Bonafede: “Il riscatto può nascere dal carcere” di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 24 luglio 2019 Il ministro “interrogato” dai ragazzi: “Bisogna andare nelle scuole, lì fanno fatica a ricordare Falcone e Borsellino”. Arriva puntuale e si accomoda in platea. Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, rompe gli schemi. Va controcorrente rispetto ai suoi predecessori: è il primo ministro della storia del Festival di Giffoni che siede tra i giurati, guarda e commenta con loro un docu-film. Poco importa che la serie di dieci puntate, “Boez-Andiamo via”, una produzione Rai Fiction, è stata realizzata proprio in collaborazione con il suo dicastero. Bonafede, d’altronde, è uno che va sul campo, che fa visite a sorpresa nelle carceri e nei tribunali. È la trama del docu-film combacia con la sua politica: “il cammino dei condannati come strumento di riscatto e recupero”. La “seconda chance”. Il ministro ha parlato di tutto, anche di sé, ma ha glissato le domande che, in qualche modo, potevano generare uno scontro a distanza col governatore Vincenzo De Luca. Se c’è una parola che il Guardasigilli ripete spesso è percorso unita all’affermazione “seconda chance”. “Da questo docufilm ho avuto una conferma, che c’è una seconda possibilità. Bisogna investire sui percorsi di rieducazione. Pian piano il detenuto capisce che quello del carcere è solo un finale di un percorso sbagliato”. L’attore Francesco Tafuno gli fa notare che non è tutto così facile per un ex detenuto. Spesso messo all’angolo della società perché “marchiato a vita” dal carcere. “Il curriculum del detenuto non deve essere solo quello delinquenziale, bisogna aiutarlo a costruirsi un’altra storia e la strada passa per i percorsi rieducativi e riabilitativi”. Lo stesso attore, che in una vita precedente è stato il figlio di un boss, sollecita un intervento su limiti stringenti per i detenuti in semilibertà. Bonafede spiega: “Le regole sono generali ed è più difficile fare ragionamenti sui singoli casi. Comunque, lavoreremo per dare margini più ampi a chi merita di più”. Giustizia e libertà. Il dibattito è arrivato a fine proiezione. Ad introdurlo è stato il direttore de’ la Città, Antonio Manzo, sui concetti di giustizia e libertà. Lo ha fatto, tra l’altro, citando una strofa di “Che sia benedetta” di Fiorella Mannoia presa a prestito sulla speranza del recupero con “la corsa che decide la sua meta” da parte dei giovani carcerati. Sul palco il direttore del Giffoni Experience, Claudio Gubitosi. Dalla platea non mancano le proposte, come il protocollo d’intesa con le imprese per l’avviamento al lavoro. “È in agenda - assicura il ministro - Intanto, stiamo lavorando all’allestimento di padiglioni nelle carceri”. Gli istituti penitenziari sono stati l’argomento che ha dato spunto ai ragazzi della sezione “Masterclass Connect” per altre domande. Sull’affollamento e sulle condizioni di vita dei detenuti. Bonafede ha ammesso che è una situazione complessa: “Di sicuro non è aprire le celle la soluzione, come fatto nel passato. Perché, in questo caso, il livello di recidività è molto alto. Lo stato delle carceri è pietoso, sono invivibili. Stiamo lavorando per dare dignità a questi luoghi, anche costruendone altri”. La priorità: le scuole. Recupero sì, ma anche prevenzione. Per il Guardasigilli bisogna andare nelle scuole. Parlare ai giovani è una priorità: “Sulla legalità ho chiesto, appena insediato, la collaborazione del ministro dell’Istruzione per progetti nelle scuole. - dice Bonafede - C’è bisogno di parlare alle nuove generazioni perché avverto che fanno fatica già a ricordare il sacrificio di uomini valorosi come i giudici Giovani Falcone e Paolo Borsellino”. La riforma del Csm. Di domande pungenti non ne sono mancate, richiamando argomenti di attualità, il ministro è stato sollecitato sulla proposta del sorteggio per la nomina dei componenti del Csm. “Tutti cercano la riforma impossibile - chiosa - Credo serva un segnale di cambiamento forte, è un passaggio imprescindibile per dare autorevolezza alla magistratura che è tra le migliori in Europa pur avendo meno giudici rispetto alla media continentale”. Sul disegno di legge Pillon, invece, ha detto che è una proposta è come tale soggetta a modifiche fino all’approvazione. Più specificamente, il ministro ha spiegato che “ci sono tante parti che non mi vedono d’accordo ed altre sì, come i diritti del padre sui figli nella separazione”. In serata Bonafede è tornato a Roma per affrontare il problema molto sentito della sicurezza dei bambini. Il ministro, infatti, costituirà una task-force. Borrelli e la Cittadella. Su un punto l’esponente del M5S ha sorvolato sulle domande, quando si è toccato argomenti più strettamente locali. Sull’indicazione del procuratore antimafia di Napoli Giuseppe Borrelli a capo della procura di Salerno, la risposta è stata “spetta al Csm”. Sul completamento della Cittadella Giudiziaria e sul bisogno di altri fondi ha risolto con un “no comment”. Il 29 luglio, per Margara e la Costituzione di Grazia Zuffa Il Manifesto, 24 luglio 2019 “Per molte delle leggi attuali, l’accusa radicale e assorbente è quella di razzismo. Tale situazione deriva dalle discriminazioni contenute nelle leggi fondate su ragioni analoghe: quelle di elevare certi gruppi di persone (portatrici in genere di significativi problemi sociali) a bersaglio di discriminazioni”. (…) “Una resistenza alle leggi ingiuste, non solo è possibile, ma dovuta”. Questo scritto di Alessandro Margara - del 2009 - apre il volume “Carcere e giustizia, ripartire dalla Costituzione”, che raccoglie le relazioni e gli interventi del convegno sul tema tenutosi a Firenze l’8 e il 9 febbraio scorsi. Margara si rivolgeva particolarmente ai giudici, contestando la posizione di chi in nome della “legalità”, pensa che una legge vada applicata comunque (citando l’estremo dell’applicazione delle leggi razziali o di apartheid); ma il suo invito a “resistere” ha portata più ampia, in nome di un principio di legalità che fa riferimento alla Costituzione: la “legge delle leggi”, che tutela l’uguaglianza dei cittadini e il rispetto dei loro diritti fondamentali. “Uno strumento di salvezza della nostra comunità”, nelle parole di Margara, che deve - o dovrebbe - essere riconosciuto da chi legifera, da chi applica le leggi, nonché da ogni cittadino e cittadina. Mi sono dilungata su questo saggio perché da questo prendono spunto molti degli interventi del volume. E’ facile capire il perché, pensando all’oggi. In nome della “legalità”, gli attuali governanti infieriscono in maniera discriminatoria contro gruppi bersaglio ben definiti di persone, i migranti in prima fila: con misure persecutorie e criminogene che trasformano in illegali persone straniere già integrate, ad esempio. In nome del mandato del “popolo”, ministri in carica rivendicano le violazioni di norme nazionali e internazionali (la chiusura dei porti), ostentano disprezzo per i diritti umani, insultano chi in nome di questi diritti fa il suo dovere (la comandante della Sea Watch, definita da Matteo Salvini “zecca tedesca”), si scagliano contro i magistrati non allineati ai diktat politici (la giudice che non ha convalidato l’arresto della comandante). Non si tratta di violazioni di singole norme costituzionali, ma di scivolamento verso un sistema di “anticostituzionalità”, come ricalcava Margara citando Zagrebelsky. Lo stesso scivolamento sotteso all’invocazione della “certezza della pena”, intesa come certezza e durezza della pena detentiva. Dimenticando che la pluralità delle pene (oltre il carcere) e la loro flessibilità sono principi costituzionalizzati, mirati alla finalità (costituzionale) del reinserimento del condannato. Per comprendere la radice di queste spinte e del loro odierno consenso, occorre guardare ai processi politici. L’egemonia del penale nel discorso pubblico, l’invocazione al carcere nel rispetto delle vittime dei reati vanno di pari passo col declino del linguaggio politico. C’erano una volta gli “oppressi”, che individuavano negli oppressori gli avversari politici e lottavano per il cambiamento dei rapporti di potere. Oggi, le “vittime” chiedono la neutralizzazione (non la risocializzazione) del “colpevole”, in una proliferazione di “potenziali vittime” e di “potenziali colpevoli”, terreno fertile della insicurezza che ci affligge: cui si risponde col “governo della paura”. Il volume, che sarà presentato a Firenze, nella sede del Consiglio Regionale, lunedì 29 luglio, nel terzo anniversario della morte di Sandro Margara, raccoglie il lavoro di un anno societadellaragione.it. Il 29 luglio 2018 ci riunimmo, un folto gruppo di amici e compagni di battaglie, per ricordarlo e raccogliere idee sul che fare. Da lì nacque il convegno e ora questo libro. Il prossimo impegno sarà la stesura di un Manifesto per ripartire dalla Costituzione. La dipendenza in carcere, tra patologia e giurisprudenza di Silvia De Napoli stateofmind.it, 24 luglio 2019 La dipendenza in carcere: mentre i criteri diagnostici e i trattamenti sono cambiati, la stessa evoluzione sembra non esserci stata in ambito giuridico. Realtà consolidata, la denominazione di “Dipendenza Patologica” sopraggiunta con l’ultima versione del Dsm-V, va a sostituire la classica dicitura “Tossicodipendenza”, infatti nell’ultima versione del Dsm-V troviamo nella categoria “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”, importanti novità, oltre che elementi di continuità. Preme sottolineare questi elementi di novità per una maggiore comprensione: nell’ultima versione sparisce la differenza tra abuso e dipendenza, dando risalto ad un continuum su tre livelli di gravità; in sostanza viene eliminato il concetto di abuso, precedentemente inquadrato come “lieve o iniziale”. Restano invariati i 13 criteri per la formulazione di una diagnosi, ne sono sufficienti due, escludendone l’astinenza e la tolleranza, in quanto risposte adattive alla sostanza da un punto di vista fisiologico. Sino a 2 o 3 criteri siamo davanti ad una classificazione di tipo lieve, da 4 a 5 moderata e oltre i 6 la classificazione rientra come grave. Viene soppressa la diagnosi di “polidi-pendenza”, sostituendola con la prassi di fare diagnosi per ogni singola sostanza; viene aggiunta la sindrome da astinenza da cannabinoidi e subentra, però, il concetto di craving (desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una determinata sostanza, cibo, comportamento). Ambito particolarmente rilevante è l’introduzione dei comportamenti di dipendenza senza sostanze: nella fattispecie il Gioco d’Azzardo, che non viene più denominato patologico, in quanto la condizione patologica viene regolata