Pensioni revocate ai detenuti. La Consulta boccerà definitivamente la legge Fornero? osservatoriorepressione.info, 25 luglio 2019 Nel novembre del 2017 l’Associazione Yairaiha Onlus e la Confederazione Cobas, congiuntamente, si rivolgevano all’ex Ministro della Giustizia e al Presidente dell’Inps, per chiedere il ripristino immediato delle prestazioni previdenziali e assistenziale revocate per effetto dell’art. 2 commi 58/63 della Legge 92/2012, (Legge Fornero) ai danni di circa 15.000 detenuti condannati in via definitiva per taluni reati ritenuti di particolare allarme sociale. L’istanza rivendicava l’illeicità di un provvedimento arbitrario e lesivo dei principi fondamentali e costituzionalmente garantiti. Già allora sottolineavamo l’incostituzionalità della legge, posto che la revoca delle prestazioni previdenziali veniva applicata anche nei confronti di soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato prima dell’entrata in vigore della legge, in netto contrasto con il principio di irretroattività sancito dalla Costituzione all’art. 25. A ciò si aggiungono le violazioni all’art. 38 della stessa., determinate dall’applicazione verso tutti i condannati, senza distinzione tra detenuti e soggetti ammessi a scontare la pena in regime alternativo (detenzione domiciliare o affidamento in prova al servizio sociale), o addirittura in regime di sospensione della pena per grave infermità, ledendo il diritto costituzionalmente garantito e tutelato del mantenimento e dell’assistenza sociale riconosciuti a tutti i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere (siano essi incensurati o pregiudicati). Esprimiamo pertanto grande soddisfazione dinanzi all’ordinanza emessa il 16 luglio dal Giudice del Lavoro di Fermo, Dr.ssa Elena Saviano, con la quale si accoglie l’istanza di remissione degli atti alla Consulta avanzata dall’Avv. Fabio Cassisa, del Foro di L’Aquila, in ordine alla normativa punitiva contenuta nella legge. Fornero (art. 2, comma 61), nell’auspicio che la Corte Costituzionale voglia riconoscerne la palese violazione andando a ridefinire la giurisprudenza di merito. L’accoglimento del rinvio alla Corte Costituzionale del lodo Fornero, apre alla possibilità del riconoscimento pieno dei diritti insopprimibili che troppo spesso vengono calpestati in ragione di discutibili interessi di stato. Disattendere il rispetto della dignità della persona in circostanze di per sé già gravose come nella fase di esecuzione di una pena detentiva, non può che allontanare sempre di più dall’idea di reinserimento e rieducazione sociale dettata da quell’art. 27 della Costituzione che oggi più che mai siamo costretti a difendere senza mezzi termini. Associazione Yairaiha Onlus Cobas Confederazione dei Comitati di Base Giornali vietati per i detenuti al 41bis. Il Dap: elenco non rigido, limiti a giornali locali Avvenire, 25 luglio 2019 Non c’è un divieto di lettura, rispetto ad alcuni quotidiani, (Avvenire compreso), per i detenuti in regime carcerario di “41 bis”. La precisazione arriva dal magistrato Roberto Calogero Piscitello, a capo della Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che definisce “una tempesta in un bicchier d’acqua, innescata da un’interpretazione restrittiva del direttore del penitenziario” la vicenda relativa al divieto imposto nel carcere di Bancali (Sassari) a un recluso in regime di “41bis” di poter leggere un quotidiano sardo, perché non rientrava nell’elenco dei giornali inclusi in una circolare varata nel 2017 dal ministero di Giustizia, innescata da un’interpretazione restrittiva del direttore di quel penitenziario”. Il detenuto Domenico Gallico, di origine calabrese e ristretto al 41bis a Bancali, ha sporto reclamo e il tribunale di sorveglianza di Sassari gli ha dato ragione, stabilendo come l’unico divieto da rispettare sia quello relativo alla stampa locale dell’area geografica di appartenenza del recluso (di modo che, ad esempio, un boss calabrese, campano o siciliano non possa essere informato su vicende di cronaca esterne relative al suo territorio). La vicenda è stata resa nota dal quotidiano Il Dubbio, che ha riportato la decisione del giudice di sorveglianza. Secondo il tribunale, non consentire a Gallico l’acquisto di giornali della Sardegna ha leso il suo diritto costituzionale a informarsi. Tutto nasce da una circolare del Dap, varata nel 2017 e che contiene, fra l’altro, una tabella che elenca, uno per uno, i quotidiani e le riviste consentite a chi è in carcere in regime di “41bis”, non includendo tuttavia diverse testate a diffusione nazionale (fra cui Il Mattino, il Foglio, il Manifesto, il Dubbio e anche Avvenire). Piscitello, che nel 2017 ha scritto quella Circolare, puntualizza: “Non c’era e non c’è alcuna ragione discriminatoria o censoria. Per redigere quell’elenco, abbiamo acquisito i dati su tutti i giornali richiesti dai reclusi al 41bis dagli anni Novanta. E abbiamo inserito quelle testate nell’elenco, che non è da intendersi in senso restrittivo: i giornali assenti non sono esclusi, semplicemente fino a quel momento non erano stati mai richiesti”. Nulla impedisce che lo siano in futuro, insomma, Avvenire compreso? “Certamente”. Se il giudice veste la cappa del giustiziere sociale tradisce la Costituzione di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 25 luglio 2019 Il teorema che si fonda sulla stortura di chi pretende un potere invasivo. Caro direttore, ricordando la figura di Francesco Saverio Borrelli, il dottor Gherardo Colombo, celebre componente del manipolo che fu capeggiato dal primo, ha indicato il ruolo di cui dovrebbe farsi carico il buon magistrato: e cioè, scrive Colombo, “realizzare il compito della Repubblica (e delle sue funzioni) di rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. È un modo apparentemente più soffice e visionario per riproporre quel che non molto tempo fa uscì di bocca a un altro esponente del cosiddetto “pool” di Mani Pulite, il dottor Piercamillo Davigo, poi abituale compagno di conferenze del medesimo Colombo: e cioè che compito del magistrato sarebbe di “far rispettare la legge”. Ma in uno Stato di diritto né quel ruolo né questo compito sarebbero di competenza del magistrato, e il fatto che invece essi siano in questo modo proposti e democraticamente imbandierati denuncia con efficacia terribile su quale base di irrimediabile stortura pretende di fondarsi il potere di indagare e giudicare le persone. Non sta al magistrato di far rispettare la legge. E non gli sta di rimettere in sesto una società eventualmente ingiusta. Perché a far rispettare la legge è messo il poliziotto: non il magistrato; e a rimediare all’ingiustizia sociale sono messi il potere parlamentare e di governo, così come l’azione privata e associativa nei luoghi della formazione civile e culturale: non i magistrati, non negli uffici delle indagini, non nelle aule dei processi. Credere che sia diversamente, come fanno mostra di credere, magari anche in buona fede, certi esponenti della magistratura, arma la convinzione che la società possa essere ricondotta a giustizia tramite una requisitoria dell’accusa pubblica o con la sentenza che accerta e sanziona un illecito. La convinzione, appunto, che con questi strumenti possano (e dunque debbano) essere rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che un sistema ingiusto e corrotto frappone al trionfo dell’uguaglianza tra i cittadini. L’idea che il magistrato sia quello che si mette al lavoro per rimuovere l’ingiustizia sociale, e che in questo cimento risieda la giustificazione del suo potere di accusare, di arrestare, di condannare, veramente frantuma le fondamenta dell’organizzazione civile e democratica, con un ripiego del sistema in senso autoritario tanto più temibile perché si ammanta di “legalità”. E a questo pessimo risultamento si giunge tanto più facilmente quando l’azione giudiziaria è assistita da un consenso fatto di adunate intorno ai Palazzi di giustizia, con la turba dei buoni cittadini che chiedono ai magistrati di farli sognare. È stato scritto (sempre dal dottor Colombo) che Francesco Saverio Borrelli era “completamente indipendente dal potere politico”. È probabilmente vero. Come è vero tuttavia che di quel potere non aveva bisogno perché ne deteneva uno diverso e più vasto: il proprio, tutelato da quei cortei. La materia passiva dei costituzionalissimi esperimenti di giustizia sociale rivendicati dai militanti di Mani Pulite. Ma ai magistrati spetta il controllo di legittimità: la Repubblica si tutela così di Gherardo Colombo Il Dubbio, 25 luglio 2019 Nel 1992 proposi: chi confessa, restituisce i profitti e lascia la politica sia esente da pena. Caro Direttore, a proposito delle osservazioni dell’avvocato Prado vorrei richiamare l’articolo 3, comma 2, della Costituzione, secondo il quale “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ora, chi è la Repubblica, chi ha il compito di rimuovere gli ostacoli...? Io credo che questa domanda sia cruciale. A rispondere ci aiuta l’articolo 1, secondo il quale l’Italia è una Repubblica democratica, e la sovranità appartiene al popolo (che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione). La Repubblica è l’Italia. Cioè, non è (solo) il Parlamento che fa le leggi, non è (solo) il Governo, che amministra, non è (solo) il Presidente della Repubblica, capo dello Stato che rappresenta l’unità nazionale, non sono (solo) le istituzioni locali, ma è (anche) l’ordine giudiziario al quale è attribuito nel settore civile, penale e amministrativo il controllo di legittimità degli atti e dei comportamenti. La Repubblica è anche i suoi cittadini, ai quali sono riconosciute prerogative specifiche e diritti soggettivi attraverso i quali (capoverso dell’articolo 4) concorrere, tra le altre cose, al progresso materiale o spirituale della società. Se, dunque, la Repubblica sono i cittadini e le istituzioni, ne consegue che sia quelli che queste hanno il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono pieno sviluppo ed effettiva partecipazione. I cittadini hanno un compito duplice: specifico in ordine alla loro attività lavorativa, tanto più se si svolge nell’ambito istituzionale; generico per quel che riguarda il fatto stesso di essere parte della collettività. Per quel che riguarda l’ordine giudiziario, che è il centro dei rilievi dell’avvocato Prado, credo vadano in primo luogo distinti i ruoli del giudice e del Pubblico ministero (dal procuratore della Repubblica). Secondo il codice di procedura penale il Pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria (art. 327); il Pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa... (art. 330). Queste disposizioni sono indirizzate a far sì che si verifichi se sono stati commessi reati e che, in caso affermativo, si sanzioni il responsabile. Perché? Perché, tra l’altro, si prevenga la commissione dei reati, in altre parole perché si rispetti la legge. Direttamente, dirigendo la polizia giudiziaria, e acquisendo anche autonomamente le notizie di reato, il Pubblico ministero, anche di fatto (vi ricordate il testo dell’art. 3 Cost.) persegue lo scopo di far rispettare la legge. Cosa che si ottiene, secondo il nostro sistema, estromettendo dal processo chi non ha responsabilità della trasgressione, ma sanzionando invece il responsabile. L’accertamento avviene tramite un percorso munito di una serie di garanzie, perché il risultato sia il più possibile coincidente con quel che si è verificato, e contemporaneamente si rispettino i diritti (tutti) delle persone coinvolte. Ma lo scopo finale è quello di far sì che in futuro la legge sia rispettata (efficacia deterrente della sanzione penale). La stessa funzione, con i dovuti distinguo, svolge il giudice: separare il grano dal loglio, perché la cittadinanza rispetti la legge. Il giudice ha un compito ulteriore, affidatogli dalla legge costituzionale che ha stabilito “le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale” (art. 137 Cost.). La Corte Costituzionale, il giudice delle leggi, quello che così tanto ha contribuito a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale...”, fin dalla sua istituzione, può essere attivata soltanto da un giudice. Il quale evidentemente concorre alla rimozione degli ostacoli di cui parla l’articolo 3 ogni volta che il pubblico ministero o il difensore gli propongono la questione di legittimità di una legge ed egli, ritenendola non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione, la rimette al giudizio della Corte. Si chiude il cerchio, anche l’ordine giudiziario, e cioè il giudice e il pubblico ministero, concorre per la parte che gli spetta a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle persone. Certo concorre, insieme ai cittadini e a tutte le altre istituzioni, ciascuno per la sua parte. Altri profili che potrebbero stimolare riflessioni sull’esigenza di regolare i confini tra una istituzione e un’altra non sono stati toccati dall’avvocato Prado, e quindi non ne parlo. Vorrei però aggiungere che avendo fatto parte del “manipolo” (ahi, quanto una sola parola può rivelare il pregiudizio) capeggiato dal dottor Borrelli, già nel 1992 avevo suggerito l’idea di risolvere la situazione al di fuori del processo penale: chi racconta come si sono svolti i fatti, restituisce l’illecito profitto e si allontana per qualche tempo dalla vita politica va esente da pena. Il suggerimento non è stato accolto. Decreto sicurezza bis, il governo incassa la fiducia. Oggi il voto sul provvedimento Il Manifesto, 25 luglio 2019 La Camera ha approvato il voto di fiducia chiesto dal governo al Decreto sicurezza bis. I voti favorevoli sono stati 325, 248 i contrari, 4 gli astenuti. Oggi avrà luogo il voto sul provvedimento. Intanto ieri la Corte costituzionale ha emesso una sentenza su due aspetti del primo decreto sicurezza. I giudici hanno bocciato il potere sostitutivo dei prefetti “perché lede l’autonomia degli enti locali”, dando invece il via libera all’estensione ai presidi sanitari del cosiddetto Daspo urbano “a condizione che non si applichi a chi ha bisogno di cure mediche poiché il diritto alla salute prevale sempre sulle altre esigenze”. La Regione Umbria aveva impugnato il potere sostitutivo dei prefetti, mentre le Regioni Emilia Romagna, Toscana, Calabria avevano censurato l’estensione del Daspo urbano ai presidi sanitari. Nella motivazione della sentenza si spiega che il diritto alla salute prevale sulle esigenze di decoro dei luoghi e di contrasto alle condotte sanzionate in via amministrativa. La Corte ha invece cancellato l’articolo 28, primo comma del Dl 113/2018, che ha inserito nell’articolo 143 del Testo unico degli enti locali (Tuel) - sullo scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazioni e condizionamenti mafiosi degli amministratori locali - un nuovo sub-procedimento per l’attivazione dei poteri sostitutivi del prefetto sugli atti degli enti locali. La Corte ha osservato che la norma, oltre a violare la complessiva autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali (riconoscimento di funzioni amministrative proprie, autonomia regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, autonomia finanziaria), introduce un nuovo potere prefettizio fondato su presupposti generici ed eccessivamente discrezionali, violando così il principio di tipicità e legalità dell’azione amministrativa. Sicurezza, bocciati i poteri dei prefetti di Dino Martirano Corriere della Sera, 25 luglio 2019 La decisione della Corte costituzionale. Il nuovo testo bis, intanto, passa alla Camera con la fiducia. Nel governo si litiga su tutto - dalla Tav, alle autonomie fino al presunto