“Una vita in cella fatta di barriere con meno occasioni di uscire” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2019 Presentato il rapporto di metà anno di Antigone sul sistema carcerario. I reati diminuiscono, perfino le entrate in carcere, ma nonostante ciò le nostre carceri sono tra le più sovraffollate d’Europa. Ma non solo. Se dovesse essere confermato il trend in crescita del sovraffollamento, tra cinque anni c’è il forte rischio di subire una nuova sentenza di condanna dalla Corte Europea come è accaduto con la Torreggiani nel 2013. Questo e altro ancora è emerso dalla conferenza stampa di ieri dell’associazione Antigone per illustrare il suo rapporto di metà anno sulla situazione carceraria del nostro Paese. Il presidente Patrizio Gonnella ha sottolineato come, soprattutto in questo contesto politico, sono state avanzate proposte di legge che vanno nella direzione esclusivamente carcerocentrica, tipo l’inasprimento delle pene, ma anche leggi che vanno addirittura ad allargare il 4 bis (l’articolo che vieta la concessione di benefici) nei confronti di alcune condotte da parte dei detenuti. Un pericolo scampato, per ora. Ma per Gonnella è “comunque sintomatico di un orientamento politico e culturale che rischia comunque di andare verso quella direzione”. E non è detto, sempre secondo il presidente di Antigone, che tali leggi non vengano riproposte dopo l’estate. Resta comunque il dato oggettivo che le nostre carceri rischiano non di non proiettare i detenuti verso la libertà, come dettato dalla nostra Costituzione. “Anche la vita detentiva - sottolinea Gonnella - è piena di barriere e si tende sempre di più a far vivere il detenuto all’interno della cella”. Il presidente Gonnella fa l’esempio della cosiddetta sorveglianza dinamica, quella che più volte viene stigmatizzata soprattutto da alcune sigle sindacali della polizia penitenziaria. “Eppure - sottolinea sempre Gonnella - dare la possibilità ai detenuti di uscire dalle celle, dà anche valore al ruolo dell’agente penitenziario che non si riduce solo al lavoro di custodia”. Dai dati raccolti da Antigone, basati sulle 33 carceri visitate quest’anno, si evidenzia dunque come la vita in carcere stia peggiorando. A completare il quadro della qualità della vita detentiva è il poco utilizzo di skype, da tempo contemplato dall’ordinamento penitenziario e ulteriormente indicato dalle circolari del Dap. “Ci si mette anche la recente circolare - aggiunge sempre Gonnella - che ha previsto l’obbligo di tenere spenta la televisione dopo la mezzanotte. Ma se i detenuti durante il giorno facessero qualcosa, invece di stare dentro in cella tutto il giorno - osserva il presidente di Antigone - prenderebbero subito sonno e non avrebbero la necessità di vedere la tv fino a tarda notte”. Ma il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Nel 2019, quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani, sono già 27, su un totale di ben 94 morti. È intervenuta Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, snocciolando alcuni dati. Il primo tra tutti è quello relativo agli stranieri. Al 30 giugno 2019, erano 137.151 i reati ascritti al totale delle persone presenti nelle carceri italiane. Una media di 2,3 reati a detenuto, con 1,8 in media a testa nel caso dei detenuti stranieri. Emerge con tutta chiarezza, quindi, che gli stranieri accumulano meno reati rispetto ai detenuti italiano. Non solo. Sempre al 30 giugno 2019. i detenuti stranieri sono il 33,42% dei reclusi. Erano il 33,95% sei mesi fa e il 35,19% sei anni fa, al tempo della sentenza di condanna da parte della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Torreggiani. Quindi Susanna Marietti sottolinea come l’evidente sopravvalutazione del problema, dovuta dai mezzi di informazione che alimentano una percezione errata. Se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’ 1,16% finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%. Ma il sovraffollamento è il protagonista del rapporto di metà anno di Antigone. Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. Il ministero della Giustizia precisa che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che non tiene conto però delle sezioni chiuse e addirittura il carcere di Camerino che è tuttora vuoto dal terremoto del 2016. La riposta del governo è però la costruzione di nuove carceri e l’utilizzo di caserme dismesse. Michele Miravalle di Antigone ha spiegato che non può essere la soluzione, sottolineando anche la questione dei fondi insufficienti. Ha evidenziato, infatti, che, a copertura delle disposizioni dell’art. 7 del Decreto Semplificazione, ci sarebbero circa 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. “Se si considera che il Piano Carceri del 2010 - ha spiegato Miravalle - aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti”. Ma allora dove si dovrebbe investire? Sicuramente facilitare l’accesso alle pene alternative. È il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma a spiegarlo con un suo intervento. A suo agio perché, ricordiamo, è stato uno dei fondatori di Antigone. “Ci sono circa 5.000 persone detenute che devono scontare meno di due anni- spiega Palma - ed è impensabile pensare a una riabilitazione attraverso un’opera trattamentale, mentre di solito ci vuole un anno di tempo, prima che si possa cominciare a intraprenderla”. Tanti non posso accedere alle misure alternative, anche perché non hanno gli strumenti, presentano vulnerabilità sociali e alcuni sono senza una casa. Il dato più importante che ha fatto emergere è quello delle poche entrante nelle carceri nel primo semestre rispetto ai semestri precedenti. “Se il sovraffollamento aumenta è perché in carcere si entra - sottolinea Palma - e non si esce più”. Interviene anche Rita Bernardini del Partito Radicale che, oltre a riaffermare tutte le criticità elencate, compreso il discorso del poco lavoro, ha ricordato l’imminente iniziativa radicale delle visite in carcere a Ferragosto, augurandosi la massima partecipazioni dei parlamentari, visto che la maggior parte di loro non hanno idea delle condizioni carcerarie. Antigone ha anche presentato la sua proposta di legge sull’estensione dei poteri che hanno i garanti e i parlamentari nei confronti dei sindaci. Ovvero riconoscergli il diritto e il potere di accedere e visitare gli istituti penitenziari senza dover ottenere previa autorizzazione. Per quale motivo? Il sindaco ha competenze che risultano di rilievo rispetto alla realtà penitenziaria in materia di salute, lavoro, formazione professione, anagrafe e assistenza sociale. Durante la conferenza stampa hanno trasmesso anche un breve filmato dove si denuncia la mancanza di tutela degli arrestati, anche prima di varcare il carcere. In una società dove tutto è controllato dalle telecamere, nel filmato promosso da Antigone emerge l’aspetto singolare dell’assenza di video sorveglianza nelle stazioni di polizia e nelle aree detentive dei tribunali. Ciò rende tutto più opaco e non assicura il rispetto delle persone arrestate né la sicurezza di chi vi lavora. La conferenza si è conclusa con Gonnella che ha ricordato un altro fondamentale ruolo di Antigone. Quello di far riaprire le indagini sui presunti maltrattamenti in carcere, come ad esempio è accaduto ad Ivrea grazie all’impegno del loro avvocato Simona Filippi. Suicidi, stranieri e tv spenta: inferno carceri, tra bufale smontate e vere emergenze di Violetto Gorrasi today.it, 26 luglio 2019 “Il trend è allarmante. I detenuti aumentano, ma i reati diminuiscono”. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - associazione che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale - non usa mezzi termini quando spiega la situazione in cui versano oggi le carceri e i detenuti in Italia. L’analisi di Antigone, in un rapporto semestrale presentato oggi a Roma, smonta alcuni luoghi comuni sul tema. Primo tra tutti, quello che riguarda gli stranieri detenuti: al 30 giugno 2019 i detenuti stranieri nelle carceri italiane sono il 33,42% della popolazione reclusa. Erano il 33,95% sei mesi fa e il 35,19% sei anni fa, al tempo della sentenza di condanna da parte della Corte Europea dei Diritti Umani nel caso Torreggiani. Ed erano il 37,10% dieci anni fa. Se nel 2003 su ogni cento stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%. È evidente, insomma, la sopravvalutazione mediatica del tema, messa in atto da cultori e diffusori di paure e di emergenze soltanto presunte, per una manciata di voti. A proposito dei romeni in Italia, un politico italiano nel 2008 disse che non potevamo accoglierli perché “l’Italia non è il vespasiano dell’Europa” - ricorda Antigone riferendosi alle parole di Antonio Di Pietro, allora leader dell’Italia dei Valori -. Sono passati undici anni e il caso romeno è eclatante. “Oggi sono 2.509. Erano 3.661 nel 2013. Oggi rappresentano lo 0,21% del totale dei romeni presenti in Italia (circa 1 milione e 200 mila persone). Sono diminuiti in percentuale di più di un terzo. È questo l’effetto dell’integrazione e delle seconde generazioni”. Vediamo ora gli altri dati emersi dal Rapporto di metà anno di Antigone, con i numeri e le criticità delle carceri italiane. Ciò che emerge in primis è il perdurare dello stato di sovraffollamento. Al 30 giugno 2019 i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane erano 60.522. Negli ultimi sei mesi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il tasso di sovraffollamento è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia. Il Ministero della Giustizia precisa che i posti disponibili nelle carceri italiane sono 50.496, un dato che non tiene conto delle sezioni chiuse. Ce ne sono ad Alba, a Nuoro, a Fossombrone e in tantissimi altri istituti. Il carcere di Camerino è vuoto dal terremoto del 2016, ma tutti i posti virtualmente disponibili sono conteggiati. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà, alla capienza attuale del sistema penitenziario italiano vanno dunque sottratti almeno tremila posti non agibili. A Como, Brescia, Larino, Taranto siamo intorno a un tasso di affollamento del 200%, ossia vivono due detenuti dove c’è posto per uno solo. Nel 30% degli istituti visitati da Antigone in questi primi mesi dell’anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 mq. per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante. Perché le carceri italiane sono sempre più sovraffollate? “Questo aumento del sovraffollamento - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone -, al di là dei luoghi comuni agitati da alcune parti politiche, non è dovuto ad un aumento della criminalità, in particolare quella straniera. Infatti, da una parte, il numero di reati è in costante calo e anche gli ingressi in carcere sono in conseguente diminuzione. Il numero più alto di detenuti si spiega dunque con l’aumento delle durata delle pene, frutto anche delle politiche legislative degli ultimi anni”. Come (non) si vive in carcere: tv spenta dopo la mezzanotte - Dall’osservazione di Antigone si evidenzia anche come la vita in carcere stia peggiorando. Questa è fatta di momenti di socialità, di occasioni di dialogo e di crescita culturale, di rapporti con i familiari e con l’esterno. Nel 30% delle carceri visitate non risultano spazi verdi dove incontrare i propri cari e i propri figli. Solo nell’1,8% delle carceri vi sono lavorazioni alle dipendenze di soggetti privati. Nel 65,6% delle carceri non è possibile avere contatti con i familiari via skype, nonostante la stessa amministrazione e la legge lo prevedano. Nell’81,3% delle carceri non è mai possibile collegarsi a internet. Inoltre alcune recenti circolari hanno previsto dei cambiamenti in peggio poco giustificabili soprattutto nella stagione estiva, quale ad esempio l’obbligo di tenere spenta la televisione dopo la mezzanotte. “Non permettere ai detenuti di guardare la tv quando fa caldo, si fatica a prendere sonno e durante il giorno si è sempre stati nella cella a oziare significa contribuire a innervosire il clima generale”, sottolinea Patrizio Gonnella. In alcuni istituti penitenziari inoltre stanno chiudendo i corsi scolastici e per molti detenuti non sarà possibile frequentarne a partire da settembre. 27 suicidi dall’inizio dell’anno: le carceri in cui “si muore troppo” - Il peggioramento della qualità della vita si ripercuote anche sul numero dei suicidi. Il 2018 fu un anno drammatico, e nel 2019 quelli che si sono verificati negli istituti di pena italiani sono già 27. In alcune carceri “si muore troppo”, dice Antigone. Ben sei morti nel carcere napoletano di Poggioreale dall’inizio dell’anno, di cui quattro nell’ultimo mese. E poi due a Taranto, Genova Marassi e Milano San Vittore. Perché la soluzione non è costruire nuove carceri - “La soluzione dinanzi a questa situazione di affollamento e a tutto ciò che questa comporta - dichiara ancora il presidente di Antigone - non può essere rintracciata nella costruzione di nuovi istituti. Primo perché sarebbe una soluzione a lungo periodo, secondo perché i costi sarebbero elevatissimi e, almeno ad oggi, non sembrano esserci le necessarie coperture finanziarie”. Da un’analisi di Antigone emerge infatti che, a copertura delle disposizioni dell’art. 7 del Decreto Semplificazione, ci sarebbero circa 20 milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota non specificata di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Se si considera che il Piano Carceri del 2010 aveva uno stanziamento di circa 460 milioni di euro e che alla fine del 2014 ne sono stati spesi circa 52 per la realizzazione di 4.400 posti, è facile capire come meno di 30 milioni di euro in due anni non sarebbero lontanamente sufficienti. Inoltre, nuove carceri significa rafforzare il personale e le opportunità trattamentali senza le quali questi posti in più servirebbero solo a “stoccare” più detenuti. Anche in questo caso dunque bisognerebbe prevedere ingenti risorse aggiuntive al bilancio dell’amministrazione penitenziaria che, già oggi, è di circa 3 miliardi di euro all’anno. “Ciò che bisognerebbe fare dunque - conclude Gonnella - è investire sulle alternative alla detenzione e nel rendere la custodia cautelare un istituto utilizzato solo nei casi dove essa è realmente necessaria”. Sotto questo punto di vista la buona notizia è che rispetto allo scorso anno il tasso di persone presenti in carcere in assenza di condanna definitiva è diminuito di quasi due punti, attestandosi al 31,5%. Un dato però ancora lontano dalla media Europa del 21% circa. Bonafede: carceri sovraffollate, al via il nuovo piano di edilizia di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 luglio 2019 “Nove mila posti in più in cinque anni”. Antigone denuncia: detenuti stipati, il più alto tasso in Europa. Siglato un accordo con la Difesa per riconvertire le ex caserme in istituti penitenziari. Sì, è vero, le carceri italiane sono sovraffollate. Tanto. Perciò ne costruiremo di nuove. Ventiquattro, ne aveva promesse Silvio Berlusconi nel 2009 con l’allora ministro di Giustizia Angelino Alfano. “Mille nuovi posti letto entro la fine dell’anno”, per poi arrivare a “9 mila posti in più in 5 anni”, con un investimento di “13 milioni” per l’edilizia penitenziaria e “23 per la manutenzione”, promette il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Oggi, dieci anni dopo, con progetti meno megalomani ma sulla stessa lunghezza d’onda (e senza riconoscere, come fece allora il Cav, che “nelle carceri italiane c’è una situazione davvero da dimenticare e incivile”), si muovono i “rivoluzionari” del Movimento 5 Stelle. “Basta svuota-carceri”, ha premesso il ministro Bonafede parlando ieri davanti alla commissione Giustizia del Senato. Il governo, ha riferito il leader pentastellato, ha “avviato un piano per la riconversione in istituti penitenziari di complessi ex militari”, siglando un protocollo d’intesa con la Difesa per trasformare le caserme Cesare Battisti di Bagnoli, Nino Bixio di Casale Monferrato e altre a Grosseto e Bari. Un piano che “consentirà di implementare il patrimonio immobiliare e attivare nuove strutture in tempi più brevi”. Entro la fine dell’anno, ha assicurato Bonafede, “saranno completati 2 padiglioni da 200 posti a Sulmona e Taranto”. In totale si aggiungeranno “mille nuovi posti letto nelle carceri”, per poi arrivare a “9 mila letti in più in 5 anni”. Con un investimento di “13 milioni” per l’edilizia penitenziaria e “23 per la manutenzione”, si punta anche ad innalzare gli “standard qualitativi” della vita nelle carceri italiane. Standard che però, secondo Bonafede, non sono così bassi come vengono descritti nel rapporto di metà anno presentato ieri dall’Associazione Antigone secondo la quale “il tasso di sovraffollamento al 30 giugno 2019 è pari al 119,8%, ossia il più alto nell’area dell’Unione Europea, seguito da quello in Ungheria e Francia”. “A Como, Brescia, Larino, Taranto siamo intorno a un tasso di affollamento del 200%, ossia vivono due detenuti dove c’è posto per uno solo - si legge del rapporto - Nel 30% degli istituti visitati da Antigone in questi primi mesi dell’anno sono state riscontrate celle dove non era rispettato il parametro minimo dei 3 mq per detenuto, al di sotto del quale si configura per la giurisprudenza europea il trattamento inumano e degradante”. Negli ultimi anni si è registrato un nuovo aumento del sovraffollamento che, sottolinea il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, “al di là dei luoghi comuni agitati da alcune parti politiche, non è dovuto ad un aumento della criminalità, in particolare quella straniera. Infatti, da una parte, il numero di reati è in costante calo e anche gli ingressi in carcere sono in conseguente diminuzione. Il numero più alto di detenuti si spiega dunque con l’aumento delle durata delle pene, frutto anche delle politiche legislative degli ultimi anni. Gli stranieri in carcere poi, negli ultimi 10 anni, sono diminuiti del 3,68%. Se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16% degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa allo 0,36%”. Così come - buona notizia - è diminuito il numero di detenuti in attesa di sentenza definitiva (sono il 31,5% della popolazione carceraria, due punti in meno rispetto allo scorso anno, ma ancora lontani dalla media Europa del 21% circa”. Numeri che il Guardasigilli non smentisce: “I detenuti presenti nelle carceri italiane al 16 luglio sono 60.320 su 46.782 posti regolamentari con un tasso di sovraffollamento pari al 128,94%”, sono i dati aggiornati da Bonafede. Secondo il quale, però, lo spazio minimo riservato a ciascun detenuto nei 190 penitenziari italiani è “maggiore rispetto a quasi tutti i Paesi europei”. Il ministro a 5 Stelle non parla, come fa Antigone, di “peggioramento della qualità della vita” nelle celle che “si ripercuote sul numero dei suicidi”. Al contrario, per Bonafede, “sono 16 i casi di suicidio in carcere al 20 giugno di quest’anno (per Ristretti Orizzonti, sono 27 fino a ieri, 76 il totale dei morti, ndr). Nel 2018 sono stati 61. In 10 anni il numero è oscillato tra 39 e 63. Mi sembra quindi che la media si sia abbassata”. Il ministro si preoccupa invece di seguire le richieste dei sindacati più destrorsi della polizia penitenziaria e assicura: “Valuteremo i margini dell’impiego delle pistole taser nelle carceri” e “l’uso dei droni per la videosorveglianza”. E un occhiolino lo strizza anche alla Lega parlando di rimpatrio dei detenuti stranieri. Anni luce distante da Antigone, che suggerisce di abbandonare la solita e inefficace ricetta dell’edilizia carceraria, e invece “investire sulle alternative alla detenzione e nel rendere la custodia cautelare un istituto utilizzato solo nei casi dove essa è realmente necessaria”. Perché