dal brain reward system, nel Dsm 5 viene classificata tra le dipendenze, non più sotto un profilo squisitamente di discontrollo degli impulsi. Nella categoria della dipendenze non da sostanze non sono state fatte rientrare né quelle relative ai comportamenti sessuali, né all’uso patologico di internet, in quanto non si è in possesso di documentazione scientifica che possa supportare tale inserimento. Di fatto, nella clinica non viene suggerito alcun metodo e/o strumento differente da quelli già riconosciuti ed utilizzati in campo, dai servizi pubblici e privati. La distinzione teorica e categoriale fornita dal Dsm 5 ed., ci aiuta a comprendere quanto sia inutile e fuorviante la differenziazione terminologica all’interno di un continuum psicopatologico. Infatti abbatte la distinzione, che, per chi è un tecnico del settore ha sentito troppo spesso dire, “tra tossicodipendente e abusatore”. In quanto la distinzione è meramente di fasi: lieve, moderata e grave, non di meno, è doveroso ricordare quanto anche tale distinzione sia puramente teorica, in quanto la linea di demarcazione tra una fase ed un’altra è molto flebile, non per tutti uguale e non è detto che, chi assume sostanze, passi gradualmente per tutte le fasi che abbiamo distinto. La condizione di dipendenza, all’interno dell’inquadramento giurisprudenziale è un quadro abbastanza complesso nell’ordinamento penitenziario Italiano, in quanto è una situazione che coinvolge diversi settori dell’individuo: fisici, mentali, infettivologici, familiari, sociali, educativi, spesso tutti questi in compresenza. Quando si ha un tossicodipendente che commette reato, tale azione deve ritenersi frutto di una volontà esente da vincoli o è l’assunzione di sostanza in condizione di dipendenza psicologica e sofferenza fisica indotta da sindrome da astinenza a potersi caratterizzare come actio libera in causa? Al fine dell’accertamento dell’infermità mentale a carico di chi assume sostanze stupefacenti, è necessario dimostrare che tale assunzione ha compromesso permanentemente la capacità di intendere e volere, non viene riconosciuta valida la crisi di astinenza. Così, per il giudizio di responsabilità, non viene attribuito valore alle alterazioni psicosomatiche indotte da sostanza, solo il caso disciplinato dall’art. 95 c.p., accertata cronica intossicazione da sostanze stupefacenti tale da influire in modo parziale e/o totale sulle capacità di intendere e volere. Gli art. 92, 1 comma e 93 c.p. sanciscono la piena imputabilità sul soggetto che commette reato sotto l’effetto di sostanza stupefacente, nell’art. 94 vi è addirittura la previsione di aggravamento della pena qualora il reato sia stato commesso sotto effetto di stupefacenti da soggetto abitualmente dedito all’uso di esse. Volendo perciò sanzionare uno stile di vita, piuttosto che una sporadica tendenza a delinquere. In materia di continuazione di reati, sino alla legge del 21 febbraio 2006, n. 49 che modifica l’art. 671, per lungo tempo ha negato la possibilità di applicare la disciplina prevista dall’art. 81, comma 2, c.p. al reo che avesse commesso una pluralità di reati come conseguenza dell’assunzione di sostanze stupefacenti e nel perdurare di tale condizione. In quanto si riteneva non sussistere una compatibilità tra lo stato di tossicodipendenza e il medesimo disegno criminoso. Le evidenze oggettive, i fermenti sanitari di cura all’individuo e le analisi sociologiche degli anni ‘70, hanno portato il legislatore a dover modificare l’approccio di mera reclusione, in cui proliferava la sub-cultura del tossicodipendente, dello stile di vita criminoso, della promiscuità e l’espandersi delle malattie infettive, verso un approccio di cultura terapeutica opposta a quella penitenziaria di tipo autoritario. Quindi, il tossicodipendente diviene attore nel suo percorso trattamentale e rieducativo. Il legislatore con la legge 22 dicembre del 1975, n. 685, disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, tentò di inquadrare lo stato di tossicodipendenza come malattia da curare, in cui tentò di bilanciare la tutela del diritto alla salute e l’esigenza repressiva del fenomeno del consumo delle droghe di massa. Affidò, perciò i due compiti a due apparati distinti: recupero e riabilitazione al settore sanitario e al penale/esecuzione penale ha lasciato il compito della sicurezza. L’art. 84 prevede il diritto di ricevere cure mediche e riabilitazione all’interno degli istituti penitenziari adeguatamente attrezzati per chiunque sia dedito al consumo di sostanze stupefacenti. Di fatto tutto ciò non venne inserito nella prassi penitenziaria. Sarà necessario attendere il d.p.r. 309/1990, Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, e le successive modifiche conseguenti sul piano dell’esecuzione penale, per contemplare la de-carcerizzazione del tossicodipendente a favore di interventi socio-sanitari adeguati. L’art. 89 d.p.r. 309/1990 dispone, qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere, il giudice, non sussistendo esigenze cautelari di rilevanza, dispone gli arresti domiciliari. Presupposto è che ci sia in atto un programma terapeutico di recupero presso servizi pubblici o strutture private autorizzate ai sensi dell’art. 116, in quanto l’interruzione del programma ne pregiudichi il recupero dell’imputato. Si prevede la possibilità che il provvedimento venga subordinato al programma terapeutico di recupero presso struttura residenziale, stabilendo orari, modalità e controlli necessari ai fini della prosecuzione della pena. Allo stato attuale le disposizioni di legge stabiliscono diverse alternative per le cure del soggetto tossicodipendente sia in custodia cautelare che per ciò che concerne l’espiazione della pena, basti pensare all’affidamento in prova, alla sospensione dell’esecuzione della pena per cinque anni, qualora si accerti un esito positivo del recupero dallo stato di dipendenza, l’affidamento terapeutico, lavori di pubblica utilità (art. 73 comma 5 bis, d.p.r. 309/1990)la pena detentiva in extrema ratio per il condannato tossicodipendente dovrebbe essere eseguita presso istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi, cit. art. 95 d.p.r. n. 309/1990. Tali istituti sono rappresentati dagli istituti a custodia attenuata regolamentati dal d.p.r. 30 giugno 2000, n.230, gli Icatt, istituti penitenziari di II livello, cioè quando il detenuto non assume più metadone e non presenta sintomi di astinenza da sostanza. Detto ciò, la giurisprudenza prevede una ampia gamma di possibilità di recupero a tutela del diritto della salute per il tossicodipendente, prevedendo quindi, una territorializzazione della presa in carico da parte del servizio sanitario nazionale e delle realtà privatizzate che operano nel settore delle dipendenze. Per questo ricordiamo l’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo scopo dell’esecuzione della pena è, perciò, la rieducazione dell’autore di reato. A queste ragioni comprendiamo come la giurisprudenza abbia preferito mettere come prioritario lo stato di tossicodipendenza rispetto al comportamento deviante, concedendo pene alternative all’istituzionalizzazione (arresti domiciliari nei casi di programma terapeutico - art. 89) bilanciando l’esigenza dell’esecuzione penale e la tutela della salute. Le insidie tra gli approcci alla tossicodipendenza e ai disturbi da dipendenza, tra vecchi e nuovi schemi clinici Abbiamo visto sinora quelli che sono le nuove differenziazioni cliniche sintomatologiche della dipendenza, che, nel corso degli ultimi decenni hanno subito significative modifiche nelle nuove generazioni. Proseguendo abbiamo fatto un breve e poco esaustivo excursus giuridico sull’approccio al tossicodipendente così come veniva concepito dal legislatore, seguendo quelle erano le linee guida dell’allora ente sanitario nazionale. Riassumendo l’autore di reato tossicodipendente ha tre alternative una volta nel penitenziario: Il reo al suo ingresso in penitenziario si dichiara tossicodipendente: verrà sottoposto agli esami di routine per l’accertamento diagnostico, così da poter essere seguito da un punto di vista farmacologico dall’Asl di competenza; Il reo non si dichiara tossicodipendente al suo ingresso in istituto penitenziario: non riceverà alcun supporto medico-farmacologico; Il reo è già seguito dal Ser.D, al suo ingresso in istituto penitenziario verrà proseguita la terapia farmacologica In tutti i casi è prevista di routine esclusivamente l’accertamento e la terapia farmacologica, ma solo a seguito di una specifica richiesta da parte dell’interessato, l’aspetto psico-sociale sarà affrontabile attraverso colloqui con il personale qualificato, concessi in base alle disponibilità, alla lista di prenotazione e alle risorse interne a disposizione. Come si accennava nel paragrafo precedente, tali soggetti, tossicodipendenti e alcoldipendenti possono usufruire dei casi previsti dall’art. 11, affidamento in prova (disciplinato dall’art. 94 del D.P.R. 309/1990) e la sospensione della pena (disciplinato dall’art. 90 del Testo Unico), quest’ultimo è una misura premiale verso coloro i quali abbiano volontariamente estinto l’uso di sostanze stupefacenti, a differenza del primo che è un sistema terapeutico debitamente certificato e approvato dal Ser.D. Ci troviamo dinanzi ad una situazione in apparenza semplice e lineare, cosa che, nella pratica clinica e parallelamente giudiziaria, non risulta altrettanto semplice. Infatti, utilizzando la giurisprudenza terminologie che si rifanno ad una clinica oramai desueta, con criteri diagnostici superati da tempo, resta al singolo giurista l’interpretazione della documentazione clinica prodotta a carico del presunto reo. Così la clinica utilizzando una terminologia scientifica, non curante dell’eventuale utilizzo giuridico della propria documentazione, si muovono parallelamente senza incontrarsi e quindi non comunicando adeguatamente i due percorsi. Quali sono i casi, che oggi sempre più si incontrano, restando borderline tra un trattamento mancato ed una pena scontata o viceversa? Oggi, come abbiamo visto, non si parla più di tossicodipendenza, ma di dipendenza patologica, in quanto il soggetto tipico che abusa di sostanze stupefacenti e alcoliche non è più caratterizzato da sostanze specifiche e quindi trattamenti farmacologici e terapeutici standardizzati, così come ci eravamo abituati sino agli anni 2000. Nell’ultimo ventennio abbiamo avuto modo di osservare un cambiamento radicale nell’abuso di sostanze, prima era presente un distinguo tra i consumatori di eroina, cocaina, alcolici e così via. Ad oggi il dipendente è caratterizzato da un poliabuso, cioè la combinazione di