finanziamento in rubli alla Lega - ma poi quando si tratta di votare il decreto Sicurezza bis la maggioranza è granitica. Così ieri, mentre i senatori grillini uscivano dall’aula in cui parlava il premier Giuseppe Conte, i deputati del M5S hanno votato in scioltezza con i leghisti la fiducia (è la 14ma volta per il governo Conte) sul provvedimento sponsorizzato dal vicepremier Matteo Salvini: 325 sì, 248 no, 4 astenuti. Il voto definitivo sul testo - che, tra l’altro, amplia i poteri del ministro dell’Interno contro le Ong che soccorrono immigrati in mare e che prevede norme più severe in caso di disordini alle manifestazioni - arriverà oggi o domani. Poi il decreto passerà al Senato. Ma nel giorno in cui il decreto su “Misure urgenti in materia e sicurezza pubblica” è ancora in sede di conversione, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 195, interviene sul primo decreto Salvini del 2018. Il potere sostitutivo del prefetto nelle attività di comuni e province è illegittimo - hanno stabilito i giudici delle leggi - perché lede l’autonomia degli enti locali e contrasta con il principio di tipicità e legalità dell’azione amministrativa. Sul fronte del Daspo urbano, la Consulta ha corretto la legge: è infatti legittima l’estensione ai presidi sanitari del cosiddetto Daspo urbano (divieto di accedere a taluni luoghi per esigenze di decoro e sicurezza pubblica) a condizione, però, che il divieto non si applichi ha chi ha bisogno di cure mediche o di prestazioni terapeutiche e diagnostiche, poiché il diritto alla salute prevale sempre sulle altre esigenze. È evidente che l’ampia materia relativa alla sicurezza modificata dai decreti sicurezza uno e due tocchi gli snodi sensibili dei diritti costituzionalmente riconosciuti: e dunque, probabilmente, ci saranno altri ricorsi e di altre impugnazioni. E stavolta ci sono in ballo anche le norme internazionali sul salvataggio in mare. Il giro di vite contro le Ong non ha incontrato ostacoli alla Camera anche perché Forza Italia e Fratelli d’Italia, pur non avendo votato la fiducia, sono favorevoli al provvedimento. Il capogruppo del M5S, Francesco D’Uva, rivendicato con fierezza tutti “no” del Movimento, ha però sottolineato l’emendamento presentato dai grillini che dispone la confisca immediata delle navi delle Ong. “Su questo Governo non si può che avere fiducia poiché, finalmente, garantire la sicurezza al Paese ed ai cittadini vien e prima di tutto”, ha aggiunto Ingrid Bisa (Lega). “Per noi le persone di più di qualsiasi marchetta elettorale e per questo voteremo contro”, ha detto Gennaro Migliore (Pd), “con Salvini che continua a disertare tutti gli appuntamenti anche su un provvedimento che porta la sua impronta e la sua demagogia”. Il capogruppo d Leu, Federico Fornaro ha poi fatto alcuni conti: “Secondo il Viminale nel 2019 sono arrivati dalla Libia 5,5 migranti al giorno per cui non si capisce perché c’era bisogno di un secondo decreto a distanza di pochi mesi”. Sicurezza bis, fiducia ok. Ma la Consulta boccia parte del primo decreto di Cristiana Mangani Il Messaggero, 25 luglio 2019 La maggioranza Lega-M5S tiene alla prova dell’ottava fiducia posta dal governo Conte, ora sul decreto sicurezza bis con 325 sì, 248 contrari e 4 astenuti. A votarla sono stati 322 deputati della maggioranza sul totale di 341. Il voto finale sul decreto è atteso tra poche ore, al massimo domani. Prossimo step, il Senato per la conversione in legge. Il pacchetto, fortemente voluto dal vicepremier del Carroccio, contiene norme che prevedono un giro di vite sul bagarinaggio. Rischia fino a 4 anni di carcere chi, durante pubbliche manifestazioni di piazza, lanci o utilizzi razzi e oggetti contundenti. Inoltre, il provvedimento stabilisce che il ministro dell’Interno possa vietare o limitare l’ingresso, il transito e la sosta di una nave nelle acque territoriali italiane e inasprisce le sanzioni a carico delle Ong (vengono introdotti la confisca delle navi alla prima infrazione e l’arresto per il capitano non rispetta il divieto di entrare nelle acque territoriali e che non si ferma allo stop della autorità italiane). Nel corso dell’esame nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia di Montecitorio sono state inserite misure economiche a sostegno delle forze di Polizia e dei Vigili del fuoco. Ma come è accaduto di recente, le norme devono fare i conti con le limitazioni imposte dalla Consulta. Con la sentenza numero 195 depositata ieri, viene ancora una volta ridimensionato il potere dei prefetti previsto dal primo dl approvato. La considerazione dei giudici costituzionali è che non è ammesso il potere sostitutivo “perché lede l’autonomia degli enti locali”. Ok invece a l’estensione ai presidi sanitari del cosiddetto Daspo urbano “a condizione che non si applichi a chi ha bisogno di cure mediche, poiché il diritto alla salute prevale sempre sulle altre esigenze”. Le regole stabilite nel decreto non fanno che confermare la linea di rigore che il Viminale vuole imporre nei confronti delle navi delle Organizzazioni non governative. Sempre ieri il Comitato per l’ordine e la sicurezza ha stabilito che vengano monitorate con grande attenzione le modalità di finanziamento di quelle che operano nel Mediterraneo centrale. Proprio nei confronti dell’attività di alcune di queste sono già aperti diversi fascicoli di indagine nelle procure siciliane. E ieri Salvini ha ribadito di voler fare chiarezza. È stato anche fatto il punto della situazione sulla nave battente bandiera norvegese, noleggiata da Ong francesi, in rotta verso le acque della Libia. Il Viminale ha fatto sapere di aver già contattato le autorità della Norvegia. Carlo Federico Grosso, l’impegno per un diritto penale mite di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2019 Arriva la notizia della morte di Carlo Federico Grosso, spentosi ieri mattina nella sua Torino, e la memoria corre ad altre stagioni e anche a un altro Csm. Perché Grosso era certo tra i più noti penalisti italiani, protagonista in tanti processi, dalla difesa delle parti civili nei procedimenti per le stragi di Bologna e del rapido 904 a quella di Annamaria Franzoni nel delitto di Cogne (ne fu il primo legale, ottenendone la scarcerazione per mancanza di indizi), ma si distinse anche in procedimenti per criminalità finanziaria, come quelli sul crac Parmalat, a tutela degli obbligazionisti truffati, e per i derivati venduti al Comune di Milano. Tuttavia era anche un giurista impegnato nella politica della giustizia. Di quel ceppo torinese, di Alessandro Galante Garrone e Gustavo Zagrebelsky, per dire. Dagli incarichi istituzionali (fu componente del Csm, eletto nel 1994 ne divenne vicepresidente dal 1996 al 1998, e ancora, nominato dal ministro della Giustizia del primo Governo Prodi, Giovanni Maria Flick, guidò la commissione ministeriale per la riforma del Codice penale), alla disponibilità a intervenire anche sulla cronaca quando l’occasione gli sembrava ineludibile. Da ultimo intervenne, invano, insieme a molti altri, per sollecitare il nuovo Governo a non gettare alle ortiche quella riforma dell’ordinamento penitenziario messa a punto dall’amministrazione Orlando, ma, contrariamente a molti altri interventi in materia, lungamente preparata. Fu anche docente di Diritto penale a Urbino, Genova e Torino, in quest’ultima università dal 1974 al 2007, prima di esserne nominato professore emerito. In politica fu consigliere comunale sempre a Torino come indipendente nelle liste del Pci dal 1980 al 1990, ricoprendo anche la carica di vicesindaco. Dal 1990 fu vicepresidente del consiglio regionale del Piemonte. Una figura poliedrica dunque, certo non chiusa nel recinto dell’Accademia, disponibile a mettersi in gioco, e in questo senso è stato anche ricordato ieri dall’Anm, nell’espressione di “un profondo cordoglio per la scomparsa del professor Carlo Federico Grosso, apprezzato studioso e avvocato che seppe dimostrare, anche da vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, alto senso Istituzionale, attenzione alle ragioni della giurisdizione e alle istanze della società civile”. Scrisse anche per “Il Sole 24 Ore” e piace ricordarlo, nel vivo dell’impegno, con alcuni stralci di un articolo scritto in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002, momento a suo modo unico, perché nel pieno delle polemiche tra Governo Berlusconi e magistratura, dove un tutto sommato attonito Grosso non poteva che registrare che “per la prima volta nella storia del Paese le inaugurazioni dell’anno giudiziario hanno conciso con una realtà di scontro governo-magistratura. Mai prima d’ora si era visto il Parlamento varare riforme funzionali al rallentamento di processi incorso, il Guardasigilli interferire su un processo in cui il premier è imputato o avvocati parlamentari ostacolare il normale corso dei giudizi”. E tuttavia era lo stesso Grosso che, sempre sul Sole 24 Ore, sottolineava la necessità di riforme organiche dei Codici, perché “lo esigono i cittadini, lo richiede una elementare esigenza di funzionalità e di modernizzazione del mondo della giustizia”. Era lo stesso Grosso che però contestava la centralità del carcere nel Codice Rocco, che ricordava quanto il sistema delle pene in esso delineato fosse deficitario, ineffettivo e, dove applicato, inutilmente vessatorio. In Grosso parlava lo studioso del diritto, ma anche l’avvocato, che troppo spesso vedeva infliggere il carcere secondo “criteri molte volte casuali”. E la “sua” riforma del Codice penale fu coerente con questa impostazione, perché all’insegna di un diritto penale “mite”, senza perdere in rigore, abbassando in media le pene detentive, utilizzandole solo in casi di stretta necessità, e, dove non necessarie, sostituendole con sanzioni diverse, di natura interdittiva o pecuniaria. Un modello assai distante dai tempi odierni, di leggi “spazza-corrotti”, di (contro)riforme della legittima difesa, di giustizia amministrata “a furor di popolo”. E non parrebbe un bene. Carlo Federico Grosso, il senso del penalista per le nostre istituzioni di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 25 luglio 2019 È morto a Torino Carlo Federico Grosso, tra i più noti penalisti italiani e a lungo collaboratore della Stampa. Aveva 81 anni. Emerito di Diritto penale, è stato consigliere comunale e vicesindaco di Torino nelle file del Pci, e vicepresidente del Consiglio regionale del Piemonte. Nel 1994 è stato eletto nel Csm, di cui è stato vicepresidente. Come avvocato, ha rappresentato tra l’altro la parte civile nel processo per la strage di Bologna e ha difeso Annamaria Franzoni nella prima fase del processo per il delitto di Cogne. Non è facile ricordare un giurista come Carlo Federico Grosso ai lettori di questo giornale che ne hanno apprezzato i puntuali articoli, capaci di chiarire anche complessi problemi legati alla giustizia. Non è facile perché egli ha percorso tutte le vie aperte al cultore del diritto. Le varie occasioni d’impegno sono state sempre legate dal forte rigore civile che lo caratterizzava. Non è facile poi per chi, come chi scrive, non solo è stato per oltre cinquant’anni tra i suoi amici, ma anche lo ha più di una volta incrociato, in posizione diversa, nelle stesse occasioni di lavoro, nelle stessa istituzioni ove operavamo (come il Consiglio Superiore della Magistratura o le commissioni ministeriali di studio). Era, Carlo Federico, di rigore istituzionale senza difetto: un importante tratto del suo carattere che è giusto sottolineare. Carlo Federico Grosso è stato uomo delle istituzioni. Per questa sua virtù, prima di tutto, voglio salutarlo oggi che è scomparso. Mostrava profilo istituzionale anche quando, soprattutto negli ultimi anni, era impegnato come avvocato. Sentiva di svolgere una funzione d’interesse pubblico, affascinato dal valore del contradittorio processuale, attirato non solo dalle questioni di diritto, ma anche dal problema della ricostruzione del fatto, dalla ricerca della verità, secondo le regole del processo. Sul piano della notorietà pubblica ha avuto maggior eco l’impegno d’avvocato nella prima parte del processo per il delitto di Cogne. Tuttavia più significativo è il ruolo di avvocato di parte civile nei processi per le stragi terroristiche di Bologna e del Rapido 904, e anche per quello del fallimento Parmalat, ove difendeva le decine di migliaia di vittime del fallimento. Recentemente ha difeso Calogero Mannino, ora assolto anche in appello nel processo della cosiddetta Trattativa. Questi i principali processi in cui il risvolto civile è più evidente. Professore di diritto penale uscito dalla scuola penalistica torinese guidata da Marcello Gallo, professore a Urbino e a Genova e da ultimo ordinario nell’Università di Torino, Grosso è stato autore di importanti monografie sia di parte generale, come le cause di giustificazione, sia di parte speciale, come l’abuso di ufficio. Di forte preparazione teorica, a essa univa l’esperienza pratica fornitagli dall’attività d’avvocato e da quella politica. Accanto al lavoro di studioso e docente, Grosso si è impegnato nell’amministrazione della cosa pubblica. In questo non dissimile dal padre, Giuseppe Grosso, non dimenticato professore di diritto romano, ma anche sindaco di Torino e presidente della Provincia. Carlo Federico è stato vice sindaco e vice presidente del Consiglio regionale piemontese. Eletto dal Parlamento nel 1994 componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ne fu poi eletto vice presidente. Allora come in altri periodi le tensioni attorno al Csm erano forti, soprattutto per i rapporti che si sviluppavano tra magistratura e poteri politici. Ricordo la sua audizione alla Commissione bicamerale di Riforma costituzionale presieduta da Massimo D’Alema. Ai disaccordi che percorrevano il Consiglio sulle modalità con cui occorreva organizzare l’interlocuzione con la Commissione, Grosso diede soluzione con il suo intervento, fermo in difesa dell’indipendenza della magistratura. La sua audizione fu commentata favorevolmente da tutto il Csm. Grosso fu capace di assicurare una guida autorevole, non corriva, rispettata. Non ha avuto fortuna, perché non ripreso in sede governativa o parlamentare, l’importante lavoro da lui curato e diretto come presidente della Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale che porta il suo nome. Grosso seppe dare spazio agli apporti di numerosi autorevoli componenti, non disperdendo inutilmente i lavori e alla fine personalmente redigendo, con rapidità e maestria, testo e relazione illustrativa. Non a lui o alla Commissione risale la responsabilità della mancanza di sviluppo di quello studio. Anche le altre analoghe Commissioni, presiedute dai professori Pagliaro e Pisapia, hanno avuto analogo esito. Ma vi è chi non si scoraggia. o, pur scoraggiato, non rinuncia a fornire a governo e Parlamento la scienza necessaria alle riforme di cui il Paese ha bisogno. Di Carlo Federico Grosso, sopra tutto il resto, ricorderemo l’indefettibile, esperto impegno nell’interesse della nostra Repubblica. Perché Formigoni ha diritto ai domiciliari: difendere l’indifendibile di Luigi Manconi La Repubblica, 25 luglio 2019 Gli arresti domiciliaci concessi all’ex governatore lombardo sono legittimi. Populista dire che si tratta di trattamento diseguale. Si può difendere l’indifendibile (Roberto Formigoni) in nome della forza del diritto e dei principi del garantismo? Faticosamente, e forse contraddittoriamente, penso di sì. Formigoni e io ci siamo francamente antipatici da decenni e, da quando ironizzai sull’abbigliamento coatto-pop di una fase della sua vita politica, mi ha tolto il saluto. Ma