la retorica leghista sugli stranieri criminali è esagerata (e falsa) Il Foglio, 26 luglio 2019 Il rapporto di metà anno di Antigone fotografa la situazione incancrenita delle carceri italiane, che restano le più affollate dell’Unione europea. La retorica dell’invasione e l’allarme sulla criminalità straniera sono alcuni dei tormentoni sui quali il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha costruito la sua campagna e il suo successo elettorale. Ma, tra le dichiarazioni con cui il leader della Lega ha raccolto consensi, ci sono affermazioni facilmente confutabili, dati alla mano. Pochi anni fa, il leader leghista sosteneva che gli stranieri nelle carceri italiane fossero i tre quarti del totale. È già stato dimostrato, con i numeri dei ministeri e dell’Istat, che non era così, ma oggi com’è la situazione? Secondo il rapporto di metà anno di Antigone, pubblicato il 25 luglio dall’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, sono 62.285 tutti i detenuti (italiani e stranieri) nelle carceri italiane, che restano le più affollate nell’area dell’Unione europea. Negli ultimi sei mesi i reclusi sono cresciuti di 867 unità e di 1.763 nell’ultimo anno. Il numero degli stranieri in carcere invece cala: sono il 33,42 per cento del totale, contro il 33,95 per cento di sei mesi fa. Dieci anni fa arrivavano a oltre il 37 per cento del totale: in questi anni sono calati del 3,58 per cento. Un dato significativo se si considera l’allarme mediatico sul tema e se si tiene anche conto del fatto che il numero totale degli stranieri in Italia è aumentato. Diminuiscono, inoltre, gli ingressi in carcere delle persone straniere, che passano dal 44 per cento del 2017 all’attuale 41 per cento. Le nazionalità stranieri più presenti nelle carceri sono quella marocchina (18 per cento degli stranieri), quella rumena e albanese (12 per cento), tunisina (10,1 per cento) e nigeriana (8 percento). La distribuzione degli stranieri nelle regioni è tutt’altro che omogenea: la Lombardia ospita 3.723 condannati stranieri (più di un quinto del totale), il Lazio 2.515, ma è la Sardegna che viene definita dal rapporto “un contenitore dei detenuti stranieri”. Sono l’80 per cento dei prigionieri totali del carcere di Arenas e il 78 per cento a Nuoro. La durata delle pene è aumentata soprattutto per i carcerati di origine italiana: gli ergastolani sono passati dai 1.707 della metà del 2017 (di cui 97 stranieri), ai 1.726 di giugno 2019. I cittadini stranieri hanno pene mediamente meno lunghe ma vengono condannati al carcere più frequentemente perché colpevoli di reati minori per i quali non si può accedere a misure alternative come gli arresti domiciliari. Infatti gli stranieri in carcere per custodia cautelare sono più del 41 per cento. Insomma, finiscono mediamente di più in cella anche da presunti innocenti. Ultimo dato importante da ricordare a Salvini è anche quello dei nostri concittadini reclusi in carceri di altri paesi, circa 4.000. Un politico italiano nel 2008 a proposito dei rumeni in Italia disse che non potevamo accoglierli perché l’Italia non è il vespasiano dell’Europa. Sono passati undici anni e il caso rumeno è eclatante. Oggi sono 2.509. Erano 3.661 nel 2013. Oggi rappresentano lo 0,21% del totale dei rumeni presenti in Italia (circa 1 milione e 200 mila persone). Sono diminuiti in percentuale di più di un terzo. È questo l’effetto dell’integrazione e delle seconde generazioni. Come già dal XV rapporto annuale pubblicato da Antigone a marzo, anche questo nuovo documento descrive una situazione di affollamento carcerario pari al 119,8 per cento, con picchi del 200 per cento a Como, Brescia, Taranto e Larino. Se si dovesse rispettare questa progressione “nel giro di quattro anni ci troveremmo nella stessa situazione che produsse la condanna da parte della Corte europea dei diritti umani nel 2013”, scrive Antigone. “Nel 30,3 per cento delle carceri da noi visitate abbiamo trovato celle dove non erano garantiti i 3 metri quadri a detenuto. La Corte Europea ha affermato che in carenza di spazio dovrebbero essere garantite adeguate attività fuori dalla cella. Invece in molti istituti assistiamo a ingiustificate chiusure e a una progressiva dismissione del progetto della sorveglianza dinamica. La vita in carcere non deve coincidere con la vita in cella, tanto più se questa è inadeguata e affollata”. Come si vive davvero in carcere di Mauro Leonardi agi.it, 26 luglio 2019 L’ammirevole iniziativa del presidente Mattarella di cenare nell’osteria dei detenuti a Rebibbia non deve far dimenticare che nelle case circondariali le difficoltà nella vita quotidiana sono tante, spesso anche per esigenze basilari come un paio di mutande decenti. Il Presidente della Repubblica ha cenato con i detenuti presso “L’Osteria degli uccelli in Gabbia” nell’area verde all’interno della Casa Circondariale. L’osteria è esistita davvero, ma il solo venerdì sera dei mesi di giugno e di luglio, e ci si poteva mangiare un menù fisso prenotandosi tre giorni prima, perché i posti erano pochi e, soprattutto, per accedervi servivano i dovuti controlli da parte delle autorità. Anche l’Area Verde esiste. È lo spazio antistante la chiesetta del carcere ed è un prato, in genere giallo e pieno di cartacce, giustamente ripulito e messo in ordine - come tutta la zona - per l’occasione, come ha raccontato la volontaria Alessandra Bialetti, in vista dell’arrivo della nostra massima autorità. È vero poi che i detenuti del complesso più grande, quello dove è avvenuta la cena, sono circa 1.600: ad essi, dentro Rebibbia, bisogna aggiungere altre tre strutture, per un totale di circa 2630 “ospiti” (il numero totale è fatto da don Roberto Guernieri in un’intervista del gennaio 2019). È vero poi che poche decine di detenuti frequentano diverse facoltà universitarie, oppure 15 partecipano a un corso di teatro, c’è qualcuno - ancora - che può arrivare fino alla biblioteca, ricevere degli aiuti per l’alfabetizzazione, e altri detenuti svolgono dei lavori necessari all’interno del carcere e qualcosina anche all’esterno. Ma questa non è la normalità. La normalità, per l’assoluta maggioranza dei detenuti (se il totale del Nuovo Complesso è di 1.600, i conti sono presto fatti), è di vivere, con parole di don Roberto, in “sei persone in una cella di tre per quattro metri, con annesso bagno comune, dove cucinano, mettono le loro cose e fanno i loro bisogni”. Io, che sono sacerdote volontario ex art 17, ho già potuto raccontare per AGI che l’alimentazione passata dall’istituto è quelle minima per la sussistenza. A me raccontano che quasi sempre la cucina passa per pranzo un pezzo di carne immangiabile, un po’ di pasta, la sera una minestra, e la mattina un bicchiere di latte o di caffè con poco altro, spingendo praticamente tutti ad integrare facendo “la spesa” e cucinando nella propria cella con un fornello precario a pochi centimetri dalla “turca”. Alcuni detenuti sono benestanti e possono acquistare cibo a volontà, ma moltissimi non hanno nulla e il cibo in carcere costa. E questa è la verità più misconosciuta in Italia: non solo non è vero che i detenuti in carcere “li manteniamo noi con i soldi dello Stato” ma sono loro a dover pagare. Quasi nessuno lo sa ma la legge stabilisce che ogni detenuto debba versare allo Stato una “quota di mantenimento” di 108,60 euro al mese se il mese è di 30 giorni, o di 112,22 euro al mese se i giorni sono 31. Sono così minuzioso nel racconto perché la vita del detenuto è fatta di infinite insopportabili minuzie (basti pensare a come si vive con questo caldo stando tutto il giorno in una cella di 3 per 4 in 6 persone senza avere neppure lo spazio per camminare). I 120 euro al mese (arrotondo) vengono prelevati direttamente e chi, una volta uscito, non ha pagato si vede pignorare tutto da Equitalia. Con questo denaro al detenuto dovrebbe essere garantito il minimo necessario per vivere, cioè vitto, vestiti, necessario per l’igiene ma questo, forse a causa del sovraffollamento, in moltissimi casi non è possibile. Lo so bene io che, all’inizio di giugno, su richiesta dei Cappellani del carcere, ho promosso una raccolta di mutande (meglio essere specifici: “mutande” è più eloquente di “biancheria intima”) perché a moltissimi detenuti - ai più poveri ovviamente - mancavano proprio quelle. Grazie a Internet la notizia ha fatto il giro del web e, non da aziende o da enti ma da singole persone, ai detenuti sono arrivati quasi un migliaio di mutande. Così quel giorno i carcerati di Rebibbia hanno potuto avere un po’ di dignità anche se non hanno mangiato menù di pesce. Passa il decreto sicurezza bis tra i dissensi dei 5stelle di Adriana Pollice Il Manifesto, 26 luglio 2019 Il voto alla camera contro ong e migranti. fico lascia l’aula per protesta. 