Al 41bis si possono leggere i giornali non previsti dalla Circolare del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2019 Il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha accolto il reclamo di Domenico Gallico. Per il giudice l’unico divieto da rispettare è quello relativo alla stampa locale dell’area geografica di appartenenza del detenuto. Il detenuto al 41bis ha il diritto di leggere la stampa locale (che non riguarda il proprio territorio di appartenenza) e nazionale non compresa nel modello 72, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziario che ha uniformato le regole per tutti gli istituti penitenziari che ospitano il regime duro. Parliamo di un reclamo accolto dal tribunale di sorveglianza di Sassari, dove il detenuto calabrese Domenico Gallico, ristretto al 41bis del carcere sardo di Bancali, ha reclamato - tramite l’avvocata Maria Teresa Pintus - il divieto da parte della direzione dell’istituto penitenziario circa l’acquisto dei giornali locali e anche quelli nazionali che non compaiono nella circolare del 2017. Secondo il detenuto, venivano lesi i suoi diritti all’informazione e vi era stata una indebita sostituzione all’autorità giudiziaria, come contemplato dall’articolo 18 ter dell’ordinamento penitenziario. Il magistrato di sorveglianza ha osservato che tale limitazione incideva sul diritto oggettivo all’informazione (l’articolo 21 della Costituzione), ponendosi anche in conflitto con gli articoli 12 e 15 dell’ordinamento penitenziario, quelli che garantiscono ai detenuti di accedere ad attività culturali e quindi anche attraverso l’informazione. Ma non solo. Il magistrato ha osservato come l’articolo 18, modificato con il decreto 123, ribadiva la garanzia dell’informazione, mentre la valenza trattamentale emergeva anche dall’articolo 18 ter il quale prevedeva che limitazioni nella ricezione della stampa potessero essere poste solo con provvedimento dell’autorità giudiziaria e per un tempo definito. La limitazione di acquisto di giornali della Sardegna, quindi, secondo la magistratura di sorveglianza, ledeva il diritto ad informarsi sulla regione dove è ospitato il detenuto. Ha riportato, inoltre, quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, secondo la quale, reprimere la tutela di un diritto fondamentale è illegittimo se non corrisponde ad un incremento di tutela di interesse di pari rango, e riteneva che il divieto non rispondeva a effettive esigenze correlate ai flussi comunicativi. In sostanza, la magistratura di sorveglianza, ha escluso che il contenuto della stampa potesse creare un pericolo per esigenze di prevenzione: esiste l’ufficio di censura che, legittimamente, ha la capacità di controllo e può quindi trattenere pagine sospette. In sintesi, l’unica regola che andava fatta rispettare, era il divieto dei quotidiani dell’area geografica di appartenenza. Infatti, di volta in volta, il magistrato di sorveglianza - su richiesta della Direzione del carcere - ha limitato l’acquisto della sola stampa locale dell’area di appartenenza, ma non della stampa locale in assoluto. C’è anche il discorso della stampa nazionale. La circolare del 2017, in effetti, fa anche una selezione di giornali, escludendone altri. Il caso è stato sollevato proprio due anni fa da Il Dubbio. A pagina 51 della Circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, infatti, c’è la tabella dove vengono riportati nero su bianco tutti i quotidiani nazionali e le riviste consentite. Si viene così a sapere che al 41bis, i detenuti possono acquistare La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Giorno, Il Messaggero, Il Sole 24 ore, il Fatto Quotidiano e Italia Oggi. Però vengono esclusi Avvenire, Il Manifesto, Il Foglio, Il Dubbio e Il Mattino, quotidiani a tiratura nazionale che, seppur diversi tra loro, portano avanti delle critiche riguardante il nostro sistema penale. Per quanto riguarda le riviste, i detenuti al 41bis hanno varie scelte: da Chi, Di Più, passando per Diva, la Settimana Enigmistica, Panorama e l’Espresso. Mentre però non compare Ristretti Orizzonti, una rivista - conosciuta soprattutto tra gli addetti ai lavori e giornalisti che si occupano di questi temi - fatta in carcere a Padova e che informa sulla giustizia e sull’esecuzione della pena. La ratio della selezione è che vengono contemplati i soli giornali a più ampia diffusione nazionale. Anche in questo caso, il magistrato di sorveglianza è chiarissimo. Sottolinea l’esistenza di una evidente limitazione. “Per due motivi - scrive il magistrato: il concetto di quotidiani a più ampia diffusione nazionale è diverso da quello di quotidiani a tiratura nazionale. Se invece dovesse prevalere l’ipotesi tesa a far coincidere i due concetti, dovrebbe rivelarsi un contrasto tra la disposizione della circolare e le norme di legge”. Sempre secondo il magistrato, “conflitto, ovviamente, da risolvere in favore delle seconde”. Bonafede: stiamo lavorando per migliorare le carceri ansa.it, 23 luglio 2019 Il sovraffollamento nelle carceri? “La situazione è molto complessa. Sto cercando un punto di equilibrio, ma la soluzione non è, come è stato fatto in passato, “apriamo le carceri”, perché il detenuto si trova spaesato senza un percorso di recupero alle spalle. Questo è un punto in cui secondo me in passato si è sbagliato. In quei casi il rischio di recidive è altissimo”. Così il ministro di giustizia, Alfonso Bonafede, ha risposto a uno di ragazzi in platea alla presentazione della serie “Boez-Andiamo via” al Giffoni Film Festival. Su questo tema “stiamo lavorando a molti protocolli di collaborazione con i sindaci - ha aggiunto il Guardasigilli - per impiegare i detenuti in attività di pubblica utilità a Roma, Milano, Napoli, Palermo. E siccome nei nostri istituti spesso c’è poco spazio e si vive in condizioni di invivibilità, stiamo lavorando - ha concluso Bonafede - per mettere a posto gli spazi che abbiamo e per costruire nuovi istituti, più moderni, che consentano il rispetto della dignità di tutti”. Alcuni dubbi sulla riforma della giustizia di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2019 Il Ministro della Giustizia Bonafede ha presentato al Consiglio dei Ministri un disegno di legge di riforma della giustizia civile e penale che comprende anche la modifica del sistema elettorale del C.S.M. e la disciplina dei rapporti tra magistratura e politica. Per neutralizzare lo strapotere delle correnti nella scelta dei candidati e nella elezione dei componenti togati si prevede un sistema scandito su due tempi: prima si eleggono 5 candidati in ognuno dei 20 Collegi che sostituirebbero quello unico nazionale attuale e poi si procede, in ogni Collegio, al sorteggio tra i 5 candidati del suo (unico) rappresentante. Così congegnato il sistema appare in contrasto con l’art. 104/4 della Costituzione per il quale i due terzi dei componenti “sono eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”: ne deriva che la nomina non può essere affidata al fato ma va collegata alla manifestazione di volontà dell’elettore che “elegge”, cioè “sceglie” la persona che intende mandare al C.S.M. quale suo rappresentante. Se si volesse ad ogni costo mantenere il sorteggio sarebbe preferibile un meccanismo che preveda una prima fase con l’estrazione a sorte dei 5 candidati per ogni Collegio e una seconda fase con l’elezione diretta del candidato, scelto trai 5, da parte di tutti i magistrati del collegio. Resterebbe comunque sul sistema dei Collegi il dubbio di illegittimità costituzionale derivante dalla lettura della Legge fondamentale per la quale “tutte” le categorie sono elette da “tutti” i Magistrati (cioè su scala nazionale). 