I detenuti crescono ancora di numero di Marco Magnano riforma.it, 27 luglio 2019 I primi sei mesi del 2019 segnano un ulteriore aumento della popolazione carceraria, aggravando una condizione alla quale il governo pensa di rispondere costruendo nuovi istituti. Giovedì 25 luglio è stato presentato il nuovo rapporto sulle carceri italiane, curato dall’associazione Antigone, che dagli anni Novanta svolge un lavoro di monitoraggio e sensibilizzazione sul sistema penale italiano. Il rapporto, dedicato alla prima metà del 2019, conferma il ritorno di un problema mai del tutto superato, quello del sovraffollamento. Al 30 giugno 2019 i detenuti presenti nelle 190 carceri italiane erano 60.522, un numero cresciuto negli ultimi sei mesi di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Come si legge nel rapporto, il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. “Ancora non siamo ai livelli che determinarono la condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”, racconta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, “ma se continuiamo con questa progressione, quello era il 2013, si può pensare che tra circa quattro anni saremo in quelle condizioni”. Secondo le statistiche fornite dal ministero della Giustizia, i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che secondo Antigone non tiene però conto delle sezioni chiuse, come quelle delle carceri di Alba e Nuoro. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà alla capienza attuale del sistema penitenziario italiano vanno dunque sottratti almeno 3.000 posti non agibili. Nel 30% degli istituti visitati da Antigone in questi primi mesi dell’anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 metri quadrati per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante. Si tratta di un aumento di detenuti che, secondo i dati Istat, non corrisponde a un incremento dei reati. “La tendenza è costante - prosegue Marietti - nonostante continuino a diminuire gli ingressi in carcere, quindi significa che una volta che entri fai molta fatica a uscire”. Un’altra tendenza raccontata dal rapporto riguarda invece gli stranieri nelle carceri. Negli ultimi dieci anni, infatti, i detenuti di origine non italiana sono diminuiti del 3,68%, e la loro presenza si è ridotta anche in senso relativo: se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%. “Il carcere - chiarisce Susanna Marietti - rimane comunque un grande veicolo di selezione sociale, perché se sommiamo la percentuale degli stranieri alla percentuale degli italiani provenienti dalle quattro grandi regioni meridionali, quindi dalla parte più povera dell’Italia, arriviamo quasi all’80% della popolazione detenuta. Dando uno sguardo alla composizione sociale, dal punto di vista dell’istruzione abbiamo un tasso di analfabetismo in carcere che è il doppio di quello esterno, e allo stesso modo i laureati in carcere sono un ventesimo in percentuale rispetto a quelli in libertà”. Il sovraffollamento carcerario non rappresenta soltanto una questione quantitativa, ed è qui che il problema diventa ancora più serio: la vita in carcere, che ha lo scopo non soltanto di punire, ma soprattutto di accompagnare verso un reinserimento sociale una volta scontata la pena, sta peggiorando, ritornando verso i livelli che condussero alla sentenza Torreggiani, emessa l’8 gennaio del 2013 dalla Corte europea dei diritti umani e che viene considerata una “sentenza pilota” che ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano. Allora la reazione fu rapida, ma gli effetti sembrano già sbiaditi. “Quando il governo di allora prese, attraverso due decreti legge che si susseguirono, una serie di provvedimenti successivi alla sentenza Torreggiani, quantitativamente i numeri calarono di 15 mila unità. Qualitativamente furono prese una serie di misure per rendere la vita in carcere più aperta e più responsabilizzante, per esempio l’indicazione per cui le celle dovevano stare aperte almeno otto ore al giorno in tutto il circuito di media sicurezza e si doveva mettere in campo quella che il Consiglio d’Europa chiama la “sorveglianza dinamica”, vale a dire un modello di custodia del detenuto che non si basa solamente su sbarre e cancelli, per cui il poliziotto diventa un apritore e chiuditore di cancelli, ma si basa sulla conoscenza delle persone detenute da parte degli agenti di polizia penitenziaria in maniera da comprendere le dinamiche che si creano in sezione e quindi riuscire in qualche modo a governare la situazione anche lasciando aperti i detenuti, come accade nella vita libera, perché quello che tutti gli organismi sovranazionali dicono è che, per quanto possibile, la vita in carcere dovrebbe essere il più vicina possibile a quella vita libera dove poi i detenuti dovranno ritornare. Si era fatta una buona strada in questa direzione, che però in coincidenza con l’insediamento del nuovo governo, che ha un’altra visione della pena, sta cambiando: i cancelli si vanno a richiudere e la vita diventa meno responsabilizzante per il detenuto”. Il peggioramento della qualità della vita, inoltre, si ripercuote anche sul numero dei suicidi, in crescita rispetto agli anni precedenti. “Ogni suicidio - precisa Marietti - è il frutto di una disperazione individuale che può provenire da mille fattori che s’incrociano. Non voglio dire che se vivi in una cella sovraffollata ti suiciderai, però non c’è dubbio che un sistema sovraffollato sia un sistema dove non solo manca lo spazio, ma dove viene a mancare anche l’attenzione al singolo individuo. L’attenzione che era pensata per un certo numero di persone va frazionata e quindi cresce il rischio che questa disperazione individuale, frutto di elementi complessi, non venga intercettata. In un sistema sovraffollato, poi, si può prevedere tristemente che il numero dei suicidi cresca”. Di fronte a uno stato di sovraffollamento tornato ormai strutturale, pur avendo i numeri dell’emergenza, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha annunciato a più riprese la volontà di avviare un programma di edilizia carceraria mirato a costruire nuove strutture detentive, una strada che mostra in modo chiaro la differente interpretazione del problema, a cui si immagina di rispondere in forma espansiva, predisponendosi dunque a un amento dei detenuti nonostante la riduzione dei reati, anziché investire in misure alternative e strumenti per il ritorno alla libertà. Sempre più carcere all’orizzonte, dunque. La pena a casa loro di Luisa Ravagnani* e Carlo Alberto Romano** Corriere della Sera, 27 luglio 2019 In tema di stranieri presenti negli istituti di pena in Italia, si sono spesso sentiti commenti imperniati sulla affermata volontà di mandarli a scontare la condanna “a casa loro”, sottolineando l’urgenza della creazione di norme che permettano allo Stato di provvedere in tal senso. Non possiamo esimerci dal precisare che il nostro attuale assetto giuridico, sul punto, fornisce già risposte ampiamente esaustive e, certamente, nessun vuoto da colmare con le soluzioni invocate dai fautori di queste soluzioni. L’Italia infatti, prima fra i Paesi del Consiglio d’Europa, con il D.Lgs 161/2010 ha recepito la Decisione quadro 909/2008 che disciplina il trasferimento (non rimpatrio o espulsione) delle sentenze privative della libertà nel Paese di origine del condannato o in un Paese terzo che accetti tale trasferimento. Finalità della normativa in questione, si badi bene, non è quella punitiva, bensì quella risocializzativa. Il Consiglio d’Europa, nel formulare il testo ha voluto giustamente sottolineare che nei casi nei quali il legame con il territorio di emissione della condanna (in questo caso l’Italia) non è tale da garantire la finalità rieducativa della pena è possibile trasferire l’esecuzione della condanna nel Paese di origine o in un Paese terzo, se i legami con quel territorio colmano questa lacuna rieducativa. La legge permette inoltre all’interessato di chiedere personalmente di essere rimandato “a casa propria” a scontare la pena, quando i legami con il territorio siano oggettivamente dimostrabili. La procedura di trasferimento così definita dovrebbe svolgersi entro un tempo complessivo di nove mesi dalla richiesta, termine che raramente viene rispettato. Senza entrare nei tecnicismi, vale la pena evidenziare che, in osservanza dei tassativi requisiti previsti nel testo normativo non è possibile applicare il trasferimento in qualsiasi caso. Inoltre, chi conosce le dinamiche particolari della fase di esecuzione della pena, sa bene come, assai spesso, la presentazione, ai detenuti potenzialmente interessati, di questo strumento giuridico e delle conseguenze innescate dalla sua applicazione si riveli difficoltosa e cosparsa di opacità. Per cercare di offrire qualche punto fermo nelle confusive informazioni che raggiungono i detenuti in relazione a questo tipo di trasferimento, l’Università degli Studi di Brescia, nel 2014 ha partecipato ad un progetto di ricerca europeo volto ad evidenziare e suggerire possibili correttivi alla misura, al fine di renderla maggiormente appetibile per gli stranieri (soprattutto i detenuti di nazionalità rumena, comunitari e presenti con valori significativi nelle nostre carceri). In tale occasione vennero predisposti opuscoli in diverse lingue con tutte le informazioni necessarie a comprendere al meglio le modalità e le potenzialità dello strumento sia per i detenuti italiani in carcere in un Paese che abbia recepito la decisione-quadro (come per esempio la Spagna) sia per detenuti stranieri detenuti in Italia; tali opuscoli vennero inviati all’Amministrazione Penitenziaria affinché potessero rendere lo strumento più facilmente fruibile dai detenuti interessati. Il fatto che, ancora oggi, a distanza di anni, alcuni commenti, di chiaro orientamento politico, vogliano presentare questo strumento come una forma di espulsione ne distorce la condivisibile e illuminata finalità e impedisce di comprendere la ragione per la quale esso non possa coinvolgere, gioco forza, un numero elevato di stranieri in carcere. All’Ufficio del Garante, infatti, è capitato più volte di ricevere richieste di essere trasferiti nel proprio Paese a scontare la pena ma la incertezza delle procedure attuative ha scoraggiatogli interessati a perseguire l’obiettivo. I detenuti che desiderano tornare nel proprio Paese, infatti, sentono la necessità di avvicinarsi alla propria famiglia ma il non sapere, per esempio, in quale carcere si verrà collocati e in quale regime penitenziario, costituisce motivo di evidente e comprensibile disincentivo Essere infatti detenuti a migliaia di chilometri da casa propria, seppur nel proprio Paese, non comporta alcun miglioramento in termini di mantenimento dei rapporti familiari. O, ancora, aver maturato in Italia un periodo medio-lungo di detenzione, che permetterebbe nel nostro Paese l’accesso ad una misura di esecuzione esterna e non sapere se il percorso effettuato verrà considerato e adeguatamente valutato nel carcere di destinazione con il rischio che, invece, si debba ricominciare tutto daccapo, non è elemento che faccia propendere per la richiesta di trasferimento. Inoltre, se si avesse la volontà e il coraggio di investire di più in termini qualitativi sui trasferimenti attuati, cercando di costruire una rete di collaborazione permanente forse si riuscirebbe a far capire, alle persone rimandate nel loro Paese, che questo strumento è una concreta opportunità per rientrare nella legalità. Il gruppo di ricerca in Criminologia penitenziaria della Università degli studi di Brescia, da tempo e per quanto possibile, sta lavorando proprio per la realizzazione di una rete di supporto ai detenuti di ritorno nel proprio Paese. Da ultimo, pensando all’alta percentuale di persone straniere ristrette nelle carceri italiane inforza di un provvedimento cautelare, è doveroso ricordare che, dal 2016, esiste in Italia analoga norma di recepimento di una decisione Quadro Coe, tale da permettere il rientro delle persone in attesa di condanna definitiva nel proprio Paese con l’obbligo di presenziare, in Italia, ai processi. Lo stesso dicasi per le misure alternative alla detenzione che dall’Italia possono essere trasferite all’estero. Di entrambe le possibilità, però, si riscontrano scarsi o nulli casi di applicazione. Vien da dire che, forse, anziché sprecare tempo a invocare nuove soluzioni, occorrerebbe conoscere e, caso mai, impegnarsi per una diffusa e corretta applicazione di quelle esistenti. *Garante dei detenuti di Brescia **Docente di Criminologia penitenziaria Università di Brescia Riforma della giustizia, giallo-verdi divisi. La Lega stoppa Bonafede di Cristiana Mangani Il Messaggero, 27 luglio 2019 Nella maggioranza è braccio di ferro sulla prescrizione e sulla separazione delle carriere dei magistrati. La bozza della riforma della giustizia del Guardasigilli Bonafede è passata dalle mani del ministro Bongiorno agli esperti della Lega e infine a Salvini. Giudizio unanime: “È