17 grillini assenti. L’appassionato intervento della pentastellata dissidente Sarli. Il provvedimento voluto da Salvini prevede tra l’altro multe fino a un milione a chi salva i migranti. Il decreto Sicurezza bis ha superato ieri il voto alla Camera con 322 sì, 90 no e un astenuto. A favore 5S, Lega, Fi e Fdi; contrari Pd e Leu. Dovrebbe arrivare in Senato entro giovedì per il passaggio finale. Sui banchi del governo erano assenti i ministri a cominciare dal padre del provvedimento, Matteo Salvini. Nel pomeriggio sono emersi i mal di pancia dell’ala sinistra 5S e, per un attimo, si è materializzato il fantasma dell’alleanza tra gli ortodossi, vicini al presidente della Camera Roberto Fico, e il Pd. In aula la deputata pentastellata campana Doriana Sarli, che ha condiviso molte battaglie con la senatrice espulsa Paola Nugnes, ha pubblicamente sfidato la linea del Movimento annunciando il suo No: “Ho presentato numerosi emendamenti nel tentativo, difficile, di migliorare il decreto, tutti respinti. A detta di tutti gli auditi, non presenta i caratteri di urgenza e necessità previsti dalla Costituzione. Anche il dossier della Camera sottolinea la difficoltà di questo decreto a rispettare gli obblighi internazionali. Ha grandi profili di incostituzionalità”. E ancora: “Si inventa un nuovo reato: salvare le vite in mare. Il problema dell’immigrazione esiste da sempre, non si deve affrontare in maniera emergenziale. Salvini vada a sedersi ai tavoli di concertazione a ridiscutere il regolamento di Dublino, lì deve fare la voce forte, non con la gente per mare”. Per finire sulle norma in fatto di ordine pubblico, che producono “una grave criminalizzazione di ciò che la nostra Costituzione difende, ovvero il diritto di manifestare per i propri diritti”. Alla fine saranno 17 i 5S assenti al momento del voto, tra loro Yana Chiara Ehm (spesso critica con la linea Di Maio), i campani Gilda Sportiello e Luigi Gallo, che sui social spiega: “Non ho votato perché condivido al cento per cento le parole di Doriana. Parole che aprono un squarcio di verità nella coltre delle nebbie di una comunicazione senza più bussola, senza più certezze e senza più direzione”. A rendere più incisiva l’iniziativa di Sarli è stato lo stesso Fico: come avvenuto per il primo decreto Sicurezza, ha lasciato lo scranno più alto di Montecitorio a un vicepresidente quando si è passati al voto. In autunno spiegò che era stata “una presa di distanza dal provvedimento”. Dai banchi del centrosinistra è arrivata la standing ovation per Sarli con applausi scroscianti da Pd e Leu. “Anche a nome del mio gruppo voglio dire grazie alla collega, che ha dimostrato la forza del pensiero autonomo. Rende più evidente la fragilità di un ministro che non ha il coraggio di affrontare l’aula” ha dichiarato la dem Barbara Pollastrini riferendosi a Salvini. Il vicepresidente del gruppo Pd, Michele Bordo, aveva motivato il voto contrario: “Questo decreto, inapplicabile e incostituzionale, è il decreto della propaganda e dice: se incrociate una barca alla deriva, con degli esseri umani che stanno annegando, potete lasciarli morire”. La norma stabilisce che il Viminale (di concerto con Difesa e Trasporti) può limitare o vietare l’ingresso di navi per ragioni di ordine e sicurezza, in particolare se si sia compiuto il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Le multe sono state aumentate fino a un milione di euro per il comandante: se non può pagare, la sanzione si applica all’armatore o al proprietario della nave. Per il natante è previsto il sequestro a opera del prefetto, mentre per il comandante c’è l’arresto in flagranza in caso “di resistenza o violenza contro nave da guerra”. Le multe (nella versione più bassa) sono già scattate per l’Ong Sea Watch e per Mediterranea. Ieri è arrivata la notifica della sanzione amministrativa (2mila euro ciascuno) anche ai parlamentari Nicola Fratoianni (Si), Riccardo Magi (+Europa) e Stefania Prestigiacomo (Fi) per essere saliti a bordo della Sea Watch 3 il 27 gennaio scorso per valutare le condizioni dei 47 migranti bloccati a bordo dal Viminale. I tre hanno inviato il 13 giugno una comunicazione a Fico: “Riteniamo illegittima la multa perché in violazione delle prerogative che la Costituzione ci attribuisce. Le chiediamo di investire della questione la Giunta delle autorizzazioni affinché la Camera dichiari l’insindacabilità dell’attività ispettiva svolta”. Nel pomeriggio in aula sono passati gli ordini del giorno. Fratoianni su twitter spiega: “Lega e 5S hanno bocciato il nostro odg affinché le Ong possano pagare le multe in 80 rate a cadenza annuale”. Il riferimento è alla rateizzazione accordata al Carroccio, l’hashtag “codadipaglia”. Cutolo, cieco e sepolto vivo “Mai pentito. E non tradisco” di Luca Fazzo Il Giornale, 26 luglio 2019 Parla dopo 40 anni in isolamento: “Sapevo dov’era nascosto Moro, ma Gava mi fermò. Giusto che stia qui”. “Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto Aldo Moro, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè, fatevi i fatti vostri”. Così parlò don Raffaele, ovvero Raffaele Cutolo, il boss della Nuova camorra organizzata, sepolto dal 1979 in una cella di massima sicurezza, piegato dagli anni e dall’isolamento, ma ancora con la voglia un po’ guappa di dire la sua. Non potrebbe, perché ha il divieto di incontro con chiunque tranne gli stretti familiari. Ma un cronista del Mattino riesce ad arrivare faccia a faccia con lui, separato dal vetro blindato della sala colloqui del carcere di Parma. Ne nasce una intervista-scoop che suscita le ire del ministero, che annuncia una inchiesta interna per capire come il giornalista sia arrivato a incontrare Cutolo e a raccontare il vecchio camorrista: “il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi la barba incolta”. Il carcere lo ha piegato, anche perché vive in isolamento totale: anche all’aria dovrebbe andarci da solo, “ma che ci vado a fare?”. Così resta nel suo loculo: “Aspettiamo la morte. Le giornate sono sempre uguali. Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall’altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli. E poi guardo qualche programma in televisione: l’altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, Sogno o son desto”. Può fumare i toscani. L’altra grande passione, le canzoni di Sergio Bruni, a Parma non gliele hanno fatte portare. É lo stesso carcere dove era rinchiuso Totò Riina, fin quando venne portato a morire in ospedale: “Riina era uno spietato, lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso”. Il 15 maggio Cutolo ha compiuto i quarant’anni di carcere ininterrotto. Sono stati, almeno all’inizio, anni di carcere un po’ strani, in cui l boss detenuto poteva scegliersi la prigione, la cella, i compagni-camerieri; ed alla sua porta bussavano politici, poliziotti, spie. Al giornalista, il boss ricorda la processione che veniva a chiedergli di intercedere per la liberazione di Ciro Cirillo, l’assessore campano rapito dalla Br: don Raffaele intervenne, le Br accolsero la mediazione, Cirillo - a differenza di Moro - tornò a casa. Lo Stato, racconta Cutolo, alla porta della sua cella è tornato a bussare più di recente: “Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per fare l’amore con lei, ma io non ho voluto: non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l’avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio”. Non mi pento, manda a dire Cutolo: ed è forse un segnale per tranquillizzare quelli fuori, quelli che ancora oggi - più a Roma che ad Ottaviano - potrebbero avere dei problemi se quest’uomo aprisse la sacca dei suoi segreti. “Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro”, manda a dire Cutolo. A dicembre ha compiuto 77 anni, due terzi della sua vita l’ha passata dietro le sbarre. I morti che pesano sulla sua coscienza sono innumerevoli: di alcuni dice “me li sogno di notte”, di altri delitti dà una spiegazione cruda, prosaica. Il vicedirettore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, lo fece ammazzare “perché mi faceva perquisire sempre, ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, non ne potevo più. Mi spiace, ma che potevo fare?”. Il comunicato del ministero sull’intervista è duro: “L’intervista di Cutolo non è mai stata autorizzata, si sta procedendo alla ricostruzione della catena di responsabilità che ha portato a questo fatto increscioso e si prospettano provvedimenti esemplari”. Certo, Cutolo avrebbe potuto rifiutare di rispondere: ma, come dice il suo legale Gaetano Aufiero, “uno che da venticinque anni non vede nessuno, se viene chiamato a colloquio da qualcuno non può che averne piacere”. Casal Monastero (Rm): detenuti al lavoro per il progetto “Mi riscatto per Roma” di Anna Grazia Concilio romatoday.it, 26 luglio 2019 I detenuti, insieme a operatori Ama e uomini del Servizio Giardini sono impegnati nel ripristino del decoro del verde e della segnaletica. Una squadra composta da detenuti, operatori Ama e operatori del Servizio Giardini è all’opera a Casal Monastero. A partire dalla mattina di giovedì, un gruppo di detenuti ha iniziato a lavorare per la manutenzione del verde in uno dei quartieri più periferici del territorio del Municipio IV. Le attività che si inseriscono all’interno di un protocollo d’intesa tra il Comune, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la Società Autostrade “Mi riscatto per Roma” proseguiranno anche nei prossimi giorni. Gli interventi dei detenuti sulle strade del quartiere - Non solo verde: i detenuti al lavoro in queste settimane nel quartiere di Casal Monastero non si occuperanno solo della manutenzione del verde ma si dedicheranno anche al ripristino del decoro sotto altre forme che riguardano i luoghi pubblici, fruiti dai cittadini. “A partire da giovedì mattina - ha spiegato la minisindaca Roberta Della Casa, presidente del Municipio IV - I detenuti si dedicheranno anche alla cura delle strisce pedonali e della segnaletica stradale in generale”. A esprimere entusiasmo anche il comitato di quartiere Casal Monastero: “È una bellissima iniziativa che oltre a favorire il quartiere offre una possibilità ai detenuti”. Taranto: a sei detenuti la qualifica di operatore di innesto e potatura noinotizie.it, 26 luglio 2019 Si è chiuso con il rilascio di 6 qualifiche professionali e 2 attestati di frequenza il corso per “operatore di innesto e potatura” ideato da Programma Sviluppo in collaborazione con la direzione della Casa circondariale di Taranto “Carmelo Magli”. Un progetto durato oltre un anno che ha avuto come protagonisti del percorso formativo i detenuti dell’istituto penitenziario ionico. Il corso, della durato 900 ore di cui 460 in aula e 440 in stage, ha consentito ai corsisti di acquisire le nozioni fondamentali di botanica, fisiologia e fitopatologia vegetale, produzione e coltivazione agricola e anche di sicurezza sui luoghi di lavoro, ma non solo. “I detenuti hanno avuto - ha spiegato Massimiliano