più sostanze illegali oppure l’alcool legato alla sostanza stupefacente. Infatti ci si trova dinanzi alla continua e costante ricerca di uno sballo “controllato”. Infatti i nuovi abusatori cercano quasi con coscienza farmacologica un determinato stato emotivo e/o prestazione sensoriale e mixano la miscela adeguata: cocaina per sentirsi super eroi, eroina per provocare un rallentamento sensoriale, e così via. Le modalità di assunzione non sono più solo quelle standard (via inalatoria ed endovenosa), ma la moda tra gli assuntori dell’ultimo ventennio è il crack, “fumare la bottiglia”; non solo, gli effetti della cocaina sono diversi, più accelerati, compresenza di deliri uditivi e/o visivi, in ultimo le quantità di assunzioni aumentano. Da questo quadro risulta evidente che anche i criteri diagnostici hanno dovuto modificarsi, l’astinenza è un sintomo più legato alla sfera della psiche che non a quella fisica, la classica terapia metadonica non può sortire gli effetti di contenimento sui poliassuntori, così come avveniva per gli eroinomani. Non vi sono terapie standardizzate per l’astinenza da cocaina, da poliabusi ecc., in quanto spesso si va ad intervenire sulla sintomatologia lamentata dal singolo paziente: disturbi dell’umore, del sonno, piuttosto che deficit dell’attenzione; tutto questo può avere una compresenza di farmacoterapia metadonica o alcover (adeguata per dipendenza da alcool). L’utenza tipica contemporanea che abusa di sostanze spesso avvisa la necessità di interventi psichiatrici non tipicamente erogati dai Ser.D., infatti lentamente questi servizi si stanno adeguando prevedendo all’interno delle equipe la presenza di un medico-psichiatra che possa intervenire. Attraverso il privato sociale che riesce a raggiungere quel numero oscuro che non afferisce al servizio sanitario nazionale, si può affermare che fin troppi dipendenti da sostanze giungono a compiere reati ma a non usufruire dei giusti interventi per semplici intoppi burocratici, perché nella loro storia da dipendente non hanno accumulato abbastanza documentazione, non sono afferiti al sistema sanitario nazionale, non hanno sviluppato sindromi da astinenza da eroina. A questa ragione sollevo la questione della discrepanza tra ciò che la giurisprudenza richiede per definire un soggetto affetto da dipendenza patologica e il riscontro con la realtà clinica che ha una visione più ampia dell’essere umano e della sua patologia. Bongiorno: riforma della giustizia, serve più coraggio Il Mattino, 24 luglio 2019 Dopo mesi di contrasti tra Lega e M5s, il Governo potrebbe essere al capolinea: “o si sciolgono i nodi o non si riesce ad andare avanti, il momento è decisivo”. La ministra della P.a. Giulia Bongiorno inquadra così, al Forum Ansa, la situazione politica, chiarendo che non c’è alcun problema di rimpasto, ma le sorti dell’Esecutivo sono appese a tre nodi decisivi da sciogliere: lavori pubblici, autonomia e giustizia. E se sulla riforma che porta la firma di Bonafede, Bongiorno esplicita il “no” della Lega. Intanto per la P.a. è in arrivo la riforma della dirigenza e, forse già a settembre 2020, la laurea per diventare funzionari pubblici. La vera preoccupazione, però, in questi giorni, è la tenuta del Governo. “E fisiologico che ci possano essere contrasti” tra Lega e M5s, così “diverse nella loro sensibilità”, ammette Bongiorno, ma se “fino ad oggi ogni scontro ha trovato una sintesi, la novità di questi giorni è che su una serie di materie sul banco del Governo si stanno evidenziando contrasti particolarmente stridenti”. Perché lo scontro nel governo “non è sulle poltrone”, ma su alcune tematiche, tre nello specifico, lavori pubblici, autonomia, giustizia, che - avverte Bongiorno - o si superano (e per questo “dobbiamo sederci al tavolo e trovare soluzioni”), o non si va avanti. Proprio sulla giustizia, Bongiorno non usa mezzi termini: “Se mi chiedete se in questa riforma di Bonafede c’è quello che volevate come Lega? La risposta è no, perché in questo momento avremmo voluto una grande riforma, più coraggiosa”, dice la ministra, che vede un “ritorno ai “giudici ragazzini”“ e indica la necessità di tornare al tavolo su “intercettazioni, misure cautelari e riduzione dei tempi” (“9 anni - dice - mi sembra irricevibile”). Al di là della stretta attualità, poi, c’è cantiere avviato dalla ministra per rendere più efficiente la P.a. Con la legge Concretezza sono arrivate le impronte digitali, e sull’assenteismo Bongiorno, che ne sta valutando i costi, promette che sarà “inflessibile”. Prossimo passo, la riforma della dirigenza: basta “valutazioni fai da te” e gli “obiettivi blandi” che fanno raggiungere “sempre 100”; per i dirigenti è in arrivo un nuovo sistema di valutazione messo a punto da “una società di revisione”, cioè qualcuno che “sa come si organizzano gli uffici”. Decreto sicurezza bis, voto di fiducia oggi a Montecitorio La Notizia, 24 luglio 2019 Tempi stretti per la conversione in legge del decreto Sicurezza bis. Talmente stretti che il Governo, con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro, ha deciso di porre la questione di fiducia sul procedimento. Il voto di Montecitorio è previsto oggi pomeriggio (prima chiama alle 16,15, voto previsto in serata). Durante il passaggio nelle commissioni è stato approvato il pacchetto di emendamenti sulle forze dell’ordine caro al ministro dell’Interno Matteo Salvini: sono stati stanziati 1,33 milioni nel 2019, 4 milioni nel 2020 e 5 milioni a decorrere dal 2021 per garantire i pasti al personale delle Forze di polizia in servizio fuori sede. Prevista anche la possibilità di chiamare in servizio più personale volontario dei Vigili del fuoco. Cantone dice addio all’Anac: “Cambiato approccio culturale” di Marina Della Croce Il Manifesto, 24 luglio 2019 Anticorruzione. “Non riconosciuti i meriti dell’Autority. Torno a fare il magistrato”. Sarà un caso, ma per tutto il giorno l’unico commento di un esponente del governo all’annuncio delle dimissioni di Raffaele Cantone da presidente dell’Anac è stato quello di Giulia Bongiorno. E la titolare della Pubblica amministrazione si è limitata a prendere atto della decisione presa dal magistrato simbolo della lotta alla corruzione: “L’Anac ha evidenziato che il tema della prevenzione è importante quanto quello della repressione. Ma detto questo - si è affrettata a precisare la ministra - alcune linee guida e regolamenti dell’Anac non riuscivano a coniugare l’esigenza della trasparenza con quella dell’efficienza e della rapidità”. Parole che suonano come un benservito e che non devono aver fatto piacere all’uomo che per cinque anni ha guidato l’Autorità nazionale anticorruzione fino a farne un modello citato all’estero come un esempio, dalla Commissione europea al Fondo monetario passando per organismi internazionali come l’Ocse, l’Osce e il Consiglio d’Europa. Ma che ieri ha invece deciso che è arrivato il momento di voltare pagina e di tornare a indossare la toga. Il motivo? Certamente gli scandali che hanno investito il Csm e di fronte ai quali - spiega Cantone in una lettera pubblicata sul sito dell’Anac - “la mia indole mi impedisce di restare uno spettatore passivo”. Ma anche, e forse soprattutto, la constatazione che qualcosa si era rotto nel rapporto con il governo gialloverde. “Dopo oltre cinque anni sento che un ciclo si è definitivamente concluso anche per il manifestarsi di un diverso approccio culturale nei confronti dell’Anac e del suo ruolo”. Un addio che non è certo maturato all’ultimo minuto. Nei giorni scorsi Cantone ne aveva parlato con il presidente della Repubblica Mattarella e con il premier Conte, oltre che con la stessa Bongiorno. Alcuni mesi fa aveva presentato al Csm la sua candidatura per un incarico direttivo presso tre uffici giudiziari, ma proprio le vicissitudini vissute dal Consiglio - è spiegato sempre nella lettera - hanno “comportato una dilazione dei tempi tale da rendere non più procrastinabile una decisione”. A voler guardare, i segni della rottura che si stava consumando c’erano tutti da tempo, frutto anche di alcuni provvedimenti del governo. Come il decreto Sblocca-cantieri, in alcuni aspetti del quale Cantone vedeva un “rischio di corruzione” anche perché, alcuni anni dopo l’approvazione del Codice appalti, reintroduceva modifiche in un settore che invece “ha assoluto bisogno di stabilità e certezza delle regole e non di continui cambiamenti”, come spiegò lo scorso mese di giugno nella relazione annuale tenuta a Montecitorio denunciando anche un ridimensionamento del ruolo dell’Anac. Ironia della sorte, nello stesso momento in cui lui parlava alla Camera, al Senato la maggioranza gialloverde approvava in via definitiva lo Sbloccantieri. Duri i commenti dell’opposizione all’addio annunciato da Cantone. “Mi colpisce che l’Anac venga indebolita proprio adesso, chissà perché. E dire che e un tempo gridavano “Onestà”“ scrive di Facebook Matteo Renzi, che nel 2014 da presidente del consiglio lo chiamò a risollevare le sorti dell’Autorità anticorruzione. Dello steso tenore il commento di Paolo Gentiloni: “Così l’anticorruzione è diventata un peso - scrive il presidente del Pd - e oggi Raffaele Cantone con le parole misurate di un uomo delle istituzioni, dice al governo: se volete ridimensionare o cancellare l’Anac fatelo senza di me”. A colpire è il silenzio del premier Conte e del ministro dell’Interno Salvini. Parlano invece, ma solo quando ormai è pomeriggio inoltrato, il vicepremier grillino Luigi Di Maio e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Con il presidente Cantone abbiano sempre lavorato benissimo, è stata una delle prime autority con cui ho lavorato, in particolare sull’Ilva di Taranto”, dice il primo. “Con lui c’è sempre stato un dialogo costruttivo: alcuni suoi suggerimenti mi hanno consentito di migliorare la legge Spazzacorrotti”, commenta il secondo. Parole che suonano come di circostanza e che difficilmente convinceranno Cantone a fare marcia indietro. Legge Pinto, inerzia senza danno per il creditore dello Stato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 19883/2019. Nessun pregiudizio per il creditore dello Stato, vittima del processo lumaca, che non propone la domanda di indennizzo Pinto entro sei mesi dalla fine del procedimento di cognizione che accerta il suo diritto. Il termine, nella sola ipotesi in cui il creditore è lo Stato, scatta, infatti quando il giudizio esecutivo è definitivo: le due fasi vanno considerate, infatti, come un’unica. Nell’affermare che il “tempo del processo” va inteso come unitario, le Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 19883) si muovono anche sulla scia della sentenza della Consulta 