una riformicchia. Così non si accelerano i processi. Piuttosto è meglio non far nulla”. Il partito di via Bellerio non demorde e ha già pronta una sua proposta. Ma M5s e Lega giocano una partita a scacchi, con Salvini che aspetta che sia il responsabile di via Arenula a mostrare le carte e a portare il suo testo in Cdm. Per bocciarlo. L’accusa è che Bonafede vuole una legge delega al governo, che vuole carta bianca per presentare un pacchetto completo che comprende sia la riforma dell’ordinamento penale che quello civile. E così ieri il vicepremier leghista ha stuzzicato l’alleato di governo: “La bozza non mi piace perché non taglia i tempi dei processi, non separa le carriere, non introduce il merito”. Gli ha risposto la presidente della commissione Giustizia della Camera: “Separazione delle carriere? A noi - ha osservato M5S Businarolo - non è mai piaciuta e non è nel contratto di governo. C’è chi gode a stressare la maggioranza”. Sulla separazione delle carriere il Pd non è d’accordo e si è opposto alla richiesta di Fi di tagliare il numero di audizioni per portare il provvedimento in Aula. Mentre Bonafede discute con i magistrati sulla riforma del Csm (l’Anm è contraria al sorteggio), si profila in realtà un nuovo braccio di ferro sulla prescrizione. La riforma voluta da M5s entrerà in vigore a gennaio, ma la Lega punta ad una nuova legge per bloccarla, qualora non si arrivi anche all’accelerazione dei processi. Rischi in Senato per il Decreto Sicurezza bis, ecco i ribelli 5 Stelle di Dino Martirano Corriere della Sera, 27 luglio 2019 Dal 1° agosto il Decreto Sicurezza bis (il pacchetto anti navi delle Ong comprensivo di giro di vite contro i manifestanti) affronta l’ultimo miglio in Senato: ma, per questo passaggio decisivo della “legge Salvini”, il governo deve fare i conti con i numeri risicati della maggioranza che avrà comunque bisogno del soccorso tricolore di Fratelli d’Italia e forse di quello azzurro di Forza Italia. Ragion per cui il governo gialloverde non potrà chiedere un voto di fiducia - in quel caso Fratelli d’Italia formalizzerebbe il suo ingresso in maggioranza, se votasse sì al decreto - con il rischio implicito però che l’approvazione di emendamenti al testo appena passato alla Camera inneschi poi una navetta del testo tra i due rami del Parlamento. Quando si insediò, il governo Conte ottenne al Senato 171 voti. Dieci voti in più rispetto alla maggioranza assoluta (161). In un anno, però, quel vantaggio si è asciugato fino a scendere a quota 163-164 a causa delle espulsioni che hanno falcidiato il gruppo del M55. E ora, su un terreno minato come quello del decreto Sicurezza (che risente delle forti tensioni sul via libera alla Tav e sulla mancata presenza in aula di Salvini in merito ai presunti finanziamenti russi alla Lega), l’ago della bilancia è rappresentato da una pattuglia di una decina di senatori pentastellati non allineati sulla linea imposta dalla Lega in materia di immigrazione. Il senatore di Savona Matteo Mantero (M55), pur ribadendo di non essere un “dissidente”, inserì il primo decreto sicurezza tra “i provvedimenti illiberali e pericolosi per il Paese che, oltre ad avere gravi profili di incostituzionalità e a violare i trattati internazionali, mette a rischio i percorsi di integrazione già iniziati”. È la stessa linea della senatrice campana Virginia La Mura che si era già distinta fuori dal coro grillino sull’autorizzazione a procedere contro Salvini sul caso della nave Diciotti. Il piemontese Alberto Airola, poi, isolato e sconfessato sulla Tav, ha appena dato segni di insofferenza dimettendosi dalla Vigilanza Rai. E ora potrebbe ripetersi sul decreto Sicurezza bis. Verità nascoste e ghigliottina, così naufraga la politica di Mattia Feltri La Stampa, 27 luglio 2019 Giovedì, poche ore prima che il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega venisse accoltellato a morte nel quartiere Prati, Roma, l’associazione Antigone aveva diffuso il rapporto annuale sulle carceri. Era un elenco di conferme: abbiamo le carceri più affollate d’Europa, il numero dei detenuti aumenta nonostante diminuiscano i crimini, e questo per l’inasprimento delle pene, una specie di attività da diporto nei lustri degli ultimi governi. Cioè, gli italiani sono un po’più onesti ma sono puniti sempre più accanitamente, e nell’inafferrabile esultanza degli italiani medesimi. Però c’è un altro dato che in teoria, purtroppo solo in teoria, potrebbe aiutarci ad affrontare più lucidamente i casi di cronaca, e dunque la realtà: anche i reati commessi dagli immigrati sono in calo: nel 2003, ogni cento immigrati residenti in Italia, ne erano in galera 1, 16. Oggi 0, 36. Si dovrebbe pensare che, quando sono regolarizzati, gli immigrati tendano a integrarsi e a sfuggire alla delinquenza. Invece non lo si pensa. Le statistiche sono fredde, soprattutto ignorate ed espulse da un dibattito pubblico che non si risolleva dal rasoterra del piano emotivo. Così, ieri mattina, quando s’è saputo della tragedia del vicebrigadiere, non c’è stato uno dei nostri vacui leader capace di dolente saggezza, così: “Un abbraccio immenso a chi soffre. Spero che l’assassino di stanotte sia arrestato, che sia processato in tempi brevi, che gli sia assicurata una difesa, che venga giudicato secondo la legge, che sconti la sua pena in un carcere e non in una topaia”. Le parole che avete letto sono di Luca Bizzarri, comico ora in Rai, presidente della Fondazione Palazzo Ducale di Genova e figlio di carabiniere. Poco prima il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, si era augurato “lavori forzati in carcere finché campa” al “bastardo” pugnalatore. Che significhi, da un punto di vista giuridico e logico, “lavori forzati in carcere finché campa”, è piuttosto misterioso. Che significhi da un punto vista politico, nel suo sprofondo, è invece chiaro e sfiancante: è la deformazione della realtà per rinfocolare odio e paura e raccattare consensi. Ma non è un’esclusiva di Salvini. Il giochino ne accende molti. Per Giorgia Meloni gli assassini sono “bestie” e “animali” che devono “marcire in galera”. Pure il centrodestra berlusconiano, garantista nel tempo libero, ha impegnato un lessico barbarico. Silvio Berlusconi (in duetto con Laura Boldrini, così ci compiacciamo anche della sinistra) non si aspetta una pena giusta ma una pena severa (eppure si chiama amministrazione della giustizia, non della severità). Il presidente della Liguria, Giovanni Toti, si è spinto fino alle pene esemplari, in una declinazione maoista del diritto. Licia Ronzulli, sempre di Forza Italia, ancora oltre: “Pene più severe per chi uccide un servitore dello Stato” (di più severo dell’ergastolo, pena massima, ci sono forse tre giri di chiglia e poi in pasto ai pescecani). Li ha superati tutti Maurizio Gasparri, che ha ufficialmente aperto il dibattito sul ritorno al patibolo. L’elevata discussione si tiene in tempi nei quali il governo è riuscito a contrastare gli arrivi di migranti, anche a costo di tenere in mare le navi della Guardia costiera, non delle ong delle “zecche”, e a moltiplicare i clandestini, cioè gente che stava nei centri di accoglienza poi sgomberati e chiusi, e ora sta nelle strade a renderle più malsicure. Lo si dice, tocca sottolinearlo, quando ancora è incerta la nazionalità dell’assassino, risvolto che ha appassionato i social per l’intera giornata. Perché l’assassinato sappiamo chi è, ma è l’assassino, è la sua etnia a spostare la questione. Eccolo il nostro vero naufragio. Ma non pensino Salvini e i suoi epigoni di uscirne fischiettando: anche la loro barca comincia a fare acqua. Lo si è compreso ieri, alle parole di due rappresentanti del Cocer, sindacato dei carabinieri: “La responsabilità è dei vari governi, compreso questo, che si sono succeduti negli anni e che, per garantire diritti ai delinquenti, non hanno tutelato lo Stato e i suoi servitori. Non sono i decreti sicurezza che risolveranno mai questi problemi”. E lo hanno detto poche ore dopo aver sollecitato il governo su faccende di previdenza, contratti, carriera: “È ora di passare dalle parole ai fatti”. Se non bastasse, è poi stato il momento di Sergio De Caprio (il capitano Ultimo) che, in testa al suo sindacato, il Sim, l’ha messa giù ancora più dritta: “L’indifferenza che hanno verso i problemi e i diritti dei carabinieri è uguale all’ipocrisia che esprimono quando veniamo uccisi. Si chiama sciacallaggio”. Quando si appiccano gli incendi, poi fa caldo per tutti. In morte di un carabiniere: servono azioni di governo, non truci auspici di Alfredo Mantovano Il Foglio, 27 luglio 2019 Dopo l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega i due vicepresidenti del Consiglio Salvini e Di Maio hanno affermato il primo di essere sicuro che il colpevole, una volta individuato, resterà ai “lavori forzati in carcere finché campa”, il secondo che “se dovessero essere persone non italiane (...) il carcere se lo facciano a casa loro e non qui”. Provengono da due autorevoli esponenti del governo in carica, ma rientrano della categoria degli auspici, non delle azioni di governo. L’auspicio meno distante dalla realizzazione è quello formulato dal ministro Di Maio. Meno distante non significa che sia semplice, ma che potrebbe essere realizzato superando una serie di ostacoli: per esempio, moltiplicare gli accordi fra i sistemi giudiziari, quello dello stato nel quale il reato è commesso e quello dello stato il cui cittadino lo ha commesso, il che presuppone che il secondo riconosca la sentenza emessa dal primo. Per esempio, fare in modo che gli accordi siano eseguiti e non aggirati. Uno dei paesi con cui l’Italia ha queste intese è l’Albania: capita tuttavia che nel momento in cui una sentenza di condanna per delitti gravi consumati nel nostro territorio da un cittadino albanese viene riconosciuta dall’autorità albanese riceva sensibili sconti di pena, che la abbattono dai decenni di reclusione inflitti da noi a pochi anni, con rapido ritorno in libertà di pericolosi criminali. Il tutto deve poi fare i conti con la Cedu, la Corte europea per i diritti dell’uomo, che spesso sanziona gli stati aderenti alla Convenzione che trasferiscono i condannati in paesi che, ad avviso della Corte, non rispettano i diritti dei detenuti: questo è un altro livello di lavoro, per ottenere dallo stato X, cui l’Italia è in procinto di consegnare lo straniero, garanzie concrete che quel rispetto vi sia, magari collaborando alla costruzione all’interno di X di istituti di pena con standard accettabili. Quelle appena sintetizzate sono azioni di governo di cui si attende la realizzazione o la prosecuzione (qualcosa in passato è stato avviato) da chi sta al governo (al posto degli auspici). Ancora più complicato è quanto chiede il ministro Salvini, essendo noto che il nostro ordinamento penitenziario da un lato non conosce il “fine pena mai”: perfino la condanna all’ergastolo, fra semilibertà, liberazione anticipata e altri benefici, permette di uscire dal carcere - anche in parte - ben prima dei 20 anni di effettiva espiazione. Dall’altro considera - con qualche ragione - il lavoro in carcere uno strumento di rieducazione: “Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato”, spiega l’art. 20 co. 2 della legge Gozzini. Sono norme la cui modifica si può tentare: ma è ardua, perché sono ritenute coerenti con la Costituzione. Che fare allora perché non si ripetano episodi brutali quale l’omicidio di un giovane valoroso sottufficiale dell’Arma? Intanto realisticamente convincersi che è un incerto del mestiere di chi indossa una divisa per la nostra sicurezza. Convincersene nei fatti e non a parole: onorando sempre quel servizio, che esso venga prestato per soccorrere una donna rapinata, o in Val di Susa per proteggere la Tav, o allo stadio, o per fronteggiare una manifestazione in piazza. Quel che per intero non è scongiurabile può però essere circoscritto: chi delinque in strada, come l’assassino del brigadiere Cerciello Rega, nella gran parte dei casi compie furti o spaccio di droga. Per il furto negli ultimi anni sono state aumentate le pene, ma nessuno in concreto lo persegue: sembra un reato di fatto depenalizzato, soprattutto per la diffusa scarsa attenzione che a esso si presta in sede giudiziaria. Lo spaccio al dettaglio di stupefacenti è egualmente percepito come qualcosa di impunito, a partire dalla pessima riforma della legge sulla droga che nel 2014 ha abolito per esso l’arresto in flagranza. Un’azione di efficace prevenzione eleverebbe il livello di sicurezza urbana se, cercando il più possibile un’intesa con l’autorità giudiziaria, perseguisse i furti con una decisione maggiore di quella attuale, e colpisse la cessione di droga con l’efficacia che aveva prima del 2014. Per le forze di polizia significherebbe giocare sul terreno di una difesa anticipata, e da loro verrebbe apprezzato certamente più del rammarico successivo alla morte di uno di loro. Lasciando gli auspici ai comuni cittadini. I nuovi