1) Si prevede che il magistrato candidato ma non eletto venga destinato, per cinque anni, ad uffici giudiziari di un Distretto di Corte d’appello diverso da quello dove si era presentato. In questa ipotesi la mancata elezione si risolve in una causa sopravvenuta di incompatibilità con la sede originaria sicché l’assegnazione ad un’altra sede non contrasta con la Costituzione (v. Corte Costituzionale sent. n.172/1982). 2) Si prevede che il magistrato cessato dal mandato parlamentare nazionale o europeo, ovvero dalla carica di sindaco di grandi città o di presidente di Regione cessa definitivamente di far parte della Magistratura per essere collocato a vita negli uffici del Ministero della Giustizia. Si tratta di una norma fortemente sospetta di incostituzionalità per contrasto con l’art. 51/3 per cui “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. Va ricordato che nell’Assemblea Costituente l’on. Lelio Basso, relatore del Titolo IV - Rapporti politici sottolineò: “Per questa norma costituzionale è garantito ad ogni cittadino di ritrovare il suo posto di lavoro quando sia cessato l’ufficio pubblico cui sia stato chiamato: disposizione nota già alla Costituente di Weimar, e necessaria perché i diritti politici non siano resi vani per la più larga parte della popolazione” (Atti C.C. vol. II pag. 11). In conclusione: il “suo posto di lavoro” non può significare altro che il posto dove il magistrato, prima di essere eletto, esercitava la sua funzione di giudicante o di requirente e nel quale ha diritto di rientrare senza essere penalizzato per avere esercitato il diritto politico di elettorato passivo garantito dall’art. 51/1 della Costituzione. Il nodo della fiducia sul decreto sicurezza di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2019 Ancora ieri il leader leghista manteneva un clima da crisi virtuale e lasciava tutti sul filo: colpiva e affondava Toninelli, additava i 5 Stelle come “quelli del no”, prendeva le distanze dall’Europa non partecipando al vertice Ue sui migranti. Come se si stesse sfilando piano piano per prepararsi al colpo di teatro. Sarà domani? Questa è la nuova data clou e anche in questa circostanza il ministro dell’Interno ha scelto di starsene lontano: ha fatto sapere che ascolterà dai banchi della Lega - e non del Governo - il discorso di Conte al Senato quando parlerà della collocazione internazionale dell’Italia e della vicenda dei presunti fondi russi in cui è coinvolto Savoini, collaboratore di Salvini. L’attenzione è quindi su questo passaggio, se davvero diventerà il luogo della fine. E il tema potrebbe essere anche la diversa posizione sull’Europa, visto il sì dei 5 Stelle - sostenuti da Conte - sulla presidente della Commissione Ue e il “no” della Lega. C’è da dire però che nello stesso giorno e quasi nelle stesse ore - alla Camera - si potrebbe votare la fiducia sul decreto sicurezza bis, che è la bandiera del ministro leghista per la lotta all’immigrazione. Si deciderà oggi se chiederla o no ma questo è un altro passo verso il chiarimento perché chi immagina che il ministro dell’Interno possa fare la crisi in occasione del discorso del premier, deve pure immaginare che contestualmente la Lega non voti la fiducia affossando la loro legge simbolo. Il provvedimento dovrà poi passare all’esame del Senato previsto per i primi di agosto e i 5 Stelle ci stanno già lavorando, perché potrebbero mancare alcuni “sì” di senatori grillini da sempre ostili alla politica migratoria di Salvini. Se, insomma, il decreto avesse il via libera grazie ai voti della Meloni e di Forza Italia, sarebbe quello il casus belli, la prova conclamata di un cambio di maggioranza. L’altro fronte è il dossier sull’autonomia su cui però Conte sta facendo di tutto per ricucire dopo l’aspro scontro con i Governatori del Nord. A Palazzo Chigi fanno sapere che si sta preparando un incontro ma molto dipenderà dalle intenzioni di Salvini sul destino del Governo. Anche se la via della rottura è disturbata da alcuni elementi. Il più importante sono le inchieste giudiziarie. Ieri sono venute fuori nuove intercettazioni sul caso Siri, l’ex sottosegretario molto vicino al leader leghista, mentre si aspetta l’uscita di nuove carte sul Russiagate. Intanto nei 5 Stelle si pensa che quella di Salvini sia una posizione negoziale e non di rottura. E che sul tavolo ci sia un rimpasto - a partire da Toninelli - il Commissario Ue e l’autonomia. Scartato che si possa chiedere l’uscita di Conte visto che si dovrebbe passare da una crisi e da un nuovo voto parlamentare. Tutto più lungo e più incerto di un rimpasto. Anche se i leghisti continuano a dire che la crisi è possibile fino al io agosto: si andrebbe a votare a metà ottobre, le Camere si riunirebbero i primi di novembre, nascerebbe un nuovo Esecutivo a metà mese per approvare il bilancio a fine anno. È che nel Carroccio la voglia di crisi è talmente forte che sfida il tempo. Per qualche inchiesta in più di Michele Ainis La Repubblica, 23 luglio 2019 Un’inchiesta sull’inchiesta. È l’ultimo colpo di genio della politica italiana: l’istituzione di una commissione parlamentare per indagare sui fattacci di Moscopoli, rubando il mestiere alla procura di Milano. La chiede il Pd, che ha già depositato un disegno di legge nell’aula del Senato. La chiedono, a loro volta, i 5 Stelle, che tuttavia non vogliono puntare il dito contro i loro alleati di governo, sicché ne allargano lo spettro a tutti i partiti, passati, presenti, futuri, futuribili. E a queste condizioni ci sta pure la Lega: hai visto mai, magari saltano fuori le prove che Togliatti fu una spia del Kgb. “Ho poche idee, ma confuse”, disse una volta Flaiano. Invece i nostri politici hanno un’idea sola, però fissa come un chiodo. Difatti le inchieste battezzate dalle Camere nella legislatura scorsa hanno segnato un record: 16. Ma questa legislatura promette ancora meglio: 87 proposte di legge per altrettante commissioni, senza contare quelle già alacremente al lavoro. Un lavoro da Maigret, più che da Giustiniano, il legislatore del tempo che fu. Un’eccezione alla separazione dei poteri, dato che il potere d’indagine spetta alla magistratura. Dunque un istituto eccezionale, da spendersi soltanto in casi straordinari. E infatti nel primo decennio della storia repubblicana le inchieste parlamentari furono in tutto 3. Adesso, a quanto pare, l’eccezione si è convertita in regola. Come del resto accade rispetto ad altri congegni che i costituenti brevettarono per le situazioni d’emergenza: il decreto legge, per citarne uno soltanto. Evidentemente in Italia l’emergenza è una condizione permanente. Tuttavia in questo caso il problema sta nel merito, prima che nel metodo. Quale delitto dovrebbe mai scoprire la futura commissione, se non ci riescono i giudici inquirenti? Tangentopoli venne scoperchiata da un’inchiesta giudiziaria, non parlamentare. E oltretutto la magistratura è (dovrebbe essere) imparziale, mentre ogni partito è sempre di parte, come dice la parola. C’è infatti un interesse partigiano, una motivazione estranea ai fatti, dietro quest’ultima trovata. Per il Pd una prova d’esistenza in vita, come quella chiesta dall’Inps ai pensionati residenti all’estero. Per i 5 Stelle la prova d’essere diversi, marziani sbarcati sulla terra. E magari, per tutti gli altri partiti, qualche posticino in commissione, un’occasione per fare propaganda, un sentimento di rivalsa contro i magistrati. A sprezzo della logica, oltre che della buona creanza. Giacché se l’inchiesta vuole far luce sugli approvvigionamenti illeciti dei partiti, affidarne il timone alla politica è come chiedere al ladro d’imbastire un processo su se stesso. Eppure anche le idee insensate possono avere un senso. I costituzionalisti distinguono le indagini sviluppate dalle Camere in due categorie: inchieste politiche