88/2018, con la quale il giudice delle leggi ha bollato come incostituzionale l’articolo 4 della legge Pinto, per la parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto. La sentenza depositata ieri è anche convenzionalmente orientata. I giudici guardano al caso Bozza contro Italia (2017), che ha suscitato i dubbi della sezione remittente. In quell’occasione la Corte di Strasburgo, analizzando la nozione di “decisione definitiva”, aveva fatto una netta differenza tra debitore privato e della pubblica-amministrazione. Per gli eurogiudici il privato che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato, non deve, di norma, avviare un procedimento distinto per ottenere l’esecuzione forzata di una sentenza che non comporta alcuna difficoltà, oltre al versamento del denaro. La Cedu ha fissato il tempo per adempiere, a sei mesi dalla data in cui la decisione del risarcimento é diventata esecutiva. E il tema della particolare semplicità dei giudizi Pinto, rispetto all’obbligo di pagamento, è ripreso dalla Sezioni unite che lo “utilizzano” per fugare i dubbi su possibili condotte abusive del creditore. La soluzione adottata si muove nell’ottica di approntare una tutela effettiva dei creditori, depotenziando il contenzioso che potrebbe continuare a prodursi se si mantenessero fermi i vecchi principi che limitavano “la possibilità di ottenere l’integrale ristoro del pregiudizio sofferto per l’irragionevole durata del processo unitariamente considerato”. Per le Sezioni unite il creditore dello Stato non deve essere gravato dall’onere di un giudizio volto all’esecuzione di obbligo che deve essere adempiuto, senza alcuna soluzione di continuità “anche oltre il termine che la giurisprudenza convenzionale individua come ragionevole per tale esecuzione”. A completamento del quadro delineato, il Supremo collegio fa altre precisazioni. I giudici segnalano che la fase esecutiva, eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato, inizia con la notifica dell’atto di pignoramento mentre la fine coincide con la definitiva soddisfazione del credito indennitario. Ancora un chiarimento riguarda il tempo che passa tra la definitività della fase di cognizione e l’inizio dell’esecutiva, che non va considerato come “tempo del processo”. Un periodo che può, eventualmente, essere rilevante ai fini del ritardo nell’esecuzione, come pregiudizio a sé stante. Un “danno” indennizzabile in via diretta ed esclusiva solo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, mancando attualmente un rimedio interno. Abruzzo: Garante dei detenuti, eletto Gianmarco Cifaldi di Nello Avellani news-town.it, 24 luglio 2019 E’ Gianmarco Cifaldi il nuovo Garante dei detenuti della regione Abruzzo. Cifaldi, 55 anni, aquilano, sociologo e criminologo, professore aggregato all’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, è stato eletto dal Consiglio regionale con 23 voti a favore su 29 votanti, prendendo due voti in più rispetto ai 21 necessari a raggiungere la maggioranza dei due terzi fissata dalla legge come quorum per rendere valida l’elezione. Il voto si è svolto a scrutinio segreto. Dallo spoglio sono venute fuori 5 schede bianche, attribuibili al centrosinistra, e anche un voto a favore di Fabio Nieddu, un altro dei 9 candidati che avevano presentato domanda. Per Cifaldi hanno votato a favore il centrodestra e i Cinque Stelle. Da quel che si è capito, il centrosinistra ha votato scheda bianca non perché avesse delle riserve ma perché non ha condiviso il metodo usato dal centrodestra, che ha puntato subito sul nome del professore della D’Annunzio senza dare alla coalizione Legnini la possibilità di fare una propria proposta. Con l’elezione di Cifaldi, si chiude una brutta pagina della storia recente del consiglio regionale: la nomina del Garante dei detenuti era attesa infatti da quasi 10 anni, da quando, cioè, una legge nazionale l’aveva istituito. Nelle passate legislature non si era mai riusciti ad arrivare a una sintesi. Per Cifaldi aveva fatto un endorsement anche la Uil Penitenziaria Abruzzo, che di lui aveva detto: “E’ molto vicino alle dinamiche carcerarie, e che ha dimostrato attenzione per il diritto di tutti siano essi detenuti che addetti del settore compresi i poliziotti penitenziari”. E’ stata invece rinviata l’elezione dei componenti della Commissione regionale per la realizzazione delle pari opportunità e della parità giuridica e sostanziale tra donne e uomini per permettere agli uffici del Consiglio regionale di espletare le procedure burocratiche necessarie all’accoglimento delle candidature. Soddisfazione dei Cinque Stelle - “Siamo molto soddisfatti che finalmente il Consiglio regionale abbia eletto il Garante dei detenuti nella persona del Professor Gianmarco Cifaldi, e siamo ancora più soddisfatti che la scelta arrivi al termine di un lungo percorso di ascolto, finalizzato all’individuazione di una figura di comprovata professionalità in materia carceraria. Il sociologo Cifaldi è una figura professionale che trova il nostro concreto supporto e che come gruppo del M5S avevamo già proposto nella scorsa legislatura in virtù del suo curriculum e delle competenze acquisite grazie al lavoro svolto negli istituti di detenzione. A differenza del Governo D’Alfonso oggi siamo arrivati ad un nome non sulla base di una cieca logica di appartenenza politica ma seguendo quel metodo che il Movimento 5 Stelle indica da anni”. Ad affermarlo i Consiglieri regionali del M5S. Napoli: Poggioreale, ancora un allarme “estrema tensione nel carcere” Il Mattino, 24 luglio 2019 “Ho trovato una situazione ancora di estrema tensione, con oltre 2.300 detenuti presenti rispetto ai circa mille posti letto regolamentari ed un personale di Polizia penitenziaria demotivato e sfiduciato per l’assenza di urgenti provvedimenti idonei a garantire loro tutele e migliori condizioni di lavoro”. Lo sottolinea, in una nota, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), Donato Capece, che oggi, accompagnato dal responsabile sindacale della Campania Emilio Fattorello, ha fatto visita al carcere di Poggioreale di Napoli e incontrato il personale in servizio ed i poliziotti aderenti al Sappe. “A distanza di tempo dalla rivolta che ha portato alla distruzione del Padiglione detentivo Salerno, - ha aggiunto - i rivoltosi sono ancora lì e nessun provvedimento concreto di trasferimento in altre carceri fuori dalla Campania li ha riguardati. Insomma, il concetto che passa è che a Poggioreale i detenuti possono fare quel che vogliono che nessuno li punisce: è mortificante e inaccettabile”. “Per fortuna delle Istituzioni, - evidenzia il sindacalista - gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere, come a Poggioreale, con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri napoletane, campane e del Paese sia lasciata solamente al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia”. Nel pomeriggio, Capece e la delegazione del Sappe incontreranno i circa 100 allievi Agenti di Polizia Penitenziaria che stanno frequentando il corso di Formazione nella Scuola di Portici: “L’occasione è utile per fare il punto della situazione penitenziaria e in particolare dell’operatività della Polizia Penitenziaria nel contesto dell’esecuzione penale. Alle donne e agli uomini del Corpo impegnati in questo importante ruolo professionale nella Sicurezza del Paese va l’augurio del Sappe per un percorso formativo da coronare con successo”. Capece ricorda ancora che “le Scuole di Polizia Penitenziaria coinvolte nei corsi di formazione dei prossimi neo Agenti sono strutture di eccellenza nella formazione e nell’aggiornamento professionale degli appartenenti non solamente al Corpo di Polizia Penitenziaria ma anche alle altre Forze di Polizia”. Palermo: Samuele Bua suicida in carcere a 29 anni, la famiglia chiede verità di Germana Bevilacqua sicilianews24.it, 24 luglio 2019 Samuele Bua era un giovane che aveva bisogno di aiuto, un’assistenza psicologica forse psichiatrica, non certamente di essere rinchiuso in isolamento nel carcere Pagliarelli di Palermo dove lo scorso 4 novembre si è tolto la vita con i lacci della sue scarpe. Sono troppi i punti oscuri della vicenda, le domande senza risposta e le responsabilità ancora da accertare, e per questo la famiglia di Samuele, assistita dall’avvocato Giorgio Bisagna, ha sporto denuncia perchè sia fatta piena luce sulla morte del ragazzo. Samuele era finito dietro le sbarre dopo una denuncia a seguito di un violento litigio con la madre a causa del suo temperamento nervoso ed irascibile: “Ma mio figlio era un ragazzo dal cuore buono” spiega la madre, “Quel giorno i vicini sentendo il trambusto hanno chiamato i carabinieri e Samuele così è finito in carcere, ma non era lì che doveva stare” spiega la signora Lucia Agnello. Samuele Bua, otto mesi senza verità, una manifestazione questa mattina davanti il carcere Pagliarelli “Abbiamo bisogno di sapere la verità, dopo otto mesi non abbiamo avuto nessuna informazione sull’esito dell’autopsia, - spiega Rosalinda, la sorella di Samuele - come si può morire in una cella d’isolamento con dei lacci che non avrebbe dovuto avere a disposizione? Un ragazzo che doveva essere sorvegliato h24. Avevamo ottenuto già il consenso per un trasferimento - continua Rosalinda Bua - ma si è perso troppo tempo, mio fratello doveva essere trasferito al più presto in una struttura adeguata a lui”. I familiari di Samuele Bua non si arrendono. E questa mattina hanno manifestato pacificamente davanti al carcere di Pagliarelli di Palermo, per chiedere verità e giustizia sulla morte del loro congiunto. Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, ha espresso la propria vicinanza alla famiglia: “Antigone è vicina ai familiari di Samuele nella ricerca di una verità che, ancora, a distanza di otto mesi non emerge”. Samuele Bua soffriva di allucinazioni, manie di persecuzione, la diagnosi era di schizofrenia e turbe comportamentali, come spiega la famiglia. Era un ragazzo difficile ma aveva bisogno di aiuto, di un sostegno psichiatrico, forse di essere ricoverato in una struttura adeguata, ma certamente non della detenzione carceraria, una condizione dura, spesso intollerabile e ai limiti del rispetto della dignità umana anche per chi non è fragile come Samuele. Cagliari: morte di Doddore Meloni, per il giudice di sorveglianza arriva l’archiviazione linkoristano.it, 24 luglio 2019 Era accusata di omissione e abuso d’ufficio in seguito al decesso dell’indipendentista di Terralba. L’avvocato: “Ma lo si poteva curare e salvare”. E’ stato archiviato dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Roma Pier Luigi Balestrieri il procedimento a carico del magistrato di sorveglianza al Tribunale di Cagliari Daniela Amato accusata di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio nell’ambito dell’inchiesta aperta sulla morte dell’indipendentista di Terralba Doddore Meloni, leader del movimento Meris, deceduto il 5 luglio del 2017, nell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari, dopo una detenzione in carcere e uno sciopero della fame attuato per quasi due mesi. A darne notizia in serata è stato l’avvocato Cristina Puddu, il legale che tutela la vedova di Meloni, Giovanna Uccheddu, e la figlia dell’indipendentista, Francesca Meloni. “Nonostante la nostra opposizione, il gip del Tribunale di Roma”, ha spiegato l’avvocato Puddu, “ha disposto l’archiviazione del procedimento a carico della dottoressa Daniela Amato, ritenendo che nelle sue funzioni di magistrato di sorveglianza al Tribunale di Cagliari, abbia agito verso il detenuto Meloni, “ed attendendo ai doveri d’istituto in modo del tutto tempestivo”. “Considerato che lo stato di deprivazione del Meloni era da considerarsi autoindotto”, si legge nel provvedimento del gip di Roma, “e la seconda istanza di detenzione domiciliare, esitata solo dopo il decesso del detenuto, era stata presentata solo pochissimi giorni dopo il rigetto della precedente, questo poteva aver indotto la dottoressa Amato a non attribuirle una stringente priorità. Inoltre il magistrato si era anche preoccupato di chiamare a colloquio il detenuto, al fine di renderlo edotto delle conseguenze del suo agire”. “Come a dire”, ha commentato l’avvocato Cristina Puddu. “Io ti ho avvisato poi vedi tu! Ovviamente Meloni sapeva cosa stava facendo, il rischio che correva, ma non rifiutava né terapie, né flebo, né il ricovero che si sarebbero dovuti prendere in considerazione e che avrebbero potuto salvargli la vita”. Rovigo: carcere minorile in via Verdi, lavori partiti di Alberto Lucchin Il Gazzettino, 24 luglio 2019 Dopo anni di abbandono e silenzio, ieri mattina sono iniziati i lavori di ristrutturazione del vecchio carcere di via Verdi. Presto diverrà la sede del carcere minorile, in partenza dall’attuale casa circondariale di Treviso. Al termine dei lavori, che è presumibile dureranno parecchio tempo visto lo stato in cui si trova l’edificio, il costo per la trasformazione sfiorerà i 5 milioni. In centro storico arriverà dunque il penitenziario minorile. Due settimane fa sono stati svolti i rilievi finali, durante i quali i tecnici incaricati dal ministero della Giustizia hanno controllato lo stato di salute dello stabile e svolto le ultime misurazioni, mentre ieri mattina hanno cominciato ad echeggiare tra le mura dell’ex carcere del capoluogo polesano i martelli pneumatici degli operai. Su quale sarà il risultato finale vige il più assoluto riserbo, tant’è che il Comune non ha nemmeno ricevuto la documentazione di inizio lavori come è previsto per molti altri interventi edilizi. Su quante saranno le celle e come saranno dislocate, su quali saranno gli uffici, riguardo il dove sarà costruito il braccio riservato alla semilibertà degli adulti e molte altre informazioni è tutto top secret. L’unica cosa che è possibile fare è presumere che quell’edificio venga sostanzialmente rifatto praticamente da zero, visto lo stato in cui versava prima della sua chiusura e la lunga storia che porta sulla spalle. Quelle mura, che dagli anni 30 hanno ospitato i carcerati rodigini, prima ancora erano parte del convento delle monache della Santissima Trinità. L’edificio compariva già nelle prime rudimentali carte stradali cittadine, disegnate a mano dai cartografi del 700, proprio vicino al Tempio della Rotonda. Più recentemente la casa circondariale rodigina era salita agli onori delle cronache nazionali per la cinematografica fuga di Susanna Ronconi nel 1983: un’autobomba, posteggiata lungo via Mazzini dal compagno della brigatista Sergio Segio, fece saltare un pezzo delle mura perimetrali, permettendo l’evasione alla terrorista veneziana. Nel 2016 è stata inaugurata la nuova casa circondariale rodigina, il cui cantiere era stato aperto nel 2007 dall’allora guardasigilli Clemente Mastella, e da allora il penitenziario del centro storico è rimasto vuoto e abbandonato, in preda alle erbacce. La politica, nell’ultimo anno, ha fortemente dibattuto su questo progetto imposto dall’alto. L’Amministrazione Bergamin aveva intenzione di allargare l’adiacente palazzo di giustizia all’interno del vecchio carcere, spiegando di non volere i baby detenuti a Rovigo, ma era un progetto ormai impossibile da attuare visto lo stato in cui già si trovava il progetto di ristrutturazione. Nel febbraio del 2018 l’ex ministro Andrea Orlando, nella relazione sullo Stato di attuazione del programma di edilizia penitenziaria, aveva anticipato che il Comitato paritetico dell’edilizia penitenziaria aveva approvato la destinazione della sede dell’ex Casa circondariale di Rovigo a istituto penale per i minori del Veneto. A sancire in maniera definitiva l’arrivo in città di quel penitenziario, lo scorso aprile, era stata la presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio, la deputata pentastellata Francesca Businarolo: “Il carcere minorile di Treviso è in cattive condizioni e ne è previsto il trasferimento a Rovigo: le cose sono in uno stato così avanzato che è già stata avviata la fase di avvio per l’adeguamento”. Lecce: detenuti in Procura, ma per lavorare quotidianodipuglia.it, 24 luglio 2019 La Procura apre le porte ai detenuti. E, dopo aver chiesto e ottenuto la condanna di questi cittadini per i reati più vari, li aiuta a ritrovare la retta via, a lavorare, a reinserirsi nella società, come la Costituzione prevede sia fatto con coloro i quali vengono - per legge - privati della loro libertà personale. La Procura di Lecce, infatti, ha proposto al Comune la sottoscrizione di una convenzione, che coinvolge anche l’istituzione carceraria, per il reinserimento lavorativo di alcuni detenuti. La convenzione prevede l’impegno, da parte della Procura, ad accogliere presso i propri uffici cinque detenuti per un periodo di due anni, durante i quali potranno svolgere attività lavorativa “di pubblica utilità”. Quale? Ad esempio attività di giardinaggio, di copia dei fascicoli non coperti da segreto, di piccoli lavori di facchinaggio. Il Comune assumerà l’impegno di versare i contributi Inail e la casa circondariale quello di assumersi ogni onere e responsabilità relativamente a quali detenuti potranno beneficiare del progetto, al loro trasporto fino al tribunale di viale De Pietro - dove ha sede la Procura - e, anche, alla nomina di un tutor che monitorerà i singoli progetti di inserimento. “Ogni condannato - scrive il Comune nella delibera che fa propria la convenzione - può compiere un percorso di risocializzazione, in quando ogni essere umano è un individuo nato “eguale in dignità e diritti, dotato di ragione e di coscienza” e perciò chiamato ad agire “in spirito di fratellanza”, come recita l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo”, datata 1948. La procedura per attuare la convenzione è già conclusa. E domani mattina, alle 11, all’Open Space di Palazzo Carafa si terrà la conferenza stampa di presentazione della convenzione, conferenza alla quale parteciperanno il sindaco Carlo Salvemini, il Procuratore capo della Repubblica Leonardo Leone De Castris e la direttrice della Casa Circondariale di Lecce, Rita Russo. Sassari: Asinara, quattro detenuti diventano archivisti di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 24 luglio 2019 Il loro compito? Digitalizzare i vecchi archivi delle carceri. Fuori dal luogo dove la società ha deciso di tenerli rinchiusi, così quattro detenuti costruiscono la storia delle carceri dell’Asinara. Lorenzo, Singh, Mario e Ndoj, tutti in regime articolo 21 e con un passato da dimenticare. Hanno iniziato un lavoro di studio e digitalizzazione dei vecchi archivi delle case di pena nella sede del Parco Nazionale dell’isola. Rispolverano vecchi fascicoli, carte e documenti che rivelano le vicende umane dei carcerati dal 1885 al 1997, 112 anni di storia umana tra omicidi, furti e rapine. Il lavoro è in continuità con un progetto iniziato nel 2012 nella casa circondariale di Sassari - prima a San Sebastiano e poi a Bancali- che ha visto la collaborazione dell’area educativa del carcere, l’Archivio di Stato e i Parchi dell’Asinara e di Porto Conte, per il recupero dei vecchi archivi delle ex colonie penali della Sardegna. Materiale inedito contenente le storie più svariate, le testimonianze, le lettere, i pensieri, le varie tipologie comportamentali dei reclusi succedutisi nel tempo, che hanno permesso di ricostruire molteplici momenti di vita carceraria quotidiana da fine ‘800 ad oggi, l’allestimento di due musei carcerari - Asinara e Tramariglio- e la pubblicazione di alcuni volumi divulgativi. “Da parte loro emerge che nella loro vita non hanno avuto una guida, una vera famiglia che gli dicesse cosa era giusta o sbagliato - spiega Vittorio Gazale, vicedirettore del Parco - la loro voglia oggi è diventare educatori dei ragazzi e fargli capire come sia facile sbagliare”. La voglia di riscatto sociale negli occhi, il forte desiderio di vincere una scommessa, Lorenzo, Singh, Mario e Ndoj le raccontano con gioia, affrontano un cammino nuovo pieno di speranze che possa arricchire le loro competenze professionali e aprirgli nuove strade nel mondo del lavoro. “È stata un’emozione forte poter rappresentare a teatro le storie di detenuti scritte nei fascicoli e nei racconti sepolti negli archivi - ha detto Ndoj. Ho rappresentato la storia di un evaso e la mia stessa evasione legando il passato con il presente, perché tante cose sono rimaste uguali, così come ho raccolto testimonianze di detenuti che hanno tentato di dimostrare la loro innocenza senza riuscirci. Non si può escludere che nelle carceri ci possano essere degli innocenti”. I quattro detenuti rappresentano una piccola parte della popolazione detenuta del carcere. La responsabile dell’area educativa del carcere di Bancali Ilenia Troffa e la direttrice dell’archivio di stato Federica Puglisi sostengono che “questo lavoro per loro vale per loro come una riabilitazione, la loro storia personale ci fa capire che la solitudine in carcere può favorire altre occasioni, una integrazione si affronta con difficoltà per questo ci danno a noi la possibilità di realizzazione della mission, ossia la rieducazione della pena”. Per il vicepresidente del parco Asinara, Antonio Diana “La raccolta della memoria può portare nel tempo ad un approfondimento da cui estrapolare la qualità della vita nelle varie epoche. Il risultato si potrà leggere tra 40 anni