reati per colpire le nuove mafie di Antonio Mazzone* Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2019 Si dovrebbero delineare fattispecie diverse, che possano essere applicate anche in territori di non tradizionale infiltrazione. L’obiettivo che gli interventi di riforma legislativa devono porsi è quello di delineare ulteriori fattispecie incriminatrici adeguate a prevenire e a reprimere forme di manifestazione di criminalità mafiosa attinenti all’area “grigia”, puntualmente individuate da accurate analisi socio-criminologiche. Fattispecie che siano idonee ad essere applicate anche in territori di non tradizionale infiltrazione mafiosa. Gli incerti confini di ciò che è da ritenersi, attualmente, penalmente rilevante in relazione alle condotte di contiguità proprie dell’”area grigia” incidono negativamente sia sui profili di garanzia, sia su quelli di prevenzione generale e speciale: quanto più è definita la condotta vietata, tanto più la norma che la prevede ha capacità, da un lato, di determinare i comportamenti dei destinatari e, dall’altro, di tutelarne la libertà personale e gli altri diritti. Occorre, in sede di riforma, cogliere l’essenza di nuovi fenomeni criminosi associativi, che costituiscono il punto d’incontro tra settori amministrativo- politici, settori economici e (spesso) criminalità mafiosa. Una risposta potrebbe consistere nell’introduzione di un’ulteriore fattispecie associativa che tuteli l’ordine pubblico, inteso nel suo significato di corretto svolgimento delle relazioni istituzionali e funzionali, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione e il corretto andamento dell’economia e del mercato, e che si imperni sullo stravolgimento funzionale riferibile ad un soggetto pubblico. Fattispecie che punisca la condotta di tre o più persone (tra cui almeno un pubblico ufficiale), che si associno per commettere più delitti contro la P.A. (tra i quali, corruzione, concussione, turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente, ecc.) o per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività amministrative o economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti odi servizi odi assunzioni o di concorsi pubblici, mediante l’abuso della qualità o dei poteri di un pubblico ufficiale partecipante. Contestualmente andrebbe meglio disciplinata quella che è oggi l’area del concorso esterno associativo, attraverso l’introduzione di fattispecie incriminatrici strutturate come reati propri per le categorie professionali, per quelle economico-imprenditoriali, per quelle attinenti a pubbliche funzioni. Le condotte vietate dovrebbero consistere nell’uso distorto del potere (quando si parla di un pubblico ufficiale) o della facoltà (quando si parla di un imprenditore odi un professionista) per il raggiungimento di uno scopo diverso da quello per il cui conseguimento il potere o la facoltà stessi sono stati attribuiti dall’ordinamento: scopo diverso consistente nell’agevolazione di un’associazione mafiosa. Andrebbe, poi, regolamentata la punibilità delle condotte neutre di sostegno alle organizzazioni criminali. Si pensi all’ipotesi del dirigente di banca che, nel rispetto delle regole statutarie previste per la concessione del credito, finanzi mediante la sua erogazione un gruppo mafioso o un traffico di stupefacenti. Si potrebbe prevedere espressamente la punibilità di tali condotte qualora vi sia violazione dolosa o colposa di una regola cautelare (da descrivere puntualmente) che imponga al soggetto di verificare che la sua attività, anche se realizzata nel rispetto delle regole previste per il suo esercizio, non possa risolversi, comunque, in un sostegno ad un’organizzazione criminale. *Avvocato Formigoni scarcerato, una buona notizia. Ma il Tribunale è andato contro la legge di Michele Passione* Il Dubbio, 27 luglio 2019 Con ordinanza del 17 luglio il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto che la pena inflitta dalla Corte di Appello di Milano nei confronti di Roberto Formigoni per corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio venga espiata in regime di detenzione domiciliare, ex articolo 47 ter, comma 01, dell’Ordinamento penitenziario, trattandosi di condannato ultra settantenne. Per chi ama la libertà, ancorché limitata alle mura domestiche, è una buona notizia. Tuttavia, affinché non resti un non detto, occorre fare chiarezza. Sulle pagine di Repubblica Luigi Manconi ha affermato che è possibile, sia pur “faticosamente”, difendere l’indifendibile, “in nome della forza del diritto e dei principi del garantismo”. Ci permettiamo di osservare come non sia affatto faticoso rispettare la Legge, e così anche che non vi sono indifendibili (neanche quelli definitivamente condannati), per la buona ragione che le regole valgono per tutti; le regole, però. Ha invece ragione Luigi Manconi quando deplora l’argomentazione populista (quasi un ossimoro) per la quale l’uguaglianza andrebbe praticata al ribasso, e dunque anche il Celeste, come i suoi (non pochi) coetanei detenuti, avrebbe dovuto scontare la pena per intero in carcere (o, se si preferisce, marcire in galera - strano, ma in questo caso non si è levata voce dal Viminale). Infine, e questo è ciò che ci preme evidenziare, Manconi sbaglia quando sostiene che il provvedimento milanese è corretto (“legittimo”, certo, ma “previsto dall’ordinamento giuridico”, no). Vediamo perché. Il ragionamento del Tribunale milanese è il seguente: la Legge 3 del 2019 si applica anche se i fatti son stati commessi molti anni prima ma non occorre sollevare questione di legittimità costituzionale (come fatto da altri Giudici, anche di legittimità), dovendosi valutare se il condannato abbia prestato attività di collaborazione con la Giustizia, o se la stessa debba essere ritenuta impossibile o inesigibile, ai sensi del comma 1 bis dell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Una volta accertato questo, l’ostatività verrebbe meno, e dunque l’ex presidente della Regione potrebbe accedere alla misura richiesta, la detenzione domiciliare per ragioni di età, “peraltro l’unica misura alternativa praticabile” (per il quantum di pena inflitta e da espiare), sostiene il Collegio. Non è così. E infatti, il Tribunale non spiega (neanche in un obiter) come sia possibile superare l’espressa esclusione apposta alla concessione della misura dal primo comma dell’articolo 47 ter comma 01 Ordinamento penitenziario (introdotta, assai prima della recente Legge 3/ 2019, dalla Legge ex Cirielli), che per l’appunto (così come tante disposizioni dell’Ordinamento penitenziario) pone preclusione per i condannati per delitti di cui all’articolo 4bis (tra i quali oggi, in virtù stavolta proprio della Legge 3/ 2019, anche l’articolo 319 del Codice penale, il reato attribuito a Formigoni). Era, questo, il tentativo riformatore e apotropaico percorso dalle Commissioni Ministeriali dei cosiddetti Stati generali dell’esecuzione penale (liberare le misure alternative dalle ostatività e dai tipi di autore), come noto fallito sulla linea di arrivo. L’unica strada percorribile, chiara, corretta, sarebbe stata quella di sollevare questione di legittimità costituzionale, o chiedendo una sentenza ablativa dell’articolo 47 ter comma 01 (eliminando la preclusione del 4 bis introdotta a suo tempo dalla ex Cirielli), o una sentenza additiva della norma (che aggiunga ad essa quanto previsto dal comma 1 bis dell’articolo 4 bis, così applicando anche alla detenzione domiciliare il meccanismo della collaborazione impossibile). Poiché risulta “immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia compiuto i settanta anni” (Cassazione, Sez. I, 12.2.2001, n. 16183), l’irragionevolezza del divieto e la conseguente violazione dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione (giacché una incarcerazione irragionevole impedisce l’efficacia rieducativa della pena) avrebbero dovuto essere denunciati, così determinando la pronuncia della Consulta nell’interesse di tutti. Questa, ci pare, la strada da seguire, per conferire ragionevolezza al sistema, per dare parità di condizioni, rivendicandone le ragioni. Ma, come scriveva Fabrizio De Andrè, “si rannicchiano zone d’ombra, prima che il sole le agguanti”. *Avvocato Abruzzo: sul Garante dei detenuti di Francesco Lo Piccolo Ristretti Orizzonti, 27 luglio 2019 La Regione Abruzzo ha scelto il “suo” Garante dei detenuti. Per me, che conosco e capisco il mondo del carcere, questa partita è ora chiusa. Ed è chiusa in un modo che non mi piace. Ma del resto cosa aspettarsi dalla Regione Abruzzo? Da una Regione dove ha la maggioranza un partito il cui leader usa termini come “devono marcire in carcere”, da una Regione dove c’è un altro partito che non comanda più e che non sa fare pubblicamente una sua scelta e imbuca cinque schede bianche, da una Regione dove c’è il gruppetto grillino che del carcere parla con frasi fatte e stereotipi…beh da questa Regione non c’è davvero da aspettarsi nulla di buono. In tutti i campi, in tutti i sensi. Mi ero candidato a Garante perché lo ritenevo e lo ritengo tutt’ora un punto di arrivo del mio percorso nel campo dei diritti, percorso fatto di impegno sociale e di anni di studio e ricerca sulle tematiche penitenziarie e detentive (recentemente mi sono persino preso una laurea in sociologia e criminologia). E perché la mia figura corrisponde appieno ad almeno tre dei cinque requisiti richiesti ai candidati: ovvero aver svolto attività di grande responsabilità e rilievo in ambito sociale e conoscere a fondo le problematiche della reclusione e del rapporto mondo esterno - mondo interno, con attenzione particolare al dettato costituzionale del reinserimento dei detenuti; avere comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, scienze sociali e dei diritti umani e con esperienza in ambito penitenziario; avere alta e riconosciuta professionalità o essersi distinto in attività di impegno sociale. Ma hanno preferito il candidato-professore. Hanno preferito il “loro” Garante dei detenuti. Hanno ignorato uno come me che i detenuti li incontra quotidianamente, direttamente e senza filtri. Per cambiare prospettiva, per costruire una società migliore a partire proprio dalle sue contraddizioni, per rimettere al centro l’uomo e farlo uscire come uomo e non come ex detenuto. Perché il carcere sia visto come extrema ratio anche in considerazione del suo fallimento, del suo essere scuola di criminalità, in definitiva costoso e inutile sistema che non previene e non corregge. Evidentemente troppo avanti questi concetti per chi vede il problema della devianza come problema penale mentre è invece un problema sociale. L’avevano detto fior fiore di studiosi negli anni 80: A. Baratta, D. Melossi, e poi M. Pavarini e nel secolo scorso G. Rusche e O. Kirchheimer. Ma la galera rende di più. E questo diritto penale cresciuto a dismisura e senza limiti (come ha denunciato V. Manes) piace e convince. Chi se ne frega del presidente di un’associazione di volontariato che da dieci anni lavora nelle carceri dell’Abruzzo? Come ho detto durante la mia audizione in Regione lo scorso 16 luglio e in qualche timida e vana telefonata a qualche consigliere, il mio lavoro inizia come volontario nella Casa Circondariale di Chieti nel 2007. Nel 2008-2009 sono fondatore e presidente (ancora oggi in carica) di Voci di dentro, Onlus iscritta all’Albo della Associazioni di Volontariato della Regione Abruzzo. Dal 2009 ad oggi organizzo e dirigo all’interno delle Case Circondariali di Chieti e Pescara e per alcuni anni anche a Vasto e Lanciano, in accordo e in collaborazione con le Direzioni e le aree educative, incontri sulla legalità per il rispetto dei diritti, laboratori di scrittura con la realizzazione di un periodico regolarmente registrato in tribunale scritto dai detenuti e diffuso in tutta Italia, laboratori di fotografia, disegno, sartoria, corsi di computer e web grafica, e di teatro culminato con la creazione di una compagnia teatrale (composta da detenuti e da volontari) e la messa in scena all’esterno del carcere in teatri a Chieti, Pescara, Atri, Ortona, e all’Università di Chieti, di due spettacoli teatrali. Una complessità di attività che sono diventate nel carcere di Pescara e in quello di Chieti attività quotidiane (mattina e pomeriggio) con il coinvolgimento ogni giorno di una cinquantina di detenuti impegnati nei vari laboratori. Una cosa enorme, difficile, qualche volta anche guardata con diffidenza per la forza messa in campo: una sessantina di volontari, poi alcuni esperti assunti grazie a bandi regionali ed europei, quindi alcune centinaia di studenti universitari di Sociologia e Criminologia, Scienze dell’Educazione, Servizi Sociali, Psicologia delle Università di Chieti-Pescara e dell’Aquila entrati in Voci di dentro come tirocinanti e seguiti da me personalmente in qualità di tutor - per effetto delle Convenzioni da me stipulate con i vari Dipartimenti - con un primo corso teorico sul sistema penale e