turco, psicologo e referente del progetto per Programma Sviluppo - l’occasione di vivere attività di supporto alla loro condizione di svantaggio, durante le quali hanno riflettuto su sé stessi e sulle loro esperienze di vita e lavorative, facendo un loro personale bilancio. I moduli sul bilancio delle competenze, orientamento professionale, informazioni sul mondo del lavoro e sulla ricerca attiva del lavoro hanno consentito un’analisi delle proprie risorse e delle possibilità che la società offre loro una volta conclusa la detenzione”. Dal punto di vista formativo, determinati stati i moduli di “tecniche di innesto e tecniche di potatura”: in 180 ore i corsisti hanno appreso i concetti teorici alla base dell’innesto e della potatura e successivamente hanno eseguito veri e propri lavori di innesto e di potatura sempre accompagnati dai docenti, dal tutor formativo, e durante le ore di stage anche dalla figura del “mentore”, un detenuto scelto dalla Casa circondariale per capacità e competenza nel campo dell’agricoltura. Lo stage, come detto, ha previsto esercitazioni pratiche sull’innesto e la potatura, ma anche attività di preparazione del terreno alla coltura, semina, piantumazione, cura e trattamenti fitoterapici, e raccolta dei prodotti agricoli. Al termine del percorso, inoltre, i detenuti hanno provveduto alla ideazione, progettazione e alla realizzazione completa di due giardini della casa circondariale. “Un significato particolare - ha aggiunto Turco - ha avuto il giardino dedicato a Carmelo Magli, agente penitenziario ucciso dalla malavita locale alla fine degli anni ‘80: i detenuti hanno realizzato un giardino concettuale, simbolo della lotta tra il male e il bene. La loro partecipazione entusiasta alle attività è stata per noi l’attestazione della validità del percorso formativo: oltre alla crescita professionale, abbiamo toccato con mano una crescita personale dei corsisti provato dal comportamento esemplare manifestato durante il corso che ha permesso ad alcuni di loro di accelerare il percorso di riabilitazione”. Ancona: disabile e malato, esce dal carcere ma ora è in mezzo alla strada di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 26 luglio 2019 Dopo 2 anni di carcere a Montacuto ha scontato il proprio conto con la giustizia, ma di fatto oggi lui, un 50enne di Falconara, è in mezzo ad una strada. È disabile e malato, non può tornare a casa e i Servizi sociali non possono occuparsi di lui per una questione burocratica. Dopo 2 anni di carcere a Montacuto ha scontato il proprio conto con la giustizia, ma di fatto oggi lui, un 50enne di Falconara, è in mezzo ad una strada. In queste ore, i suoi avvocati Michele Carluccio e Chiara Carioli (foto in basso) stanno lavorando per cercare una soluzione dignitosa per l’uomo, anche grazie all’impegno del Garante dei diritti del detenuto, l’avvocato Andrea Nobili. L’insorgenza della malattia - Lui è entrato in carcere senza problemi fisici, ma durante la detenzione ha accusato una serie di problematiche, che lo hanno portato progressivamente a non muovere più la parte destra del corpo. Tanto che da quella volta si è ritrovato su una sedia a rotelle, accudito da un altro detenuto (retribuito) che lo ha aiutato nella deambulazione. Un problema psicologico e neurologico? È il sospetto dei suoi legali, che però non hanno mai avuto una diagnosi chiara. Manca una certificazione che sarebbe dovuta arrivare dai medici del carcere di Montacuto ed è per questo che i Servizi sociali del comune di Falconara hanno le mani legate. Ufficiosamente il procedimento di riconoscimento dell’invalidità è iniziato, ma ad oggi non vi è nessuna diagnosi nero su bianco. Il rifiuto del Tribunale di sorveglianza - Troppo malato per stare in carcere, così gli avvocati hanno fatto richiesta di detenzione domiciliare, anche se la casa é un appartamento occupato, con barriere architettoniche, nel quale vivono la moglie e le figlie, incapaci di gestire un situazione del genere. Richiesta rigettata dal Tribunale di Sorveglianza. L’idea della struttura di accoglienza - A quel punto i legali hanno tentato la via della struttura di accoglienza sanitaria per consentire un’espiazione decorosa della pena commessa. Anche lì problemi perché nessuno era disposto a far fronte alla retta mensile per la degenza. Lo Stato non c’è e la possibilità sfuma. Il quadro clinico peggiora - Intanto il 50enne veniva colto da frequenti crisi e, nel corso dell’ultimo anno, veniva quasi settimanalmente trasportato all’Ospedale Regionale di Torrette per controlli e monitoraggi grazie all’impegno degli agenti della Polizia Penitenziaria. Inoltre, negli ultimi sei mesi, il rapporto con la moglie si è deteriorato, anche in conseguenza delle difficoltà di una detenzione in condizioni precarie. Tanto che la compagna non si è più resa disponibile ad accoglierlo nella casa. Il commento degli avvocati - “Credo ci sia una macroscopica mancanza di organizzazione di tutti gli operatori che a vario titolo sono intervenuti e che avrebbero dovuto collaborare costruttivamente al fine di facilitare il detenuto nel percorso di reinserimento - affermano gli avvocati Carluccio e Carioli - Tanto più per una persona con le problematiche di salute, economiche, personali e sociali sopra accennate”. Il futuro senza dignità - Alla fine, nonostante tutto sia noto al personale medico del carcere, agli educatori, agli psicologi, agli assistenti sociali dell’Uepe (Ufficio per l’esecuzione Penale Esterna) e agli assistenti sociali del Comune di Falconara Marittima, oggi il 50enne falconarese uscirà dal carcere: libero, ma abbandonato a se stesso fuori dal cancello della casa circondariale, con buona pace del diritto alla salute e del finalismo rieducativo del sistema penitenziario. Messina: detenuto psichiatrico si laurea a distanza in ingegneria informatica strettoweb.com, 26 luglio 2019 Pare sia la prima volta che accada in Italia che un ospite di una Residenza Sanitaria psichiatrico-detentiva si laurei a distanza in Ingegneria informatica, e ciò accade in una struttura gestita direttamente dall’Asp di Messina ovvero la Rems di Naso; le Rems sono strutture residenziali sorte a seguito di quanto disposto dalla legge 81/2014 per il superamento degli ex Ospedali Psichiatrici giudiziari, e sono finalizzate tramite un percorso terapeutico riabilitativo individuale al recupero dell’individuo. “L’Asp di Messina - dice il Direttore Generale Paolo La Paglia - crede molto nel recupero della dignità umana e nella piena riabilitazione della persona; abbiamo appositamente installato a Naso una piattaforma Skipe che permetterà a Gabriel, venerdì 26 luglio alle ore 9.00, di laurearsi a distanza in Ingegneria Informatica in collegamento telematico con il Politecnico di Milano”. La storia di Gabriel - Gabriel è internato a Naso dal 19/09/2018 a seguito di ordinanza del Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Messina ed essendo dotato di un alto quoziente intellettivo, a completamento dei colloqui psichiatrici e psicologici effettuati dall’eccellente Team polispecialistico della Rems guidato dal Dott. Giuseppe De Luca, ha ripreso gli studi universitari che aveva abbandonato per le sue patologie sopraggiunte; gli specialisti della struttura di Naso grazie all’autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza di Messina hanno stabilito un contatto con il Politecnico di Milano nella persona del Prof. Aldo Torrebruno concordando che Gabriel, completato il ciclo di studi, potesse laurearsi a distanza. I familiari di Gabriel, a norma del regolamento penitenziario, potranno assistere alla cerimonia e successivamente il personale della struttura accompagnerà Gabriel a partecipare a un rinfresco organizzato dalla famiglia per ricordare l’evento, che certamente resterà impresso nella vita di Gabriel e degli ospiti della Rems di Naso. Milano: i disegni dei bambini entrati in carcere ora sono una video-opera di Francesca Pini Corriere della Sera, 26 luglio 2019 “San Vittore, a Milano, è stata la prima struttura in Europa a promuovere un nuovo rapporto tra detenuti e figli. Al mio film racconta luci e ombre di questa normalità”, spiega l’artista Yuri Ancarani. Rigorosamente veri sono i disegni e gli scarabocchi, scelti tra i migliaia che ha visto in archivio. Quel cielo nero che incombe sul letto del ragazzino quasi a soffocarlo, quella scritta “ho troppe responsabilità” quasi fosse un adulto, “mi sento solo”, quel viso fucsia da zombie. Scavallando di continuo tra finzione e realtà, rendendole permeabili al nostro sguardo, la dimensione del carcere viene trattata dall’artista e film-maker ravennate Yuri Ancarani nella sua nuova opera video San Vittore, incentrata sul rapporto tra i bambini e la reclusione dei genitori (ogni anno, in Italia, ioo mila di loro affrontano questa problematica), che si “scioglie” nei laboratori dove loro disegnano. Film in programma al Festival di Locarno e che fa parte di una trilogia - San Siro, San Vittore, San Giorgio - allestita al Castello di Rivoli (importante museo internazionale di arte contemporanea, vicino a Torino), in cui l’artista, sempre molto implicato nelle tematiche sociali, e alle loro complicanze, nel primo descrive la “macchina da guerra” organizzativa che sottende alle partite di calcio a Milano, nel secondo il delicato rapporto tra genitori e figli in un luogo detentivo. E, nel terzo, il mondo finanziario di un’importante banca svizzera visto attraverso la documentazione cartacea prodotta in gran quantità e che viene prima tagliuzzata dai distruggidocumenti per poi volatilizzarsi in tanti coriandoli (allusione visiva del denaro dei risparmiatori andato in fumo). San Giorgio perché la prima banca, fondata a Genova, portò quel nome. Perquisizione Per girare nella casa circondariale di San Vittore a Milano, bui ha visto e assorbito molto, filtrando le sue emozioni fino