quando si vedrà la stratificazione della storia”. Parma: carcere di Via Burla, due detenuti salgono sul muro per protesta Gazzetta di Parma, 24 luglio 2019 Sono saliti sul muro che recinge lo spazio destinato ai passeggi - dove trascorrono le ore previste fuori dalla loro cella - e hanno iniziato una protesta. Protagonisti della vicenda, riportano in una nota Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe ed Errico Maiorisi, vice segretario regionale del sindacato, due detenuti nel carcere di Parma. Da quanto si è appreso i due avrebbero chiesto una maggiore apertura. “I due detenuti - affermano Durante e Maiorisi - più che aperti dovrebbero stare chiusi, soprattutto uno di loro, già responsabile a Parma dell’aggressione a quattro agenti ed a Milano di un’altra aggressione. I due - argomentano gli esponenti sindacali - sono armati di lamette e minacciano di usarle contro chiunque dovesse avvicinarsi: speriamo che al termine di questa vicenda vengano assunti adeguati provvedimenti nei confronti dei due detenuti, attraverso l’applicazione delle restrizioni previste dall’articolo 14 bis dell’ordinamento penitenziario. Una misura a nostro avviso sicuramente adeguata a chi come questi soggetti - concludono - continua a mettere in crisi la sicurezza della struttura e delle persone”. Padova: aggressioni in carcere, la Procura apre un’inchiesta di Lino Lava Il Gazzettino, 24 luglio 2019 Uno degli ultimi episodi eclatanti di aggressione al Due Palazzi risale allo scorso 18 giugno. Erano le 5,30 del mattino quando un detenuto italiano ha chiesto aiuto per un problema medico. Quando l’agente della polizia penitenziaria è arrivato alle sbarre della cella, il recluso lo ha colpito con un pugno al volto, minacciandolo di lanciandogli contro tutto ciò che gli capitava a tiro. L’agente è stato accompagnato in infermeria. Dall’inizio del 2018 a oggi sono state 40 le aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria da parte dei reclusi. E adesso il pubblico ministero Sergio Dini ha aperto un altro capitolo dell’inchiesta sul carcere. Aggressioni e tentativi di sommossa. Secondo i rappresentanti sindacali degli agenti, anche al Due Palazzi di Padova c’è mancanza di personale. Onofrio Bellini, segretario provinciale dell’Uspp, afferma che si tratta di una “problematica che riguarda gran parte dei penitenziari italiani. Tentativi di sommossa e angherie di ogni genere, come dimostrano i recenti fatti di cronaca e le statistiche che segnano un preoccupante aumento degli episodi violenti. Complimenti al personale di polizia penitenziaria del Due Palazzi, che nonostante le gravi carenze degli organici e le tante ore di lavoro richieste riesce a prevenire e allontanare le minacce per l’ordine e la sicurezza”. .Un’altra recente aggressione ha visto come protagonista un detenuto straniero che ha preso a calci e a pugni un agente, finito all’ospedale e dimesso con una prognosi di guarigione di venti giorni. L’agente era stato aggredito dallo stesso detenuto anche in novembre, quando si verificò un tentativo di rivolta presumibilmente per via della mancata erogazione di acqua calda nelle docce a causa di un guasto nella struttura. Il detenuto straniero chiuse con un calcio uno dei cancelli su una mano dell’agente ferendolo e procurandogli delle lesioni. “Sono episodi di cui è la Polizia Penitenziaria a fare le spese”, afferma Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria, e aggiunge: “E’ un sistema in cui l’assenza di sostanziale legalità e di regole certe rende possibile che i detenuti colpiscano impunemente chi rappresenta lo Stato e i principi della civile convivenza. Peraltro, se tali condizioni sono caratteristica dell’attuale sistema penitenziario nazionale il disagio e la profonda sofferenza del personale di polizia penitenziaria in ogni attribuzione costituiscono la principale falla nella gestione delle carceri nel Triveneto in cui all’assenza di risposte idonee da parte delle direzioni degli istituti corrisponde la sostanziale e grave inerzia del provveditore regionale Enrico Sbriglia”, afferma Beneduci. “In tali condizioni è quanto mai urgente che il Guardasigilli Bonafede e il Sottosegretario delegato Morrone si preoccupino da un lato di dotare la polizia penitenziaria di maggiori organici, atteso che gli attuali sono stati falcidiati da innumerevoli e ingiustificate riduzioni anche dalla legge Madia, nonché di concreti strumenti anti aggressione quali spray al peperoncino e taser e d’altro canto, stante la scadenza degli incarichi di alcuni degli attuali dirigenti regionali dell’Amministrazione penitenziaria di assegnare nuove e più idonee figure a tali incombenze laddove sia confermato il fallimento dei presenti e ciò non solo nell’interesse interno agli istituti di pena ma anche per la sicurezza della intera collettività”, conclude il segretario dell’Osapp. Sono cinque anni che il pubblico ministero Sergio Dini indaga tra le sbarre del carcere Due Palazzi. Tutto è iniziato l’8 luglio 2014, quando gli agenti della Squadra mobile scoprirono un traffico di droga, di telefoni cellulari e di computer. Un giro d’affari gestito da alcuni agenti della penitenziaria e da detenuti legati alla Camorra e alla Sacra Corona Unita. Ora si dovrà indagare sulle aggressioni. L’Aquila: “carcere, no agli alloggi esterni degli agenti” Il Centro, 24 luglio 2019 Pezzopane (Pd): sono costretti a lasciare la struttura per trasferirsi al Progetto Case oppure nei Map. “Non si può restare indifferenti dinanzi all’allarmante notizia lanciata dalla Uil e che vede moltissimi poliziotti penitenziari di stanza al carcere dell’Aquila, rischiare di essere sfrattati dalla caserma presso la quale hanno vissuto anche per più di 20 anni”. A raccogliere l’invito lanciato nei giorni scorsi dal vice segretario generale Uil Pa Polizia Penitenziaria Mauro Nardella, è l’onorevole Stefania Pezzopane. La parlamentare del Pd si dice “molto preoccupata della piega che sta prendendo la delicata questione oggetto, tra l’altro, dell’interessamento del Prefetto. Il rischio che una realtà come quella del Penitenziario Le Costarelle possa privarsi di forze utili al mantenimento dell’ordine e della sicurezza in caso di eventuali calamità naturali e/o eventi critici di svariate natura, è purtroppo reale”, afferma Pezzopane, condividendo le preoccupazioni di Nardella. “Gli agenti che fino a qualche tempo fa garantivano pressoché 24 ore al giorno la loro presenza, saranno costretti, così come già sta accadendo visto che 20 hanno già fatto le valige e si sono trasferiti nei Map e al Progetto Case, ad allontanarsi da quel posto ove sono reclusi poco meno di 200 detenuti, di cui al regime speciale del 41bis. Molti altri, inoltre, rischieranno di seguire la stessa strada se non si farà presto qualcosa e con tutto quello che ne potrebbe derivare in fatto di pronto intervento in caso di emergenza”, ricorda Pezzopane. “Progettare e realizzare subito una nuova caserma è il minimo che si possa fare a lungo tempo. Toccherà pensare cosa inventarsi nel breve e medio periodo”, conclude l’onorevole aquilana, che propone, tra le altre, la soluzione di trasferite i Map all’interno della struttura carceraria. La deputata presenterà comunque un’interrogazione al ministro. Arienzo (Ce): “la vita è adesso, in carcere”, intervista all’attore Antonio Perna di Ciro Oliviero dalsociale24.it, 24 luglio 2019 La vita è adesso è il nome di un progetto al quale partecipano i detenuti della casa circondariale di Arienzo, in provincia di Caserta. Un laboratorio di teatro in carcere. Un progetto al quale ha partecipato anche l’attore napoletano Antonio Perna in qualità di insegnante. Un progetto che per Perna è nato per caso. Come racconta nell’intervista è stata una costumista con la quale lavorava in un altro spettacolo a parlargli del progetto e a farlo appassionare al tema. Come Antonio Perna racconta nell’intervista scelsero di rappresentare la commedia di Eduardo De Filippo Quei figuri di tanti anni fa. Tema centrale del testo la ludopatia. Una malattia della quale sono affetti molti detenuti. Nei sette mesi circa di laboratorio, che hanno portato alla messa in scena della commedia il 24 novembre 2018, Perna ha avuto modo di conoscere molti detenuti. A noi ha raccontato una delle storie che gli sono rimaste particolarmente impresse, quella di Alex, che oggi, fuori dal carcere, ha trovato un lavoro. Milano: sport in carcere, due canestri di speranza a San Vittore di Giangiacomo Schiavi Corriere della Sera, 24 luglio 2019 Due canestri sono una goccia nel mare per San Vittore, ma se ai nuovi canestri si aggiunge un impegno per i giovani detenuti under 25, una serie di incontri con i campioni dello sport, la disponibilità di due bandiere del basket come Meneghin e Marzorati per qualche tiro libero in carcere, allora vuol dire che la generosità di Milano incrocia anche il sentimento di chi vuole ridare fiducia e speranza a chi l’ha persa. Accade questo dopo una lettera alla Cronaca di Milano del Corriere (pubblicata il 13 luglio) con l’appello a sostituire i canestri ormai inservibili per il campetto di basket. A un piccolo gesto se ne aggiungono tanti altri, quasi per dire che in questa città ma anche nel Paese c’è attenzione e non indifferenza nei confronti dei bisogni e delle persone che cercano di rialzarsi dono una caduta. Si è messo subito in moto il Comitato nato in memoria di Cesare Cadeo: il fratello Maurizio, ex assessore comunale, con Paolo Taveggia, neo presidente dell’Idroscalo, hanno trovato sponsor e attrezzature. Canestri e campo per San Vittore saranno forniti dalla ristorazione Fabbri spa; maglie e palloni saranno portati direttamente da Dino Meneghin. Nel primo incontro a San Vittore con il direttore Giacinto Siciliano e il direttore regionale Pietro Buffa si è parlato di sport in carcere e della validità di rafforzare lo spirito sportivo, raccontando esperienze e cogliendo dai carcerati quelle insolite intuizioni che spesso nascono con la privazione di tempo e spazio. Un’idea che Cesare Cadeo, nella sua stagione da assessore provinciale allo Sport, aveva adottato con l’allora direttore Gigi Pagano, realizzando la prima palestra in carcere. Ma la catena solidale non si è fermata qui: tante email hanno segnalato la disponibilità di persone e associazioni. I giocatori di Maxi basket Milano over 55 hanno offerto una sottoscrizione; Pierluigi Marzorati, icona della pallacanestro Cantù, si è detto pronto al primo tiro libero; il cappellano dell’Aviazione civile, don Fabrizio Martello, ha mobilitato gli staff di Linate e Malpensa. Basta poco, a volte, per creare momenti di solidarietà. Due canestri per San Vittore sono una piccola cosa. Ma