sull’ordinamento penitenziario e su tematiche relative alla produzione di fenomeni devianti e alla loro costruzione sociale, con particolare riferimento alla piccola e grande criminalità, al rapporto fra disagio e devianza. Insegnamento teorico al quale sono seguiti i laboratori all’interno degli istituti penitenziari direttamente a contatto con i detenuti. Un lavoro fatto di discussioni, relazioni, dialoghi e attività: una complessità di azioni per rimuovere pregiudizi, distorsioni cognitive, esclusioni, dogmi, rappresentazioni della realtà basate su luoghi comuni. Da una e dall’altra parte. Una complessità di azioni contro lo stigma per eliminare diffidenze, rimarginare ferite, per tentare di togliere alle persone detenute quelle corazze (per difesa e per offesa) fatte da anni di vita in carcere e di condotte ai margini della società. Una complessità di azioni di supporto all’area trattamentale per ricostruire consapevolezza, responsabilità, valori condivisi, regole. Tutto questo in un luogo dove si può pensare un futuro diverso da quello passato. Un progetto questo che ho chiamato “la città” e che si è potuto realizzare proprio all’interno del carcere di Pescara in uno spazio di oltre 300 metri quadrati fatto di corridoi e stanze che sono diventati luoghi di vita, studio, lavoro. Con l’obiettivo di aiutare l’area educativa (impossibilitata a operare per il cambiamento per deficienze strutturali ovvero con un educatore ogni 65 detenuti) e dare così concretezza a ciò che la Costituzione ha indicato: le pene (non necessariamente la pena del carcere) devono tendere al reinserimento e alla risocializzazione. Dunque un lavoro che può dare frutti se è accompagnato dal lavoro fuori dal carcere. Ed è stato questo l’altro filone del mio impegno sociale e dell’impegno dell’associazione che ho fondato: unire il dentro con il fuori, annullare questa distanza che non serve all’istituzione carcere che sopporta una recidiva che è al settanta per cento e neppure serve alla società che si trova alle prese con una microcriminalità senza fine. Ecco perciò le attività di sensibilizzazione presso enti pubblici ed enti privati perché investano risorse contro la devianza, per finanziare corsi e laboratori dentro le carceri, per più cultura e più lavoro, per agevolare il rinserimento anche di persone in attività di volontariato, di messa alla prova, di riparazione del danno. Un insieme di azioni che mi ha visto in prima persona promotore di protocolli con Ufficio di esecuzione penale esterna, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Direzioni delle carceri, per l’avvio, in accordo con la Magistratura di Sorveglianza, di percorsi differenziati persona per persona: oggi sono decine i detenuti, o persone ai domiciliari, o persone affidate a Voci di dentro, che sono impiegate in attività di pubblica utilità (assicurate dall’Associazione e seguite da un tutor della stessa Associazione) presso l’archivio del Tribunale civile di Pescara, le Terme di Chieti, la sede dell’Associazione. Una miriade di attività che si accompagnano alla promozione di convegni e seminari, di incontri nelle scuole contro il bullismo, contro la droga, per la legalità, per la cultura del lavoro, per lo studio. Una molteplicità di azioni alle quali si sono aggiunte le altre attività dell’Associazione da me guidata: partecipazione e successiva aggiudicazione di un bando Europeo Grundvig con visite studio e lavoro in diverse carceri europee (progetto per il quale Voci di dentro si è distinto con un giudizio di “molto buono”), aggiudicazione in partenariato del Bando della Regione Abruzzo “Inserimento Lavoro detenuti ed ex detenuti, Progetto Pe.Tra- Percorsi di transizione al lavoro” (2012-2014) che ha permesso l’inserimento in un corso di computer e grafica di una decina di detenuti del carcere di Chieti e l’inserimento in work experience di altri dieci detenuti del medesimo carcere e tutti oggi perfettamente reinseriti nella società, aggiudicazione (sempre in partenariato con altra Ats) di un bando del Miur -Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani - Progetto “Ricominciamo” - Avviso Giovani e Legalità Percorsi di rientro in formazione per minori e giovani adulti sottoposti a provvedimenti penali e ancora, più recentemente, aggiudicazione di un bando del Ministero delle Pari Opportunità per un progetto contro la violenza di genere da attuarsi con percorsi di studio e lavoro fuori e dentro il carcere. La necessità di costruire occasioni di lavoro (da considerare che su 60 mila detenuti solo 17 mila lavorano e di questi ben 15 mila alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria con impegno di due-tre ore al giorno e solo 2 mila alle dipendenze di privati) mi ha inoltre spinto a fondare nel 2013 la società Alfachi, cooperativa sociale iscritta all’Albo delle cooperative sociali della Regione Abruzzo, per la digitalizzazione di documenti cartacei. Un progetto partito con l’accordo dell’Istituto penitenziario di Pescara e con la firma di un protocollo con la Provincia di Pescara per la dematerializzazione ed archiviazione informatizzata di atti e documenti dell’Ufficio Ambiente. Centomila sono stati in un anno i documenti trasformati in file grazie al lavoro di una decina di detenuti. Concludo, mi ero candidato alla importante carica di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale perché credo in quello che sto facendo, perché la mia nomina sarebbe stata di garanzia massima di imparzialità e di alterità. Per favorire la prevenzione dei conflitti all’interno dei luoghi di detenzione, per mediare tra i diversi soggetti che in quei luoghi operano e il mondo esterno. E per cercare di mettere in rapporto vero tra loro la popolazione detenuta, l’amministrazione penitenziaria e l’amministrazione pubblica contro l’assenza di comunicazione, la discontinuità e la provvisorietà del dialogo. Cose che ho toccato con mano in tutti questi anni. Per questo aspiravo davvero a questo ruolo: per trasformare le ferite in feritoie dalle quali fare uscire persone nuove pronte a cominciare una nuova vita. Ma sarà per una prossima volta: il mio lavoro, il lavoro di Voci di dentro continua. Per uscire dal carcere. Persone e non ex detenuti. *Giornalista, presidente di “Voci di dentro Onlus” Emilia Romagna: risoluzione M5s-Pd per incentivare misure alternative alla detenzione di Giulia Paltrinieri cronacabianca.eu, 27 luglio 2019 Secondo Andrea Bertani, Giuseppe Paruolo e Giuseppe Boschini i progetti di reinserimento sociale e lavorativo sono “risposte efficaci a sovraffollamento e recidiva, nonché risparmio per le casse pubbliche”. La Regione sostenga i percorsi di reinserimento sociale per i detenuti e quelle realtà che si occupano di misure alternative della pena in un’ottica di rieducazione, inclusione lavorativa e contrasto al sovraffollamento delle carceri. È l’impegno che chiede una risoluzione di Movimento 5 stelle e Partito democratico, presentato da Andrea Bertani (M5s) con Giuseppe Paruolo e Giuseppe Boschini del Pd, che sollecitano la Giunta a stanziare nel prossimo bilancio risorse per sostenere progetti come Cec (Comunità Educante con i Carcerati) della Comunità Papa Giovanni XXIII e AC.E.RO (Accoglienza e Lavoro) promosso da Regione e Amministrazione penitenziaria, che “hanno avuto risultanze positive” e hanno dimostrato di “poter abbattere il tasso di recidiva a livelli del 10-15%, molto inferiori ai valori superiori al 70% che si rilevano su chi sconta la pena in carcere”. Secondo i consiglieri Pd-M5s il tema del superamento del regime penitenziario è di grande attualità: “Il tasso di sovraffollamento regionale cresce- sottolineano i consiglieri regionali- passando dal 104% del 2015 al 124% del 2017 (come mostra l’ultima relazione penitenziaria) e le misure alternative sarebbero strumenti di grande efficacia, sia in termini di risparmio di spesa che di probabilità di recidiva. Se venisse riconosciuta una retta di 40euro al giorno a persona dallo Stato, in un solo anno per 10 mila detenuti sarebbe possibile avere un significativo risparmio della spesa pubblica a loro dedicata, oltre a un’importante ricaduta sul tessuto sociale” spiegano i proponenti. Per questo la risoluzione Pd-M5s chiede di “potenziare il sostegno ai progetti innovativi rivolti a detenuti a fine pena e al loro reinserimento sociale, attuando il massimo raccordo fra le misure volte all’umanizzazione della pena e al reintegro in società e le misure volte all’inclusione lavorativa delle persone più vulnerabili, attraverso attività di coprogettazione e cofinanziamento fra i vari ambiti di competenza della Regione”; impegna la Giunta anche a “rinnovare le intese e convenzioni stipulate con i vari enti che si occupano delle misure alternative della pena, creando sinergia fra amministrazione penitenziaria, enti territoriali e la Regione stessa, dando priorità al rinnovo dei progetti che hanno avuto risultanze positive” e “determinando nel prossimo bilancio le risorse necessarie per sostenere le iniziative”. Lombardia: bilancio regionale, ok a Odg su fondi per la sanità in carcere di Paolo Frosina Ristretti Orizzonti, 27 luglio 2019 Più fondi per contrastare il disagio psichico e l’epatite C nelle carceri e per aumentare i reparti ospedalieri dedicati ai detenuti. Il consiglio regionale della Lombardia ha approvato all’unanimità un ordine del giorno del consigliere Michele Usuelli (+Europa) che impegna, in modo vincolante, la Giunta a stanziare risorse per il trattamento del disagio psichico all’interno degli istituti di pena, a potenziare gli screening e le terapie per l’eradicazione del virus epatite C da carceri e servizi contro le dipendenze e ad incrementare il numero di reparti per detenuti all’interno delle Aziende sanitarie territoriali, in conformità alle indicazioni del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. “Regione Lombardia ha finalmente compreso l’importanza degli investimenti per la salute in carcere, determinanti per la riabilitazione del reo imposta dalla Costituzione e per ridurre i tassi di recidiva”, dichiara Michele Usuelli, firmatario dell’odg. “Garantire il diritto alla salute dei pazienti detenuti, che spesso vengono da contesti di disagio e vulnerabilità, è un imperativo categorico che fa bene a tutta la società”. Secondo i dati 2016, il 65% della popolazione carceraria soffre di disturbi di personalità ed il 48% di disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti. I dati elaborati dall’Osservatorio Antigone mostrano che nel 2017 uno psichiatra è stato presente nelle sezioni di media sicurezza delle carceri lombarde soltanto per 8,5 ore ogni 100 detenuti. Per quanto riguarda l’epatite C, invece, la sua sempre maggiore diffusione all’interno delle carceri è dovuta a vari fattori: la ristrettezza degli spazi a disposizione, l’alta incidenza di detenuti tossicodipendenti (34%), la presenza di soggetti provenienti da aree geografiche in cui il morbo è molto diffuso, la promiscuità forzata, e la presenza di persone ristrette che esercitavano la professione di sex worker. A fronte di tutto ciò, sul territorio lombardo è presente una sola struttura semplice di Medicina V Protetta - presso l’ASST SS. Paolo e Carlo di Milano - che ospita pazienti provenienti dagli istituti penitenziari di tutta la Regione. *Gruppo consiliare +Europa Lombardia - Ufficio stampa Reggio Calabria: detenuto con problemi psichiatrici si suicida in carcere di Emilio Enzo Quintieri* corrieredellacalabria.it, 27 luglio 2019 Si chiamava Golomaschi Antonio Petru, era un cittadino rumeno senza fissa dimora ed incensurato: da tempo presente a Reggio Calabria era stato arrestato il 16 luglio scorso dalla Polizia per un presunto sequestro di minore. Si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere Arghillà del capoluogo dello Stretto. Nonostante il suo legale d’ufficio, Valentino Mazzeo, avesse chiesto al Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale locale di disporre per lui una perizia psichiatrica, e nelle more il ricovero in una struttura sanitaria esterna, poiché probabilmente affetto da gravi disturbi psichiatrici, come emerso già all’atto dell’arresto, il Giudice aveva respinto l’istanza, confermando la custodia in carcere. Nelle carceri calabresi si continua a morire. Ed il Consiglio regionale della Calabria (che si riunirà il 1° agosto) continua a non eleggere il Garante Regionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nonostante espressamente diffidato ad adempiere. Si tratta della solita tragedia annunciata. Mi domando per quale motivo il Gip di Reggio Calabria non abbia accolto la richiesta del difensore disponendo una consulenza psichiatrica ed il ricovero in una struttura sanitaria per questo poveraccio, anziché tenerlo nel sovraffollato Carcere di Arghillà (360 detenuti presenti a fronte di una capienza di 302 posti), Istituto in cui peraltro risulta carente, oltre al personale di Polizia Penitenziaria (113 unità a fronte delle 160 previste dalla