e legislative. Le prime mirano ad accertare colpe e colpevoli; le seconde ad acquisire informazioni utili all’attività legislativa. Ne offrì un esempio l’inchiesta agraria del 1881; o ancora, in età repubblicana, quella sulla giungla retributiva del 1975, così come l’inchiesta sulla miseria del 1952, i cui atti riempiono 14 volumi. E non è forse il caso del finanziamento pubblico ai partiti? Non è giunto il momento d’interrogarsi sull’esigenza di una nuova disciplina, dopo averne vietato l’uso per reprimere l’abuso? Un paio di mesi fa provò a rilanciare la questione Luigi Zanda, senatore del Pd; ma fu crocifisso in pubblico, anche dal suo partito. Ciò nonostante la democrazia costa, benché di questi tempi ricordarlo suoni impopolare. Ecco, vediamo quanto costa. La rivoluzione fallita di Borrelli e le sue conseguenze di Arturo Diaconale L’Opinione, 23 luglio 2019 Il capo della rivoluzione giudiziaria non era un rivoluzionario. Francesco Saverio Borrelli si era ritrovato casualmente in mano lo strumento per determinare una svolta autenticamente rivoluzionaria nella storia del secondo dopoguerra italiano cancellando la Prima Repubblica dei partiti e sostituendola con la repubblica fondata sul regime delle toghe “illuminate” e non elette dal popolo. Ma aveva provocato consapevolmente la distruzione dell’assetto politico fondato sulla democrazia parlamentare senza però avere la capacità di passare dal colpo di stato alla instaurazione del nuovo regime di cui aveva gettato le basi insieme al Pool di “Mani Pulite”. Oggi la scomparsa di Borrelli diventa l’occasione, secondo la consuetudine corrente, per celebrarne tutte le qualità umane e private del personaggio. Ma volendo dare un giudizio rigorosamente politico e storico dell’operato pubblico dell’artefice principale della cosiddetta rivoluzione giudiziaria, si deve necessariamente concludere che si trattò di un rivoluzionario inconsapevole e fallito. Pronto e tempestivo nel distruggere ma totalmente incapace di costruire. Naturalmente, dal punto di vista di chi come me ha scritto nel 1995 il primo libro dedicato al cosiddetto golpe giudiziario (“Tecnica post-moderna del colpo di stato: magistrati e giornalisti”), quella incapacità di essere rivoluzionario fino in fondo, è stata salutare. Il Paese ha avuto la fortuna di non finire sotto un regime autoritario formato da magistrati-colonnelli convinti di avere una missione salvifica da portare avanti con la spada della giustizia fiammeggiante, ma del tutto ignari dei problemi e delle necessità reali del Paese. Questo fallimento della rivoluzione non è minimamente dipeso dalla fedeltà ai valori della libertà e della democrazia. Valori che in Borrelli e nei componenti del suo Pool erano del tutto assenti. Ma solo dalla mancanza assoluta di capacità politica. Se fossero stati dei Khomeini, oggi l’Italia sarebbe retta da un sistema teocratico e totalitario simile a quello komeinista iraniano. Ma Borelli ed i suoi erano e sono rimasti dei magistrati buoni ad esondare nel campo della politica, ma geneticamente impossibilitati a trasformare l’esondazione in un qualche risultato politico stabile. Questo deficit genetico, va ribadito, è stato salutare. Ma è anche il responsabile del caos istituzionale dei 25 anni successivi alla fine dalla rivoluzione giudiziaria fallita. Il caos di uno stato di diritto che non è più tale per via di un populismo giudiziario nato alla metà degli anni Novanta e che tiene paralizzato il Paese agli equivoci ed alle incapacità di quel tempo. Forse è arrivato il momento non solo di dare pietà ai morti, ma anche di dare speranza ai vivi di un sollecito ritorno allo stato di diritto senza esondazioni di sorta. Borrelli, l’aristocratico che rese feroce il populismo giudiziario di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 23 luglio 2019 Quarantuno indagati di “Mani pulite” si sono suicidati, molti altri sono stati assolti: se il giudice soffrì lo fece in silenzio. La morte del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli ha ricreato quel partito di laudatori formato da inquisitori, direttori di giornali e tv e politici codardi, che negli anni 1992-93 mise in scacco la democrazia e inventò il populismo giudiziario. Al funerale della nostalgia abbiamo rivisto in lacrime Di Pietro, cui qualcuno ha prestato la toga che lui lascò nel 1994, abbracciato a Gherardo Colombo, il più aristocratico del pool, che sentenzia come la corruzione oggi sia peggio di ieri. Che è poi quel che pensa Davigo, e cioè che i politici ancora in libertà sono i colpevoli non ancora scoperti. L’unica novità, in questo clima di rimpianti, è che la “società civile”, quella che manifestava con le fiaccole gridando “Borrelli facci sognare” oggi alla commemorazione non c’è. Ha altri problemi. E non sappiamo se nella memoria sia rimasto il Borrelli dei suoi primi sessant’anni di vita, o quello di “Mani pulite”, orribile espressione da Stato etico. Sul procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli avevo scritto nel 1995 la prefazione all’Autobiografia di un inquisitore” (non autorizzata) di Giancarlo Lehner. Un libro forte, che ricambiava senza troppi riguardi la ferocia dei metodi che avevano distrutto per via giudiziaria la classe politica di governo della Prima repubblica. Metodi e anche linguaggio. Chi avrebbe mai potuto prevedere che una persona definita “scialba”, ma anche “per bene”, piuttosto che mite, elegante e gentile e colta come il dottor Borrelli, si sarebbe trasformata in un capo procuratore che dice senza pudore una frase come questa: “Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Il fine che giustifica il mezzo, sulla bocca di un inquisitore, può portare al paradosso, al di là delle intenzioni, di giustificare “qualunque” mezzo, fino alla tortura o alla pena di morte, per raggiungere lo scopo. La frase del procuratore aveva in sé anche una sua crudeltà, se pensiamo a quanti, dopo le inchieste di “mani pulite” e dopo una lunga e ingiusta carcerazione preventiva, sono stati assolti e ai quarantuno che si sono suicidati. La mia prefazione al libro l’avevo dedicata a uno di loro, quel Gabriele Cagliari che avevo incontrato nel carcere di San Vittore pochi giorni prima della morte, che era di buon umore perché pensava di uscire e che un’altra crudeltà aveva poi portato a un altro destino. Non ricordo che nessun magistrato della procura (tranne Antonio Di Pietro) abbia mai pronunciato parole di compassione nei confronti dei tanti morti di Tangentopoli, anche se oggi la figlia del procuratore Borrelli, in un’intervista al Corriere, dice che il padre soffrì per i suicidi. All’epoca, se soffrì, lo fece in silenzio. Eppure il Borrelli di “mani pulite”, il Borrelli che inneggiava alle manette come strumento per raggiungere la verità, il Borrelli che nel 1994 disse esplicitamente a Silvio Berlusconi “chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”, e che subito dopo il trionfo di Forza Italia, si offrì al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio dci complemento”, non era il Borrelli che avevo conosciuto io. Prima. Ma prima era prima. Ero cronista giudiziaria fin dagli anni settanta, il palazzo di giustizia di Milano era la mia seconda casa. Da quando era diventato procuratore capo della repubblica, il dottor Borrelli mi vedeva ogni mattina e sapeva con certezza che la mattina successiva sarei stata lì, con la petulanza del cronista, a tormentarlo per avere notizie. Pure un pomeriggio, con sorpresa mia e dei miei colleghi, lui si avventurò nello scantinato di via Sottocorno dove c’era la redazione milanese del Manifesto, per una piccola precisazione su un mio articolo. Non una smentita, ma una puntualizzazione. E si era spinto fino al nostro