunali possono risolvere le dispute fra il potere esecutivo e quello legislativo solo come ultima risorsa. “Il Congresso ha diverse armi politiche per far fronte alle percepite minacce alla sua sfera di potere”, incluse leggi che “limitano espressamente il trasferimento o la spesa di fondi per il muro”, aveva scritto McFadden. Davanti alla Corte Suprema, gli avvocati della Camera dei rappresentanti hanno osservato come in base alla Costituzione “un immenso muro lungo il confine semplicemente non può essere costruito senza fondi approvati dal Congresso a tale scopo”. Finlandia. Nell’isola di Suomenlinna c’è un carcere a cielo aperto ec.europa.eu, 28 luglio 2019 Da anni, il sistema carcerario è uno dei punti più delicati e discussi all’interno dell’Unione Europea. A prescindere dal discorso meramente economico, quando si affronta la questione “carceri” è difficile non imbattersi in contrasti etici, morali, sociologici o religiosi. L’opinione che prevede la punizione vista come privazione totale della libertà è, al momento, quella che va per la maggiore, spinta molto probabilmente dal sentimento più che dalla ragione - la così detta reazione di pancia. D’altro canto, non si può biasimare il desiderio di una persona vittima di un grave torto di vedere il proprio carnefice patire che le pene che lui stesso ha inflitto - nonostante ciò, alla fine, non restituirebbe in alcun modo la vita di prima. Dal punto di vista meno coinvolto e meno emotivo, invece, vi è un ragionamento totalmente differente: il “Carcere” come percorso di reintroduzione alla civiltà, come impegno socialmente utile, come collaborazione alla vita quotidiana. Una vita non più libera, ma simile a quella di tutti gli altri. In Finlandia, uno degli Stati più all’avanguardia dell’Unione Europea, inizia già a prender forma una nuova concezione di sistema carcerario, che assomiglia molto a quello di un Paese europeo al di fuori dell’Unione, la Norvegia. Sull’isola di Suomenlinna, a Helsinki, vi è un carcere a cielo aperto: i detenuti non vivono una prigionia intesa come una cella o come un completo allontanamento dell’individuo dalla città e dalla vita normale, bensì creano su quest’isola una nuova civiltà - lavorano, pagano le tasse e vivono in modo normale, non possono allontanarsi dall’isola ovviamente, ma la loro libertà è molto meno limitata rispetto alla vita in cella. La filosofia adottata dalla Finlandia è quella di insegnare al detenuto a reinserirsi nella civiltà e di farlo in maniera utile al resto della società, contribuendo al pagamento delle tasse e al lavoro. Dal punto di vista economico, questo metodo carcerario è nettamente più conveniente delle tradizionali carceri: oltre al contributo economico proveniente dai detenuti stessi, risulta essere minore anche il costo del mantenimento di tale carcere, come sostiene Sinikka Saarela, la direttrice: È più economico perché impieghiamo meno personale nelle carceri aperte, i carcerati sono molto attivi: puliscono le stanze, cucinano. Quindi non abbiamo bisogno di tanto personale, e anche perché c’è un monitoraggio elettronico per ogni carcerato, solo cinque guardie di turno. Quest’isola ricorda molto il carcere di Halden, in Norvegia, classificato come carcere più umano del mondo, in cui i detenuti conducono una vita relativamente normale, fatta eccezione per la loro limitata libertà di movimento. Inevitabilmente, il discorso sul sistema carcerario troverà sempre forte contrasto e trovare un punto d’incontro tra le diverse ideologie sarà molto difficile. Tuttavia, è notevole come un Paese cerchi di adottare un sistema che, anche se non sarà in grado di mettere tutti d’accordo, potrà per lo meno essere utile sia per il detenuto che per la società. Bahrein. Giustiziate tre persone tra cui due sciiti condannati per terrorismo agenzianova.com, 28 luglio 2019 Il Bahrein ha giustiziato oggi tre persone condannate in due casi distinti, uno per “terrorismo” e per aver ucciso un ufficiale di polizia, e il secondo per l’omicidio di un imam. Due dei giustiziati sarebbero gli attivisti sciiti Ali al Arab e Ahmed al Malali, condannati a morte nel 2018 in un processo che ha coinvolto 56 persone, tutti condannati al carcere con pene da 15 anni all’ergastolo per terrorismo. Il procuratore generale di Manama Ahmed al Hammadi in una nota ha affermato che due persone condannate per reati di terrorismo sono state anche accusate di possesso di esplosivi e armi da fuoco a fini terroristici. Il procuratore ha omesso l’identità e l’appartenenza religiosa dei tre giustiziati. Secondo l’agenzia di stampa del Bahrein “Bna”, le due persone giustiziate per terrorismo facevano parte di un’organizzazione composta da almeno dieci membri di nazionalità straniera - iraniana, irachena e tedesca - dozzina di membri dall’estero in Iran, Iraq e Germania e 40 cittadini bahreiniti. Secondo la “Bna”, l’organizzazione si stava preparando a commettere una serie di attacchi terroristici nel regno. Gli attacchi armati previsti includevano l’attacco contro un centro di detenzione avvenuto nel gennaio 2017, costato la vita ad una guardia carceraria e che ha concesso l’evasione di 10 detenuti. Il Bahrein accusa principalmente l’Iran di alimentare le divisioni e la lotta armata nel regno dove la popolazione a maggioranza sciita è governata da una monarchia sunnita. Ieri diverse organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International e Human Rights Watch hanno esortato Manama a sospendere l’esecuzione d Al Arab e Al Malali, considerati come attivisti, osservando che le loro confessioni sarebbero state ottenute sotto tortura. Le autorità hanno negato le accuse di tortura e repressione dell’opposizione e affermano di proteggere la sicurezza nazionale dai terroristi.