pianta organica) e della professionalità giuridico pedagogica (4 funzionari a fronte dei 7 previsti), l’assistenza sanitaria ed in modo particolare quella specialistica di tipo psichiatrico (6 ore settimanali con circa 100 detenuti con problemi psichiatrici di cui circa 30 ad alto rischio suicidario) nonché quella psicologica (8 ore settimanali). Ad oggi, sono 77 i detenuti morti negli Istituti Penitenziari d’Italia, 28 dei quali per suicidio. Ed in Calabria, in questi pochi mesi del 2019, sono morti 4 detenuti, 2 dei quali si sono tolti la vita. Segnalerò l’ennesimo vergognoso decesso e solleciterò la presentazione di una Interrogazione Parlamentare a risposta scritta ai Ministri della Giustizia e della Salute per conoscere la dinamica e le cause della morte del detenuto e se durante la sua permanenza in Istituto abbia avuto tutta la sorveglianza e l’assistenza sanitaria di cui aveva bisogno, in forma adeguata ed efficiente. *Radicali Italiani Avellino: emergenza sanità nella carceri, trasmessi gli atti in Procura di Valentina Stella Il Dubbio, 27 luglio 2019 L’iniziativa dei Giudici di Sorveglianza per le difficoltà legate al sovraffollamento. Anche nella provincia di Avellino è emergenza carcere. Lo denuncia al Dubbio il responsabile regionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere penali, l’avvocata irpina Giovanna Perna: “Come ha confermato il rapporto Antigone, anche qui esiste il problema del sovraffollamento”. La Casa Circondariale Bellizzi di Avellino, secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 18 luglio, ospita su 501 posti regolamentari 599 detenuti. Mentre quella di Ariano Irpino 327 su 275 posti regolamentari di cui 5 non disponibili. Nella casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi invece ci sono 175 reclusi a fronte dei 126 posti regolamentari. “Le strutture dell’Alta Irpinia - prosegue Perna così come sono dislocate territorialmente non facilitano i colloqui dei detenuti con i familiari, soprattutto di quelli napoletani”. Questa criticità si aggiunge ad altre, che l’avvocata Perna raccoglie durante i colloqui settimanali che ha con i detenuti, anche come collaboratrice del Garante provinciale delle persone private della libertà personale: “In carcere il caldo si fa sentire molto di più, le strutture spesso sono fatiscenti, e molte volte non vengono effettuate attività trattamentali soprattutto nell’istituto di Ariano Irpino, dove ci sono purtroppo molti detenuti giovani, classe 1991, che non fanno nulla durante tutto il giorno. Ciò incide negativamente sul fine rieducativo della pena. Fino a qualche giorno fa c’era un solo educatore per oltre 150 persone. Addirittura un detenuto mi ha raccontato che è da 26 mesi che tenta di avere un incontro con un educatore ma ancora non gli è stata fornita questa possibilità”. Le conseguenze di questa situazione, ci spiega l’avvocata, sono le rivolte in carcere, perché “i detenuti non sono occupati e il tempo non passa mai”. La ciliegina sulla torta di questa rappresentazione è la carenza di assistenza sanitaria: “Dobbiamo registrare una mancanza di farmaci e l’assenza di psichiatri in questi tre istituti. Accertare adeguatamente un disagio psichiatrico potrebbe consentire al magistrato di sorveglianza di sostituire la carcerazione con una pena meno afflittiva. Con tutti questi problemi è necessario che il legislatore intervenga con una certa urgenza”. La situazione sanitaria è talmente critica che i magistrati di sorveglianza hanno trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica. Ma fino ad ora nessun miglioramento, anzi, racconta l’avvocata al Dubbio: “Qualche giorno fa un detenuto in preda ad un raptus non gestito da un punto di vista farmacologico ha aggredito al viso il suo legale”. Una situazione che incide anche sul lavoro della polizia penitenziaria: “Gli agenti non riescono a svolgere in maniera serena la loro funzione”. La Camera Penale irpina per sanare in parte questa situazione ha deciso di riattivare da settembre lo “sportello carcere”, attraverso il quale si orientano i detenuti e attraverso cui alcune istanze vengono anche trasmesse al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Auspichiamo che ci siano tanti colleghi volontari - chiude l’avvocata Perna - per dare un contributo. Lo sportello aiuta a dare delle risposte a quei detenuti che o non hanno un difensore o lo hanno ma non si presenta ai colloqui; oppure a quei reclusi che vogliono aggiornamenti sulle leggi che continuamente cambiano. O ancora a quelli che potrebbero uscire dal carcere perché mancano loro pochi mesi da scontare ma nessuno li notizia in tal senso”. Castrovillari (Cs): Comune e Casa circondariale per il riscatto dei detenuti di Giuseppe Natrella lameziaoggi.it, 27 luglio 2019 Quando educazione si coniuga con il rispetto della persona, dell’esistente per la crescita e lo sviluppo del patrimonio quanto della dignità. Nello spirito dell’art. 27 della Costituzione, il trattamento rieducativo dei soggetti “ridotti in vinculis” deve tendere “al reinserimento sociale degli stessi, il lavoro all’interno ed all’esterno degli Istituti Penitenziari, anche accompagnato da opportune iniziative di formazione e tutoring, rappresenta uno strumento fondamentale di rieducazione, recupero e reinserimento sociale dei soggetti detenuti in espiazione di pena definitiva. Ed è esattamente con lo stesso spirito che la Casa Circondariale ed il Comune di Castrovillari hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per la promozione del lavoro di pubblica utilità. Attraverso tale protocollo si è poi sviluppato il progetto dal titolo “Mi riscatto per l’ambiente” che vedrà impegnati sul territorio cittadino quattro detenuti nella cura di alcune aree verdi ubicate in zone centrali della Città. A seguito della stipula della convenzione- spiega l’Amministrazione Lo Polito- sottoscritta presso la Casa Circondariale dal direttore, Giuseppe Carrà,e dall’Assessore all’Ambiente, Pasquale Pace, delegato dal Sindaco, il progetto in questione sarà attivato operativamente dal prossimo 31 Luglio e proseguirà fino al mese di Ottobre anche attraverso il contributo dei Lions,Kiwanis, Rotary di Castrovillari e dell’associazione Anpana che avrà il compito di accompagnare i detenuti su loro posto di lavoro. Presenti alla firma della convenzione anche l’ingegnere Roberta Mari, responsabile del Settore Pianificazione e Gestione del Territorio del Comune, la dott.ssa Maria Pia Barbaro, funzionario Giuridico Pedagogico e l’avv. Luigi Bloise che ha curato per conto della Casa circondariale il complesso iter burocratico per l’attivazione di tale protocollo d’intesa. Si è poi proceduto, con una breve lezione dimostrativa, all’utilizzo dei dispositivi di sicurezza e degli strumenti per espletare la manutenzione delle zone verdi da parte di Francesco Alessandria, dipendente municipale. Carrà ha tenuto a sottolineare come “questa buona pratica di reinserimento sociale fa parte di un percorso riabilitativo teso a valorizzare la presa di coscienza degli errori commessi da parte dei detenuti che, così, decidono di restituire alla società, sotto forma di contributo lavorativo ed effettivo, una parte delle loro azioni pregresse”; mentre l’assessore Pace ha evidenziato come “l’amministrazione abbia subito colto questa opportunità per contribuire a dare dei segni tangibili di riscatto sociale utilizzando, appunto, le tematiche ambientali e di decoro urbano, individuando delle aree interne della città piuttosto che quelle periferiche al fine di favorire tale processo di riscatto sociale”. Entrambe le parti infine auspicano che questo sia solo l’inizio di una sempre maggiore collaborazione istituzionale tesa ad accrescere quelle compartecipazioni a più voci fondamentali per inclusioni possibili. Santa Maria Capua Vetere (Ce): la Regione dona 180 frigoriferi ai detenuti ilmonito.it, 27 luglio 2019 Ieri mattina il Garante per i diritti dei detenuti in Campania Samuele Ciambriello, insieme al magistrato di Sorveglianza Marco Puglia, all’assessore regionale per le Politiche Sociali Lucia Fortini hanno fatto visita ai detenuti della Casa circondariale Uccella di Santa Maria Capua Vetere. Dalla Regione sono stati donati 180 frigo nuovi per i reparti Senna, Tamigi e Tevere. Sono stati inoltre attivati, come ricorda la direttrice del carcere Elisabetta Palmieri, due laboratori di sartoria dove gli stessi detenuti realizzeranno borse, accessori e vestiti per i trasferimenti dei detenuti. Il tutto gestito dall’amministrazione penitenziaria e dalla cooperativa Lazzarelle. “In questo carcere ci sono gravissimi problemi di sovraffollamento, mancanza di personale penitenziario e problematiche igienico sanitari. Gli allacci dell’impianto idrico sono fermi da più di tre anni, nonostante le risorse regionale. I fondi stanziati dalla Regione sono nelle mani dell’amministrazione comunale di Santa Maria Capua Vetere. Pochi educatori e psicologi. Quei pochi che lavorano hanno a disposizione solo pochi minuti al mese da dedicare ai detenuti. Così il carcere toglie non solo libertà ma anche la dignità e i processi di reinserimento” - denuncia Ciambriello. Il magistrato Marco Puglia commenta: “Qui c’è una folta compagine del clan dei Casalesi, è un territorio difficile ma vivere male il carcere rende difficile il reinserimento nella società di queste persone”. Lucia Fortini: “La Regione sta puntando sul welfare, bisogna investire sulle persone”. Alessandria: un percorso di umanità all’interno delle carceri di Andrea Antonuccio lavocealessandrina.it, 27 luglio 2019 Alla scoperta di “Betel”. Intervista a Francesco Bombonato, presidente dell’associazione. Francesco Bombonato, classe 1956, insegnante del Cnos-Fap, Centro Nazionale opere salesiane - Formazione aggiornamento professionale, in pensione, sposato da 41 anni e con un figlio, è impegnato da molti anni con Betel, di cui ricopre la carica di presidente. Betel è un’associazione di volontariato penitenziario, che svolge il proprio servizio sia all’interno degli istituti di pena di Alessandria (Don Soria e San Michele), sia all’esterno con ospitalità di detenuti in permesso premio, familiari in visita, persone agli arresti domiciliari o scarcerate. Lo intervistiamo in occasione della modifica dello statuto, passaggio “obbligato” dopo il Decreto legislativo n. 117 del 3 luglio 2017 che ha ridisegnato il Terzo settore in Italia. Francesco, Betel non è più una Onlus? “In realtà abbiamo modificato alcune parti dello statuto adattandolo alle nuove disposizioni. Ora siamo una “Odv”: Organizzazione di Volontariato. E abbiamo anche un nuovo logo”. Ma cambiano anche i vostri scopi e il vostro modo di operare in carcere? “Assolutamente no. Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: colloqui, guardaroba per la distribuzione di indumenti e materiale per l’igiene personale, sostegno agli indigenti, corso di musica, gruppo di preghiera e diversi servizi, tra cui l’ottico e lo sportello di Segretariato sociale a seguito del protocollo operativo tra Patronato Acli, Istituti penitenziari “Cantiello e Gaeta” e Betel, sottoscritto nel 2017. E con alcuni detenuti è nato un progetto di adozioni a distanza, in cui i detenuti stessi si tassano mensilmente per sostenere quattro bimbi in Kenya. E poi vorrei sottolineare la collaborazione con il Polo Universitario operante a San Michele, nelle relazioni tra segreteria dell’Università e detenuto studente”. Di che si tratta? “Il carcere di San Michele è polo universitario. I detenuti meritevoli, e che ne fanno richiesta, possono frequentare alcune facoltà dell’Università del Piemonte Orientale. La parte culturale è molto importante per il recupero personale e sociale di chi ha commesso reati, anche gravi. Più si fanno attività formative durante la detenzione e meno si incorre nella recidività. Per capirci, con la formazione e lo studio si passa dal 70% di “rientro” in carcere a fine pena, al 30%”. Come vi sostenete? “La Betel non ha spese di struttura: la nostra sede, in via Vochieri 80 ad Alessandria, è messa a disposizione dal Csvaa (Centro Servizi Volontariato Asti e Alessandria, ndr), che ringraziamo per questo; non ci sono persone stipendiate o collaboratori in qualche modo retribuiti. Siamo tutti esclusivamente volontari a costo zero”. Ma allora da dove traete le risorse per fare quello che fate? “Noi innanzitutto non abbiamo vergogna a chiedere, perché l’obiettivo ci sembra nobile ed evangelico: visitare i carcerati è un’opera di misericordia corporale. Ma non solo. Riveste anche una funzione sociale, perché si entra in sintonia con persone che sono in un percorso di detenzione e di recupero nello stesso tempo. Devo confessare che spesso anche noi volontari “mettiamo del nostro”, soprattutto quando vediamo situazioni particolarmente gravi, o disperate”. Ma questo non è compito dello Stato? “Certamente, ma i bisogni sono tantissimi, le persone dedicate, pur molto impegnate e coinvolte, non sono numericamente sufficienti. Il