sotterraneo, scusandosi molto, quasi con timidezza, solo per chiarire un punto di non so quale inchiesta. Quello era il Borrelli che mi era sempre piaciuto. Ma poi le inchieste di “mani pulite” hanno cambiato tutto, hanno cambiato le persone e prodotto un impazzimento generale. Fino al famoso “Resistere resistere resistere come sulla linea del Piave”, la sua relazione da procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002, un vero proclama politico che diventerà, purtroppo, il suo testamento prima della pensione. In quello stesso discorso Francesco Saverio Borrelli contribuì a creare una situazione da stadio, con gente che applaudiva, magistrati in toga nera su indicazione del loro sindacato, politici che lasciavano l’aula, e lui che arringava, scagliandosi contro il governo. E mentre tuonava contro la separazione della carriere usando anche l’argomento più frusto, cioè il timore di una sottoposizione del pm all’esecutivo, nello stesso momento assumeva lui stesso, lui capo di tutti i pubblici ministeri, il ruolo del leader politico dell’opposizione. Non era mio amico, il dottor Borrelli, come lo era stato invece il suo vice Gerardo D’Ambrosio, che mi aveva deluso in modo più bruciante. Non era mio amico ma l’avevo sempre rispettato. E spero che, nei momenti in cui si comincia a fare i conti con la propria vita, nella sua memoria sia prevalsa la storia di se stesso come la persona gentile e mite che io avevo conosciuto e che un giorno si era avventurata nello scantinato del Manifesto. A me piacerebbe poterlo ricordare così. Anche se è difficile. Formigoni va ai domiciliari. “Ha compreso gli errori” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 23 luglio 2019 Il Tribunale di sorveglianza accoglie l’istanza dell’ex presidente lombardo. Durante questi cinque mesi di detenzione Roberto Formigoni ha iniziato un “percorso di resipiscenza” che per la prima volta dopo anni lo ha portato al “riconoscimento del disvalore delle sue condotte poste in essere”. In questo periodo, nel chiuso della cella del carcere di Bollate, l’ex presidente della Regione Lombardia, condannato in via definitiva per corruzione a cinque anni e dieci mesi nel processo sulle Fondazioni Maugeri e San Raffaele, ha riletto la vicenda “comprendendone gli sbagli, i comportamenti superficiali come le vacanze in barca. Il carcere ha sollecitato in lui un notevole sforzo di adattamento, consolidato da elementi tra cui la fede e dall’attività di volontariato nella locale biblioteca”. Sono questi alcuni dei passaggi salienti del provvedimento con cui ieri il giudice del Tribunale di sorveglianza di Milano Gaetano La Rocca, lo stesso che aveva presieduto il collegio che in primo grado lo condannò a sei anni, ha accolto la richiesta di concessione dei domiciliari avanzata da Formigoni. L’istanza era stata discussa la scorsa settimana dai difensori Luigi Stortoni e Mario Brusa. Intorno alle 14 l’ex governatore ha così lasciato il carcere alle porte di Milano per raggiungere la casa di un suo amico medico, che lo ospiterà e lo aiuterà anche economicamente. Sostegno necessario, giacché Formigoni non può più nemmeno comprarsi da mangiare: tutti i suoi averi sono stati confiscati. Il collegio, di cui facevano parte la stessa presidente del Tribunale di sorveglianza, Giovanna Di Rosa, e due esperti, ha anche apprezzato il “basso profilo” tenuto in carcere da Formigoni con gli altri detenuti che, in quanto ex politico, gli hanno fatto in questi mesi molte richieste a cui non è stato dato alcun seguito. Formigoni è stato autorizzato poi a svolgere del volontariato presso un istituto religioso. “Il giudice ha accolto in pieno le nostre richieste - ha spiegato l’avvocato Stortoni - riconoscendo che effettivamente Formigoni non ha più la possibilità di collaborare sui fatti di cui era stato accusato. Ha evidenziato che Formigoni era stato assolto per l’associazione a delinquere e i pm non avevano fatto neanche ricorso. Il sostituto pg Nicola Balice aveva dato il suo parere favorevole ai domiciliari”. Nel provvedimento si riportano anche le dichiarazioni rese durante l’udienza dall’ex governatore: “Mi conformo alla sentenza di condanna - aveva detto - e comprendo il disvalore dei miei comportamenti: la mia riflessione sui fatti del processo si è accresciuta in carcere”. I giudici hanno quindi valorizzato il suo “percorso di cambiamento”, sottolineando come possa essere ammesso ai benefici penitenziari, e in questo caso ai domiciliari da ultrasettantenne (ha più di 72 anni) giacché “il presupposto della collaborazione è impossibile”. Il carcere, infatti, sarebbe stato ancora necessario se avesse potuto collaborare con nuovi elementi e ciò a prescindere dell’applicazione, retroattiva o meno, della legge “spazza-corrotti”, i cui profili di illegittimità costituzionale non sono stati affrontati dal collegio. Per i giudici, anche se è “pacifico” che Formigoni non ha collaborato nelle indagini e nel processo, non ci sono ora più “spazi” per farlo, anche perché i pm di Milano hanno portato solo “presunzioni” e non elementi “per fondare una possibilità” di collaborazione. Anzi, il processo ha ricostruito tutti gli elementi “con pignoleria”. Formigoni era in carcere dal 22 febbraio. Sulla questione di costituzionalità della “spazza-corrotti”, in vigore dallo scorso gennaio, bisognerà a questo punto attendere la pronuncia della Consulta. Al momento sono sei i Tribunali che si sono rivolti alla Corte costituzionale, sia per l’irragionevolezza sia per la retroattività della norma. Incostituzionale vietare la detenzione domiciliare speciale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2019 Per la Consulta la revoca della semilibertà non li impedisce. Sono incostituzionali quelle parti di commi che prevedono la mancata concessione, per la durata di tre anni, della detenzione domiciliare speciale al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa. È la sentenza del 18 luglio scorso emessa dalla Corte Costituzionale. È accaduto che, con ordinanza del 13 luglio 2018, la Cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 29, primo comma, 30, primo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58- quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui (detti commi]), nel loro combinato disposto, prevedono che non possa essere concessa, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47quinquies della stessa legge n. 354 del 1975, al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma, della legge medesima”. Nel caso di specie, il ricorrente R. G. aveva subito la revoca della misura alternativa della semilibertà, e l’istanza da questi formulata - un anno e otto mesi più tardi - di essere ammesso alla detenzione domiciliare speciale era stata dichiarata inammissibile dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano esclusivamente sulla scorta del mancato decorso del termine triennale fissato all’art. 58- quater, comma 3, dell’ordinamento penitenziario. Contro tale decisione di inammissibilità, il condannato aveva proposto ricorso per Cassazione, rilevando che la misura alternativa della detenzione domiciliare speciale non è espressamente richiamata dall’art. 58quater, comma 1, ordin. penit., e che, pertanto, non potrebbe essere oggetto della preclusione stabilita dal comma 3, per cui la pregressa revoca della misura alternativa della semilibertà non potrebbe essere, di per sé, ostativa alla valutazione nel merito dell’istanza proposta dal condannato. La Cassazione ha quindi dubitato della legittimità costituzionale dell’automatismo preclusivo rispetto alla concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare speciale, che le disposizioni menzionate stabilirebbero per un periodo di tre anni a carico del condannato