a farle diventare le nostre. Ha avuto concessioni, ma anche limiti invalicabili, in una continua necessità di raccontare il vero, a volte però ricostruendolo necessariamente altrove. Ha raccolto confessioni, scoprendo l’umanità della polizia penitenziaria. “Tra loro c’è un’alta percentuale di suicidi”, sottolinea l’artista. E, in un frame del film, vedere quel bambino che entra stringendo un bambolotto vestito da poliziotto (guardia che, nella realtà, dovrà davvero perquisirlo, seguendo un protocollo che a volte fa scoprire negli indumenti dei piccoli cose non ammesse) avvicina la dimensione ludica a quelle delle sbarre. “I bambini sono attratti dal pericolo, ma è la perquisizione a farli sentire come soggetti pericolosi, mentre lo sono invece i padri o le madri detenute”, dice l’artista. Il momento della perquisizione risulta quello più vero, eseguito da mani esperte. Una piccola pacca sulla spalla è il lasciapassare. “Certo che ho visto come funziona, le scarpine vengono piegate, lo zaino aperto”, dice e non dice Yuri Ancarani non violando una sfera delicata che il suo status di artista gli ha permesso di varcare. Quel giocattolo è veramente entrato a San Vittore nelle mani di un bambino, come un patto di amicizia, così ricorda il direttore del carcere, Giacinto Siciliano. “In Rete si trovano anche immagini di bambini a volto scoperto che disegnano nei laboratori ma girate in modo dilettantistico; diverso è farne un’opera così diretta, scoprendo dei nervi. I detenuti concedono abbastanza facilmente la liberatoria a filmare loro o i figli, forse non rendendosi conto del potere dell’immagine, ma per loro equivale a uno sprazzo di libertà, a un sentirsi protagonisti. Io ho voluto evitare a tutti i costi la spettacolarizzazione del carcere e della loro condizione. Per questo ho preso degli attori. Ho girato in carcere, però non usando quel materiale. Le persone erano troppo bisognose di partecipare, mentre io avevo necessità di una distanza. L’anima del film è l’architettura del carcere, vista dai disegni dei bambini. Negli anni passati i detenuti aspettavano i loro figli nella sala incontri, sorvegliati da vicino dai poliziotti. Lia Sacerdote, con la sua associazione Bambini Senza Sbarre, è stata la prima a proporre un nuovo approccio, proprio qui a San Vittore, primo carcere in Europa a dar vita a questo progetto. Nella dimensione del gioco, con fogli di carta e pennarelli, il bambino ritrova il genitore”. Muri grigi L’arte nel mondo carcerario ha dei precedenti, è pensata per alleggerire l’atmosfera. Sempre a San Vittore con interventi di Marco Casentini; in quello di Como, Angiola Tremonti (scultrice e sorella dell’ex ministro) da anni promuove questo tipo di solidarietà coinvolgendo i reclusi nella pratica della pittura. Da 5 mesi, all’Ucciardone di Palermo, con l’artista Loredana Longo si è avviato il progetto #L’arte della libertà. Ancarani ha però una posizione molto cauta. “Chi è veramente motivato opera in silenzio, portare fuori quello che è stato fatto dentro può sconfinare nel teatro. E a volte è meglio lasciare il rigore dei muri grigi”. “Narcotica”, viaggio coraggioso in una realtà che fa spavento di Aldo Grasso Corriere della Sera, 26 luglio 2019 Valerio Cataldi racconta il narcotraffico nel mondo, dalla raccolta di oppio nel Messico ai laboratori segreti che producono cocaina fino ai campi di marijuana albanesi. “Narcotica” è il viaggio che Valerio Cataldi compie sulle rotte del narcotraffico in cinque puntate prodotte dal Tg3 e da Raitre (mercoledì, ore 23,15). “Una immersione - si legge nella presentazione - in zone proibite dove regnano corruzione e violenza, il cui controllo è conteso dai cartelli del narcotraffico, gruppi di guerriglieri, paramilitari, gruppi di polizia auto-costituita non riconosciuti”. Diciamolo subito: questo viaggio è stato reso possibile dal fatto che il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e il colonnello del ROS dei Carabinieri Massimiliano D’Angelantonio, autori delle più grosse operazioni degli ultimi anni condotte contro il traffico di cocaina dal Sudamerica, hanno deciso di rendere pubblico il loro lavoro. Così come il governo colombiano, accusato dagli Stati Uniti di non combattere efficacemente il narcotraffico, mostra alla stampa internazionale il proprio lavoro. Tuttavia, a differenza dell’inutile viaggio di Ale Di Battista, Valerio Cataldi ci racconta con coraggio una realtà che fa spavento: i campi di papaveri da oppio nel Messico, i laboratori nascosti nella selva colombiana dove si produce il 70 per cento di tutta la coca prodotta nel mondo, lo sfruttamento dei minori, i campi di marijuana in Albania. Nella seconda puntata, colpisce la figura di Don Rito, un prete che va a cercare questi ragazzini che si spaccano la schiena per riempire sacchi di 70 chili di foglie di coca pagati pochi pesos per ridare loro una dignità di “bambini”. In Colombia, l’Esercito di Liberazione Nazionale si finanzia con la coca, anche se non vuole che i suoi membri la consumino. Ipocrisie. La deriva terrorista dei sedicenti anarchici di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 luglio 2019 Non si capisce in che cosa consista la fede di quelli che hanno rivendicato l’incendio. Nella storia gli anarchici si sono fatti conoscere per la dignitosa povertà in cui vivevano, per il loro internazionalismo, per l’antimilitarismo, per un ideale di uguaglianza e fraternità, contro ogni forma di gerarchia e di rappresentanza. Quando decidevano di usare la forza, lo facevano a proprio rischio e pericolo, sfidando il potere. Raramente usavano la violenza ma quando lo facevano, sceglievano accuratamente la vittima e miravano a chi era veramente al comando: un re, un principe, un grande amministratore, un membro importante del governo, un capo di polizia. Ricordiamo alcuni casi. Nel 1878 Giovanni Passannante attentò alla vita di Umberto I di Savoia e fu condannato a morte; il 24 giugno del 1894 Sante Caserio uccise il presidente della Repubblica francese e fu giustiziato; nell’agosto del 1897 Michele Angiolillo uccise il presidente del consiglio spagnolo Antonio Canovas de Castillo e fu giustiziato; nel settembre del 1898 Luigi Lucheni uccise a Ginevra l’imperatrice d’Austria Elisabetta di Baviera e fu condannato all’ergastolo; il 29 luglio del 1900 Gaetano Bresci uccise a Monza Umberto di Savoia e fu condannato all’ergastolo; il 31 ottobre del 1926 Anteo Zamboni attentò alla vita di Mussolini a Bologna e morì linciato da parte degli squadristi fascisti. Per non parlare di Sacco e Vanzetti che furono condannati a morte negli Stati Uniti per le loro idee anarchiche, su accuse non provate di un delitto non compiuto. Nei suoi scritti il teorico anarchico Enrico Malatesta sostenne che gli attentati erano inutili ed erano da evitare perché si poteva, senza volere, coinvolgere degli innocenti. Interessante ricordare che gli anarchici furono fra i primi a riconoscere e difendere l’omosessualità e il libero amore, la tutela della natura e dell’ambiente. Non conosciamo questi sedicenti anarchici toscani che hanno rivendicato l’incendio della cabina elettrica delle ferrovie vicino Firenze, ci chiediamo in che cosa consista la loro fede anarchica, solo in uno spirito di vendetta contro degli arresti? Cosa vogliono ottenere colpendo, non i responsabili di quella condanna ma della gente qualsiasi che ha la sola colpa di viaggiare su un treno? Questo si chiama terrorismo, un terrorismo bieco che se la prende con persone qualsiasi, non per le loro idee o per le proprie azioni, ma solo perché diventano materia di pubblicità. C’è un bellissimo libro di Doris Lessing, che si chiama “La brava terrorista”, in cui si racconta di un gruppo di giovani idealisti che si propongono di cambiare il mondo denunciando la corruzione e le ingiustizie. Per prima cosa occupano una casa e si mettono in giro per Londra distribuendo volantini. Ma nessuno li prende sul serio, i volantini vengono gettati via e l’occupazione viene perfino riconosciuta dalla autorità come un diritto civile. I ragazzi si consultano, e discutendo arrivano alla conclusione che il solo modo per smuovere l’opinione pubblica è fare parlare i giornali. Ma come si fa per fare parlare i giornali? Ci vuole qualcosa di rumoroso che interrompa la pacifica vita della città. Così decidono di sistemare una bomba di carta dentro un cassonetto in modo che esploda di notte quando non c’è nessuno in giro. Ma lo scoppio e l’incendio che ne seguirà non sarà notato. Non ci sono vittime e la cosa passa inosservata perfino nel quartiere preso di mira. Il gruppo riprende a confabulare, a discutere, arrivando alla conclusione che per colpire l’opinione pubblica in una società che pensa e agisce secondo i media, il solo modo per farsi conoscere è usare la violenza cieca, anche rischiando il massacro. Per questo costruiranno una bomba molto più potente che esploderà in pieno centro nel momento del maggiore traffico. Questa volta sì che i giornali ne parleranno: infatti la bomba, per quanto primitiva e fatta con sistemi casalinghi, esplode schizzando chiodi e uccidendo tre persone, oltre a ferirne altre venti. L’azione è compiuta. Finalmente l’opinione pubblica si occuperà di loro e tutti leggeranno le loro rivendicazioni. Il gruppo è entrato in politica. Ora potranno occuparsi di difendere i poveri e gli esclusi, ora potranno denunciare le ingiustizie e le corruzioni con una sinistra autorità. Solo una ragazza del gruppo, osservando la fotografia di un bambino dilaniato dalla bomba, si chiederà: ma veramente dobbiamo uccidere degli innocenti per difendere degli altri innocenti? Davvero per cambiare il mondo c’è bisogno di massacrare ciecamente corpi adulti e bambini? Doris Lessing ci ricorda che i ragazzi non erano per l’appunto anarchici, erano sì degli idealisti, innamorati di una idea astratta di giustizia e libertà, ma