volontario è una forza aggiuntiva all’opera complessiva di rieducazione. In più, è una figura senza ruoli istituzionali: non è un giudice, un avvocato, un agente e così via, e quindi ha la possibilità di instaurare un rapporto più diretto e non “condizionato” con il detenuto, considerato soprattutto come persona. Con i suoi bisogni, le sue angosce e le sue difficoltà”. Torniamo alle risorse… “Da diversi anni dalla Diocesi riceviamo un fondamentale contributo economico, che deriva dall’8xmille. Questo contributo, di cui siamo molto grati, ci consente di intervenire in grande misura sulle necessità concrete e quotidiane dei carcerati e delle loro famiglie, che vivono evidentemente delle situazioni di disagio, anche economico. Il contributo ci ha permesso di continuare il progetto “Casa Betel”, due bilocali in affitto destinati all’accoglienza temporanea di detenuti, ex detenuti e loro familiari. Ma cerchiamo anche di venire incontro alle esigenze che per noi sono scontate: penso, per esempio, al caffè, al tabacco o alla bomboletta del gas per il fornelletto. Sembrano banalità, ma ci sono persone recluse che non hanno nulla e rischiano di peggiorare la loro condizione fino ad arrivare a compiere atti di autolesionismo”. Immagino che quando parli di Betel alcuni ti dicano che in fondo non vale la pena aiutare persone che hanno commesso reati, a volte anche gravi: in fondo, ricevono quello che si meritano… Tu cosa rispondi? “La risposta è complessa e allo stesso tempo semplice: sono persone, e noi vogliamo incontrarle vedendole così, come persone. Capisco che non sia facile o naturale: è un percorso impegnativo che deve portare a un rapporto tra me e l’altro che supera i bisogni immediati e diventa umanità. E questa umanità non è un colpo di spugna sulle responsabilità, a volte pesanti, di chi è in carcere”. E cos’è, allora? “Può essere l’inizio di una possibilità di riconciliazione, con se stessi e con le persone danneggiate dall’atto criminoso. Senza un rapporto perderemmo anche questa speranza e il mondo sarebbe molto più brutto. È proprio per questo desiderio di riconciliazione, che a volte è l’inizio di una conversione personale, che la figura del sacerdote all’interno del carcere è indispensabile. Perché lui può dispensare quel perdono sacramentale che io, da semplice laico, evidentemente non posso dare”. Cagliari: volti e voci dal carcere minorile, la vita dietro le sbarre di Alessandro Congia sardegnalive.net, 27 luglio 2019 Cosa accade all’interno dell’Ipm di Quartucciu, le attività e i laboratori dedicate ai ragazzi detenuti. All’esterno della struttura si sente il rumore dei decespugliatori in azione, caschetti e tuta di protezione indossata proprio da loro, i ragazzi detenuti all’interno del carcere minorile. Prima che il cronista acceda alla struttura dalla cancellata di colore verde, il frastuono degli utensili si attenua e la curiosità dei minori è palese. Varcata la soglia di ingresso, si apre un mondo cosiddetto “a parte”, dove i ‘reclusi’ devono scontare la pena detentiva per vari reati: all’IPM di Quartucciu, guidato dal direttore Enrico Zucca, c’è però un’atmosfera surreale: i poliziotti della Penitenziaria non indossano le divise, gli educatori sono persone sensibili e attente, così come pure i volontari che hanno creato e realizzato all’interno della struttura uno dei tanti bellissimi progetti. Cenni storici - Costruito all’epoca delle carceri d’oro (1980-81), l’Ipm di Cagliari doveva essere un carcere di massima sicurezza. Nel dicembre 1983 si decise invece di utilizzarlo come istituto per i minori, fino a quel momento detenuti in un braccio dell’ex carcere di Buoncammino a Cagliari. Fu adattato nel giro di pochissimi giorni. Mantiene le caratteristiche della massima sicurezza, con doppia cancellata che impedisce di vedere all’esterno dalle celle, sebbene il sistema di elettrificazione anti-scavalco del muro perimetrale non sia mai stato attivato. Firenze: presentazione del libro “Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione” takethedate.it, 27 luglio 2019 Lunedì 29 luglio 2019 alle ore 11.00 presso la Sala Gigli del Consiglio regionale della Toscana a Firenze, Franco Corleone, Corrado Marcetti, Saverio Migliori, Emilio Santoro e Grazia Zuffa invitano all’incontro promosso da Consiglio regionale della Toscana, Fondazione Giovanni Michelucci e Società della Ragione nella ricorrenza del Terzo Anniversario della scomparsa di Alessandro Margara per la presentazione del libro Carcere e Giustizia, ripartire dalla Costituzione a cura di Franco Corleone, Garante regionale dei diritti dei detenuti della Toscana. Il volume introdotto da Franco Corleone e Grazia Zuffa, raccoglie la discussione nata sull’uso populistico della giustizia penale e del carcere, quali armi contro i nemici sociali, avvenuta l’8 e 9 febbraio 2019 durante il convegno “Carcere e Giustizia ripartire dalla Costituzione rileggendo Alessandro Margara”. Come riferimento per la lettura del volume viene presentato il testo di Alessandro Margara su come rispondere alle leggi ingiuste e razziste, con le testimonianze di Francesco Maisto e Beniamino Deidda. “Meno stato e più galera”: così si esprimeva profeticamente Margara qualche anno fa. Seguendo il suo pensiero sono state due le questioni messe al centro del dibattito: l’intreccio tra penale e politica, il significato che la giustizia e il carcere hanno assunto nel senso comune. Gli autori e le autrici dei saggi sono: Stefano Anastasia, Maria Luisa Boccia, Lucia Castellano, Luigi Ferrajoli, Patrizio Gonnella, Tamar Pitch, Andrea Pugiotto e Giovanni Salvi. Sono pubblicate infine le conclusioni degli otto laboratori tematici che hanno preparato l’incontro di febbraio 2019: Città e sicurezza; Opg e Rems; 41bis e ergastolo; Droghe e carcere; Gli spazi della pena; Giustizia di comunità; Immigrazione e “sicurezza”; Donne e carcere. Il volume si chiude con il rapporto sull’avvio dell’Archivio Margara. Milano: San Vittore, in mostra la vita delle detenute “siamo persone, non reati” vanityfair.it, 27 luglio 2019 “PosSession” è una mostra in Triennale e un progetto che racconta come l’arte, la fotografia, e il teatro possono “salvare”. A dirlo e a dimostrarlo sono le stesse detenute. Per loro e con loro ci siamo messi in posa all’interno del carcere milanese, abbiamo ascoltato le loro storie, guardato i loro ritratti. Perché “che senso ha cambiare, se nessuno vuole vederlo?” “Quando entri in carcere, la prima reazione è quella di indossare una maschera. Come se quella non fossi tu, metti la tua vita in stand by, nell’attesa di uscire. Potresti solo svegliarti, mangiare, tornare a letto. Ma a un certo punto in me è scattato qualcosa, ho capito che pian piano dovevo aprirmi, era necessario intraprendere un percorso. Perché la mia vita è anche questa e devo affrontarla”. Sonia, con un passato da imprenditrice, parla dal giardino interno di San Vittore, sezione femminile, e mentre lo fa tiene in mano un pacchetto di sigarette e una macchina fotografica. Intorno a lei c’è un piccolo gruppo di volontari, cittadini, tutte donne. Donne come lei, come Elisa ed Elena, che a qualche metro di distanza stringono altre reflex. A scattare sono un po’ tutti, ma le più esigenti sono loro tre. Cercano la luce giusta, tra gli alberi e le panchine del cortile, ti chiedono di metterti in posa ma non troppo. “Le foto più belle sono quelle spontanee”, sostiene Sonia, a San Vittore da due anni. È il secondo workshop, in poche settimane, organizzato all’interno del carcere milanese, fa parte di un progetto più ampio. Un vero set fotografico è entrato per la prima volta all’interno del reparto femminile, la regista e fotografa Cinzia Pedrizzetti ha immortalato otto detenute all’interno delle loro celle, e non solo. Il risultato - sedici ritratti inediti (e insoliti) - sono diventati una mostra (PosSession), visibile alla Triennale di Milano fino al 28 luglio, grazie alla collaborazione tra il direttore “illuminato” della casa circondariale San Vittore Giacinto Siciliano e Stefano Boeri, direttore della Triennale. Le otto detenute, oltre a lasciarsi fotografare (con gli abiti di scena e non) e a imparare a farlo, hanno preso parte a un laboratorio teatrale ispirato ai diari di Frida Kahlo, di cui alcuni passaggi sono stati riscritti e reinterpretati dalle detenute stesse. Lo spettacolo Diarios de Frida, diretto da Donatella Massimilla del Cetec, è andato in scena nel giardino della Triennale il 23 luglio alle ore 21. Quelle stesse donne - per una sera - sono state così protagoniste delle mostra, attrici - molto emozionate - sul palco (grazie a un permesso speciale) e a loro volta hanno scattato altri ritratti ai milanesi presenti. Pedrizzetti e Siciliano hanno già in mente una nuova mostra. “Da molti anni lavoro nelle carceri e credo che il recupero delle persone passi attraverso la creatività”, spiega il direttore, che prima di San Vittore è stato responsabile di Opera. Solitamente quando una persona viene arrestata, gli altri applaudono. Per lui sono importanti altri tipi di applausi: “Quelli giusti, quelli meritati, gli applausi che riconoscono un cambiamento, ciò che sei riuscito a fare e diventare”. Elena, Sonia ed Elisa ci stanno provando. “Fotografare mi è sempre piaciuto, farmi fotografare molto meno. Ho sempre avuto problemi con la mia immagine, anche quando la vedevo riflessa sui finestrini delle auto”, racconta ancora Sonia, “Qui non abbiamo specchi che ci permettano di guardarci a figura intera. Abbiamo solo quelli piccoli, da trucco, che non riescono nemmeno a inquadrare il nostro volto. Così la prima volta che mi sono vista in foto, dopo tanto tempo, mi ha fatto un grande effetto”. E ancora: “L’arte per me è sempre stata fondamentale non pensavo di trovarla qui dentro. Anche noi sentiamo il bisogno di emozionarci, di piangere, di tirare fuori quello che proviamo. Non è facile, ma vogliamo riuscirci”. Si avvicina anche Elena, fa cenno di sì con la testa, è d’accordo, si siede accanto a Sonia. Le due, che hanno una storia molto diversa alle spalle, oggi sono amiche. “Qui dentro il women power si sente davvero, è fortissimo. Si diventa complici, sorelle”. Elena ha gli occhi grandi, blu e malinconici. Non ama parlare di sé: “Sono sempre stata molto timida”. Ha 39 anni, e in cella ne ha trascorsi quasi venti. “La prima cosa che fanno qui è privarti dei tuoi affetti. Io non posso ricevere telefonate, né avere colloqui, ho però riscoperto le lettere. Quando vieni privata di tutto, sei costretta a guardarti dentro. Per un bel po’ io non l’ho voluto fare. Faccio teatro da due anni, l’arte mi ha salvata, mi permette di mostrare che sono cambiata. Perché che senso ha cambiare, se nessuno vuole vederlo?”. Di quel che ha fatto, continua, oggi ha consapevolezza. “Abbiamo sbagliato, certo, ma abbiamo le stesse paure e le stesse difficoltà delle persone che stanno fuori. Qui dentro non ci sono solo reati ma persone”. La prima volta che ha visto i suoi ritratti anche Elena si è emozionata: “Ho da sempre problemi di autostima, negli anni mi sono fatta solo del male, non ho mai creduto in me stessa. Ora ci sto lavorando”. Cinzia Pedrizzetti ha voluto fotografarle in cella ma non come si fa di solito: in bianco e nero, dietro le sbarre. “Le ho immaginate semplicemente come donne, non mi sono fatta suggestionare né da chi fossero, né dal perché siano lì. Da una parte, abbiamo usato neon, luci artificiali, simili a quelle di un palco, per ritrarle nella loro vita quotidiana. Dall’altra parte, abbiamo mantenuto la luce naturale del carcere per immortalarle con gli abiti di scena”. L’alchimia è stata immediata. “Queste foto mi hanno colpito subito. Sono potenti. Mi piace quello che trasmettono. Che raccontino la trasformazione. Una rinascita attraverso l’arte. Sembra che questi ritratti dicano: “Guardami sono qui, voglio farcela, voglio riprendermi il mio spazio e te lo dimostrerò”“, spiega Siciliano. Da qui il titolo della mostra, PosSession: l’arte che si impossessa di chi la pratica e di chi la fruisce. Il futuro? “Vorrei essere riconosciuta per quella che sono oggi, non per quello che ho fatto in passato. Sono Elena, sono una persona”. Le manca poco più di un anno. Elena ha diversi tatuaggi. C’è una frase, che gira intorno al suo braccio: Come l’acqua dentro il mare. È il titolo di una canzone dei Modà. Non temere di sbagliare/Perché aiuta le persone ad imparare/ E sappi che tra il bene e il male/ Alla fine vince il bene. Volterra (Pi): teatro del carcere, impegno della Regione per coordinamento e mediazione cittametropolitana.fi.it, 27 luglio 2019 La vicepresidente della Giunta regionale risponde a un’interrogazione della consigliera Irene Galletti (M5S) sulla realizzazione dell’intervento. “La Regione Toscana non è formalmente coinvolta nell’iter amministrativo per la realizzazione del teatro nel carcere di Volterra. Il ministero di Grazia e giustizia ha stanziato un milione e 280mila euro e ha affidato queste risorse al Provveditorato alle