questo, va da sé, è il più irrilevante dei suoi pubblici peccati, sui quali - dopo la magistratura - giudicheranno la sua coscienza e il suo Dio. Qui si parla d’altro. La prima considerazione è che il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza è perfettamente legittimo: previsto, cioè, dall’ordinamento giuridico e dal regolamento penitenziario. Per chi abbia superato i settant’anni è possibile, infatti, espiare la pena “nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza”. A impedire tale opportunità avrebbe potuto essere la mancata collaborazione per acquisire nuovi elementi relativi ai fatti criminali attribuitigli, ma il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che tale collaborazione fosse ormai superflua perché il processo già ha ricostruito “con pignoleria” la vicenda; d’altra parte, la procura ha dichiarato di non avere “elementi certi per ritenere, ma nemmeno per escludere” la persistenza dell’associazione criminale della quale Formigoni è stato parte. Inoltre il Tribunale ha valutato positivamente il suo comportamento in carcere e quanto l’ex presidente ha detto nell’ultima udienza, riconoscendo il “disvalore dei propri comportamenti” (un po’ poco, no?). Lo scandalo, tuttavia, resta e corre furiosamente sul web: cinque mesi, appena cinque mesi di galera! Si tratta di un sentimento che nasce dalla percezione di una insopportabile ingiustizia e di una intollerabile sperequazione che sembra - ancora una volta - privilegiare i privilegiati. Non è una sensazione immotivata, ma non ci si può accontentare di questa. Intanto va ricordato che Formigoni non è stato “liberato”, ma consegnato alla detenzione domiciliare e che questa è, a tutti gli effetti, una diversa forma di reclusione, con limiti, divieti e controlli. Va sottolineato, poi, che al condannato sono stati sequestrati tutti i redditi e il patrimonio e che si è accertata l’assenza di qualsiasi pericolosità sociale. Ciò che resta, quindi, è quello che appare come un trattamento diseguale, a esclusivo vantaggio dei potenti, che rimangono tali, in virtù di risorse relazionali, amicali e di status, residuale ma non insignificante (come la disponibilità di ottimi avvocati). L’argomento è tanto suggestivo quanto, a mio parere, fragile. Ed è argomento schiettamente populista, intendendo con questo termine qualcosa di assai più antico e solido della recente tendenza politico-culturale. È parte costitutiva della demagogia populista, infatti, l’idea, sostanzialmente reazionaria, che l’uguaglianza vada conquistata tramite il livellamento verso il basso, laddove qualsiasi politica di progresso dovrebbe muovere nella direzione esattamente opposta. Vale anche per il populismo penale, che tende a ricercare la parità intorno alle condizioni peggiori. Perciò, se è vero come è vero, che nelle prigioni italiane sono numerosi i detenuti anche ultra ottantenni, il populismo vorrebbe che a Formigoni venisse imposta la medesima condizione carceraria. Qualsiasi progressista, invece, dovrebbe auspicare che a tutti i detenuti di età avanzata venga applicato il “trattamento Formigoni”. E dovrebbe riconoscere nel legittimo beneficio per lui adottato, una buona ragione, giuridica, morale, ma anche di argomentazione pubblica, per estendere quella misura a quanti si trovino nella medesima condizione. Insomma, la permanenza in carcere di persone anziane è, nella gran parte dei casi, non motivata da ragioni di pericolosità sociale, bensì da una situazione di svantaggio economico-materiale. Sono questi ultimi a trovarsi in una situazione illegale: trattarli “come Formigoni” significherebbe ripristinare la legalità. E ciò in un quadro generale che vede il sistema penitenziario italiano tornare ai massimi storici di sovraffollamento, mentre si fa sempre più profonda la separatezza tra il carcere e la società. Il che corrisponde a un processo di rimozione (anche in senso strettamente psicoanalitico) della “questione criminale” come problema generale: dei reclusi e dei liberi. Quella separatezza viene oggi incrinata da due eventi significativi: la visita del capo dello Stato nell’istituto romano di Rebibbia e il “Ferragosto in carcere” promosso dal Partito Radicale per i giorni 15-18 di agosto. Due segnali, così rari e così sottaciuti, di senso di responsabilità e di saggezza istituzionale. E la conferma che “Difendere l’indifendibile” (di Walter Block, Liberilibri) può non essere solo il titolo di un bel libro. Raffaele Cutolo: “Vogliono farmi pentire, ma io non tradirò mai” di Antonio Mattone Il Mattino, 25 luglio 2019 Mi aspetta in piedi nella stanzetta dei colloqui. È un po’ ricurvo e si appoggia sul supporto del divisorio dall’altra parte del vetro. Appena mi vede strizza gli occhi per mettere a fuoco l’interlocutore - che ha ottenuto il colloquio per avere una testimonianza diretta in vista di un libro su Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso nel 1981 - e poi lentamente si siede. Raffaele Cutolo, boss di Ottaviano con numerosi ergastoli sulle spalle per condanne di associazione camorristica e omicidi, è l’anziano detenuto che ho difronte in una piccola sala del supercarcere di Parma. Capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata che si contrapponeva ai clan della Nuova Famiglia in una guerra che all’inizio degli anni ‘80 fece centinaia di morti, appare trasfigurato rispetto alle immagini che lo hanno ritratto in questi anni. Ha il respiro affaticato, il volto smagrito, i capelli lunghi e la barba incolta, segno di una certa trascuratezza, anche se mantiene un suo contegno. Non l’avrei riconosciuto se non avessi saputo che il carcerato che avevo di fronte era proprio lui. Indossa una camicia blu con delle righe bianche e un jeans azzurro, ma non porta più quegli occhiali dorati, indossati poi anche dai suoi seguaci, che gli davano quell’aria da intellettuale, da cui scaturì il famoso soprannome: “‘O professore”. Ha perso il piglio risoluto e sarcastico che contraddistingueva le sue uscite ma conserva una grande memoria e il senso di humor. Ricorda fatti e nomi con una grande lucidità e ogni tanto accenna a una battuta. Insomma non è più la star sotto i riflettori, come quando con aria compiaciuta rispondeva alle domande di Joe Marrazzo in un’aula di un tribunale sapendo di essere al centro dell’attenzione mediatica. Oggi il vecchio don Raffaele mi ascolta tendendo l’orecchio proteso verso la cornetta con cui comunichiamo e, dopo aver preso fiato, parla con una certa fatica. “Come sta?”, gli chiedo. “Aspettiamo la morte” mi dice con un tono secco. Riprende: “è assurdo che dobbiamo fare questo colloquio con questo vetro in mezzo”. Durante l’incontro parecchie volte ripeterà l’espressione “è assurdo”. “Non è meglio la pena di morte? Un attimo di coraggio e poi finisce tutto, così invece è una sofferenza continua”. Dice che il suo dolore più grande è il pensiero di non poter più abbracciare la figlia al compimento dei 12 anni di età. “La prossima volta che verrà a trovarmi sarà l’ultima in cui potrò stare accanto a lei ed abbracciarla, poi quando avrà 12 anni e un giorno, si dovrà accomodare dall’altra parte del vetro”. Sembra paradossale che colui che provocato lutti e disperazione si trovi a misurarsi con la propria sofferenza. “Ho seminato odio e morte - ammette - ed è giusto che paghi. Ma che significa ridurmi in questo stato?”. Raffaele Cutolo è l’unico detenuto in Italia a non avere contatti con altri carcerati. Anche l’ora d’aria la dovrebbe fare da solo, senza quella che in gergo carcerario viene chiamata “la dama di compagnia”. “Ma che ci vado a fare - mi dice - tanto vale che resto nella mia cella, un ambiente stretto e lungo quanto questa stanza”. È in carcere dal 27 febbraio 1963. Poi accenna un sorriso: “mi sono allontanato solo per un periodo, un po’ “rumorosamente” dall’Opg di Aversa”. Se consideriamo che fu scarcerato per decorrenza dei termini durante la prima detenzione per l’omicidio Viscido, si è fatto oltre 54 anni di galera. Nel supercarcere di Parma, ci sono circa settecento detenuti di cui una settantina in regime di 41 bis. Qui ha vissuto i suoi ultimi giorni il boss di Cosa nostra Toto’ Riina, morto poi nell’ospedale della città. Il personale è estremamente gentile e mi accompagna nei vari ambienti dell’istituto fino a giungere alla sala del colloquio. Un giovane appuntato pugliese, appena ha saputo che vengo da Napoli parla della nostalgia del mare: “noi meridionali non riusciamo a starne lontano”. “È un giornalista?” mi domanda, e dopo aver saputo che sono anche un volontario nel carcere di Poggioreale gli si illuminano gli occhi e comincia a raccontare. “Lì sono cresciuto, e quel luogo lo sento un po’ come casa mia. Stavo nel padiglione Milano stanza 13 e poi mi passarono alla numero 1. A Poggioreale divenni un boss perché non sopportavo l’arroganza dei “mammasantissima” dell’epoca che volevano imporre la loro legge all’interno di quelle mura. La mia fu una ribellione” ricorda. Resta famoso l’episodio quando sfidò a duello Antonio Spavone detto “‘o malommo” che non si presentò al confronto facendo così crescere la fama e il prestigio del giovane guappo di Ottaviano. Al padiglione Milano si celebrava anche il rituale del caffè ricordato dalla celebre canzone di De Andrè. Gli chiedo se era una storia vera o un frutto di una leggenda, ma lui mi conferma tutto. “Il mio compagno di stanza - che in effetti era un vero e proprio inserviente - si chiamava Menichiello ed era di Pianura. Ancora non sono riuscito a capire come riusciva a fare un caffè così buono”. Così come era vero che il brigadiere Pasquale Cafiero citato dal cantante genovese (il nome di battesimo era effettivamente Pasquale mentre il cognome era diverso) si fermava nella stanza numero 13 per sorseggiare l’espresso: “veniva da me e mi esponeva i suoi problemi, mi diceva che guadagnava poco e non riusciva a tirare avanti”. Anche don Elvio Damoli, il cappellano dell’epoca, mi ha confermato che talvolta era della compagnia: “La mattina si passava da Cutolo e si prendeva il caffè, quando ancora non era arrivato all’apice della sua fama”. Una volta ci fu uno screzio tra i due. Mi ha raccontato don Elvio che il boss di Ottaviano gli disse che due carcerati volevano incontrare il prete, ma lui si rifiutò: “se vogliono parlare con me, lo devono chiedere loro”, replicò e per molto tempo non si salutarono più. Alcuni detenuti si offrirono di lavare l’onta e di punire il sacerdote, ma il boss non volle. Finché un tale Barbirotti fece da mediatore e favorì un incontro fortuito in sala magistrati. “Ci incrociammo l’uno di fronte all’altro, ci salutammo e così fu sancita la pace - ricorda don Elvio”. Il colloquio scorre tranquillo, Cutolo manifesta interesse anche se parlare attraverso il citofono è una grande fatica. Passa la cornetta da una mano all’altra, come del resto faccio io, ma nelle sua dita si scorgono i segni dell’artrite reumatoide che da qualche anno lo ha colpito. Gli chiedo come trascorre le giornate, “sono sempre uguali mi dice”. “Leggo poco perché da un occhio non ci vedo più e dall’altro la visione è ombrata. Qualche sera mi cucino la pasta e fagioli, con i legumi in scatola è tutto più facile. E poi guardo qualche programma in televisione: l’altro giorno ho visto quello di Massimo Ranieri, ‘Sogno o son desto’”. Ma la sua passione, aggiunge, è ascoltare le canzoni di Sergio Bruni: da quando è stato trasferito a Parma non gli è più consentito. Allora l’unico passatempo che gli resta è quello di fumare i sigari toscani. Nei giorni dell’anniversario della strage di via D’Amelio parliamo di Borsellino e di Falcone. “Erano - dice - due grandi giudici. Ma Totò Riina era spietato lo incontrai due volte durante la latitanza e una volta gli buttai la pistola addosso”. Ricorda anche l’omicidio di Giancarlo Siani, “un bravo giornalista” che secondo lui fu ucciso dai Nuvoletta perché ipotizzò che la cattura di Valentino Gionta fosse dipesa da un tradimento del capoclan di Marano. “Siani scrisse degli articoli anche contro di me, ma non me la presi perché faceva il suo mestiere”. Il feroce boss di Ottaviano fu condannato all’ergastolo per essere stato il mandante dell’omicidio di Giuseppe Salvia, sono da lui proprio per rievocare quella tragica vicenda. “Mi faceva sempre perquisire - dice - ogni volta che entravo e uscivo dalla cella, e non ne potevo più. Provavo rancore. Mi dispiace ma che potevo fare?”. In buona sostanza Salvia, straordinario servitore dello Stato, metteva in discussione il suo prestigio all’interno di quelle mura. Sui casi Moro e Cirillo è perentorio. “Seppi da uno dei componenti della banda della Magliana, un tale Nicolino Selis, il covo dove era nascosto lo statista, e lo feci sapere ad Antonio Gava che però mi mandò a dire: don Rafè fatevi i fatti vostri”. Ad Ascoli Piceno ricorda il via vai di politici che andava da lui per chiedergli di salvare la vita dell’assessore regionale. “Eppure - sottolinea arrabbiandosi - Pertini mi fece chiudere all’Asinara! La Nco non fu sconfitta dallo Stato ma da Ciro Cirillo”, sentenzia. La sua lunga carcerazione è stata segnata da eventi drammatici. Come quando seppe dai giornali del decesso della mamma. “Morta la madre di Cutolo: funerali non pubblici a prima mattina” titolò un quotidiano. Invece della perdita del figlio Roberto fu avvisato dal direttore del carcere di Belluno che andò da lui di prima mattina. Quando rievoca il figlio, la voce si incrina e rivolge gli occhi verso al soffitto: “Ah, Roberto, Roberto”. Le notti del detenuto Cutolo, che resta sempre il re delle mezze verità, sono segnate da incubi e tormenti. “A volta mi sogno tutti questi morti uccisi, Carlo Biino, Pasquale D’Amico il cartonaro che si è pentito; me li sogno tutti”. Parla dei suoi incubi e viene fuori il discorso sul pentimento. “Fino a due anni fa sono venuti per convincermi a parlare. Quando stavo nel carcere di Carinola mi proposero di andare in una villetta con mia moglie per far l’amore con lei, ma io non ho voluto, non volevo far arrestare qualcuno per poter stare con Immacolata, non l’avrei mai accettato. Il pentimento è davanti a Dio”. Il boss di Ottaviano, il feroce boss di Ottaviano, durante la sua ascesa criminale ha raccolto giovani violenti e sbandati nelle carceri e nei quartieri periferici. Gli ha dato una identità e la convinzione che con la violenza e il terrore si acquisivano potere e prestigio, come ha scritto Isaia Sales. Un testimone mi ha raccontato che Michele Iafulli, affiliato alla Nco, quando era detenuto nel padiglione San Paolo, aveva fatto un altarino con la foto di Cutolo proprio per attestare la grande devozione verso il capo. “Quale è il futuro della camorra? Che direbbe ai giovani criminali di oggi?”, gli chiedo. “Non c’è futuro per la camorra - mi risponde - questi sparano nel mucchio, colpiscono persone e bambini che non c’entrano niente, noi invece andavamo mirati su una persona. Certo era sbagliato anche quello ma almeno non colpivamo a casaccio; oggi non si capisce più niente”. Veste i panni del saggio e dice che i giovani devono cambiare strada e costruire il loro domani sul lavoro: “Non è meglio mangiare una bistecca fuori piuttosto che qui dentro? Io ho fatto tanto male ed è giusto che resti qui dentro. Avevo un mio ideale ma quello che ho fatto era sbagliato”. “Ho fatto tanto male”: le parole mi risuonano nella testa mentre penso che fuori da qui, fuori dal carcere, in 100mila persone hanno firmato una petizione che chiedono la liberazione di questo anziano, feroce signore che mi sta davanti. Penso che la figura di Cutolo continua ad esercitare un fascino potente; e penso che siamo di fronte ad un fenomeno, un