nei cui confronti sia stata revocata altra misura (in particolare, dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare o della semilibertà) precedentemente concessagli. Alla base dell’intera giurisprudenza della Corte costituzionale, relativa, da un lato, alla detenzione domiciliare ordinaria per esigenza di cura dei minori e, dall’altro, alla detenzione domiciliare speciale, sta il principio per cui “affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata in concreto e non già collegata ad indici presuntivi che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni” (sentenza n. 239 del 2014)”. Secondo la Consulta, tale principio non può che condurre a ritenere costituzionalmente illegittimo anche l’automatismo preclusivo derivante dal combinato disposto delle disposizioni censurate, così come interpretate dal giudice rimettente. Il passare del tempo favorisce il diritto all’oblio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 19681/2019. Quando il cronista diventa storico, allora il diritto all’oblio si rafforza. Ovvero, la pubblicazione di un articolo che, a distanza di anni, ripropone, con nome e cognome del protagonista, fatti ormai passati, non è legittima. A meno che si tratti di personaggi tuttora di pubblico interesse. A queste conclusioni arriva un’importante sentenza delle Sezioni unite civili, la numero 19681 depositata ieri sul confine che passa tra diritto all’oblio e diritto d’informazione. Il caso approdato sino in Cassazione è a suo modo esemplare e riguarda un articolo su un caso di omicidio in ambito familiare verificatosi nel 1982. Il colpevole aveva nel frattempo scontato i 12 anni di reclusione cui era stato condannato e, di fronte alla pubblicazione, aveva lamentato danni sia psicologici sia patrimoniali. Le sue richieste erano state respinte dai giudici di merito. In particolare, la Corte d’appello aveva osservato che la pubblicazione era avvenuta nel contesto di una rubrica settimanale nella quale venivano rievocati 19 omicidi del passato, particolarmente efferati, e che non c’era alcuna volontà di riproporre una condanna, questa volta mediatica, a carico del colpevole. Si era piuttosto in presenza di un progetto editoriale da fare rientrare nel diritto costituzionale di cronaca, di libertà di stampa e di espressione. Le Sezioni unite però non sono state esattamente di questo avviso e hanno annullato la sentenza impugnata, rinviando la nuova decisione alla Corte d’appello che però dovrà tenerne presente le conclusioni. Che arrivano dopo avere delimitato il punto di partenza: per le Sezioni unite cioè, in discussione c’è il diritto di chi desidera non vedere nuovamente pubblicate notizie su vicende in passato legittimamente diffuse, almeno non quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione. Le Sezioni unite puntualizzano poi che, in caso di ripubblicazione di quanto a suo tempo rivestiva interesse pubblico, il giornalista non sta esercitando il diritto di cronaca quanto quello alla rievocazione storica di quei fatti. Questo non esclude, ammette la sentenza, che possano insorgere elementi nuovi per cui la notizia ritorni di attualità, ma “in assenza di questi elementi, però, tornare a diffondere una notizia del passato, anche se di sicura importanza in allora, costituisce esplicazione di un’attività storiografica che non può godere della stessa garanzia costituzionale che è prevista per il diritto di cronaca”. Certo l’attività di rievocazione storica è preziosa per una collettività: ne ripercorre fatti e personaggi che ne possono rappresentare l’anima. Ma, a meno che non riguardi protagonisti che hanno rivestito e rivestono tuttora un ruolo pubblico, “deve svolgersi in forma anonima, perché nessuna particolare utilità può trarre chi fruisce di quell’informazione dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto”. In altre parole, mettono in evidenza le Sezioni unite, l’interesse a conoscere un fatto, espressione del diritto a informare e a essere informati, “non necessariamente implica la sussistenza di un analogo interesse alla conoscenza dell’identità della singola persona che quel fatto ha compiuto”. Di più. Le Sezioni unite precisano che non può essere messa in discussione la decisione editoriale di pubblicare, con cadenza settimanale, nell’arco di un certo periodo di tempo, la ricostruzione storica di una serie di fatti criminali che ha impressionato la vita di una collettività. Però toccherà all’autorità giudiziaria verificare l’esistenza di un interesse qualificato alla diffusione con riferimenti precisi alla persona o alle persone che di quegli eventi furono protagoniste sì, ma in un’epoca ormai passata. Infatti l’identificazione personale che allora certo rivestiva un’importanza evidente, adesso potrebbe diventare irrilevante per l’opinione pubblica, una volta che il tempo è trascorso e la memoria collettiva è sbiadita. Lo stalking condominiale può portare in prigione di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 28340/2019. Va in prigione chi fa “stalking condominiale”. In base all’articolo 612 bis del Codice penale è compiuto da chi, con condotte reiterate minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia e di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La norma è finalizzata a tutelare la piena libertà della vita dei cittadini nei confronti delle illeciti pressioni e degli illeciti condizionamenti di terzi e sono previsti aumenti di pena se i fatti sono commessi: dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, nei confronti di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità definita dall’articolo 3 della legge 104/1992, con l’uso di armi o da persona travisata. Il vicino pericoloso - Le conseguenze del reato commesso all’interno del condominio sono assai gravi perché nei confronti del colpevole può essere emessa un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. È la conclusione della Corte di cassazione (sentenza 28340/2019), che ha confermato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere nei confronti di alcuni condòmini che avevano pesantemente minacciato i vicini, all’interno delle parti comuni condominiali, in modo da cagionare un fondato timore per l’incolumità loro e dei loro familiari e da fare loro cambiare le abitudini di vita. Molestatori in carcere - La Corte di cassazione afferma che la misura custodiale in carcere disposta nei confronti degli imputati molestatori era giustificata poiché gli stessi compivano anche atti incendiari e di danneggiamento degli immobili dei vicini, tali da determinare nel condominio un grave clima di intimidazione. Infatti l’elemento soggettivo del reato si realizza con il dolo generico, consistente nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e di molestia nella consapevolezza delle conseguenze dannose che provocano sulle parti offese. Il tipo di reato - È un reato abituale di evento che deve essere unitario, in quanto esprime un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti illeciti. Inoltre può essere realizzato anche in modo graduale, non essendo necessario che l’agente fin dal principio si rappresenti e voglia la realizzazione della serie degli episodi. La Corte di cassazione sostiene che integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, le quali siano idonee a costituire la reiterazione richiesta dall’articolo 612 bis del Codice penale, in quanto non è necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata serie temporale. Di fronte a un tale quadro indiziario la Corte conferma il giudizio del tribunale il quale riteneva sussistenti le ragioni cautelari per disporre la custodia cautelare in carcere nei confronti dei condòmini persecutori e molestanti, unica misura ritenuta idonea a