opere pubbliche”. Lo ha dichiarato la vicepresidente della Giunta regionale, Monica Barni, rispondendo a un’interrogazione di Irene Galletti (M5S), aprendo ieri pomeriggio la seduta della commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd). Barni ha precisato che questo non fa venire meno l’impegno regionale “in un ruolo informale di coordinamento e mediazione”. È stata, infatti, assicurata la partecipazione della Regione alle riunioni sul tema, l’ultima delle quali si è svolta a Pisa il 18 luglio scorso, con tutti i soggetti interessati (dal sovrintendente di Pisa, al provveditore alle opere pubbliche penitenziarie di Toscana, Umbria e Marche, dagli architetti incaricati dalla soprintendenza e dall’amministrazione penitenziaria al rappresentante dei vigili del fuoco). “Abbiamo constatato che i progetti presentati fino ad ora presentavano qualche criticità, ma non c’è alcuna volontà di non realizzare il teatro - ha dichiarato la vicepresidente - Presto faremo un altro sopralluogo nel carcere di Volterra con tutti i soggetti interessati. È un patrimonio culturale che ha bisogno di particolare attenzione, con vincoli di varia natura, anche paesaggistici. Uno stralcio chiesto dal provveditorato alle opere pubbliche permetterà di avere comunque disponibili le risorse”. “È un progetto che ha una valenza importante sotto vari profili, specie per una città come Volterra. Ci auguriamo che una soluzione comunque venga”, ha replicato la consigliera Irene Galletti, dichiarandosi soddisfatta della risposta. Matera: un premio letterario per i detenuti di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 27 luglio 2019 “Riconoscere l’umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”: è il titolo del premio letterario Carlo Castelli, giunto alla dodicesima edizione, che sarà assegnato, ai detenuti e alle detenute delle carceri italiane, venerdì II ottobre presso la Casa circondariale di Matera, su iniziativa della Società di San Vincenzo de Paoli. “Non importa la nostra condizione sociale, non contano i luoghi che abitiamo e le situazioni che viviamo. Conta il sentimento che siamo capaci di generare, il rispetto e l’attenzione che sappiamo dare agli altri, anche quando non ci piacciono o li sentiamo ostili. Anch’essi - spiegano gli organizzatori - sono portatori di bisogni e possono vivere condizioni di disagio di cui in qualche modo possiamo farci carico. Avere compassione, fare il bene nei modi che ci è possibile, appaga in noi il bisogno di umanità, genera e trasmette serenità, annulla qualsiasi distanza e differenza. Insomma, favorisce una nuova convivenza, più giusta e più degna, apre la porta della speranza, ci fa vivere meglio”. Nell’ambito del premio si terrà il convegno dal titolo: “In carcere con umanità - Nell’incontro la scoperta dei valori comuni”. La vita oltre le sbarre: “Liberaci dai nostri mali”, il libro-reportage di Katya Maugeri di Maria Stefania D’Angelo sicilianpost.it, 27 luglio 2019 La giornalista catanese guarda a fondo nel mondo delle carceri attraverso le testimonianze di sette detenuti. Storie che costringono il lettore a confrontarsi con le domande più scomode e infrangere il muro del silenzio. La giornalista catanese guarda a fondo nel mondo delle carceri attraverso le testimonianze di sette detenuti. Storie che costringono il lettore a confrontarsi con le domande più scomode e infrangere il muro del silenzio Sembra quasi di sentire il rumore delle chiavi che aprono e chiudono cancelli arrugginiti, lasciando lì, fermo e immobile, quello spaccato di umanità. Che esiste. E va oltre le sbarre, i reati commessi e i pregiudizi. Storie di vita, errori, sogni spezzati e quel bivio. Sembra quasi di sentire il rumore delle chiavi che aprono e chiudono cancelli arrugginiti, lasciando lì, fermo e immobile, quello spaccato di umanità. Che esiste. E va oltre le sbarre, i reati commessi e i pregiudizi. Storie di vita, errori, sogni spezzati e quel bivio - tra scelte giuste e sbagliate, tra speranza e disperazione. Uomini. C’è tutto questo nelle pagine del libro-inchiesta Liberaci dai nostri mali, scritto dalla giornalista catanese Katya Maugeri, con la prefazione di Claudio Fava e la postfazione del giornalista Salvo Palazzolo, pubblicato lo scorso aprile dalla Villaggio Maori Edizioni. Un registratore, un taccuino per annotare le sue ore d’aria e il coraggio di un’attenta cronista, che racconta il dramma umano, il disagio psicologico di chi ha commesso un reato, lasciando fuori sogni e rimpianti. Un viaggio dentro le carceri per rompere il muro del silenzio, contrastare l’indifferenza e rispondere a domande scomode. Come preservare la dignità umana? Come accompagnare i detenuti a ricostruire un percorso di vita? Cosa c’è dietro ogni reato? Ma soprattutto come garantire al detenuto opportunità reali di inserimento dopo la fine della pena? Domande che, neanche a dirlo, sono accompagnate da numeri in crescita: più suicidi nelle carceri, più casi di recidiva, lì fuori. Quel fuori tanto desiderato e immaginato da una finestra, in una stanza piccola, dove si fa fatica persino a vedere il cielo. Quel fuori, dove diventa difficile e faticoso restare. Che esclude le fragilità. Dal reato al cambiamento. “Non lo so perché si sceglie questa strada, sa? Cosa passa nella nostra mente? Chi lo sa, forse un corto circuito che annulla il concetto di bene e male”. “Noi avremo sempre un marchio indelebile che brucerà sempre”. “Questa pena continuerò a scontarla anche fuori”. Sono solo alcune delle testimonianze raccolte dalla giornalista catanese, che aprono una lente di ingrandimento sulla vita che scorre oltre le sbarre, una vita macchiata da errori che diventano macigni dai quali è difficile liberarsi. Sette storie, sette uomini, sette persone - e non soltanto detenuti - che affidando alla giornalista il loro io, quello imperfetto, quello dalle tinte scure, quello che merita di essere ascoltato. E proprio dall’ascolto, da quella conversazione, si ha quasi la sensazione di restituire dignità e un po’ di pace. Perché contro quel silenzio assordante, che non lascia spazio al cambiamento, ma solo all’errore, qualcuno ha scelto di premere play e raccontare la realtà carceraria lasciata spesso in ombra. E dare voce alle fragilità, alle debolezze: rimettere al centro le persone, che cercano in tutti i modi di cambiare. Di non essere più quel figlio sbagliato, quell’uomo da evitare, quel padre di cui vergognarsi. Oltre le apparenze. La vita in carcere scorre lenta, è un distacco dalla realtà e ridefinisce i confini tra dentro e fuori, passato e presente. Un tempo che dovrebbe servire alla riflessione, smaltire la rabbia, superare ogni forma di colpa e prendere coscienza delle responsabilità. È questo il senso delle pagine di Liberaci dai nostri mali, un chiaro invito a guardare da vicino una realtà, cruda, difficile, ma a cui non possiamo sottrarci. Dopotutto “è facile ascoltare soltanto belle storie a lieto fine - scrive la Maugeri - che ci raccontano l’amore e le sfumature che siamo abituati a riconoscere, le sole che accettiamo. E i colori che non conosciamo? Quelli scuri, magari opachi, offuscati. Brutti. Perché la società non ha spazio per le imperfezioni”. Un lavoro giornalistico. Da cronista, sensibile alle tematiche a forte impatto sociale, l’autrice racconta uno spaccato di umanità, non attingendo a notizie o dati che rimbalzano sul web, ma “oltrepassando le sbarre”, raccogliendo fisicamente le testimonianze per dare voce prima di tutto alla persona. ? un libro che smuove le coscienze, restituisce i contorni di una verità aspra, spinge alla riflessione attraverso il dramma di uomini che dal carcere dovrebbero trovare quella spinta per cambiare. Ma se quei macigni sono ancora lì dopo anni, qual è allora il ruolo della pena? Non dovrebbe forse aiutare a rieducare il detenuto? Ecco dunque che Liberaci dai nostri mali assume una duplice valenza: ricostruire l’identità del carcerato e recuperare il ruolo del giornalista. Superare la logica della notizia “facile”, rimettere al centro il valore della verità ma soprattutto non smettere mai di interrogarsi sui fatti. Ascoltare e osservare, perché come scrive Claudio Fava nella sua prefazione: “se non guardi, se non ascolti, fai solo cronaca, ricompili fatti e li metti in bella calligrafia, ti annoi e annoi gli altri. Katya invece fa giornalismo”. Migranti. Salvini blocca la Guardia Costera: no allo sbarco di 135 persone di Erika Dellapasqua Corriere della Sera, 27 luglio 2019 Un nuovo “caso Diciotti”. Il ministro dell’Interno: non avranno un porto finché la Ue non si farà carico di tutti. Il Viminale nega lo sbarco a Lampedusa anche alla nave della Guardia costiera italiana che ha accolto a bordo i migranti - 135 persone - soccorsi giovedì dal peschereccio “Accursio Giarratano” (qui l’intervista al comandante) a cinquanta miglia da Malta. “Ho dato disposizione - ha detto il ministro dell’ Interno Matteo Salvini aprendo così un nuovo caso Diciotti - che non venga assegnato nessun porto prima che ci sia sulla carta una redistribuzione in tutta Europa dei migranti a bordo”. Non solo le Ong, allora. Adesso la contesa sulle modalità di salvataggio in mare e sull’ approdo nel porto più sicuro coinvolge anche le imbarcazioni della nostra Guardia costiera, in questo caso la “Gregoretti”, bloccata al largo coi migranti salvati a bordo. Stando alla ricostruzione del comandante del peschereccio di Sciacca, in provincia di Agrigento, Malta non avrebbe risposto al sos. Quindi, per uscire dallo stallo, sarebbero intervenuti i soccorsi italiani. Sulla strada del ritorno verso Lampedusa, però, con lo stop imposto da Salvini, lo scenario è diventato anomalo: da una parte il Viminale, dall’ altra le navi militari. In quelle ore, prima di rendere pubblico il caso e senza autorizzare sbarchi sulle coste italiane, fonti del ministero dell’ Interno fanno trapelare che della vicenda è stata investita anche la Commissione europea, con l’ obiettivo di delegare all’ Europa le operazioni di ricollocamento dei 135 migranti soccorsi. La risposta di Bruxelles, che promette di “prendere contatti con gli Stati membri come già fatto in passato” non appare sufficiente e così, alla fine, Salvini parla pubblicamente aprendo nuovi scenari di scontro: “Nessuno sbarcherà finché non ci sarà nome, cognome e indirizzo dei Paesi che ospiteranno i migranti: fidarsi è bene, ma io faccio come San Tommaso”. Scontro esterno, in Europa, perché è ogni giorno sempre più evidente la frattura con l’ asse franco-tedesco che vorrebbe ristabilire il principio dell’ approdo nel porto più sicuro, e anche più vicino. Posizione, questa, chiaramente non condivisa dall’ Italia e nemmeno da La Valletta. E scontro interno perché, sul piano politico, la vicenda riguarda anche il ministro dei Trasporti M5S Danilo Toninelli, che Salvini vorrebbe fuori dal governo anche perché contrario alla Tav. “Con il veto all’ attracco della Gregoretti la Guardia costiera è stata commissariata da Salvini, però le navi dipendono dal ministero dei Trasporti e non da quello dell’ Interno - attacca Andrea Romano del Pd: Toninelli dove sta?”