hanno spinto gruppi di persone a muoversi e ad agire concretamente. C’è sempre qualcosa da fare per gli altri. Quando si vuole, si può fare. Alessandro Baratta, nel cuore di tenebra dello Stato di diritto di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 24 luglio 2019 Populismo penale. Torna per Meltemi il “classico” “Criminologia critica e critica del diritto penale” di Alessandro Baratta. Un’analisi delle politiche del controllo anticipatrice dell’età “neoliberale”, scritto nella stagione della più grande avanzata delle lotte operaie e sociali dal Dopoguerra. La legge, il potere, il diritto, l’economia non sono mai innocenti. Difendono la società intesa come insieme di valori e interessi omogenei. Chi squarcia il sipario è criminalizzato come accade ai poveri, subalterni e migranti che sono considerati devianti o nemici. Questo libro oggi è un potente antidoto ed è un contributo al rapporto virtuoso tra i saperi critici e i movimenti. “In galera, gettate la chiave, fateli marcire in cella”. Il piacere della gogna e del supplizio aizzato da schiumanti ministri contro latitanti dagli anni Settanta, capitane delle navi delle Ong o migranti sopravvissuti ai naufragi e ai campi di concentramento in Libia, è l’espressione del populismo penale. L’uso demagogico e punitivo del diritto oggi trasforma i dissenzienti, e non solo i responsabili di un reato, in criminali, nemici dell’umanità, colpevoli di condotte contrarie al volere del potere, indipendentemente dal fatto che le sue leggi rispettino i diritti fondamentali delle persone. Il “salvinismo”, variante di questo populismo, è una contraddizione nella storia dell’illuminismo giuridico di Beccaria, nucleo fondante della cultura giuridica del XX secolo. Il suo autoritarismo non è tuttavia estraneo a questa storia illuminata. Al contrario, è uno dei suoi risvolti. La legge, il potere, il diritto, l’economia non sono mai innocenti. Sono dispositivi che difendono una società intesa come un insieme di valori e interessi omogenei. Chi squarcia il sipario di questa finzione è considerato un deviante, talvolta un “nemico”. Prima che il diritto egli contraddice il “bene” che unisce la comunità. Sono tutte credenze, contrarie allo stato di diritto costituzionale, che addebitano la causa del reato a una “naturale” propensione alla devianza da parte dell’oppositore e comunque del diverso. Questa strategia risponde all’ideologia della difesa sociale, il cuore di tenebra dello Stato di diritto. Punto di arrivo di una lunga evoluzione del pensiero penalistico e penitenziario, questa ideologia organicistica riproduce un’idea astorica della società funzionale alla riproduzione del potere del momento. Formalmente difende gli interessi dei cittadini (il “popolo”). In realtà garantisce i dominanti in nome della trinità: proprietà, confini e sovranità. È in nome di queste leggi che nascono i processi di criminalizzazione guidati da chi ha il potere di definire i subalterni, i poveri o i migranti attraverso uno stigma, un’etichetta, lo status sociale di “criminale”. La critica di questa ideologia oggi è necessaria, considerata la sua aggressività e il vistoso arretramento della capacità di interpretarla e combatterla. Gli strumenti utili per realizzare una simile impresa si trovano in uno dei capolavori del pensiero critico che è stato finalmente ripubblicato. Parliamo di Criminologia critica e critica del diritto penale di Alessandro Baratta (Meltemi, pp. 311, euro 20). Insieme a Carcere e fabbrica di Dario Melossi e Massimo Pavarini; Sorvegliare e punire di Michel Foucault (Einaudi); Pena e struttura sociale di Georg Rusche e Otto Kirchheimer (Il Mulino), il libro di Baratta permette di comprendere il potere come una manifestazione del controllo sociale e del governo della forza lavoro che integra e reprime, socializza e punisce, educa e cambia la mentalità attraverso il sistema penale, il carcere, la scuola o il mercato del lavoro. Scritto nella stagione della più grande avanzata delle lotte operaie e sociali dal Dopoguerra, il libro riprende la genealogia del potere disciplinare e la analizza alla luce delle nuove tendenze del “tardo-capitalismo”, quella che più tardi sarebbe stata definita come la sua svolta “neoliberale” o “postfordista”. Baratta vede la discontinuità evidenziata nel dibattito tra Foucault e Gilles Deleuze sul passaggio dalla società disciplinare a una società del controllo. Il carcere, oggetto della sua riflessione, è considerato parte di una “rete” di poteri - definita da Foucault “panottico” - dove l’individuo ha la funzione di (auto)disciplinarsi e controllare gli altri. Strumento di inclusione ed esclusione della forza lavoro, esso fa parte di un’”economia politica della pena e della criminalità” e risponde ai “rapporti di produzione”. In questa cornice è vibrante la polemica contro la criminalizzazione dei movimenti sociali creata dal diritto penale dell’emergenza contro il terrorismo. Baratta critica i “partiti operai” (il Pci in Italia, l’Spd in Germania) che scelsero nel corso degli anni Settanta di farsi coinvolgere nella “politica dell’ordine pubblico corrispondente alla logica del capitale e dei suoi interessi”. Questa impostazione serve oggi per ricostruire la storia politica del giustizialismo. Di solito si considera solo una parte di questa storia, considerata come un’involuzione della magistratura nel suo rapporto con il potere politico. La critica del diritto penale, che è anche critica dell’uso politico del diritto fatto dai suoi attori, inserisce tali vicende nella più ampia trasformazione del capitalismo “che ha bisogno, per motivi ideologici e economici, di disoccupati e di un’emarginazione criminale”. Pubblicato nel 1982, questo libro non è solo un classico della “criminologia critica”, un approccio a cui ha dato un solido inquadramento teorico insieme a Melossi, Pavarini, Giuseppe Mosconi o Tamar Pitch in Italia. È anche uno dei più importanti contributi al rapporto virtuoso tra i saperi critici e i movimenti sociali. Questa opera ha lo stesso valore di quella di Franco e Franca Basaglia a sostegno dell’abolizione dell’istituzione totale del manicomio, quella di Foucault contro il carcere e la repressione, di Marx nella critica dell’economia politica del capitalismo o della scuola di Francoforte nella teoria critica della società. La consapevolezza della sintesi, e delle differenze tra questi approcci, emerge in un testo fondamentale tanto per gli studenti, quanto per chi è alla ricerca di una politica che passi all’attacco e non resti a difesa dei principi. Criminologia critica e critica del diritto penale è stupefacente per la sua capacità di offrire strumenti utili per smontare la strategia bipartisan del securitarismo. Si tratta dell’esito virulento della nostra società neoliberale che ha concepito il rischio come un’opportunità e consuma la libertà (economica) che pretende di produrre cancellandola con un’escalation di sanzioni, repressioni e politiche di polizia. Il libro di Baratta è un antidoto “alla Lombroso renaissance potenziata dall’uso delle gogne mediatiche sui social network e del risentimento sociale”, scrive la curatrice del volume Anna Simone. La chiave di questo classico sta nell’adottare il punto di vista delle classi subalterne, seguendo la trasformazione della loro oppressione, senza trascurare il fatto che tale oppressione è anche il risultato dell’interiorizzazione dei comportamenti che rendono i subalterni lo specchio di ciò che vuole il potere. Obiettivo della “teoria materialistica della devianza”, scrive Stefano Anastasia nella postfazione, è una “politica criminale alternativa” fino “alla prospettiva della massima contrazione e, al limite, del superamento del sistema penale”. La tensione tra la prospettiva dell’abolizionismo penale e l’adozione di un “diritto penale minimo” è uno dei punti problematici e vivi di questa ricerca. La libertà del suo autore indica comunque una tendenza alternativa al diritto penale della diseguaglianza, lo scandalo che ha generato anche il populismo penale oggi al potere. “Il programma di Baratta - scrive Dario Melossi nella prefazione al volume - ha come bersaglio il populismo penale che, inventato Oltreoceano alla fine del secolo scorso, come accompagnamento penale alle tesi neoliberiste, è infine approdato sulle nostre coste sotto le bandiere del “sovranismo”, proprio nel momento in cui Oltreoceano se ne sta cominciando a fare la critica”. “Boez-Andiamo via”, il cammino per recuperare i ragazzi difficili di Valentina Stella Il Dubbio, 24 luglio 2019 Presentata in anteprima al 49esimo Giffoni Film Festival, alla presenza del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la docu-serie “Boez-Andiamo via”, che racconta il viaggio a piedi lungo un tratto della via Francigena di sei ragazzi condannati per aver infranto la legge e in regime di detenzione, interna ed esterna. “Mi è piaciuto veramente molto - ha commentato il Guardasigilli -, la capacità del film è quella di tirar fuori le storie, ti arriva dritto al cuore. La società - ha aggiunto il ministro - deve essere sensibile nei confronti di chi nella vita non ha avuto possibilità di scegliere. Si è delinquenti per lo Stato prima ancora di avere la possibilità di sentirsi uomini e questo è un fallimento per lo stesso Stato. La rieducazione è fondamentale, è un obiettivo per gli adulti e lo deve esser ancor più per i giovani”. La serie, diretta da Marco Leopardi e Roberta Cortella e prodotta da Rai Fiction e Stemal Entertainment, racconta una sorta di pellegrinaggio che sperimenta il cammino come dispositivo di recupero, una pena alternativa già praticata in altri Paesi europei e che abbatte le percentuali di recidiva. Il viaggio inizia al Colosseo e si conclude a Santa Maria di Leuca, dopo 900 chilometri di strada. I giovani protagonisti affrontano sessanta giorni di notevole impegno fisico, di regole da seguire, di apprendimento di nuove modalità di relazione. In sala erano presenti cinque dei sei protagonisti, tutti con storie di reati alle spalle - tra carcere, affidamento, domiciliari o vita di comunità - e tutti accomunati, scrivono gli organizzatori, “dalla voglia di cambiare, di voltare le spalle al passato ed iniziare un percorso nuovo, una nuova vita finalmente normale”. Il ministro Bonafede ha poi risposto ad alcune domande che i giovani del pubblico gli hanno posto. Come mettere insieme il Codice Rosso a tutela delle donne e alcune parti del Ddl Pillon? “Il Ddl Pillon - ha risposto Il guardasigilli - è una proposta. Alcune parti non mi convincono. Ci confronteremo e vedremo il da farsi”. Il ministro ha parlato anche della nuova Squadra speciale di giustizia per i