fenomeno che andrebbe studiato a fondo e compreso meglio. Mentre inseguo i miei pensieri la voce dell’agente di guardia annuncia che il tempo è scaduto. Si non c’è più tempo: il colloquio è finito, anche se ci sarebbero tante altre cose da dire e domande da fare. Cutolo si alza e sta per andarsene. Prima di uscire dalla stanza, quasi sussurra: “Faccia un sorriso ai giovani detenuti di Poggioreale, cerchi di aiutarli per non fargli prendere una brutta strada”. Sì alla confisca dell’auto di proprietà della madre incautamente data al figlio alcolista di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2019 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 24 luglio 2019 n. 33231. Via libera alla confisca dell’auto di proprietà della madre che, incautamente, la affida al figlio alcolista. La Corte di cassazione, con la sentenza 332131, respinge il ricorso teso a far annullare sia il provvedimento di revoca della patente, per guida in stato di ebbrezza, con tanto di incidente contro una vettura in sosta, sia la confisca dell’autovettura di proprietà della mamma del ricorrente. Sul primo punto viene contestato il risultato dell’alcoltest, perché l’apparecchio non era stato revisionato né aggiornato e le due prove avevano dato risultato diverso. Per la Cassazione però la rilevazione è valida anche quando la prima prova dia un valore inferiore alla seconda, si deve, infatti, escludere che la curva di assorbimento dell’alcol nell’organismo si viluppi in modo decrescente. Stessa sorte per il motivo relativo alla confisca dell’auto. Non passano le argomentazioni del ricorrente che ricorda che la vettura, di proprietà della madre, veniva usata anche dai suoi fratelli, tutti conviventi. I giudici della quarta sezione penale sottolineano che “la formale titolarità di un bene in capo a un soggetto estraneo al reato non è sufficiente ad escludere la confisca stessa e a tutelare l’intangibilità del diritto del proprietario, se costui abbia tenuto atteggiamenti negligenti che abbiano favorito l’uso indebito del bene”. E, per la Suprema corte, è quanto accaduto nel caso esaminato. La madre, proprietaria dell’auto, non si poteva considerare estranea al reato, perché era certamente a conoscenza del fatto che il figlio fosse alcolizzato, tanto che, a dire del fratello, secondo quanto riferito dai giudici di merito, aveva causato alla famiglia numerosi problemi. È dunque evidente la totale imprudenza del genitore nel consegnargli le chiavi dell’auto senza che ci fossero ragioni di necessità. Aziende confiscate a raggi X. Obiettivo: legalità e mercato di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2019 Nessun tentativo va tralasciato per salvare un’azienda sequestrata o confiscata ai mafiosi. Per non essere velleitari, però, si deve cominciare innanzitutto da una conoscenza analitica dell’impresa sottratta alla criminalità organizzata. Tutti i dati, gli aspetti, le problematiche, le eventuali virtuosità nonostante la cifra mafiosa da ripulire. Fino a ricorrere a “strumenti di business intelligence” come ha spiegato di recente alla commissione Antimafia il prefetto Bruno Frattasi, direttore dell’Anbsc-Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Domani i vertici dell’Agenzia, di Unioncamere e di InfoCamere stipulano con una firma digitale l’attuazione del progetto “Open data aziende confiscate”. Da febbraio, quando si è insediato, è un altro passo avanti di Frattasi per snellire e superare procedure rallentate se non ferme. L’intesa con UnionCamere e InfoCamere è essenziale: in modalità informatica con accelerazione massima, rimette in moto un protocollo del 28 novembre 2016. Si realizza una piattaforma per “l’interoperabilità tra il Registro delle imprese e il sistema informativo ReGio (quello dell’Anbsc, n.d.r.) finalizzata all’analisi delle imprese sequestrate e confiscate”. È evidente come la conoscenza di tutte le informazioni dell’azienda, messa a disposizione dell’Agenzia, consente a quest’ultima un orientamento molto più mirato nel tentativo di rimetterla nel circuito della legalità e del mercato. Sempre se ci sono le condizioni, come ha sottolineato Frattasi in Antimafia, e di frequente non ci sono. La piattaforma “Open data aziende confiscate” avrà una parte “privata ad esclusivo accesso e uso di Anbsc e un’area pubblica destinata alla fruizione da parte della collettività” come si legge all’articolo 2 dell’accordo. Nell’audizione in Parlamento il direttore di Ansbc ha spiegato: “È prevista la realizzazione di specifici strumenti di reportistica e business intelligence, messi a disposizione esclusivamente dell’area privata della citata piattaforma, finalizzati all’estrazione di dati che consentano - sottolinea Frattasi - a supporto dei processi decisionali, mediante l’uso di specifici indicatori, un’analisi più affinata della capacità economica dell’impresa e del suo effettivo stato di salute”. L’altro capitolo critico è la destinazione, ma soprattutto il cosiddetto riuso, degli immobili sequestrati e confiscati ai criminali mafiosi. Frattasi ha accompagnato in diverse occasioni il ministro dell’Interno Matteo Salvini per l’inaugurazione e il rilancio di alcuni immobili restituiti alla legalità. Ora all’Anbsc sono state messe a punto anche le “Linee guida per l’amministrazione finalizzata alla destinazione degli immobili sequestrati e confiscati”. È la seconda mossa ravvicinata di Frattasi per dare la scossa a un sistema di processi lenti e spesso paradossali. Nelle stesse linee guida lo si rimarca:?”Una delle criticità più rilevanti del sistema di destinazione dei beni immobili è data dal fatto che il bene, pur richiesto da un’amministrazione pubblica per essere adibito a scopi sociali, rimanga, tuttavia, inutilizzato per un periodo anche lungo” si legge nel documento. Le conseguenze sono inevitabili: “Rischi di ammaloramento e degrado a cui si somma una perdita di credibilità e fiducia che investe l’intero sistema di gestione e valorizzazione dei beni”. Così le “Linee guida” dettano un nuovo percorso con molte meno incognite e incertezze. Va stabilito “il principio che la destinazione per scopi sociali a un Ente di governo territoriale venga, di massima, accompagnata dalla contestuale definizione di un progetto di riuso”. Le manifestazioni di interesse verso l’ente territoriale per ottenere l’assegnazione del bene dovranno specificare “le modalità di gestione del bene; i tempi necessari per la piena operatività del progetto; le fonti di finanziamento che si intendono utilizzare; la complessiva e permanente sostenibilità economica e finanziaria del progetto; le ricadute, anche in termini economici, per i soggetti che beneficeranno della finalità proposta”. Se lo Stato mette la faccia per dimostrare di aver vinto la mafia non sono più ammessi pressapochismi o furberie. Lecce: detenuto si suicida con il gas, inutile l’intervento dell’agente in servizio lecceprima.it, 25 luglio 2019 Vittima, un 42enne brindisino. Insorge l’Osapp “C’è anche mancanza di supporti informatici e di sorveglianza per il controllo”. Nuova tragedia nel carcere di Lecce. Ieri pomeriggio, verso le 14, nel reparto circondariale C1 2° sezione, denominata Reis (Reparto Elevato Indice di Sicurezza), un detenuto 40enne di origini brindisine con reati legati agli stupefacenti e con problemi di adattamento al sistema carcerario (e, parrebbe, anche con problemi di convivenza con altri reclusi), si è tolto la vita con l’inalazione di gas. L’ha fatto attraverso le bombolette in dotazione, del tipo da campeggio. A diffondere la notizia è oggi il vicesegretario regionale dell’Osapp Puglia, Ruggiero Damato. “Tale episodio fa emergere ancora una volta le criticità del sistema penitenziario, in particolare la gravissima carenza di polizia penitenziaria soprattutto nel ruolo agenti e assistenti”, commenta Damato, il quale ricorda i “turni massacranti, che variano dalle 8-10-12 ore consecutive, spesso senza avere la possibilità di consumare una bevanda fresca, vista anche la chiusura del locale spaccio da circa due anni”. Damato registra anche “la mancanza di supporti informatici e di sorveglianza per il controllo” di soggetti con vari tipi di problematiche e problemi di adattamento al sistema penitenziario. E, dunque, nemmeno con l’intervento in primis del poliziotto in servizio nella sezione, al quale va il plauso di Damato, e subito dopo dei sanitari, non si è riusciti a salvare la vita del detenuto. “Ogni perdita di vita è una sconfitta per tutto il sistema penitenziario”, aggiunge Damato, ricordando che certe situazioni segnano in modo indelebile anche coloro che intervengono e non riescono, purtroppo, a evitare il peggio. E l’indice dell’Osapp è puntato verso le autorità, ministero Dap, dirigenti a vari livelli: “Considerano i poliziotti manovalanza a basso costo. Ma avere una polizia penitenziaria più motivata, incentivata e rispettata, farebbe bene agli agenti e ai detenuti”. Roma: “il Tribunale di Sorveglianza è diventato un girone infernale” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 luglio 2019 La denuncia della Camera penale per le difficoltà in cui si è costretti a lavorare. Al Tribunale di Sorveglianza di Roma si assiste ad una “intollerabile situazione che da tempo contraddistingue l’esercizio delle legittime prerogative difensive”. È la denuncia del direttivo della Camera penale di Roma in un documento di protesta e proposta depositato ieri presso gli uffici competenti. I penalisti romani contestano il fatto che i difensori siano impossibilitati a conoscere l’esisto delle istanze, ad interloquire con i magistrati che spesso rifiutano di interagire con loro, ad esaminare compiutamente i fascicoli presso le segreterie. “Per non parlare dei tempi infiniti di attesa per l’istruttoria delle pratiche, dietro le quali è bene ricordare, ci sono persone in attesa di giustizia” precisano in una lettera gli avvocati Vincenzo Comi e Giuseppe Belcastro, rispettivamente vicepresidente e consigliere della Camera penale. Poi per avere accesso alle informazioni occorre attendere ore il proprio turno in condizioni di assoluto disagio, in un angusto e torrido corridoio senza neppure sedili a sufficienza. “In questi ultimi giorni - accusano Comi e Belcastro - sembrava un girone infernale con un unico impiegato allo sportello a causa delle ferie degli altri addetti”. Sul versante delle udienze le cose non vanno meglio, in quanto spesso i legali sono costretti a comprimere i tempi dell’intervento difensivo in ragione del numero elevato delle cause. Tale situazione è sicuramente connessa a una carenza di personale e di magistrati di ruolo ma - si legge nell’atto del Direttivo - ciò finisce per “rappresentare una semplicistica e inaccettabile giustificazione” di un problema che è invece di natura politica: “lo stato di abbandono impedisce di dare attuazione all’ordinamento penitenziario con le misure alternative, i permessi premio, le decisioni tempestive sulla liberazione anticipata”. Stando così le cose, nello stato di collasso del tribunale di Sorveglianza, sarà più semplice garantire la “sicurezza” facendo - come si usa dire oggi - marcire i detenuti in galera’”, chiosano sempre i penalisti. Non essendo più tollerabile una situazione in cui i diritti e le prerogative della difesa e degli stessi condannati siano così calpestati e in cui ogni segnalazione o denuncia fino ad oggi è caduta nel vuoto, il Direttivo chiede con urgenza di affrontare seriamente il problema. Il dialogo con la presidente del Tribunale, Maria Antonia Vertaldi, è aperto ma occorre fare molto di più, “giungendo finanche a stimolare un intervento congiunto presso il ministro della Giustizia”. Prima che la riforma diventi strutturale, il Direttivo propone alcune soluzioni immediate e praticamente a costo zero: installazione di due postazioni fisse per assumere le informazioni necessarie sul procedimento o sull’esito di istanze, senza dover fare le interminabili file e senza passare dall’unico cancelliere disponibile; inviare le istanze tramite posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo ricevere informazioni o la notifica dei provvedimenti. “Il Tribunale di sorveglianza - concludono i penalisti - è l’organo preposto al controllo sulla legalità dell’esecuzione della pena. Non tollereremo che diventi, per i condannati degli istituti penitenziari del Lazio, pena nella pena”. Napoli: le carceri, la Federico II e le voci di dentro di Francesco Dandolo Corriere del Mezzogiorno, 25 luglio 2019 Ogni tanto si torna a parlare di carcere. Lo si fa in termini drammatici, come sta accadendo in questi giorni. La sequela impressionante di suicidi all’interno di Poggioreale inquieta. Rivela quanto la privazione della libertà determini il convincimento di non valere più nulla. Le carceri, in Campania, sono in uno stato di grave sovraffollamento e alcune case di pena soffrono per carenza d’acqua. Eppure al di là di questi eclatanti problemi, ciascuno di noi potrebbe facilmente capire la straordinaria debolezza che scaturisce dalla perdita della libertà. Debolezza accresciuta dalla solitudine, dalla consapevolezza del fallimento cui si è giunti. Sono riflessioni che chiunque fa quando da volontario varca le soglie del carcere. E sono tanti i cittadini che si mettono a disposizione per offrire un sostegno a chi è in carcere. È un mondo di persone che non condanna ma rammenda. L’ho scoperto quest’anno, in occasione delle lezioni di Storia che ho tenuto nel reparto di alta sicurezza del carcere di Scampia, dove si è costituito, per iniziativa della Federico II (a proposito, nello stilare le classifiche degli Atenei italiani si tiene conto di queste attività?) e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Campania, il Polo universitario penitenziario. Un’esperienza eccezionale: il procedere delle lezioni seguite con grande interesse dagli studenti, il carico di attese che ha accompagnato gli incontri, la curiosità nel voler apprendere sempre qualcosa in più, l’opportunità di parlare e di essere ascoltati, il dialogo che via via è divenuto più intenso, mi hanno dato il senso di come la cultura possa contribuire ad aiutare chi vive una situazione assai difficile. Perché la fondamentale missione della cultura è di dare dignità a tutti. Ma soprattutto ho capito come le persone possono cambiare, se gli si offre l’opportunità. Mi ha colpito che subito dopo i primi incontri, fra gli studenti è maturata l’esigenza di fare autocritica per il tempo perduto ma allo stesso tempo ho ravvisato la contentezza di potercela ancora fare a dare una svolta alla propria esistenza. Quando la cultura entra all’interno delle carceri si applica la nostra Costituzione, laddove nell’articolo 27 si evidenzia che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Treviso: in cella a 90 anni, è il nonno del carcere di Milvana Citter Corriere del Veneto, 25 luglio 2019 Ha sparato e ucciso il genero per un banale litigio il 19 maggio scorso e poi ha subito confessato. Giovanni Padovan, 90 anni, è stato quindi trasferito nel carcere di Santa Bona con l’accusa di omicidio volontario. Oggi, dopo 67 giorni di carcere, è stata chiesta per lui una perizia psichiatrica per trasferirlo in una clinica. Dentro il carcere però Padovan è sereno. È il più anziano di tutti e i detenuti gli tengono compagnia. Ora lo chiamano “nonno”. Giovanni Padovan sarà sottoposto a una perizia psichiatrica. A chiederla il sostituto procuratore Davide Romanelli che intende così accertare le condizioni mentali del 90enne che, il 19 maggio scorso a Silea, durante una lite, aveva ucciso a colpi di fucile il genero Paolo Tamai. Il Gip ha accolto la richiesta della