interrompere la progressione criminoso e i reati e per evitare che venissero portati ad ulteriori e più gravi conseguenze in danno dei vicini - parti offese. Sequestro di persona per chi rinchiude i pazienti psichiatrici in camera di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2019 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 22 luglio 2019 n. 32803. Mano pesante della Cassazione contro un operatore sanitario che ha maltrattato i pazienti con gravi handicap psichiatrici. La vicenda - I Supremi giudici, con la sentenza n. 32803/19, hanno chiarito come dovesse essere confermata la sentenza dei giudici di merito con la condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione perché l’operatore aveva usato metodi aggressivi contro i degenti. In particolare li aveva immobilizzati, li aveva presi a ceffoni per farli alimentare, si era completamente disinteressato della loro igiene personale e del loro abbigliamento. Come se non bastasse aveva posto un materasso a ridosso della porta di ingresso della loro camera tanto da impedire la loro uscita, con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di poteri inerenti un pubblico servizio. L’infermiere aveva proposto ricorso contro la decisione anche se i giudici di merito avevano ben motivato la decisione. E in particolare - si legge nella sentenza della Cassazione - non era possibile rimettere in discussione il comportamento del soggetto condannato. Dall’istruttoria, infatti, era emerso che si trattava di modalità abituali, poste in essere dall’operatore presso la struttura per non essere disturbato durante il servizio notturno. In sostanza la limitazione della possibilità di uscire dalla stanza, secondo la Corte territoriale, aveva la connotazione tipica del sequestro di persona, che si differenzia dalla violenza privata, con cui in comune ha l’elemento della coercizione. La tecnica del materassino, hanno poi osservato i giudici di merito, ha ostacolato di fatto la libertà di movimento dei pazienti. Proprio per questo la Cassazione non ha potuto riqualificare la condotta come violenza privata, anziché sequestro di persona. Le conclusioni - Si legge nella sentenza dei giudici di piazza Cavour che il delitto di violenza privata ha in comune con il delitto di sequestro di persona l’elemento materiale della costrizione, ma se ne differenzia perché in esso viene lesa la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo. Nel sequestro di persona, invece, viene lesa la libertà di movimento come ampiamente dimostrato dalla tecnica del materassino. Respinto così l’appello con condanna al pagamento delle spese del procedimento. Spetta l’assegno sociale al cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2019 Assistenza e beneficenza pubblica - Prestazioni assistenziali - Assegno sociale - Straniero extracomunitario - Spettanza - Allontanamento momentaneo - Irrilevanza. Al cittadino extracomunitario in possesso del permesso del permesso di soggiorno spetta l’assegno sociale anche se si è allontanato temporaneamente dall’Italia. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 5 luglio 2019 n. 18189. Assistenza e beneficenza pubblica - Prestazioni assistenziali - In genere assegno sociale - Straniero extracomunitario lungo-soggiornante - Spettanza - Condizioni - Residenza anagrafica in Italia - Necessità - Esclusione. Lo straniero extracomunitario ha diritto al riconoscimento dell’assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, alla sola condizione del possesso della carta di soggiorno a tempo indeterminato, ora permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo, senza che sia necessaria anche la residenza anagrafica in Italia. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 4 giugno 2019 n. 15170. Assistenza e beneficenza pubblica - Prestazioni assistenziali - In genere - Assegno sociale - Cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno - Diritto al beneficio - Allontanamento temporaneo - Irrilevanza - Fondamento. Ai fini del riconoscimento dell’assegno sociale, l’equiparazione tra cittadini italiani residenti in Italia e stranieri titolari di carta o di permesso di soggiorno, prevista dall’art. 39, comma 1, della l. n. 40 del 1998, non richiede per questi ultimi il requisito della stabile dimora, sicché è irrilevante l’allontanamento temporaneo dello straniero in possesso dei predetti requisiti, in quanto, ove si versi in tema di provvidenza destinata a fare fronte al sostentamento della persona, qualsiasi discrimine fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive violerebbe il principio di non discriminazione posto dall’art. 14 della Convenzione dei diritti dell’uomo. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 29 agosto 2016 n. 17397. Assistenza e beneficenza pubblica - Prestazioni assistenziali - In genere - Cittadino straniero legalmente soggiornante in Italia - Assegno sociale - Carta di soggiorno - Titolarità - Necessità - Fondamento. In materia di assegno sociale di cui all’art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995 non è irragionevole la previsione dell’art. 80, comma 19, della l. n. 388 del 2000, applicabile “ratione temporis”, laddove ne subordina la concessione agli stranieri, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, al requisito della titolarità della carta di soggiorno, trattandosi di emolumento che prescinde dallo stato di invalidità e, pertanto, non investe la tutela di condizioni minime di salute o gravi situazioni di urgenza. • Corte di cassazione, sezione Lavoro, sentenza 30 ottobre 2015 n. 22261. Sardegna: detenute costrette al trasferimento per l’osservazione psichiatrica Ristretti Orizzonti, 23 luglio 2019 Caligaris (Sdr): rischiano l’isolamento. “L’assenza di un Reparto di Osservazione Psichiatrica per le donne negli Istituti Penitenziari sardi pesa gravemente sulle detenute e le loro famiglie facendo venire meno il principio della regionalizzazione della pena e limitando gravemente i colloqui settimanali e gli affetti. Un aspetto quest’ultimo particolarmente importante per persone fragili e spesso a grave rischio suicidario”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso dai familiari del trasferimento a Barcellona Pozzo di Gotto della loro figlia M.S., 35 anni, per effettuare un mese di osservazione psichiatrica disposto dal Tribunale di Cagliari per un eventuale pronunciamento di incompatibilità alla detenzione. “In Sardegna - osserva - assistiamo troppo spesso a situazioni paradossali che mettono in crisi anche la Magistratura. Sono stati infatti realizzati quattro nuovi Istituti Penitenziari con un notevole investimento ma non sono stati dotati dei necessari strumenti per una diagnosi psichiatrica al femminile. In particolare sono state costruite ex novo due Case Circondariali, a Cagliari-Uta e a Sassari-Bancali, dove sono state trasferite le detenute, prima ospiti anche di Nuoro e Oristano. Si tratta complessivamente di 41 donne su 2189 detenuti che dispongono solo di una sezione femminile senza centro clinico. L’assenza di celle collocate in un’area apposita per la valutazione psichiatrica comporta l’impossibilità da parte dei Magistrati di poter assegnare, quando si renda necessaria, l’osservazione in Sardegna”. “Particolare perplessità ha espresso la madre della detenuta - sottolinea Caligaris - che ha voluto manifestare il suo disappunto con una toccante lettera in cui tra l’altro esprime viva preoccupazione per le condizioni psicologiche della figlia, per la lontananza dalla famiglia e per le modalità in cui è avvenuto il trasferimento”. “Mia figlia - ha scritto E.M. - è stata trasferita senza vestiario e biancheria intima, senza denaro. Per tre giorni, fino a che non ha potuto telefonare, non sapevamo