. Duro anche il deputato Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, che salì a bordo della Sea Watch della comandante Carola Rackete: “Non si è mai visto che a una nave delle forze armate venga impedito l’ attracco in un porto della propria nazione”. Intanto la delegazione di Fratelli d’ Italia al Parlamento europeo ha chiesto al neopresidente David Sassoli un suo intervento ufficiale per evitare che la Rackete sia audita in commissione Giustizia: “C’ è un procedimento giudiziario, è necessario attenderne l’ esito”. Migranti. Flick: “Le Ong si criminalizzano senza prove. Salta l’obbligo al salvataggio” di Carlo Lania Il Manifesto, 27 luglio 2019 L’allarme del presidente emerito della Corte Costituzionale. L’ex ministro: “Per l’art. 3 della Carta la dignità sociale va riconosciuta a tutti, cittadini e migranti. Il giorno in cui nel Mediterraneo morivano 150 persone, l’Italia vota l’inasprimento del decreto sicurezza. Attenti, così si dà forza alla cultura dell’odio”. “Ci sono tre esempi emblematici di soggetti che oggi in particolare vivono situazioni di diversità e discriminazione e verso i quali si scatena l’intolleranza: uno è l’ebreo, con l’antisemitismo che sta rinascendo pesantemente. L’altro è la donna, vittima di una cultura che prima la vuole in casa a pensare ai bambini e poi si trasforma in una subcultura del femminicidio quando afferma “non sei più mia e allora non sei di nessuno”. Infine c’è l’immigrato, il diverso per definizione. Non si può affrontare l’immigrazione dimenticando la pari dignità sociale di tutte le persone (cittadini e stranieri) perché si rischia di imboccare una strada nella quale la diversità è madre dell’intolleranza, e da questa può nascere l’odio. Penso che i due decreti immigrazione-sicurezza possano in un certo modo rappresentare passi in quella direzione, e il secondo - il quale persevera - preoccupa per questo quasi più del primo”. Giovanni Maria Flick è stato presidente della Corte costituzionale e ministro della Giustizia nel primo governo Prodi. Presidente cosa la preoccupa di più del secondo decreto sicurezza? Non c’è nessun tipo di “ravvedimento operoso”, come viene chiamato dai penalisti, per quanto riguarda i migranti; anzi al contrario si rafforzano gli ostacoli al salvataggio in mare da parte delle organizzazioni non governative. La previsione di una sanzione amministrativa elevata e la possibilità di arresto in flagranza per il comandante della nave che non rispetta l’alt ordinato dalle autorità sono misure che lasciano perplessi. Lascia ancora più perplesso la circostanza che per il divieto di accesso, sosta e transito si parli di presunzione di violazione della legge sull’immigrazione e di clandestinità: si presuppone cioè una complicità delle Ong nel traffico di esseri umani, non si comprende su quali elementi perché quella complicità non è stata in alcun caso e in alcun modo provata. Sulla base di cosa si presuppone questo collegamento? La formula mi pare ambigua: chi, dove, quando, come e dove opera quella presupposizione? Cade la presunzione di non colpevolezza. Da un lato cade la presunzione di non colpevolezza, dall’altro mi sembra che ci sia una clamorosa violazione del principio dell’obbligo di salvataggio in mare riconosciuto internazionalmente e dal nostro ordinamento, oltre che imposto dalla solidarietà che è un cardine della nostra Costituzione. E arriviamo al nodo di fondo della questione: la impossibilità di utilizzare i migranti come strumenti per convincere gli altri membri dell’Unione europea alla ripartizione di quei migranti. C’è una vecchia regola, fondamentale, secondo cui una persona non può mai essere strumento ma sempre e soltanto un fine. Non crede che si riduca tutta la questione dell’immigrazione a un solo problema di ordine pubblico? È un altro problema che mi preoccupa. L’articolo 3 della Costituzione stabilisce che la pari dignità sociale va riconosciuta a tutti, ai cittadini come ai migranti, come ribadito anche dall’articolo 10 della Carta relativo al riconoscimento dei diritti fondamentali dei migranti. Considero inaccettabile - come avviene già nel primo decreto sicurezza - intitolare il provvedimento alla immigrazione e alla sicurezza. Questo accoppiamento dà la sensazione dell’immigrazione come fattore di insicurezza. Proprio in queste ore stiamo vivendo una bruttissima vicenda come l’omicidio di un carabiniere mentre compiva il proprio dovere, che andrà accertato e represso con tutta la severità necessaria. Non vorrei però che la reazione emotiva di fronte a un fatto di queste genere potesse portare a generalizzazioni che nulla hanno a che vedere con il fenomeno migratorio (a prescindere da chi sia il responsabile di questo odioso omicidio). Lei è stato presidente della Corte costituzionale: ravvisa nel decreto sicurezza bis elementi di possibile incostituzionalità? Non ne faccio una questione di carattere tecnico. Noi ci dimentichiamo che la Costituzione - che io ritengo più che mai attuale ma purtroppo solo in parte attuata - ha previsto anche che i migranti hanno diritto all’asilo presso di noi non solo nel caso di fuga dalla guerra, come stabilito dalla Convenzione di Ginevra, ma anche nel caso in cui nel loro Paese non siano riconosciute le libertà fondamentali previste dalla nostra Costituzione. Era un gesto coraggioso (anche noi allora eravamo migranti) che guardava a un futuro in cui possiamo e dobbiamo essere un Paese di accoglienza sia pure con criteri e parametri di ragionevolezza. Mi pare invece una contraddizione avere un Costituzione che prevede la pari dignità sociale per i migranti e poi equiparare la migrazione a un fattore di insicurezza. Il decreto sicurezza bis contiene nuove misure sulle manifestazioni e l’ordine pubblico che alcuni leggono come un pericolo per la libertà di espressione. Condivide il giudizio? Ho visto con preoccupazione a Genova che un giornalista presente a una manifestazione è stato reiteratamente manganellato. C’è poi il tentativo di mettere a tacere Radio Radicale e la decisione di comprimere o sopprimere il finanziamento pubblico all’editoria, che non è un dovere ma rappresenta un gesto politico molto importante. La libertà di informare e di essere informati è uno dei fondamenti della democrazia e quindi della Costituzione. Nel voto di fiducia abbiamo assistito alla manifestazione di dissenso di alcuni deputati M5S e del presidente Fico. Ora il testo passa all’esame del Senato: pensa che la maggioranza sia a rischio? Non chieda a me valutazioni di rischio. Mi ha colpito che il giorno in cui nel Mediterraneo morivano 150 persone, l’Italia votava l’inasprimento della disciplina dl salvataggio in mare. Mi dà un po’ di tranquillità sul futuro di questo Paese vedere che al di là delle divisioni politiche qualche politico la pensa come me e come molti altri. Libia. Dopo il naufragio i corpi dei migranti lasciati al sole sulla strada di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 27 luglio 2019 Dei sopravvissuti un’ottantina è stata trasferita nel campo di detenzione di Tajura. Il primo segnale della tragedia appena consumata sono quattro sacchi di plastica nera gettati sul marciapiede in pieno sole contenenti i cadaveri di altrettanti migranti affogati. Arrivando ieri mattina sulle spiagge di Khoms, a metà strada tra Tripoli e Misurata, credevamo fossero in corso le operazioni di recupero degli annegati giovedì all’alba. Quanti siano ancora non è chiaro. “Probabilmente almeno 110, abbiamo già raccolto 62 cadaveri”, spiegano i rappresentanti locali della Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom). Ma in verità per lo più i corpi si impigliano per caso nelle reti dei pescatori oppure vengono gettati a riva dalle onde e le correnti dominanti da nord verso sud. Ogni tanto gli addetti della Mezza Luna Rossa e delle milizie locali li raccolgono per poi portarli all’obitorio dell’ospedale, che però è già colmo. Il racconto di questa che è già considerata la più grave strage di migranti del 2019 lo ascoltiamo nei dettagli da una settantina di sopravvissuti, per lo più giovani eritrei, tra loro qualche somalo, incontrati sotto una pensilina del porto. “Eravamo salpati in oltre 300 da Khoms con quattro gommoni mercoledì verso le undici di sera. Con noi anche una trentina di donne e molti bambini, che in grande maggioranza sono affogati. A cinque miglia dalla costa ci hanno fatto salire su una grande barca di legno, che però è avanzata solo una quindicina di miglia prima di affondare. Abbiamo scorto una gigantesca nave cargo battente bandiera turca, ma non si è fermata. Siamo saltati in acqua. Si sono salvati solo quelli che hanno avuto la forza di nuotare sette ore di fila per arrivare alla spiaggia”, spiega il 27enne Abdallah. I cadaveri di due suoi amici sono adagiati in un angolo. “Abbiamo paura. Non sappiamo dove ci porteranno. Vorremmo l’assistenza dell’Onu, qui non è sicuro, la polizia libica ci minaccia”, denunciano con forza altri giovani. Un pescatore locale rivela che il campo di detenzione per i migranti a Khoms è stato chiuso un mese fa dopo la scoperta che il suo direttore, Alì Abu Setin, era colluso con i trafficanti. Ma adesso il problema è pressante. Dove mettere tutta questa gente? Ci sono almeno 150 sopravvissuti alla tragedia di due giorni fa e ieri i guardacoste libici avevano fermato altre centinaia di migranti al largo. Un’ottantina sono già stati trasferiti al campo di Tajura, nelle periferie orientali della capitale. Ma è lo stesso luogo colpito dalle bombe di Khalifa Haftar lo scorso 3 luglio, quando almeno 53 migranti rinchiusi furono uccisi e un centinaio feriti. “Qui siamo in guerra tra le forze di Haftar e quelle legate al premier Fayez Sarraj. Non abbiamo più risorse per accudire i migranti. Presto dovremo chiudere i centri di accoglienza e liberarli tutti”, ammette il 51enne Abu Gela Abdel Bara, comandante delle unità guardacoste a Tripoli. Ieri sera si era preso l’incarico di accogliere 81 sudanesi fermati dai suoi marinai al largo di Garabulli e portati al porticciolo di Al-Hamidia. “Sto contattando personalmente i responsabili dei nostri campi. Se non trovo posto, questi li lascio per la strada”, continuava a ripetere. A un certo punto un ragazzo è scappato a piedi nudi verso la provinciale. Ma è stato subito catturato. “Adesso la paga”, ha esclamato un poliziotto che lo teneva per i polsi. Siria. Cento morti in dieci giorni. L’Onu: “Mondo indifferente” di Pietro Del Re La Repubblica, 27 luglio 2019 Bachelet denuncia i raid aerei russi e delle forze di Assad contro i civili a Idlib. Una scuola piena di bambini centrata da un missile di Mosca, un campo profughi colpito dalle granate dell’esercito del presidente Bashar al Assad e poi mercati, ospedali, forni distrutti dalle bombe con scientifica precisione. Dallo scorso aprile, la regione di Idlib, la sola ancora nelle mani della rivolta contro il regime di Damasco, è sotto attacco. I raid aerei russi sono ormai quotidiani, così come i bombardamenti dell’esercito lealista, provocando morti e feriti soprattutto tra i civili. Se n’è accorta anche Michelle Bachelet, l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, che da Ginevra ha denunciato ieri “il crescente numero di vittime civili causato in Siria da una serie di attacchi aerei a Idlib nella più totale indifferenza del pianeta”. L’ultima offensiva “da parte del governo e dei suoi alleati ha continuato a colpire strutture mediche, scuole e altre infrastrutture civili e sembra altamente improbabile che tali obiettivi vengano tutti colpiti per caso”, ha anche detto Bachelet. “Gli attacchi intenzionali contro i civili sono crimini di guerra e coloro che li hanno ordinati o condotti sono penalmente responsabili delle loro azioni”, ha poi ammonito l’Alto commissario. Nei soli ultimi dieci giorni, almeno 103 civili, tra cui almeno 26 bambini, sono morti negli attacchi aerei in dieci diverse località, di cui otto a Idlib e due nelle zone rurali di Aleppo. Ma la carneficina in Siria “non è più sul radar internazionale”. E sono agghiaccianti le ultime immagini che provengono da quella regione che era una volta il granaio della Siria e che ora è ridotta una gigantesca e malconcia tendopoli. Prima della guerra, Idlib contava un milione e mezzo di abitanti, poi con l’arrivo di chi è scappato davanti alla progressiva riconquista delle città da parte dell’esercito di Assad, se ne contano oggi più del doppio. Molte foto le aveva fatte girare Anas al-Dyab, il giovane volontario che dopo aver aiutato chi rimaneva sotto le macerie di un bombardamento fotografava gli orrori della guerra, e che domenica è stato decapitato da un razzo russo. Secondo l’attendibile Osservatorio siriano per i Diritti umani, Ong vicina alla rivolta con sede a Londra, dall’inizio dell’offensiva di aprile sono già stati uccisi 730 civili. Adesso, mentre la Bachelet si lamenta per la paralisi del Consiglio di sicurezza sulla Siria, l’opposizione siriana parla di genocidio. Lo Xinjiang che la Cina non fa vedere ai giornalisti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 luglio 2019 Dal 14 al 22 luglio le autorità cinesi hanno accompagnato nella regione autonoma uigura dello Xinjiang un gruppo di giornalisti provenienti da 24 diversi stati, tra cui l’Italia. I giornalisti, si legge nel resoconto del viaggio, hanno interagito a lungo con contadini, studenti, figure religiose, operai e personale dei centri per la formazione professionale. Ma quello che le autorità cinesi non hanno fatto vedere ai giornalisti è l’altro modo con cui stanno cercando di sconfiggere il terrorismo. Un modo su cui questo giornale aveva già scritto e che le recenti ricerche di Amnesty International hanno messo ulteriormente in luce: una campagna di internamenti di massa, sorveglianza abusiva, indottrinamento politico e assimilazione culturale forzata nei confronti degli uiguri, dei kazachi e di altri gruppi etnici a maggioranza musulmana dello Xinjiang. Esibire, anche in luoghi privati, affiliazioni culturali o religiose come portare barbe “abnormemente” lunghe, indossare il velo, pregare regolarmente, digiunare, evitare di assumere alcoolici o possedere libri o articoli sull’Islam o la cultura uigura (tutti indizi sospetti descritti nel “Regolamento sulla deradicalizzazione” adottato dalle autorità cinesi nel marzo 2017) può essere un motivo sufficiente per essere detenuti nei cosiddetti centri per la “trasformazione attraverso l’educazione”. In questi centri si trova almeno un milione uiguri musulmani (secondo recenti stime, si arriverebbe a un milione e mezzo), strappati alle loro famiglie. Non sono previsti processi, contatti con avvocati o forme di ricorso. Vi si può rimanere per mesi, poiché sono le autorità a decidere quando il detenuto sia stato “trasformato”. E magari possa raccontare ai giornalisti che il suo è un paese davvero felice.