procura e ha incaricato lo psichiatra Tiziano Meneghel di visitare l’uomo che, dal giorno del delitto, è recluso nel carcere di Santa Bona, dove si è ben ambientato ed è considerato dagli altri detenuti come una specie di “nonno”. All’udienza ha preso parte anche l’avvocato Stefano Pietrobon, che rappresenta la moglie e le figlie di Tamai e che ha nominato come proprio consulente lo psichiatra Paolo Citron. Lo scopo della perizia è duplice, accertare la capacità di Padovan di affrontare un processo e di intendere e volere al momento del delitto. Il 90enne, che aveva subito confessato, aveva reso dichiarazioni che, secondo gli inquirenti, potrebbero tradire una scarsa lucidità. Per questo è stato disposto l’accertamento sull’uomo che deve rispondere dell’accusa di omicidio volontario aggravato dai futili e abietti motivi. A scatenare il delitto, sarebbero state le liti, violente e frequenti, tra l’indagato e Tamai, marito di sua figlia. E che avrebbero portato all’esito fatale il 19 maggio quando, come ha confessato Padovan difeso dall’avvocato Michele Visentin, il genero che stava strappando l’erba nel suo cortile, gli avrebbe fatto perdere il controllo: “Si è messo a lanciare erbacce e sassi nel mio giardino. Lo faceva apposta per farmi arrabbiare”. Una versione tutta da verificare. Testimoni della lite e del delitto non ce ne sono. L’unica cosa sentita distintamente dai residenti nella strada, è stato il colpo esploso dal 90enne. Perché, subito dopo aver urlato contro Tamai, Padovan sarebbe entrato in casa a prendere il suo fucile con il quale ha sparato un pallettone, di quelli usati per la caccia al cinghiale, contro il 63enne. L’uomo, colpito al volto, è morto sul colpo. Da quel giorno Padovan è in carcere, e a Santa Bona sembra stare bene. Lui, che da molti anni viveva da solo, con l’aiuto dell’unica nipote con la quale aveva rapporti e degli assistenti domiciliari, si sarebbe infatti ambientato molto bene alla vita da recluso. Gli altri detenuti lo hanno accolto come un “nonno”, come conferma la nipote Mirca Amendola che gli fa visita regolarmente: “Si trova bene, gli altri carcerati lo aiutano molto”. Nonostante l’età avanzata, la reclusione in carcere era l’unica via percorribile per la procura. Impensabili gli arresti domiciliari per un uomo vedovo e solo, che ha ucciso il marito dell’unica figlia. Non solo perché per lui avrebbe significato, tornare a vivere nella casa che è stata teatro del delitto. Ma anche perché la sua presenza potrebbe innescare ritorsioni o tensioni da parte di chi si è ritrovato senza il marito o il padre. Ora però le cose potrebbero cambiare, proprio in virtù della perizia che, se dovesse accertare problemi psichiatrici, potrebbe fargli ottenere un trasferimento in una Rems, le strutture riabilitative che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici. Parma: cittadino ivoriano arrestato, urgente che l’Ausl prenda in carico il caso di Roberto Cavalieri* Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2019 In riferimento al recente fatto di cronaca che ha visto un cittadino ivoriano rendersi responsabile di fatti che hanno destato preoccupazione sociale in città, il Garante dei detenuti comunica che in data 24 luglio si è recato presso il carcere di Parma per verificare le condizioni di detenzione del paziente psichiatrico. È stato possibile intrattenersi in un colloquio con il detenuto, giunto sabato scorso in Via Burla, nel corso del quale il recluso ha raccontato di avere ricevuto assistenza dagli operatori penitenziari ma non ancora da uno psichiatra in carcere. Nel prendere visione dell’ordinanza di convalida di arresto in flagranza e applicazione della misura cautelare emessa dal Tribunale di Parma si è potuto apprendere che, nonostante i tentativi del giudice, non è stato possibile tradurre il detenuto presso il R.O.P. Reparto Osservazione Psichiatrica presso il carcere di Piacenza ne presso il reparto psichiatrico detentivo di Reggio Emilia in quando non vi erano disponibilità di posti. Allo stesso modo non è stata ritenuta percorribile la misura degli arresti domiciliari presso il reparto di Diagnosi e Cura dell’Ospedale di Parma, stante per il giudice, “l’elevata pericolosità sociale” del soggetto. La sola soluzione è stata dunque quella della carcerazione presso l’Istituto penale di Parma nel quale il Garante ha potuto verificare che non è stato ancora visitato da uno psichiatra. Solo lunedì scorso il medico del reparto ha chiesto una visita psichiatrica urgente presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Parma, pertanto in ambito esterno al carcere. Si prende atto che sono trascorsi quattro giorni senza che questo malato abbia avuto alcun consulto psichiatrico in ambito detentivo. Il Garante invita l’Ausl di Parma a volere prendere, con la massima urgenza, in carico il questo paziente psichiatrico e, quindi, a dare effettivo seguito a quanto dichiarato dalla stessa azienda lo scorso 22 luglio in un comunicato stampa dove ha, correttamente, ribadito di volere garantire il diritto alla salute di questa persona anche nel contesto penitenziario. Infine si invitano le autorità sanitarie competenti ad attivare ogni possibile azione, che in casi come quello del cittadino ivoriano, possano preventivamente evitare il precipitarsi della situazione e assicurare che la detenzione di un paziente psichiatrico in un penitenziario senza il necessario presidio psichiatrico, come quello di Parma, possa rappresentare un estremo, breve e temporaneo provvedimento e non la prassi. *Garante dei detenuti del Comune di Parma Opera (Mi): il 100 e lode dei detenuti “la maturità in carcere è il nostro riscatto” di Oriana Liso La Repubblica, 25 luglio 2019 Per la prima volta nel carcere milanese i detenuti studenti hanno sostenuto l’esame di maturità dopo le lezioni tenute dai professori dell’istituto Calvino di Rozzano. E alcuni di loro sono pronti a iscriversi all’università. Due Cento e lode, tanti altri voti che non sono un numero, ma rappresentano una vittoria importante, una affermazione che dà un senso a quello che spesso è soltanto scritto nei manuali: l’obiettivo della detenzione in carcere deve essere quello della rieducazione e del reinserimento sociale dei detenuti. A Opera, da qualche settimana, ci sono i primi detenuti diplomati all’interno della casa di reclusione alle porte di Milano: e alcuni di loro hanno già deciso che continueranno il percorso, iscrivendosi all’università. Il progetto è nato nel 2016, con l’istituzione dei primi due percorsi didattici all’interno dell’istituto, considerato una delle carceri di massima sicurezza, che ospita molti detenuti in regime di 41 bis e soprattutto detenuti con condanne definitive. Un progetto nato dalla collaborazione dell’amministrazione penitenziaria con l’istituto Calvino di Rozzano e con il Cpia 3 (il centro provinciale per l’istruzione degli adulti). Tre anni fa, appunto, sono stati creati due indirizzi scolastici professionali di secondo grado in carcere: Enogastronomia e ospitalità alberghiera e Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Lezioni giornaliere, ogni pomeriggio (e anche il sabato per i corsi di cucina con la pratica), il primo biennio in un anno, gli altri due in un altro anno e, da settembre scorso, l’ultimo anno, quello della maturità. L’area pedagogica trasformata per realizzare delle classi, il personale della polizia penitenziaria che si organizza per coprire anche questi turni. Una cinquantina di studenti, dai 20 ai 60 anni, con le storie e i percorsi, fuori e dentro dal carcere, più diversi. Tanti italiani, ma anche nordafricani, romeni, albanesi, sudamericani. C’è uno studente, un uomo già avanti con gli anni, che è entrato in carcere da analfabeta, e che qui ha iniziato da zero, ha imparato a leggere e scrivere ed è arrivato alla maturità. Perché lo ha fatto? Perché voleva poter scrivere a sua moglie che lo aspetta fuori, e voleva poter leggere le sue lettere senza chiedere ai compagni di cella di farlo per lui, condividendo così quei frammenti di intimità. Non sempre è facile frequentare le lezioni, non tutti vanno avanti. Ma un gruppo di loro ce la fa, arriva al quinto anno e, il mese scorso, all’esame di maturità. Esame uguale a tutti gli altri studenti, quelli del mondo fuori: commissione esterna, membri interni, prove nuove per tutti, con l’esame riformato. E quel risultato, festeggiato dai professori con una soddisfazione doppia. Anche vedendo le reazioni degli studenti: il pianto liberatorio del ragazzo che ha frequentato ogni giorno le lezioni, anche quando era difficile, anche quando poi studiare in cella, in mezzo agli altri, gli faceva passare la voglia. Per alcuni non è finita, adesso: in autunno ricominceranno a studiare. In cinque, infatti, hanno già detto di volersi iscrivere ai corsi universitari che la Statale organizza sempre a Opera. A raccontare questa storia di riscatto è Lucia Ravera, docente di Francese che parla a nome di tutti i colleghi, della preside del Calvino Maria Grazia Decarolis e della coordinatrice delle attività didattiche Luisa Muratore: “Per i nostri studenti è davvero una occasione di riscatto, un momento irripetibile di orgoglio, di dignità”. E a settembre si riparte, con nuove classi e nuovi studenti. Cremona: ero detenuto e mi avete assunto di Marta Lazzari semprenews.it, 25 luglio 2019 Due anni di galera. Poi la formazione, il lavoro. La possibilità di una nuova vita. La storia di Salvatore e di chi ha creduto in lui. Gli è stata data un’altra possibilità. Una giustizia che educa e accoglie è più efficace di una giustizia che vuole solo punire. Il lavoro alla cooperativa Il Calabrone Cremona, per iniziare a pensare ad una vita futura. In una società nella quale la crisi economica e la logica competitiva penalizzano i più deboli, creando sempre più ampie sacche di emarginazione, è sempre più evidente il ruolo svolto dalle cooperative sociali per rendere efficaci percorsi di riabilitazione e inclusione. Una delle sfide dei nostri giorni è riuscire a dare una seconda possibilità alle persone che provengono dal mondo del carcere. Un mondo costituito da individui che non hanno la voce per rivendicare i loro diritti e diventa un “pianeta di invisibili”, lontano dalla società. I pregiudizi del contesto sociale nei confronti di chi ha un’esperienza carceraria pregressa, accompagnati alla progressiva deprofessionalizzazione del detenuto, contribuiscono a ridurre le possibilità di reinserimento. Eppure una giustizia che educa e accoglie è più efficace di una giustizia che vuole solo punire. Lo sa bene Salvatore, ora dipendente della cooperativa Il Calabrone Cremona: la sua storia testimonia come l’attività lavorativa extra-carceraria sia fondamentale per un effettivo reinserimento sociale. Una pena costruttiva - Il 18 Aprile 2017, dopo quasi due anni di reclusione, ha iniziato il percorso di formazione presso la cooperativa, grazie ad un progetto di collaborazione con la Casa Circondariale di Cremona. Salvatore era consapevole di aver sbagliato e che, se avesse voluto rialzarsi, avrebbe dovuto scontare la sua pena in modo costruttivo. Decide così di impegnarsi attivamente all’interno del carcere: “Sono diventato piantone di un altro signore che aveva una disabilità - racconta - e poi cuoco della Casa Circondariale”, fino ad arrivare al progetto di formazione con la cooperativa. Quando il detenuto si pente del suo reato, e si è certi di tale pentimento, è necessario attivare tutte le possibilità affinché possa vivere esperienze esterne al carcere. Il lavoro “fuori” è diventato un impegno per la cooperativa Il Calabrone Cremona e un’opportunità concreta, per il detenuto, per iniziare a pensare ad un reale progetto di vita futura. Ci racconta Enzo Zerbini, presidente della Cooperativa: “Oggi sono 6 le persone assunte presso la nostra azienda che provengono dall’esperienza carceraria e rappresentano il 15% del personale dipendente”. L’importanza della formazione - Prima della definitiva assunzione, sono importanti i mesi di formazione extra-carceraria: i ragazzi, provenienti dal carcere, affiancano un dipendente della cooperativa e, guidati, prendono dimestichezza con il lavoro. Salvatore, grazie al suo percorso di formazione, ha acquisito le competenze necessarie che hanno poi portato all’assunzione e, grazie al suo impegno, a febbraio ha ottenuto il contratto a tempo indeterminato. È per questo, spiega Zerbini, che “cerchiamo di offrire ogni anno la possibilità di un percorso di formazione a 3/5 detenuti. I numeri contenuti sono frutto di una scelta: dare una possibilità concreta di assunzione a coloro che hanno preso parte, con impegno, alla formazione promossa”. Una nuova vita per Salvatore - Il percorso di formazione è stato l’inizio di una nuova vita per Salvatore, che racconta: “Ero in semi libertà, uscivo la mattina alle 6.00 e rientravo alle 17.30. Andavo in cooperativa e, mentre imparavo un lavoro, mi confrontavo con il mondo esterno: per me erano momenti di aria, mi sembrava di tornare quasi alla normalità”. È così che nella cooperativa Il Calabrone Cremona, dove l’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate è l’obiettivo principale da conseguire, il lavoro è visto come alternativa tangibile alla vita in carcere ed è essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento sociale. Un’opportunità per il detenuto di entrare in contatto con l’esterno, confrontandosi con dinamiche simili a quelle che dovrà affrontare all’uscita dal carcere. In tal senso il lavoro fuori dal carcere diventa uno strumento di preparazione graduale alla vita libera: il detenuto comincia a percepirsi utile per la società, a crearsi un sistema di relazioni, a crearsi dei punti di riferimento e a progettare una vita fuori dalla cella. Apprendere capacità lavorative è una forma di educazione alla legalità e avere una professionalità da spendere sul mercato del lavoro, una volta fuori dal carcere, sarà la prima forma di protezione dal pericolo di recidiva e quindi anche fonte di sicurezza collettiva. È assunzione di responsabilità. “Solo l’acquisizione di capacità e competenze specifiche - sottolinea Zerbini -consentirà a coloro che hanno commesso un reato di introdursi in un mercato del lavoro che necessità sempre più di caratteristiche di specializzazione e flessibilità”. A tal fine è necessario che il lavoro svolto durante la pena consista in un’attività qualificante dal punto di vista professionale, che permetta al detenuto di acquisire delle capacità lavorative spendibili sul mercato del lavoro, una volta ritornato in libertà. Salvatore oggi ha terminato di scontare la sua pena, vive a Cremona, vicino alla cooperativa ed è ritornato ad essere una risorsa per la società: “Oggi vivo in una casa da solo, riesco a gestire tutte le spese e ho un lavoro sicuro che mi permette di stare sereno. Sì, ho toccato il fondo, ma oggi sono contento di quello che ho. Sono stato fortunato”. Bari: il carcere dei lettori “qui l’enciclopedia è il vero best seller” di Silvia Dipinto La Repubblica, 25 luglio 2019 Abbiamo visto in anteprima la nuova biblioteca nella Casa circondariale di Bari: 7 mila libri in tutto e l’impegno quotidiano di detenuti e volontari. Dietro le sbarre, vicino alle celle, un detenuto sorride: “La lettura è l’unica evasione possibile qua dentro”. La biblioteca della sezione “Media sicurezza” profuma di legno nuovo e vernice fresca. Le mensole sono cucite su misura, in questo vecchio disimpegno un tempo adibito a deposito e ora trasformato nel piccolo incubatore di cultura e sogni per la vita che verrà. Vincenzo Leone ha 35 anni e tre figli da riabbracciare là fuori. Nella