minori: “È un punto di partenza. Il mondo degli affidi dei minori è spezzettato tra competenze. I bambini, invece, devono essere protetti. Gli obiettivi della nuova Squadra sono monitoraggio e controllo su quello che accade al minore in tutto il percorso. Oggi lo Stato ha occhi aperti su quello che accade a un bambino fino a un certo punto”. Le sei puntate di “Boez” andranno in onda su Rai 3 a partire dal 2 settembre. Libia. Le Ong chiedono un’indagine sulle violenze nei Centri di detenzione Vita, 24 luglio 2019 La richiesta congiunta di Cairo Institute for Human Rights Studies, Asgi e Arci è stata recapitata alla Commissione africana sui diritti dell’uomo e contiene anche l’auspicio che si ordini al governo di unità nazionale libico di cessare immediatamente qualsiasi abuso contro rifugiati e migranti detenuti nei centri di detenzione. Cairo Institute for Human Rights Studies, Asgi e Arci hanno presentato una richiesta congiunta alla Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli affinché svolga un’indagine sulle gravi violazioni dei diritti umani che rifugiati e migranti subiscono nei centri di detenzione libici. Le tre Ong hanno anche chiesto alla Commissione, come misura provvisoria in attesa di un’indagine approfondita, di ordinare al governo di unità nazionale libico di cessare immediatamente qualsiasi abuso contro rifugiati e migranti detenuti nei centri di detenzione sparsi in varie città della Libia, tra cui Tajoura, Zawiya e Zintan. La richiesta è il risultato della stretta collaborazione e dell’unità di intenti nata tra organizzazioni africane ed europee, ed è parte di una campagna più ampia volta a contestare le politiche illegittime di contenimento dei flussi migratori, campagna intrapresa dal Cairo Institute in cooperazione con la Libyan Platform Coalition, da ASGI attraverso il progetto Sciabaca, e da ARCI attraverso il progetto #externalisationpolicieswatch. Altre azioni giudiziarie, già intentate di fronte a tribunali interni e internazionali, riguardano la responsabilità dell’Unione europea e di singoli Stati, in particolare dell’Italia, per atti quali la delega alla guardia costiera libica dei respingimenti di migranti in mare, e il contributo dato al sistema di campi di detenzione per stranieri in Libia. Le accuse contenute nella richiesta sono fondate sia su informazioni pubblicamente disponibili sia su dichiarazioni di persone che si trovano attualmente detenute nei centri di Tajoura, Zawiya e Zintan. Le loro testimonianze parlano di torture, carceri che versano in condizioni disumane e dove mancano acqua, cibo, cure mediche e assistenza legale. I tre centri sono ufficialmente gestiti dal Ministero dell’Interno del governo di unità nazionale libico con base a Tripoli e riconosciuto dalla comunità internazionale. In Libia, oltre ad una rete di oltre venti centri ufficiali, vi è un numero imprecisato di luoghi di detenzione controllati direttamente da milizie armate, nei quali i migranti subiscono sistematicamente torture e altri abusi. Le agghiaccianti violenze commesse contro gli stranieri in Libia sono state ampiamente documentate e condannate da tutte le principali agenzie internazionali, tra cui gli Alti Commissariati delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e per i Diritti Umani (Ohchr), ma anche da organizzazioni non governative del calibro di Amnesty International, Medici Senza Frontiere e Human Rights Watch. La richiesta evidenzia molteplici violazioni di diritti fondamentali garantiti dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, tra cui il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (articolo5), diritto alla libertà personale e divieto di arresti arbitrari (articolo 6) e il diritto ad un equo processo (articolo 7). Le tre Ong imputano al governo di unità libico sia le violenze commesse nei centri di detenzione ufficiali, sia la mancata prevenzione o repressione di quelle commesse dalle milizie nei centri non ufficiali. La Commissione Africana, che in questi giorni è riunita a Banjul, in Gambia, per la sua ventiseiesima sessione straordinaria, potrebbe decidere di aprire formalmente un’indagine ed eventualmente portare la situazione all’attenzione della Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli. Russia. Attivista uccisa, quando dall’omofobia si arriva all’assassinio di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 24 luglio 2019 In tutta la Federazione le violenze non si contano. E la polizia, nel migliore dei casi, non fa nulla. Incitare a “cacciare” o addirittura ad “ammazzare” esponenti di varie minoranze, in questo caso gli omosessuali, finisce quasi sempre per avere una qualche conseguenza. La Russia ce ne dà la dimostrazione palese (se mai ce ne fosse bisogno) con il barbaro assassinio dell’attivista per i diritti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) Yelena Grigoryeva. Dopo che un’organizzazione che invitava i cittadini “normali” a dare la caccia agli omosessuali aveva pubblicato il suo nome (il sito del gruppo “segare gli Lgbt” è stato poi bloccato dalle autorità), la donna è stata accoltellata e strangolata. Fatto non eccezionale nel Paese che proibisce qualsiasi propaganda Lgbt dal 2013. La motivazione ufficiale è la protezione dei minori, ma questo vuol dire che nulla è possibile, perché qualsiasi manifestazione, convegno, trasmissione, opuscolo, volantino potrebbe essere visto da un ragazzino e quindi deve essere vietato. Ma non è solo questo. La cultura dominante e il sentimento religioso diffuso sono violentemente contro queste minoranze, viste come profondamente anti-russe e capaci di minare lo spirito nazionale. In Cecenia si sono verificati decine di omicidi di Stato, tanto che negli ultimi mesi le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno invitato tutti gli omosessuali a fuggire dalla repubblica visto che gli appelli alle autorità sono stati vani. Ma anche nel resto della Federazione le violenze non si contano. E la polizia, come minimo, non fa nulla. Dopo le tante minacce, la Grigoryeva aveva fatto presentare da parte del suo avvocato una richiesta ufficiale di protezione. La risposta era stata che non esisteva un concreto pericolo per la donna. Lo abbiamo visto. Iran. Pena aumentata a due attiviste per i diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 luglio 2019 Mentre l’attenzione mondiale si concentra sulla crescente con Usa e Gran Bretagna, in Iran la repressione interna prosegue senza sosta. L’ultima pessima notizia riguarda due attiviste per i diritti umani, Atena Daemi e Golrokh Iraee Ebrahimi, che si sono viste aumentare la condanna di tre anni e sette mesi per “offesa alla Guida suprema” e “propaganda contro lo stato”. Secondo il Centro per i diritti umani in Iran, le due donne sono state punite per aver protestato, tramite una lettera aperta, contro le esecuzioni di tre prigionieri politici - Ramin Hossein Panahi, Zanyar Moradi e Loghman Moradi - avvenute nel settembre 2018 e per aver cantato l’inno rivoluzionario “Oh martire” in onore dei prigionieri messi a morte, un gesto che è stato giudicato dal giudice Iman Afshari, della 26ma sezione del tribunale rivoluzionario, un’offesa nei confronti della Guida suprema Ali Khamenei. Atena Daemi sta scontando una condanna a sette anni, inflittale nel novembre 2016, per aver incontrato familiari di prigionieri politici, aver denunciato il “massacro delle prigioni” del 1988 e aver criticato il governo su Facebook. Avrebbe potuto uscire dal carcere, grazie agli sconti di pena, il 4 luglio 2020 e la prospettiva ora è che ci passi altri anni. Le sue condizioni di salute sono preoccupanti. Ha un grumo al seno molto sospetto, che secondo i medici del carcere di Evin dovrebbe essere costantemente monitorato con mammografie ed ecografie. Ma dall’ultima volta che le è stato consentito di fare una visita fuori dal carcere sono passati mesi. Succede così a molti detenuti, purtroppo. Golrokh Iraee Ebrahimi era stata condannata a sei anni nell’ottobre 2016 per aver scritto un racconto sulla lapidazione, peraltro mai pubblicato e scoperto in bozze durante una perquisizione nel suo appartamento, sulla lapidazione: una donna vede il film “La lapidazione di Soraya M.” - basato su una storia vera - e s’indigna a tal punto da dare fuoco a una copia del Corano. Nell’aprile di quest’anno era stata inaspettatamente scarcerata su cauzione. Non è chiaro se e quando verrà chiamata a servire il resto della pena con l’aggiunta dei tre anni e sette mesi. Entrambe hanno annunciato che presenteranno appello. Cuba. La Chiesa plaude all’indulto per oltre 2.600 detenuti vaticannews.va, 24 luglio 2019 Per la Commissione nazionale della pastorale penitenziaria della Conferenza episcopale cubana, è un gesto di misericordia per il reinserimento delle persone nella società. La Commissione, insieme a vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e laici, “si unisce alle famiglie che, con gioia e affetto, accolgono i loro cari privati della libertà che sono stati beneficiati dall’indulto concesso dal Consiglio di Stato della Repubblica di Cuba a 2.604 persone”. La nota. ripresa dall’Agenzia Fides, è firmata da mons. Jorge Enrique Serpa Pérez, vescovo emerito di Pinar del Río, presidente della Commissione. Seguendo gli orientamenti della nuova Costituzione della Repubblica, che favorisce il reinserimento sociale delle persone detenute, il Consiglio di Stato ha concesso un indulto a 2.604 condannati a pene effettive di privazione della libertà. Dell’indulto usufruiranno i condannati, sempre per reati lievi, che hanno tenuto un buon comportamento durante la reclusione. Inoltre è stato valutato il tempo trascorso dalle sanzioni, i fatti per i quali sono stati condannati, l’età e le malattie di cui alcuni soffrono. Sono stati inseriti soprattutto donne, giovani e anziani. In tutti i casi si tratta di persone che hanno già scontato almeno un terzo della sanzione imposta dai Tribunali. “L’indulto, che in se stesso è un gesto umanitario di misericordia - prosegue il comunicato della Commissione - mostra come questa, essendo superiore all’animosità, favorisce il reinserimento nella società delle persone che ne beneficiano ed una migliore convivenza sociale, secondo quanto ci ha insegnato Papa Francesco nell’Anno della Misericordia e nella sua indimenticabile visita al nostro paese, nel settembre 2015, come Pellegrino di Misericordia”. Infine la nota sottolinea che questo indulto costituisce “l’occasione per sensibilizzare le comunità verso una maggiore attenzione e appoggio a questo impegno specifico della pastorale penitenziaria, che trova fondamento nell’insegnamento di Gesù: Ero prigioniero e mi avete visitato”.