neppure dove si trovava. Ciò nonostante la sua legale Herica Dessì si sia prodigata per avere notizie. Una situazione che ci ha provocato profonda angoscia. Soltanto oggi è partito il pacco con il suo vestiario. Tutto questo non ci sembra rispondere a condizioni adeguate per una persona con gravi problemi di equilibrio psichico. Sappiamo che nostra figlia soffre moltissimo l’allontanamento dai familiari e temiamo per la sua incolumità”. “Non riteniamo - conclude la presidente di SDR - che le carceri della Sardegna debbano distinguersi per questa ulteriore pecca. Rivolgiamo quindi un appello ai rappresentanti istituzionali ed in particolare ai Parlamentari affinché anche l’isola possa disporre di almeno una cella per l’osservazione psichiatrica delle detenute mettendo fine una volta per tutte a queste soluzioni gravose, destabilizzanti per le persone affette da disturbi psichici e per i loro familiari e contrarie a principi sanciti dalla norma costituzionale e dall’ordinamento penitenziario”. Firenze: celle più umane a Sollicciano (ma tra tre anni) di Mauro Bonciani Corriere Fiorentino, 23 luglio 2019 Nuova caldaia, nuovi infissi e pannelli fotovoltaici: i lavori inizieranno nell’autunno del 2020. “Il tema dei diritti deve occupare i primi posti dell’agenda di ogni amministratore. E sicuramente i detenuti non possono essere cittadini di serie B”. Così in Regione è stato spiegato l’accordo che grazie a 4 milioni di euro dai fondi europei porterà a Sollicciano e Gozzini condizioni migliori di vivibilità e più sostenibilità ambientale. Grazie a quei soldi saranno installati oltre 600 metri quadri di pannelli fotovoltaici, una nuova caldaia e nuovi infissi, così da avere acqua calda senza problemi e meno caldo d’estate, meno freddo d’inverno. Per vedere il via ai lavori si dovrà attendere l’autunno 2020 e gli interventi, complessi per ovvi motivi di sicurezza, termineranno nel 2022, ma ieri tutti erano soddisfatti per l’intesa. E la vicepresidente della Regione Monica Barni, l’assessore alla salute e sociale Stefania Saccardi, l’assessore all’ambiente Federica Fratoni e Cristina Grieco, assessore all’istruzione e formazione hanno presentato le novità per i carceri di Sollicciano e per il “Mario Gozzini”, assieme alla direttrice del Gozzini, Antonella Tuoni, presente anche il garante dei detenuti del Comune di Firenze, Eros Cruccolini. “Gli interventi da un lato permettono la riduzione delle emissioni di Co2 e al tempo stesso migliorano il comfort e la vivibilità degli ambienti”, ha sottolineato Barni ed il “pacchetto” prevede anche il potenziamento delle biblioteche di Sollicciano e del Gozzini come luoghi di socialità (la Regione finanzierà per il 2019 il progetto con 40.000 euro). Mentre si sono appena chiusi due corsi di formazione lavorativa e la Regione ha stanziato 50.000 euro per l’acquisto di libri, da parte dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti a favore dei detenuti delle 18 carceri toscane. “Il grado di civiltà di un Paese viene misurato in base a quello che quel Paese fa per i più deboli. E la Toscana fa molto”, ha sottolineato Eros Cruccolini. Barletta (Bat): progetto “A mano libera”, l’esperienza del mastro pastaio Savino Maffei barlettaviva.it, 23 luglio 2019 L’azienda ha donato i macchinari per la preparazione della pasta. Nella quieta contrada San Vittore di Andria sorge una masseria unica nel suo genere, che racconta storie di integrazione e rinascita, circondate dal profumo e dal calore della pasta appena fatta, rigorosamente a mano. “A mano libera” è il nome del pastificio nato a maggio di quest’anno nei locali di questa masseria, e i protagonisti di questa storia sono detenuti ed ex detenuti impegnati in un percorso di riscatto grazie al progetto diocesano “Senza sbarre”. Si tratta di un progetto di accoglienza che prende vita nei silenziosi campi in agro di Andria, con Castel del Monte all’orizzonte e intorno ben 10 ettari di campagna: la masseria è destinata all’accoglienza residenziale e semi-residenziale per persone detenute nella casa circondariale di Trani e nelle carceri di Puglia e di tutt’Italia, ammessi a programmi alternativi alla carcerazione. Grazie all’impegno della Caritas Italiana, della Diocesi di Andria, dei volontari e delle aziende che sin dall’inizio hanno creduto in questa speciale iniziativa, l’obiettivo sarà quello di creare una impresa multiservizi con il cuore nella lavorazione della terra. Il fondamentale punto di partenza di questa visione risiede nel pastificio “A mano libera”, all’interno del quale sono coinvolti al momento 10 apprendisti dell’arte della pasta fatta a mano. È grazie alla generosità del Pastaio Maffei, storica azienda del settore con sede a Barletta, che ha donato i macchinari per la realizzazione della pasta, che oggi la masseria San Vittore si è già trasformata in un piccolo pastificio. Oltre alle macchine c’è un dono ancora più prezioso, impossibile da quantificare: è l’esperienza del mastro pastaio Savino Maffei, che in masseria svolge il ruolo di tutor e segue passo dopo passo la formazione degli apprendisti, insegnando l’antica arte della pasta, con ricette, consigli e attenzione in ogni fase del processo produttivo. “C’è in loro una grande volontà di uscire da questo mondo e correre verso una nuova libertà - racconta l’imprenditore Savino Maffei - sono davvero determinati ma hanno bisogno sempre dell’aiuto e dell’affiancamento di qualcuno, perché da soli sono come bambini: vanno tenuti per mano, e il nostro compito è quello di aiutarli a camminare verso un nuovo futuro, diverso da quello che conoscono”. “Avere accanto a noi degli imprenditori che nella loro grande generosità mettono a disposizione tempo e risorse - riferisce don Riccardo Agresti, responsabile del progetto “Senza sbarre” - vuole dire che tutti insieme crediamo davvero nel riscatto e nel perdono”. Non solo un messaggio di bene, ma anche la reale costruzione di una seconda occasione per quanti nella loro vita hanno sbagliato, mettendo davvero un argine alla recidiva e insegnando la fatica di un mestiere che, se fatto col cuore, può donare speranza di un futuro migliore. Tra i 10 apprendisti che lavorano nel pastificio con la guida del maestro Maffei, uno di loro proseguirà il lavoro di pastaio anche dopo la conclusione della pena. Milano: il carcere di Bollate recupera apparecchi elettronici guardando alla sostenibilità dolcevitaonline.it, 23 luglio 2019 In gergo si chiamano Raee. Si tratta di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, dai telefonini ai computer, dai rasoi ai piccoli elettrodomestici casalinghi, che devono essere smaltiti in maniera specifica. Non solo per evitare danni ambientali, ma anche per recuperare i materiali con cui sono costruiti: tra questi c’è plastica, rame, ottone, bronzo, ferro e alluminio. Per farlo occorrono impianti dedicati e uno di questi è stato realizzato all’interno del carcere di Bollate. Il trattamento dei rifiuti speciali da parte dei detenuti rientra nelle svariate attività lavorative organizzate all’interno della casa di detenzione. Attualmente sono 5 i detenuti al lavoro nel nuovo impianto ad alimentazione fotovoltaica che può trattare fino a 3000 tonnellate di rifiuti elettronici all’anno. L’ultimo rapporto sulla situazione italiana in materia di Raee dice che nel 2018 il quantitativo dei rifiuti trattati dai centri accreditati per il recupero e lo smaltimento ha superato le 420 mila tonnellate (+10% rispetto all’anno precedente). Nonostante questo non siamo ancora in linea con gli obiettivi di raccolta stabiliti dalla Direttiva Europea a salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente e della salute umana e che per il 2019 sono ancora più ambiziosi Avellino: assistenza