biblioteca del carcere di Bari che sarà inaugurata il prossimo autunno ha incontrato per la prima volta la psicologia. “Leggendo questi libri ho capito quali errori ho commesso - ci racconta - Oggi mi sento un uomo diverso, voglio vivere aiutando il prossimo e gestire una cooperativa di reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti”. Vincenzo conta uno a uno i libri catalogati negli ultimi mesi: “Sono 1.475, con gli scaffali e il pavimento ristrutturato questo posto sembra il salotto di casa”. E mostra timbri e registri dei prestiti, compilati con dedizione perché neppure una pagina vada perduta. “I detenuti della media e dell’alta sicurezza non possono incontrarsi: abbiamo quindi realizzato una biblioteca per ogni sezione - spiega Rosa Mele, l’educatrice responsabile del progetto - Ogni biblioteca è un angolo di cultura, con libri, film, dvd, audiolibri. Settemila in tutto, raccolti negli anni grazie alle donazioni di privati e associazioni e selezionati dai nostri volontari”. La storia della piccola, grande rivoluzione culturale nel carcere di Bari parte dalle date e dai numeri. Le date, innanzitutto. “L’edificio che ci ospita è del 1924 - spiega Valeria Pirè, direttrice della Casa circondariale di Bari - Non c’è un cinema, non un teatro. C’è soltanto una saletta multimediale dove facciamo tutto. Il carcere ha molti spazi angusti, che stiamo recuperando con enormi sforzi per ricavare stanze di socialità altrimenti inesistenti”. I numeri, poi. Più di 450 detenuti, a fronte di una capienza massima di 299 posti: 150 sono soggetti con patologie psichiatriche, 90 stranieri. “Il sovraffollamento è un problema ormai cronico in Italia, ma è innegabile che stiamo vivendo uno dei periodi più critici - ammette Pirè - anche perché restiamo un punto di riferimento nel Sud Italia per la sezione sanitaria, che richiede un grande impegno di personale”. E invece di poliziotti in servizio ce ne sono 50 in meno rispetto a una pianta organica già risicata: alcuni con età prossima alla pensione, costretti a fare turni massacranti. “Nonostante le difficoltà, continuiamo a volare alto e a non fermarci ai servizi minimi essenziali - Valeria Pirè mostra le aule scuola e la falegnameria - Con questo spirito sta nascendo un vero e proprio sistema di quattro biblioteche gestito da tre associazioni e da un gruppo di detenuti volontari bibliotecari, in rete fra loro e presto collegato con il dipartimento di Scienze della formazione, psicologia e comunicazione dell’Università di Bari”. Il filo diretto con l’Ateneo è un passaggio non scontato, visto che i detenuti non possono accedere liberamente a Internet. Sarà quindi un catalogo speciale a garantire il collegamento virtuale con l’esterno per consultare l’offerta della facoltà e accedere al prestito, senza limitazioni nella scelta. Le anime volontarie delle biblioteche arrivano dal mondo di fuori e bussano alle porte del carcere il martedì e il giovedì. Hanno i nomi e i volti delle attiviste dell’associazione “Il carcere possibile”, Maria Milella e Virginia Ambruosi (è la moglie dell’avvocato Giuseppe Castellaneta, che tante battaglie di civiltà ha combattuto per la dignità dei detenuti): sono state loro a donare al carcere i pc per dotare le biblioteche di un sistema informatico. A raccogliere e selezionare i libri ci sono anche le associazioni “Insieme per ricominciare” e “Liberos”, assieme a una docente del Cpia 1 di Bari, Mariangela Taccogna, che ha lanciato sui social network un appello ai donatori di testi di qualità. Per accompagnare le volontarie nelle biblioteche (due delle quattro sono già operative, una è in ristrutturazione, l’ultima arrivata è pronta e sarà inaugurata il prossimo autunno), poliziotti e guardie organizzano i turni perfino rientrando da ferie o riposo. “Ormai ci avvisano direttamente sul cellulare se c’è qualche inghippo - Virginia e Maria sono considerate due di famiglia - In un carcere con scarso personale e tante emergenze l’imprevisto è dietro l’angolo, ma tutti hanno a cuore il progetto”. “Leggere per essere liberi” è il messaggio all’ingresso della biblioteca dell’alta sicurezza. Nella sezione in cui convivono i boss pugliesi, campani e calabresi con i condannati per traffici internazionali e associazione mafiosa, le regole sono scritte sui cartoncini colorati e ricordano che “è un diritto anche non leggere (per dovere)”. Fra romanzi e saggi, spuntano le classiche, intramontabili enciclopedie. “I detenuti sono fra i pochi cui le enciclopedie sono ancora davvero indispensabili per fare una ricerca - riflettono le volontarie - essendo interdetto loro l’accesso al web”. Da qualche tempo nella stanza dei libri di carta sono arrivati a gran richiesta i volumi di cucina e i dvd coi film di Checco Zalone e di Massimo Troisi. Il 19 settembre è in calendario il primo incontro con l’autore all’interno del carcere: l’hanno voluto gli stessi detenuti, che hanno letto e amato L’intestino in testa del medico barese Antonio Moschetta. “Non solo, ci stiamo candidando a un progetto del Salone del libro che permette di adottare idealmente uno scrittore - anticipa Rosa Mele - grazie al quale potremo ospitare autori da fuori regione”. Per recuperare testi in lingua per i detenuti stranieri, la direzione del carcere si è appellata al buon cuore e alla generosità delle ambasciate. “I primi pacchi sono arrivati dall’ambasciata araba a Roma - è la soddisfazione della direttrice Pirè - Insieme con la mediazione è un passo necessario per rompere l’isolamento di chi transita dalle nostre celle e spesso non trova neppure un’altra persona della sua stessa etnia”. Roma: sport invece del carcere per i minorenni, occasione di riscatto Il Tempo, 25 luglio 2019 Firmato il Protocollo da avvocati, Coni e Tribunali. Calcio, karate, pugilato, atletica, nuoto, vela, motociclismo, basket. Non solo sport, ma un’occasione di riscatto per i minori e i giovani adulti sottoposti a procedimento penale, che attraverso il beneficio della concessione della messa alla prova, chiesto dal difensore, possono sperimentare un percorso virtuoso finalizzato non solo all’estinzione del reato, ma raggiunto l’esito positivo della prova, il valore aggiunto delle acquisizioni delle competenze spendibili subito dopo nel mondo dell’inserimento professionale. Il Protocollo veste la duplice funzione educativa e di inserimento sociale del minore e del giovane adulto, vuole essere una chance istituzionale concordata, di apporto di maggior senso critico del minore imputato, e di capacità dello stesso di mettersi in gioco attraverso la condivisione delle regole, del valore dell’aggregazione, della disciplina sportiva e del Fair Play. È questo il senso del Protocollo d’intesa firmato dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, Coni, dal Tribunale per i minorenni di Roma, dalla Procura minorile presso il Tribunale per i minorenni di Roma e dal Centro per la Giustizia Minorile del Lazio, Abruzzo e Molise per l’inserimento di ragazzi minorenni e giovani adulti fino a 25 anni in attività sportive intese come offerta formativa e di inserimento sociale. L’obiettivo dell’intesa realizza la ratio legis che ispira tutta la procedura penale minorile, della detenzione quale extrema ratio, volta al recupero dei giovani valorizzando le soluzioni offerte dal Sistema - Giustizia dalla fuoriuscita anticipata del circuito penale, quindi la messa alla prova di carattere sportivo. Il Protocollo quindi diventa propulsore per eccellenza delle garanzie procedurali per i minori e giovani adulti imputati nel procedimenti penali, indicati già col nostro DPR 448/88 e nella attualità anche dalla disciplina europea Direttiva U.E. 2016 n. 800. La possibilità di accedere a questo tipo di offerta formativa di carattere sportivo naturalmente dovrà essere valutata caso per caso a seconda del profilo personologico del giovane imputato. Difensore, giudici, servizi, e coni task force a servizio del recupero del minore. In caso di esito positivo, lo Stato e la Società civile potranno riappropriarsi di un cittadino più consapevole e responsabile, oltretutto con un’evidente riduzione dei costi di giustizia. “La pena tende alla rieducazione del condannato, recita la nostra Carta fondamentale - commenta il Presidente del Coa Antonino Galletti - ma non c’è solo la pena, specialmente quando ci si occupa di minori. E allora davvero l’attività sportiva può divenire un elemento rieducativo e formativo straordinario, che aiuti ad acquisire comportamenti e regole e sia di supporto all’inserimento o al reinserimento sociale del giovane. Un’alternativa vera, concreta ai circuiti devianti”. La firma del Protocollo è stata fortemente voluta dalla Commissione Attività Sportive del Coa, con delega di fattibilità del Progetto all’Avv. Gerardina Gargiulo, coordinata dal Vice Presidente Mauro Mazzoni, che spiega: “È l’idea stessa dell’attività sportiva, con le sue regole, col suo carattere partecipativo, a rappresentare un ambito di recupero sociale del giovane, insegnando comportamenti rispettosi di sé e dell’altro e favorendo l’acquisizione di competenze che incidono sull’autostima, sottraendo il ragazzo a un destino di esclusione e pregiudizi. Dove la vittoria più grande resta la possibilità che il minore saluti concretamente il circuito penale così da realizzare il principio cardine della Carta dei diritti dei ragazzi allo sport che è il diritto a non essere sempre un campione. Il progetto si inserisce nell’ambito delle iniziative del Coa Roma tese al recupero di chi cerca di rimediare ai propri errori. Fra queste ricordiamo - per i maggiorenni - i corsi universitari organizzati in collaborazione con le tre università romane e la Casa Circondariale di Rebibbia. C’è vita oltre le sbarre”. Roma: la cena di Sergio Mattarella con i detenuti a Rebibbia di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 25 luglio 2019 Ieri sera l’Osteria degli uccelli in gabbia nel carcere di Rebibbia a Roma ha avuto un ospite d’eccezione: Sergio Mattarella. Al presidente della Repubblica, ha raccontato all’AdnKronos il presidente della cooperativa promotrice del progetto, Luciano Pantarotto, è stata servita una lunga lista di pietanze, a partire da un mantecato di baccalà e patate con polvere di taggiasche e uno sformato di triglia con patate e cipolla rossa. A seguire, gnocchi alla romana di semolino gratinati al pecorino con amatriciana di pesce spada e tortino di spigola con purea di ceci, funghi porcini e finferli. Dulcis in fundo, cheesecake di lamponi con crema allo strega e “caffè Galeotto”, così denominato perché torrefatto tra le stesse mura dell’istituto penitenziario. Il Capo dello Stato sarà accompagnato dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La notizia della visita è arrivata alla cooperativa una settimana fa: “Abbiamo saputo dalla direttrice che il Presidente sarebbe venuto a trovarci, e l’amministrazione penitenziaria ci ha chiesto di preparare la cena per l’occasione”, ha ricordato il presidente di Men at Work. Ma l’Osteria, aperta da circa un mese e mezzo, ha una storia che nasce da lontano: “Il progetto nasce da un lavoro iniziato nel 2003 - ha continuato Pantarotto - un mese fa abbiamo lanciato l’idea di un’osteria all’interno del carcere, come già fatto in altri istituti. Il progetto rappresenta un’opportunità di lavoro per i detenuti e per i soci della cooperativa, che sono persone in esecuzione penale. L’Osteria nasce anche per portare la gente all’interno dell’Istituto, per far vedere in azione delle persone che hanno sbagliato e che stanno scontando una pena: il lavoro, per noi, è un fattore di reinserimento per i detenuti, una scommessa di rientro nella società con dignità”. “Esiste un’emergenza lavoro all’interno degli istituti di pena - ha evidenziato l’organizzatore -, solo il 30% delle 60mila persone detenute ha un lavoro, e la metà collabora con l’amministrazione penitenziaria”. L’Osteria offre a chiunque sia interessato l’opportunità di prenotare una cena nel cuore di Rebibbia, in quella che viene comunemente chiamata ‘area verdè: un giardino all’aperto al centro dell’istituto intorno al quale si ergono le sezioni detentive. “È dove i detenuti normalmente incontrano le loro famiglie, dove ospitiamo le visite quando ci sono dei bambini”, ha detto Pantarotto. E i 60 coperti che l’area riesce ad ospitare non sembrano mai bastare per la grande richiesta di prenotazioni che la cooperativa riceve ogni venerdì: “Facciamo sempre il tutto esaurito, anzi, c’è un vero e proprio problema di overbooking”, ha continuato il presidente di Men at Work. “Dopodomani abbiamo 68 prenotazioni. Ad agosto ci prenderemo una pausa, ma da settembre siamo pronti a ripartire”. “Progetti come questi - ha concluso - si riescono a fare quando c’è collaborazione con l’amministrazione penitenziaria e la direzione. Ci troviamo in una fase di sovraffollamento delle carceri e di carenza di personale, bisogna gestire molte persone che entrano in orario extra attività, quando tutto si interrompe ed il personale torna a casa. Siamo riusciti nel nostro intento anche grazie alla comandante ed alla direttrice, che hanno compreso la bontà del progetto e la sua importanza culturale. Spesso si presenta un’immagine distorta del carcere senza rendersi conto che si sta parlando di persone con voglia di ricominciare, che prima o poi usciranno dalle mura degli istituti: sta a noi riuscire a renderle migliori”. Bollate (Mi): “InGalera”, quando la cucina rende liberi di Maria Corbi La Stampa, 25 luglio 2019 Storia di Davide, chef del primo ristorante d’Europa nato dentro un carcere, a Bollate. Davide, una testa di capelli color platino, arriva dalla scuola di cucina Alma di Gualtiero Marchesi. “Ma non chiamatemi chef”, dice con un po’ di tristezza che vela gli occhi inquieti. Geloso delle sue ricette, alla fine acconsente di condividerne qualcuna. La sera, finito il lavoro, Davide rientra nella sua cella. Lui, come tutti qui, ha l’articolo 21, ossia il permesso di lavorare all’esterno che si può ottenere dopo aver scontato gran parte della condanna. Vuole parlare della sua storia adesso, non del passato, del “prima”, quando la vita non aveva sbarre a nascondere il cielo. Il suo sogno è sempre stato lo stesso: cucinare. Inventare ricette, amalgamare gusti e colori, usare la creatività tra fornelli e ingredienti, orgoglioso delle sue creazioni come “l’Ombrina label rouge in gazpacho” o “la mousse di after eight al cioccolato bianco”. O il tortino “variazione al cioccolato”. Sono solo alcuni dei piatti in menù nel primo ristorante nato in un carcere in Europa, “InGalera”, a Bollate, istituto penitenziario di eccellenza, “stellato”, come dice giocando sul riconoscimento Michelin, Silvia Polleri, anima di questo progetto e presidente della cooperativa sociale Abc, La Sapienza in Tavola. Tutto inizia nel 2004, quando organizza con i detenuti un servizio di catering. E i clienti non mancano. Si preparano pranzi, cene, feste di anniversario, cocktail aziendali per privati e per aziende pubbliche. Un successo. Sono tanti i detenuti che vogliono partecipare. E imparare. Tanto che, nel 2012, si apre una scuola con l’aiuto dell’Istituto alberghiero Paolo Frisi. L’obiettivo è creare professionalità da spendere una volta scontata la pena. Ma Silvia non si accontenta e inizia a pensare in grande, a un ristorante vero e proprio, in carcere. Le difficoltà sono enormi, burocratiche, legali, culturali, economiche, ma alla fine ce la fa grazie a una direzione del carcere illuminata ma anche a sponsor privati. Così eccoci in questo spazio dentro il perimetro del carcere, appena fuori il grande portone che si chiude sulla