avevano la perversa ambizione di credere che la loro voce fosse la sola giusta. Volendo protestare contro gli assassini dei diritti umani, diventano essi stessi assassini. Migranti e Ong, il core business di Salvini di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 26 luglio 2019 Decreto sicurezza. L’approvazione in primo passaggio parlamentare del Decreto sicurezza bis getta una luce inquietante. L’approvazione in primo passaggio parlamentare del Decreto sicurezza bis getta una luce inquietante sulla reale politiche in materia di gestione dei flussi migratori da parte del Ministro degli Interni: è infatti oramai evidente che non vi è nessuna intenzione di affrontare realmente il problema, e tantomeno di risolverlo in chiave europea o addirittura internazionale, perché la rendita della gestione sub specie ordine pubblico dei migranti, con annessa criminalizzazione delle Ong e dei migranti stessi, è oramai chiaramente il core business della Lega, il giacimento quasi unico del suo consenso elettorale. La chiara volontà di non risolvere alla radice le questioni, complesse ma chiare, legate ai fenomeni migratori, può essere riassunta in alcuni passaggi chiave. In primis, al livello mondiale, il ritiro dell’Italia dal global compact sulla migrazione, in un primo tempo approvato e poi rigettato da un Parlamento già allora influenzato dalla visione leghista delle relazioni internazionali. Certo siamo in buona compagnia, con l’America di Trump che, non a caso, mantiene la stessa rotta, e cioè da una parte muri e repressione interna, dall’altra taglio selettivo delle risorse per la cooperazione allo sviluppo. Ultima, la decisione di estendere a tutti gli interventi a favore dell’interruzione consapevole e sicura di gravidanza, la cosiddetta Mexico City Policy che vieta ad Usaid, l’Agenzia Usa per la cooperazione, di finanziare Ong che le implementano o sostengono partner che lo fanno. Un chiaro segnale contro il rispetto degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, tra i quali sono compresi il rispetto e l’appoggio ai diritti riproduttivi e sessuali. Pensiamo solo alle gravidanze precoci, ai matrimoni forzati, ai pericoli per la salute delle bambine e delle donne che derivano dalle interruzioni clandestine. Il dibattito su come contrastare queste decisioni si è aperto tra le Ong internazionali che si occupano di infanzia, ma non solo, dato che la posta in gioco è, da una parte, il rispetto di diritti fondamentali, dall’altro l’indipendenza e la coerenza delle Ong stesse. E così, anche in Italia, prende una luce prospettica inquietante il parallelo tra sostegno ai movimenti pro life, e politiche anti-migratorie. Secondo passaggio, l’alleanza con i sovranisti europei. Sappiamo bene che se si vuole cambiare la normativa di Dublino, è necessario creare una rete di alleanze tra le varie forze politiche comunitarie. ORA, SE LA LEGA dialoga solo con quelli che il regolamento di Dublino non vogliono assolutamente toccarlo, qualche ulteriore dubbio viene. Per questo il continuare a salvare vite, ad accoglierle, a denunciare la chiusura degli spazi democratici, costituiscono gli anticorpi necessari alla democrazia del nostro Paese dell’Europa e, per fortuna, l’insieme delle Ong italiane ne è decisamente consapevole. Strage di migranti sulle coste della Libia. Affondano due barconi e annegano in 150 di Fabio Albanese La Stampa, 26 luglio 2019 Le imbarcazioni partite da Al-Khoms. Medici senza frontiere: i 135 sopravvissuti in stato di choc e ipotermia. Il bilancio ufficiale fornito dalla Guardia costiera libica conta 115 dispersi e 135 salvati. Fonti umanitarie si spingono a dire che i dispersi - leggi, morti annegati - sarebbero 150. Di certo c’è che ieri, davanti alle coste della Libia, si è consumata “la peggior tragedia del Mediterraneo di quest’anno”, per dirla con le parole dell’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi. Cosa sia accaduto 5 miglia al largo di Al-Khoms, città a 120 km a est di Tripoli, è ancora poco chiaro. Il naufragio di disperati, partiti dalla Libia per tentare di raggiungere l’Italia, l’Europa, in realtà sarebbe stato un doppio naufragio. Lo stesso portavoce della Marina libica, Ayoub Qassim, a un certo punto ha parlato di due imbarcazioni in legno con a bordo circa 300 persone, molti eritrei ma anche palestinesi e sudanesi, e tra loro tante donne e bambini. Anche qualcuno dei sopravvissuti avrebbe riferito questo particolare agli operatori umanitari che li hanno assistiti a terra. Ma non ci sono certezze; l’unica è che si è trattato di un’ecatombe, l’ennesima nel Mediterraneo centrale dove altri naufragi si sono verificati in passato, con centinaia di morti annegati e dove in questo momento la presenza di soccorritori è quasi nulla. Non ci sono navi delle Ong in quel terribile tratto di mare che Oim e Unhcr continuano a definire il più mortale. E, di fatto, nemmeno navi militari da quando è stata chiusa l’operazione Sophia-Eunavformed che ora si limita a controllare dall’alto con aerei, elicotteri e droni ma senza alcuna possibilità di un rapido intervento. Una situazione che le Ong continuano a denunciare, sottolineando come non sia la presenza della navi umanitarie a favorire le partenze dalla Libia e che molti altri naufragi senza testimoni possono essere avvenuti. D’altronde sempre ieri, un motopesca di Sciacca, l’”Accursio Giarratano”, soccorreva un gruppo di 50 persone su un gommone in difficoltà, in un tratto di mare tra Lampedusa e Malta di competenza Sar della Valletta. È rimasto per ore in attesa che arrivassero soccorsi “ufficiali”. Si parla anche di almeno altri 6 eventi Sar nella zona, con decine di migranti a rischio. E sempre ieri a Lampedusa ci sono stati 4 sbarchi, 56 persone; in una barca c’erano 10 adulti e 11 bambini; altre 77 persone erano giunte mercoledì. Il mese scorso c’era stato un naufragio con un’ottantina di morti davanti alla Tunisia, ma per arrivare a oltre 150 vittime bisogna andare indietro di 2 anni: 157 morti e 4 sopravvissuti davanti a Tripoli. Era il 19 maggio 2017. Per il naufragio di ieri, i testimoni sono gli stessi naufraghi. Medici senza frontiere, che ha assistito a Khoms 135 sopravvissuti arrivati in due gruppi di 82 e 53 persone, dice che “i pazienti sono sotto choc e hanno sintomi da pre-annegamento, come ipossia e ipotermia”. La capo missione Msf in Libia, Julien Raickman, ha detto che “ci sono oltre 100 dispersi. I naufraghi sono stati soccorsi da pescatori e riportati a Khoms. Testimoni oculari coinvolti nel soccorso parlano di almeno 70 cadaveri in acqua”. Allerta degli 007: rischiamo un’ondata di profughi libici di Cristiana Mangani Il Messaggero, 26 luglio 2019 Ogni naufragio in mare è un colpo al cuore alla politica migratoria italiana, perché la bomba libica è lì, pronta a esplodere. Il caos generato dal conflitto iniziato il 4 aprile scorso, rende la situazione sempre più complicata e mette sul tavolo le rivendicazioni che ognuna delle parti in causa mostra verso l’Europa. Sono mesi che il presidente riconosciuto dall’Onu, Fayez al Serraj, lascia intendere che potrebbe aprire i centri di detenzione gestiti da Tripoli e lasciare liberi i migranti di affidare le proprie vite agli scafisti. Lo ha fatto l’ultima volta dopo il bombardamento del centro per migranti di Tajoura, dove hanno perso la vita in 44 e sono rimasti feriti in 130. E la situazione incandescente che si vive nel Paese è una continua minaccia per le nostre regioni costiere. Perché il rischio paventato dall’intelligence è che i flussi cambino pelle e, ai migranti in arrivo da altre parti del mondo, si aggiungano gli stessi libici, in cerca di salvezza da una situazione sempre più drammatica. Non è un caso, infatti, che negli ultimi arrivi su 70 persone, una ventina proveniva proprio dalla Libia. Un dato che non veniva registrato da tempo. E ognuno di loro potrebbe chiedere lo status di rifugiato, visto che il Paese è in piena guerra. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono almeno 641.398 migranti attualmente presenti sul territorio. Di questi solo cinquemila sono nei centri di detenzione gestiti dal governo di Serraj. E quindi se anche decidesse di liberarli tutti, la situazione non cambierebbe molto. È la grande massa che vive di espedienti, di qualche lavoro qua e là, che rappresenta la vera preoccupazione, anche se in base alle ultime stime sono circa 200 mila quelli che aspirano ad andare in Europa. Il conflitto in corso nella zona a sud di Tripoli ha innescato un movimento verso le aree vicine della Libia occidentale e ha anche portato a una riduzione delle opportunità di lavoro. La gestione dei centri di detenzione ufficiali ha un costo che trova sostegno soprattutto nei soldi che Unione europea e Italia hanno trasferito al governo Serraj. I finanziamenti arrivati a Tripoli da Bruxelles ammonterebbero a 266 milioni di euro che farebbero parte del Trust fund europeo per l’Africa che ha un budget finale previsto che supera i 4 miliardi di euro per tutto il continente. A questo esborso, per il quale l’Italia è uno dei maggiori contribuenti seconda solo alla Germania, va aggiunto il supporto fornito direttamente da Roma dopo la stipula del memorandum Italia-Libia del 2 febbraio 2017. Tutto denaro che nel caos del conflitto non si sa bene nelle mani di chi finisca. Stati Uniti. Riprendono le esecuzioni federali. Gli analisti: mossa elettorale di Trump di Paolo M. Alfieri Avvenire, 26 luglio 2019 Dopo 16 anni di moratoria il titolare del dipartimento della Giustizia stesso, William Barr, ha chiesto di programmare 5 condanne a morte. La prima per il 9 dicembre. L’amministrazione Trump ha annunciato ieri la ripresa delle esecuzioni capitali di persone condannate da tribunali federali, dopo una moratoria durata 16 anni. In un comunicato, il dipartimento della Giustizia ha riferito che il titolare del Dipartimento