libertà. Alle pareti i manifesti di film “in tema”. Fuga per la vittoria, Le ali della libertà, Fuga da Alcatraz. Perché questo vuole essere un luogo dove non ci si piange addosso. Anzi. Tanto che vengono organizzate serate “a tema” come le “cene con delitto”. “Dove se non qui?”, scherza la Polleri che sprizza energia e ottimismo. Ma ha anche il piglio di una “madre” severa, attenta ai suoi “dipendenti”, tutti detenuti del carcere. Vietato deluderla. Davide lo sa. Dodici di loro sono in esecuzione di pena e 2 in affido al territorio. “Assunti regolarmente”, precisa. Qui non si educano solo i detenuti ma anche i clienti che si confrontano con un tema, quello delle pene e della detenzione, troppo spesso lasciato in balia dell’emotività e della rabbia. “Speriamo che questa osmosi tra dentro e fuori riesca a far capire che perla società è più utile rieducare che abbandonare chi sbaglia”, dice ancora Silvia. E basta qualche numero a dimostrarlo: a Bollate il tasso di recidiva è del 17 per cento, contro il 70 per cento nazionale. Alghero (Ss): Gramsci raccontato dai detenuti, la premiazione del concorso di Antonio Pintori L’Unione Sarda, 25 luglio 2019 È in programma per sabato alle 19, nella sala conferenze del municipio di Ales (SS), la cerimonia di premiazione del terzo concorso di pittura “Peppinetto Boy”, organizzato dall’associazione culturale “Casa Natale Antonio Gramsci”, sempre di Ales. “Il tema del concorso, Gramsci visto da dietro le sbarre, ha coinvolto ancora una volta detenuti da tutta Italia”, ha spiegato Alberto Coni, presidente dell’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci. “Tramite questo concorso abbiamo messo in rapporto l’esperienza della detenzione di Gramsci con quella dei detenuti che popolano le carceri italiane. L’iniziativa si aggiunge ai progetti rieducativi e culturali che offrono a chi è ristretto in carcere la possibilità di evadere mentalmente dalla propria routine quotidiana”. Sempre Coni ha aggiunto: “Le opere sono state giudicate, oltre che per tecnica e il messaggio, con la considerazione che i partecipanti non sono artisti professionisti, ma sottoposti ai limiti del regime carcerario e che non tutti hanno ricevuto un’adeguata informazione e i mezzi necessari a svolgere il lavoro richiesto per il concorso”. Nella giuria il presidente Paolo Sirena, direttore generale della Fondazione Meta di Alghero, il pittore Alberto Scalas e l’artista Massimo Spiga. 110 le opere arrivate da venti istituti di pena italiani. Sabato pomeriggio alla cerimonia di premiazione interverranno Paolo Sirena, che illustrerà i lavori premiati e le motivazioni della giuria, e Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e direttore della rivista di educazione e formazione “Cercare”. Saluzzo (Cn): “Destini incrociati”, dai laboratori nei penitenziari 7 spettacoli teatrali gnewsonline.it, 25 luglio 2019 Sono state comunicate dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere (Cntic), le date della VI edizione della rassegna nazionale rientrante nel Programma di eventi “Destini incrociati” sostenuta dal Mibac. La manifestazione, organizzata e promossa dal Cntic in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e quello della Giustizia minorile e di comunità (Dgmc) del ministero della Giustizia, si terrà a Saluzzo dal 12 al 14 dicembre 2019. Come nelle edizioni precedenti, saranno sette gli spettacoli della rassegna, selezionati tra quelli proposti dai vari laboratori presenti negli istituti penitenziari. Le rappresentazioni saranno affiancate da una rassegna video, conferenze, mostre, convegni e incontri di formazione destinati a detenuti, operatori, studenti e spettatori interessati a questo importante settore del teatro italiano. Le produzioni teatrali o filmiche (documentative del lavoro teatrale) che intendono candidarsi alla partecipazione alla rassegna devono inviare il materiale tra il 20 e il 31 agosto 2019, seguendo le indicazioni contenute nella sezione dedicata del sito teatrocarcere.it Gli spettacoli saranno inseriti in un cartellone unico nazionale pubblicizzato anche a livello internazionale tramite i canali dell’Istituto internazionale del teatro dell’Unesco. Il sostegno all’iniziativa è stato rinnovato dal Capo Dap Francesco Basentini in una nota inviata a tutti gli istituti penitenziari e ai provveditorati regionali, in cui sottolinea” la proficua collaborazione con il Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere, a cui aderiscono numerose compagnie teatrali operanti negli istituti penitenziari, promotore di apprezzabili iniziative culturali e artistiche sul tema”. Il 5 giugno 2019 è stato rinnovato dal Dap il protocollo d’intesa triennale con il Cntic, sottoscritto anche dall’Università Roma Tre e dal Dipartimento della Giustizia minorile e di comunità. Malvaldi: “Io e Glay, scrittore assassino. Il nostro libro civile” di Simone Innocenti Corriere Fiorentino, 25 luglio 2019 Marco Malvaldi presenta a “La bella estate” il suo nuovo noir “Vento in scatola” scritto insieme all’ex militare e detenuto tunisino Glay Ghammouri, condannato per omicidio. “Non lo definirei un romanzo di denuncia ma un libro civile”, dice Marco Malvaldi per spiegare Vento in scatola (Sellerio editore, 212 pagine) che - per un lettore - può invece essere comodamente definito una commedia noir: lo stile è ironico e a tratti amaro. Non un libro sul carcere e neppure una metafora sulle condizioni del carcere, bensì una storia che “usa” le dinamiche carcerarie per raccontare vite che si intrecciano. “Vento in scatola” nasce dall’incontro, durante un corso di scrittura tenuto nel carcere di Pisa, tra Marco Malvaldi e Glay Ghammouri, 42 anni, ex militare tunisino “dalla carriera stroncata in patria per motivi politici”, si legge in una nota. Domani (alle 20,45) Geraldina Fiechter presenterà lo scrittore e il suo nuovo romanzo nell’ex pista di pattinaggio a Castelnuovo Garfagnana nell’ambito de “La bella estate”, fortunata rassegna di incontri dedicati alla letteratura, all’arte e alla politica che sono curati da Alba Donati. Mavaldi e Ghamouri raccontano la vicenda di Salim Salah, un giovane e brillante laureato in economia, di fatto scappato dalla Tunisina con un “malloppo” che ha racimolato in maniera molto poco legale. Ma è per droga che lo arrestano, dato che si fa trovare su una macchina in divieto di sosta lasciata da un parente senza però dirgli che era piena di stupefacente. Ed è all’interno del carcere che si sviluppa la trama vera e propria che si basa sugli equilibri fra detenuti e detenuti, fra detenuti e sorveglianti, fra agenti penitenziari e superiori. Di mezzo ci sono tematiche come la religione musulmana, ma anche mondi come quelli della criminalità organizzata, universi come quelli della truffa. E morti ritenute sospette. Ghamouri è attualmente nel carcere di Volterra e ci dovrà restare fino al 2043 perché ha una condanna di omicidio da scontare: le cronache raccontano di come - nel 2008 - nelle campagne di Orta Nova, nel Foggiano, abbia ucciso Mustafà Nouaili, tunisino di 49 anni, dopo averlo picchiato, incaprettato e impiccato. Marco Malvaldi, come vi siete conosciuti lei e Ghamouri? “Un corso di scrittura, a Volterra: mi fu chiesto di farlo dalla mia insegnante di letteratura delle superiori. Lui si distingueva rispetto agli altri, che magari erano lì per prendere solo dei “punti”. Era rasato, in forma e ben vestito: voleva mantenere la sua dignità. Mi consegnò un elaborato, rimasi colpito, tra me e me dissi che ci si poteva lavorare con questa persona e sulla sua scrittura”. Questa persona ha ucciso un’altra persona... “È stato lui a dirmelo, il che è rarissimo in carcere. Mi ha raccontato la sua vita. Di quando era nell’esercito in Tunisia e di quando partecipò a una rivolta fino a quando ha commesso l’omicidio. Mi disse che la pena che gli avevano comminato era giusta e commisurata al tipo di reato che aveva commesso. Mi ha spiegò però che era poco giusta una privazione lunga 30 anni e il fatto che anche chi deve far rispettare la legge deve per primo rispettarla”. A cosa si riferiva? “Alla burocrazia del carcere: tutto è demandato alla disponibilità e alla bontà delle figure che lavorano o gravitano nel carcere”. Lei ha frequentato questo mondo e ha fatto amicizia con Glay. Cosa è cambiato in lei? “Non avevo idea di cosa fosse un carcere. Un assassino non è diverso da come sei te. Ho fatto i conti con la mia parte violenta: l’avrei potuta fare anch’io, anche se non sono sicuro che ne sarei capace”. Lei dice cose non “buoniste”... “Il buonismo non mi convince, quando uno fa del buonismo è sempre qualcosa non lo riguarda”. Come avete lavorato su questa storia? “Lui aveva in mente una storia di riscatto, io un giallo carcerario. Lui ha scritto la sua parte, io la mia. Poi le ho intrecciate facendole passare, come materia, dalla cucina del carcere”. Del carcere cosa pensa? “Che bisogna sempre rispettare per primo chi quella legge l’ha violata e che i detenuti, spesso, si accorgono dei loro diritti dopo che i diritti per primi li hanno violati. Ci vorrebbe un progetto serio, che vada avanti da tempo. Con strutture non sovraffollate e agenti che siano in numero equo. Rieducare non è facile ma è lì “che si impara la sua bilitate”, direbbe Dante”. Questo libro sta andando molto bene. Siete contenti? “Sì, sta andando molto bene. L’editore all’inizio era preoccupato ma poi ci ha creduto. Ora mi chiamano anche negli altri carceri a parlare del libro: credo sia un segno realmente positivo”. Ma adesso si ferma o continua ad andare avanti con la scrittura? “Sto pensando al prossimo libro sui vecchietti della serie del BarLume, una specie di morra cinese che ha per protagonisti il Comune, la popolazione e gli usi civici, che sono una parte burocratica meravigliosa per il romanzo. Poi ci sarebbe anche un’altra cosa, ma non la scriva”. Va bene. “Sto lavorando per portare al cinema uno dei miei romanzi”. Cybersecurity: nasce il “fortino” della sicurezza di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 25 luglio 2019 Il 19 luglio scorso il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge sulla Cybersecurity. Il testo, che prevede un percorso attuativo di circa un anno fra decreti applicativi e regolamenti, dovrà ora percorrere l’iter parlamentare per diventare effettivamente operativo. Se fosse stato un decreto sarebbe stato al riparo da un’eventuale crisi di governo. Il disegno di legge istituisce il “Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica” e ha l’obiettivo di “assicurare un livello elevato di sicurezza delle reti, dei sistemi informativi e dei servizi informatici delle amministrazioni pubbliche, degli enti e degli operatori nazionali, pubblici e privati”. ‘Perimetro’, in gergo cyber, è l’area da difendere quando parliamo di attacchi ai sistemi informatici. Convertito in legge definisce le finalità del perimetro e individua i soggetti, le reti, i sistemi e i servizi che ne fanno parte e il meccanismo di procurement più sicuro per i soggetti inclusi nel perimetro stesso; definisce le competenze del Ministero dello sviluppo economico per i soggetti privati e dell’Agenzia per l’Italia Digitale per le amministrazioni pubbliche in termini di vigilanza e controllo sul rispetto degli obblighi introdotti; prevede attività di ispezione e verifica da parte delle strutture specializzate in tema di protezione con sanzioni elevate, che vanno da 200mila a 1,8 milioni di euro mentre l’azione di verifica è affidata al Centro di valutazione e certificazione nazionale, istituito presso il Mise, che deve valutare, nel caso di acquisti di tecnologie estere per beni e servizi Ict, l’opportunità di effettuare test su software o hardware. È la naturale conclusione di un percorso che è partito con la riforma Monti nel 2013 e proseguito con il decreto Gentiloni nel 2017, per finire con l’adozione della Nis, la direttiva sulla Sicurezza di reti e infrastrutture e della Gdpr, il Regolamento per il trattamento e la protezione dei dati personali nello scorso 2018. Il 3 luglio l’Italia ha elaborato le linee guida per la gestione dei rischi, la prevenzione e mitigazione degli incidenti relativi alla fornitura dei servizi essenziali. Il 27 giugno invece è entrato in vigore il Cybersecurity Act, uno strumento normativo europeo che mira a una sicurezza informatica coerente su tutto il territorio dell’Unione. Il cuore del Regolamento è la creazione di un quadro europeo unico per la certificazione della sicurezza informatica Ict e dei servizi digitali “A salvaguardia degli interessi dei cittadini e delle imprese europee”, secondo Mariya Gabriel commissaria Ue al digitale. Il Cybersecurity Act dovrebbe rendere l’Europa più forte in caso di attacchi alle infrastrutture critiche e ai servizi digitali da cui dipendono i suoi cittadini. Ma l’idea sottostante è quella di creare un mercato unico della cybersecurity in fatto di prodotti, processi e servizi certificati, anche grazie al nuovo ruolo attribuito all’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione, l’Enisa, sia nell’elaborazione delle strategie di cybersecurity, che nelle certificazioni che potranno sostituire quelle nazionali grazie a un set di linee guida riconosciute a livello comunitario. Era ora. Il mercato europeo della sicurezza informatica vale 130 miliardi di euro con una crescita annua del 17%. Solo in Italia, secondo UnionCamere, tra la fine del 2017 e i primi tre mesi del 2019 le imprese italiane che offrono servizi di cybersecurity sono aumentate del 300%, passando da circa 700 a 2.800 con un aumento nello stesso periodo da 5.600 a 23.300 addetti. Cannabis terapeutica insufficiente, Coldiretti si propone per coltivarla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2019 In Italia sono circa 30mila che la utilizzano e il monopolio non riesce a soddisfare la domanda. Nonostante l’aumento del fabbisogno italiano di cannabis terapeutica, il monopolio di Stato non riesce a soddisfare la domanda. Un problema, infatti, che ha costretto i vari governi ha indire gare straordinarie per aumentare di poco la produzione. Ma non basta. Per questo viene importata, tramite il ministero della Salute olandese, dalla ditta Bedrocan che negli ultimi anni non sempre è riuscita a far fronte a tutte le richieste, dal momento che vari paesi europei hanno regolamentato il settore nello stesso periodo, facendo esplodere le richieste. Un fabbisogno, ribadiamo, talmente in crescita che ha costretto il ministero della Difesa a lanciare un nuovo bando a rapida scadenza (3 luglio) per la fornitura di 400 kg di cannabis. Pochi, molto pochi. Basti pensare che sono circa 30mila le persone che in Italia ne fanno uso terapeutico, per un fabbisogno di 1 tonnellata l’anno, mentre le previsioni per il 2022 e 2025 parlano di un fabbisogno di 3 e 4 tonnellate. Oggi la domanda viene soddisfatta in minima parte dalle coltivazioni dello Stabilimento chimico farmaceutico militare (Scfm) di Firenze, del ministero della Difesa, l’unica struttura autorizzata. Ma, come detto, il resto proviene dall’estero. Un monopolio di Stato che a lungo andare non riuscirà più a soddisfare il reale fabbisogno. La Coldiretti, che rappresenta oltre 1,6 milioni di coltivatori diretti italiani, ha chiesto all’attuale ministro della Salute, Giulia Grillo, di valutare l’opportunità di aprire ai provati la “coltivazione, trasformazione e commercio della cannabis a scopo terapeutico”, utilizzando le conoscenze di migliaia di affiliati. Secondo la Coldiretti, “questa pratica potrebbe garantire un reddito di 1,4 miliardi e almeno 10 mila posti di lavoro, dai campi ai flaconi. Utilizzando gli spazi già disponibili nelle serre abbandonate o dismesse a causa della crisi nell’ortofloricoltura, la campagna italiana può mettere a disposizione da subito mille ettari di terreno in coltura protetta. Ambienti al chiuso, dove è più facile effettuare i controlli da parte dell’autorità preposte ed evitare il rischio di abusi”. Una soluzione che d’altra parte è già realtà negli Usa, in Canada a in altri paesi, dove le aziende agricole private possono ottenere licenze al fine di coltivare cannabis ad uso medicinale e che, se applicata, permetterebbe allo stato di risparmiare sulle importazioni di cannabis dall’Olanda, dove la cannabis è coltivata legalmente da privati proprio come chiede Coldiretti. “La promozione della cannabis terapeutica - ha concluso la Coldiretti - è pertanto un’opportunità che va attentamente valutata per uscire dalla dipendenza dall’estero e avviare un progetto di filiera al 100% italiana, unendo l’agricoltura all’industria farmaceutica”. Ma, finora, la proposta è rimasta inascoltata. Tutto ha avuto inizio con un decreto del 2015 che ha regolato la produzione e l’utilizzo della cannabis terapeutica, individuando le funzioni del ministero della Salute, le quote di fabbricazione di sostanza attiva di origine vegetale a base di cannabis, le prescrizioni e le garanzie dell’autorizzazione alla fabbricazione e rinviando poi ad un allegato tecnico le parti relative alle stime sulla produzione e ai controlli sulla coltivazioni, all’appropriatezza delle prescrizioni, al tipo di patologie per cui è consentito l’uso di prodotti derivati dalla cannabis, al sistema di sorveglianza sulle piante e ai costi di produzione. Le Regioni entro il 31 maggio di ogni anno sono chiamate a predisporre le richieste sulla base dei fabbisogni dei pazienti, vecchi e nuovi, e sulla base delle richieste sarà determinato il quantitativo da produrre. Le coltivazioni sono previste nello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, mentre la rimborsabilità a carico del SSN è subordinata alle indicazioni delle singole Regioni. In sintesi, quindi, la scarsità è dovuta al fatto che la quantità di Cannabis per uso terapeutico distribuita alle Asl e agli ospedali è predeterminata anno per anno dal ministero della Salute sulla base del fabbisogno indicato dalle Regioni, che si rivela spesso sottostimato. Per questo motivo diverse Regioni e città si sono candidate per avviare la coltivazione di Cannabis, mentre le associazioni di produttori di canapa premono per rompere il monopolio dello Stato su un prodotto che poi viene acquistato all’estero da aziende private. Eppure i vantaggi economici sarebbero enormi. Potrebbe costare meno di altre terapie se la produzione nazionale dovesse aumentare. Così come, si metterebbe fine a tutti quei pazienti che si sono ritrovati costretti a ricorrere all’auto coltivazione. Ma in Italia è illegale e si finisce in prigione. Per questo Rita Bernardini del Partito Radicale da anni ha portato avanti la disobbedienza civile tramite la coltivazione di decine di piantine di marjuana. Recentemente ha subito un fermo dai carabinieri e denunciata. Ma lei voleva finire in prigione come tutti gli altri cittadini. L’ha voluto mettere nero su bianco nel verbale. Quando la religione serve al potere di Danilo Taino Corriere della Sera, 25 luglio 2019 Secondo un’analisi del Pew Research Center la religione è utilizzata sempre più dai governi per consolidare il loro potere. È diffusa l’idea che la religione giochi una parte sempre meno importante nel mondo. Almeno lo si pensa spesso in Europa. Al di là del numero di persone che dichiarano di avere una fede, la realtà è che la religione è utilizzata sempre più dai governi per consolidare il loro potere. Un’analisi del Pew Research Center ha mostrato che dal 2007, quando ha iniziato a raccogliere dati, a oggi, i Paesi che impongono restrizioni “elevate” o “molto elevate” sulla religione sono passati da 40 a 52. Alcuni di questi sono estremamente popolosi, ad esempio la Cina, l’Indonesia, la Russia. Il numero di Paesi che, come risultato, hanno registrato episodi di ostilità sociali legate alla religione sono cresciuti da 39 a 56. I limiti alla libertà religiosa si concretizzano soprattutto in leggi restrittive di certi culti o in politiche di favoritismo verso altri: tra il 2007 e il 2017 queste norme sono aumentate del 20%. I limiti che i governi pongono alle attività religiose o le loro iniziative per infastidire certi culti sono meno diffusi ma hanno registrato aumenti notevoli: in Europa, i limiti al proselitismo e alla circoncisione sono raddoppiati, sempre dal 2007, e nella regione Africa del Nord-Medio Oriente le persecuzioni contro sette minori dell’Islam sono cresciute del 72%. Per esempio, in Medio Oriente, su 20 Paesi, 19 hanno politiche che favoriscono una religione (escluso il Libano): 17 hanno una religione di Stato e gli altri due una religione preferita. Ma il fenomeno, inteso nel suo complesso di favoritismo verso un culto, è in crescita in tutti gli angoli del pianeta. In un indice elaborato dal Pew Research Center che misura i limiti che gli Stati hanno messo all’attività religiosa, l’Europa (compresa la Russia) raddoppia, da 1,5 a 3: le Americhe passano da 1,1 a 2, su scala globale si va da 2,3 a 3,4. Anche l’ostilità sociale verso norme religiose di gruppi minoritari è molto cresciuta: in Europa da 0,8 a 3,4, nelle Americhe da 0,2 a 1,2 e globalmente da 1,7 a 3. In Egitto il carcere uccide ancora. Il caso di Omar Adel di Pino Dragoni Il Manifesto, 25 luglio 2019 Nella morsa di al Sisi. La morte di un 29enne accusato, come tutti i 60 mila prigionieri politici egiziani, di “terrorismo”. Era in isolamento nella famigerata prigione di Tora, dove 138 detenuti continuano lo sciopero della fame iniziato in seguito alla morte dell’ex presidente Morsi. Omar Adel aveva 29 anni. È morto in carcere lunedì, nella famigerata prigione di Tora, dopo pochi giorni di isolamento. Ai familiari che erano andati a trovarlo sabato era stata negata la visita dicendo che il ragazzo era stato trovato in possesso di un cellulare ed era stato sottoposto a provvedimento disciplinare. Il giovane era in carcere dal 2014, da quando aveva 24 anni, e a febbraio scorso era stato condannato da una corte militare a dieci anni di carcere. Secondo il suo avvocato non aveva particolari problemi di salute prima della morte. Adel era stato ritenuto colpevole di far parte di un’organizzazione terroristica (accusa di cui sono incriminati ormai quasi tutti i dissidenti politici in Egitto) e di aver bruciato un posto di blocco di polizia. Le prigioni egiziane, che dal colpo di stato del 2013 si sono riempite di circa 60.000 prigionieri politici, sono tristemente note per le dure condizioni di detenzione e per i casi di negligenza medica. Secondo un gruppo di organizzazioni egiziane per i diritti umani dalla metà del 2013 sono 650 i detenuti morti in prigione a causa della negazione di cure mediche adeguate. Le stesse organizzazioni chiedono che venga concessa alla Croce Rossa Internazionale la possibilità di ispezionare le carceri egiziane e riferire pubblicamente sulle condizioni dei prigionieri. Il dibattito sulla questione si è riaperto il mese scorso con la morte dell’ex-presidente Mohamed Morsi, collassato durante un’aula in tribunale dopo anni di disperati appelli da parte dei familiari. E proprio a Tora, in uno dei bracci più temuti della prigione simbolo dell’oppressione politica, continua da oltre un mese lo sciopero della fame di 138 detenuti. A riferirlo è l’Egyptian Coordination for rights and freedoms, un’organizzazione i cui membri sono stati anch’essi duramente colpiti da arresti e sparizioni. Lo sciopero era iniziato proprio in seguito alla morte di Morsi e da allora si è allargato nonostante i tentativi delle autorità carcerarie di dissuadere i detenuti, prima con le buone offrendo alcuni benefici, poi con le cattive con bombe sonore lanciate nelle celle e l’assalto dei secondini armati di bastoni. Intanto sono sempre più numerose le denunce di vere e proprie esecuzioni extra-giudiziali di persone arrestate dalle forze di sicurezza. È il caso di Mohamed Abdelsatar, arrestato nella scuola in cui lavorava ad aprile 2017 e poi scomparso per un mese, finché un giorno la polizia ha dichiarato che era morto in uno scontro a fuoco con le forze di sicurezza. La sua storia è arrivata in questi giorni sulle pagine del Wall Street Journal, con un’inchiesta di Jared Malsin e Amira El-Fekki che ricostruisce altre morti simili e denuncia che potrebbe trattarsi di centinaia di casi analoghi, tutti spacciati per terroristi uccisi durante blitz dell’esercito o della polizia. Storie che ricordano da vicino quella dei cinque uomini trucidati in una finta sparatoria inscenata per insabbiare le responsabilità nel rapimento e nell’uccisione di Giulio Regeni. Egitto. Le notti nelle stazioni di polizia: così vengono puniti gli ex detenuti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 luglio 2019 Ci sono Alaa Abed El-Fattah, il blogger protagonista della “rivoluzione del 25 gennaio”, e due co-fondatori del Movimento 6 aprile, Ahmad Maher e Mohamed Adel. C’è “Ahmad” (non è il suo vero nome), l’attivista politico che hanno cercato in tutti i modi di far diventare un informatore della polizia e, di fronte ai suoi continui rifiuti, è stato picchiato e minacciato di essere torturato con l’elettricità. E ce ne sono almeno altri 400, secondo una ricerca di Amnesty International che aggiorna quella del 2017, costretti a trascorrere anche 12 ore al giorno, dal tramonto all’alba, nelle celle delle stazioni di polizia egiziane. Sono ex prigionieri usciti dal carcere dopo aver terminato di scontare condanne inflitte al termine di processi di massa gravemente iniqui. Molti di loro erano stati condannati solo per aver preso parte a manifestazioni pacifiche o in relazione alla loro attività giornalistica. Nella maggior parte dei casi, durante il periodo di reclusione notturna, non sono previste visite né è possibile usare telefoni o computer portatili. Le celle sono sovraffollate, c’è poca aria e l’accesso ai servizi igienici è limitato. Secondo la legge 99 del 1945, tuttora in vigore, le persone sottoposte a misure cautelari devono trascorrere le ore oggetto del provvedimento in casa, in modo che possano essere presenti in caso di controlli da parte dei funzionari che devono verificare il rispetto di tali misure. Tuttavia, quella legge conferisce alla polizia ampi poteri di obbligare le persone a trascorrere il periodo in questione in una stazione di polizia qualora controllarle nelle loro abitazioni risulti difficile. La legge inoltre punisce con un anno di carcere chi violi le misure cautelari, senza specificare cosa esattamente ne costituisca una violazione. Misure cautelari del genere hanno un impatto assai duro sulla capacità di svolgere una vita normale durante le ore di libertà, limitando il diritto al lavoro, all’istruzione, alla vita familiare e alla vita privata. In alcuni casi, colpiscono anche il diritto a uno standard adeguato di vita. L’obiettivo è il solito: sorvegliare e punire. Queste misure cautelari sono un ulteriore mezzo con cui le autorità egiziane cercano di consolidare il loro potere e diffondere un clima di paura e intimidazione. Camerun. Rivolta detenuti nel carcere di Buea, è la seconda negli ultimi giorni agenzianova.com, 25 luglio 2019 Un altro episodio di rivolta dei detenuti si è verificato oggi nel carcere di Buea, nel Camerun sud-occidentale. Lo riferiscono i media locali, secondo cui le forze di sicurezza hanno sparato colpi d’arma da fuoco e lacrimogeni per ristabilire l’ordine. Non è chiaro se vi siano delle vittime. L’episodio segue quanto avvenuto nella notte fra lunedì e martedì scorsi all’interno del carcere di Kondengui, nella capitale Yaoundé, dove sono state dispiegate le forze di sicurezza per reprimere una rivolta di detenuti che protestavano contro la repressione nei confronti del movimento separatista anglofono e delle cattive condizioni interne alla struttura. Nella rivolta sono rimaste ferite decine di detenuti. In un video filmato dai detenuti e caricato su Facebook, i manifestanti scandiscono lo slogan “Ambazonia libera!” e lanciano detriti contro le forze di sicurezza all’interno del carcere, mentre in sottofondo si odono colpi di arma da fuoco spari e si intravedono pennacchi di fumo. Secondo quanto riferito dall’emittente statale “Crtv”, i detenuti hanno dato alle fiamme la biblioteca e un laboratorio situati all’interno della struttura. Il carcere, costruito nel 1969 per 1.500 persone, conta attualmente circa 9 mila detenuti, il 90 per cento dei quali non sono stati passati in giudicato. Per quanto accaduto il governo del Camerun ha incolpato i sostenitori del leader dell’opposizione Maurice Kamto, attualmente agli arresti, per la rivolta avvenuta ieri all’interno del carcere di Kondengui, nella capitale Yaoundé. Stando a quanto riporta la stampa locale, un funzionario del governo, Jean Claude Tilla, ha visitato ieri la struttura e ha puntato il dito contro i sostenitori del Movimento per la rinascita del Camerun (Mrc), definendoli gli istigatori della violenza. “Sappiamo che si nascondono dietro il problema anglofono per fomentare tali rivolte”, ha detto Tilla. In una nota diffusa lunedì scorso il vice portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, Farhan Haq, ha denunciato che più di 1,3 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria nelle regioni anglofone del Nordovest e del Sudovest del Camerun. Inoltre, si legge nella nota, circa 1.300 persone sono state sfollate soltanto la scorsa settimana in seguito ai nuovi attacchi che hanno provocato decine di morti fra i civili, mentre centinaia di case sono state date alle fiamme. “La situazione continua ad essere caratterizzata da violazioni dei diritti umani diffuse”, ha detto Haq, secondo cui, nonostante le crescenti esigenze, il Camerun resti una delle risposte umanitarie maggiormente sottofinanziate a livello globale. Nei mesi scorsi l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha lanciato un avvertimento alla comunità internazionale sul rischio che la crisi in Camerun stia “sfuggendo” di mano e che la finestra per la riconciliazione si stia chiudendo. In precedenza l’International Crisis Group (Icg) aveva riferito che almeno 1.850 persone sono state uccise e 530 mila sono state sfollate negli scontri negli ultimi 20 mesi, mentre sia il governo che i separatisti continuano a rifiutarsi di sedersi al tavolo dei colloqui. Le violenze nelle regioni anglofone del Camerun sono riesplose in concomitanza alle elezioni presidenziali dell’ottobre scorso, vinte dal presidente uscente Paul Biya che ha ottenuto la rielezione per un settimo mandato. Nel discorso da lui pronunciato in occasione della cerimonia di giuramento, Biya ha promesso di trovare una via d’uscita al conflitto che da paralizza le regioni, dicendosi “certo che esista una via di uscita nell’interesse di tutti”, ma indirizzando al contempo un messaggio di rigore ai militanti separatisti, “fautori della guerra” responsabili di “nuocere alla nostra unità nazionale promuovendo la secessione”: chi non dimostrerà volontà di difendere il paese nella sua unità sarà fermato con ogni mezzo dal governo, ha detto Biya, “non solo in base al rigore della legge ma anche grazie alla determinazione delle nostre forze di sicurezza e difesa”. Le violenze sono scoppiate nel 2016 a causa della presunta emarginazione della comunità anglofona da parte delle autorità centrali di Yaoundé e si sono aggravate dopo che i separatisti hanno autoproclamato la Repubblica di Ambazonia.