stesso, William Barr, ha chiesto di programmare le esecuzioni di cinque detenuti condannati per omicidio in una prigione federale dell’Indiana. La prima esecuzione è fissata per il 9 dicembre. “Il Congresso ha espressamente autorizzato la pena di morte attraverso la legislazione adottata dai rappresentanti del popolo in entrambe le camere del Congresso e firmata dal presidente”, ha detto Barr. “Il dipartimento di Giustizia sostiene lo stato di diritto e dobbiamo alle vittime e alle loro famiglie l’esecuzione delle sentenze imposte dal nostro sistema giudiziario”. La decisione avrà effetto solamente sul sistema di giustizia federale, poiché gli Stati Usa decidono autonomamente se adottare la pena di morte. Sebbene l’ultima condanna a morte nel sistema di giustizia federale sia stata eseguita nel 2003, la magistratura federale ha continuato a chiedere condanne alla pena capitale. Il dipartimento della Giustizia ha adottato un nuovo protocollo di iniezione letale: si passerà dall’iniezione di tre farmaci all’utilizzo del solo Pentobarbital, conseguenza del fatto che molti Stati hanno avuto problemi a reperire tutti i farmaci richiesti. La ripresa delle esecuzioni - una mossa elettorale secondo diversi analisti - è in contrasto con le moratorie adottate da vari Stati della federazione. A marzo, in un tweet, il presidente Usa Donald Trump aveva scritto: “Contravvenendo” al volere degli elettori “il governatore della California sospenderà tutte le esecuzioni dei 737 detenuti nei bracci della morte. Gli amici e le famiglie delle vittime non sono contenti, e neanche io”. Trump aveva così criticato la moratoria sulla pena di morte decisa dal governatore californiano Gavin Newsom. Nel novembre 2017, Trump aveva invece invocato la pena di morte per Sayfullo Saipov, autore di un attentato a New York. Quattro mesi dopo, il presidente Usa aveva parlato anche di pena capitale per i trafficanti di droga. Due mesi fa il New Hampshire è diventato il 21esimo stato Usa ad abolire la pena di morte: il New Hampshire, dove l’ultima esecuzione risaliva comunque al 1939 e che aveva un solo detenuto nel braccio della morte, era rimasto l’ultimo stato del New England a prevedere la pena capitale. Stati Uniti. Trump, la carta del boia per sfidare i democratici di Gianni Riotta La Stampa, 26 luglio 2019 Il neonazista Daniel Lewis Lee, simbolo ariano tatuato sul collo, ha sterminato una famigliola intera, compresa una bambina di otto anni, nel 1996. Lezmond Mitchell ha assassinato una nonna di 63 anni e la sua nipotina di nove. Wesley Ira Purkey ha stuprato e ucciso una sedicenne e assassinato una donna di 80 anni. Alfred Bourgeois ha torturato, abusato e alla fine ucciso sua figlia JG, di due anni, e leggere le carte del processo vi spezza il cuore. Dustin Lee Honken è colpevole di cinque omicidi, incluse due bambine. Saranno questi, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, i primi detenuti del braccio della morte federale che dovrebbero essere giustiziati con il pentobarbital, su ordine del ministro della Giustizia americano William Barr. Il Guardasigilli del presidente Trump ha infatti ieri rescisso la moratoria di fatto che, dal 2003, lasciava languire i condannati a morte, non dai singoli Stati dove ancora vengono comminate sentenze capitali ma dalla giustizia federale, senza eseguire le pene. Barack Obama, pur favorevole alla pena capitale, era rimasto impressionato dal caso di un condannato che, ormai spacciato dall’iniezione letale, era invece tornato in sé in una orribile agonia, e aveva ordinato al ministro Holder di sospendere le esecuzioni, già ferme dai primi del secolo. Ora, Donald Trump, deciso a correre per la Casa Bianca 2020 su una piattaforma Legge & Ordine, inverte la tendenza e ordina la morte per cinque assassini i cui crimini contro i bambini suscitano orrore anche tra chi si oppone al boia statale. Da tempo l’opinione pubblica Usa perde entusiasmo per le esecuzioni, 21 Stati su 50 le hanno di fatto abrogate, altri, come New York, California, Pennsylvania non riescono a espungerle dalla legge ma non le applicano a nessun condannato. Il paese è spaccato, se nel dopoguerra fino all’80% degli americani si diceva favorevole alla pena capitale, adesso resta solo il 54% (fonte Pew). I troppi innocenti scagionati dal Dna nel braccio della morte, la campagna morale guidata dalla Chiesa cattolica, le tracce evidenti di razzismo, con gli afroamericani giustiziati per gli stessi reati per cui un bianco va all’ergastolo, hanno diffuso la consapevolezza che punire con la morte è vendetta, non giustizia. La Corte Suprema ha dibattuto per decenni la questione, senza venirne a capo, ora Trump, con fiuto politico, riapre il caso. Il partito democratico terrà il secondo round dei dibattiti per le primarie giusto la prossima settimana a Detroit, record del nazionale crimine dopo Saint Louis, e uno dei temi caldi sarà l’incarcerazione di massa per reati anche non violenti di neri e ispanici, che negli Anni ‘80 e ‘90 ha fatto degli Usa il paese con più carcerati al mondo. Joe Biden, senatore e poi vicepresidente di Obama, viene accusato da altri candidati, vedi i senatori Harris e Booker, di aver favorito questa crociata, che ha privato del diritto di voto milioni di cittadini (solo in Florida, da poco, oltre un milione di ex detenuti ha riottenuto i diritti civili, malgrado l’ostruzionismo repubblicano). E lo stesso presidente Clinton, in piena campagna elettorale, negò la grazia a un condannato nero dell’Arkansas afflitto da un grave handicap mentale. Trump e il ministro Barr posizionano dunque il partito con la vecchia grinta Law and Order cara al presidente Richard Nixon e useranno le primarie democratiche per marchiare gli avversari come “soft on crime”, morbidi con i criminali, l’accusa che azzoppò nel 1988 il governatore liberal del Massachusetts Dukakis contro Bush padre, un moderato convinto dallo spin doctor Lee Atwater ad atteggiarsi a duro. Si parte da detenuti colpevoli di crimini orrendi emozionando la piazza, da qui al voto di novembre 2020 potrebbe toccare ai “politici”, il razzista della strage contro i neri a Charleston, Dylann Roof o Dzhokhar Tsarnaev, il terrorista che seminò morte alla maratona di Boston: come potrebbero i democratici difenderli? Cina. Più di 2.000 detenuti uiguri trasferiti in segreto nell’Henan di Jiang Tao bitterwinter.org, 26 luglio 2019 Numerose fonti confermano che i prigionieri sono stati trasferiti in due carceri, separati dagli altri. Molti sono in isolamento e vengono picchiati. Con più di 3 milioni di uiguri e musulmani di altra etnia rinchiusi nei campi per la trasformazione attraverso l’educazione dello Xinjiang, le strutture detentive della regione soffrono da lungo tempo di sovraffollamento. La sempre maggiore condanna internazionale e l’attenzione che tutto il mondo riserva alle gravi violazioni dei diritti umani nello regione hanno spinto il PCC a trasferire in segreto un gran numero di detenuti ad altre province, per cercare di coprire i propri crimini. Gli internati musulmani sono stati spostati in precedenza nelle provincia confinante del Gansu, nella Regione autonoma della Mongolia Interna, nelle province dello Heilongjiang e dello Shaanxi. Seconda una delle nostre fonti, in una delle prigioni dell’Henan in cui sono stati trasferiti, gli uiguri sono stati separati dagli altri prigionieri. Molti sono tenuti in isolamento e spesso vengono picchiati. “Siccome sono uiguri, sono confinati nelle cosiddette “zone ad alto rischio” del carcere. Hanno manette e catene 24 ore al giorno, tutti i giorni. Le guardie hanno licenza di sparare in qualsiasi momento a chi disobbedisce”, ha spiegato. “Trascorreranno il resto della vita in carcere, senza alcun processo, sentenza o condanna. Sono destinati a morire in galera”. Una persona che conosce bene la questione e che ha richiesto l’anonimato ha affermato che, prima che gli uiguri fossero trasferiti, la prigione è stata ristrutturata in modo radicale: dalle attrezzature, fino ai cambiamenti di norme e regolamenti. Le guardie hanno addirittura affrontato una formazione speciale. Da quando i detenuti uiguri sono stati trasferiti, la prigione è rimasta sempre in stato di massima allerta e il numero dei guardiani è stato aumentato. Come in altri casi simili di trasferimento dallo Xinjiang documentati da Bitter Winter, tutte le informazioni sono assolutamente confidenziali: le autorità fanno di tutto per nascondere che gli uiguri sono imprigionati in queste galere e nessun segno esteriore fa capire dall’esterno che tali strutture siano carceri. I dipendenti hanno l’obbligo di firmare un accordo di riservatezza e non possono rivelare nulla a nessuno del proprio lavoro, neppure ai parenti più stretti. In base a un documento confidenziale di cui Bitter Winter ha riferito al principio di questa settimana, dal titolo Proposte per rafforzare e implementare l’operato delle carceri, emesso in aprile, le prigioni hanno ricevuto l’ordine di intensificare l’operato di “de-radicalizzazione” e occuparsi con severità dei “criminali che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale”. Per questo gli uiguri, i fedeli di quei gruppi religiosi classificati come xie jiao e gli altri “criminali” di tal fatta, secondo il giudizio del PCC, dovrebbero essere “ri-educati” in prigione, costringendoli ad ammettere la propria colpa e a pentirsi, tramite una pressione psicologica che possa “riplasmare i criminali fino ad acquisire un carattere sano”. Devono studiare il Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era, “che trasformerà i detenuti in “cittadini che si identificano dal punto di vista ideologico ed emotivo con la leadership del Partito”“, con la nazione cinese e la cultura cinesi e con “la via del socialismo con caratteristiche cinesi”. Tutto ciò, in nome di “contro-terrorismo e mantenimento dell’ordine”.