sanitaria in carcere, la replica dell’Asl irpiniatimes.it, 23 luglio 2019 In merito a quanto denunciato dal Segretario Provinciale della Funzione Pubblica Cgil, a proposito della carenza di Personale Infermieri presso gli Istituti Penitenziari di competenza dell’Asl di Avellino ed in particolare presso la Casa Circondariale di Bellizzi Irpino, l’Azienda Sanitaria Locale precisa che, per completare l’organico, nei mesi scorsi, ha fatto ricorso alla procedura della “mobilità interaziendale” e sono state assunte due Unità di Infermieri Professionali dipendenti, che assicurano complessivamente 72h/sett. di sevizio presso il citato Presidio Sanitario Penitenziario, con decorrenza rispettivamente dal 01.03.2019 e dal 01.05.2019. Il numero di Infermieri presso il Carcere, dal mese di maggio, è stato, quindi, opportunamente potenziato. Ma, il trasferimento di n. 1 Unità Dipendente, come da prescrizione del Medico Competente, dal 01.07.2019 e, soprattutto, la fruizione di assenze giustificate, improvvise e prolungate, da parte di alcune unità infermieristiche, ha determinato, purtroppo, una situazione di disagio. Per fronteggiare questa situazione, l’Azienda Sanitaria ha previsto, per i mesi estivi, una ulteriore implementazione oraria di 36 ore settimanali, che equivale ad un incremento di una unità infermieristica, tale da consentire il rispetto delle normative sull’orario di lavoro ed i riposi obbligatori. Dal mese di luglio, inoltre, la specialista ginecologa a tempo indeterminato sta assicurando alle detenute le prestazioni assistenziali necessarie. Per la denunciata “assenza” dello Specialista Psichiatra in Carcere, va precisato che le Uosm territoriali stanno assicurando attraverso i propri operatori le consulenze in Carcere, equiparando il diritto alla salute delle persone detenute alle persone libere. Il Dipartimento di Salute Mentale e le stesse Uosm stanno definendo, allo scopo, il reale fabbisogno, sulla scorta del numero di consulenze effettuate e il numero di pazienti con diagnosticata patologia psichiatrica che necessitano di una reale presa in carico. Parma: volontari stranieri nel carcere di via Burla a supporto dei detenuti parmatoday.it, 23 luglio 2019 Il progetto è stato promosso dal Garante per i Detenuti Roberto Cavalieri. Hanno dato il via al proprio impegno a favore dei detenuti un gruppo di cittadini stranieri che appartengono alla comunità parmigiana. Il progetto dell’Assessorato al Welfare, attivato con la collaborazione del Garante dei detenuti, Roberto Cavalieri e di Katya Lucà, delegata all’inclusione del Comune di Parma, prevede per ora un gruppo composto da 9 persone. Nel penitenziario della città sono presenti oltre 600 persone di cui 230 di origine straniera (prevalentemente provenienti da Tunisia, Marocco, Albania e Nigeria). Le condizioni di detenzione, rese complesse da un alto numero di reclusi, problematiche di dipendenza, povertà e dalla scarsità di attività trattamentali, portano spesso al verificarsi di criticità e conflitti che rendono problematiche la gestione dei reclusi. I nuovi volontari, che hanno ricevuto una formazione da parte del Garante e che saranno accompagnati da momenti di coordinamento e verifica a cura dell’area trattamentale del carcere, saranno impegnati nei colloqui di supporto ai detenuti, in azioni di mediazione linguistica e culturale anche con i diversi operatori del penitenziario, compresa la Polizia penitenziaria e gli educatori e nella progettazione di attività trattamentali con gli educatori. I 9 volontari si aggiungono ai volontari italiani del penitenziario che da anni operano in carcere e che appartengono in larga parte ad associazioni quali Rete carcere. Napoli: Fico nel carcere minorile di Nisida “investire per questi ragazzi” di Nadia Cozzolino dire.it, 23 luglio 2019 Il Presidente della Camera in visita all’Istituto penitenziario minorile che si trova sull’isolotto di Nisida e ospita un centinaio di ragazzi: oggi Fico li ha incontrati. Noi come Stato dobbiamo investire seriamente su questi ragazzi, altrimenti non migliora questa società”. Parola del Presidente della Camera, Roberto Fico che oggi ha voluto visitare l’istituto penitenziario minorile di Napoli situato sull’isolotto di Nisida. Una struttura circondata dal mare di Bagnoli con due sezioni, una maschile e una femminile, in cui poco meno di 100 ragazzi svolgono diverse attività didattiche e culturali. “I ragazzi lavorano con molta passione e dedizione”, ha spiegato Fico, che si è intrattenuto a parlare in particolare con i giovani studenti del laboratorio di scuola politica, “un luogo - ha detto - dove tornerò presto per riprendere i discorsi con i ragazzi. Abbiamo parlato di lavoro e di una serie di tematiche disparate. Dobbiamo riuscire ad essere veramente empatici con questi ragazzi”. Lo Stato “deve arrivare prima del carcere - queste le parole di Fico -, quindi serve un investimento serio e forte, in particolare nei Comuni per assumere assistenti sociali in numero adeguato rispetto alla popolazione. Bisogna essere sul territorio, fare progetti di rigenerazione urbana, ci vuole la scuola aperta a tempo pieno, ci vogliono i campi sportivi e ogni quartiere deve avere un indice di vivibilità alto, quindi con un cinema, una biblioteca, un parco pubblico e campi di calcetto. Insomma, un’azione che sia strutturata, forte, piena di passione e lungimiranza. È un obiettivo da raggiungere in cinque anni oppure avremmo fallito tutti”. A Nisida non c’è un detenuto che non partecipi a un corso o a un laboratorio per imparare un mestiere o approfondire i propri hobby e le proprie passioni. Tra qualche giorno, inoltre, “partirà la Summer School organizzata in collaborazione con la Luiss - ha spiegato Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia. Oggi una ragazza ha raccontato al presidente della Camera di aver conseguito la maturità e spera di potersi iscrivere all’università a settembre mentre un’altra giovane gli ha detto che da grande sogna di diventare una fumettista. A Nisida c’è un ventaglio di possibilità molto ampio per i ragazzi: finalmente iniziano a credere in loro stessi anche grazie al fatto che, con queste visite, loro vedono l’attenzione che c’è e sentono di contare qualcosa anche per le istituzioni”. Milano: le detenute fotografano la loro libertà di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Il carcere di San Vittore diventa un set alla Triennale. “Voglio essere riconosciuta per come sono oggi, non per quello che ho fatto ieri”. Elisa, 37 anni, origini siciliane, parla dal cortile di San Vittore. È una delle otto detenute fotografate in carcere dalla regista Cinzia Pedrizzetti. La loro storia è diventata una testimonianza. I ritratti sono stati esposti alla Triennale. E lì questa sera, scortate dagli agenti di polizia penitenziaria, scatteranno ritratti ai milanesi. “In carcere ho acquisito uno sguardo nuovo - dice Elisa - su me stessa e anche sulle persone che ho intorno”. “Decidere di farmi fotografare è stata una scelta difficile. Vuole dire che, grazie al percorso di recupero fatto in carcere, non ho più paura dello sguardo degli altri. Anzi, adesso quello sguardo mi serve per rinascere. Voglio essere riconosciuta per come sono oggi, non per quello che ho fatto ieri”. Elisa, 37 anni, origini siciliane, parla dal cortile di San Vittore. Di fianco a lei c’è Elena, 40 anni, originaria del rione Villa San Giovanni di Napoli. Occhi celesti e malinconici, pelle tatuata, 16 anni passati in cella, alcuni anche insieme alla madre che non ce l’ha fatta e ha lasciato un drammatico vuoto. Chiede: “A cosa serve rieducarsi se nessuno ti vede per come sei cambiata, per la persona nuova che sei?”. Riflettono, queste donne. Le loro domande ci arrivano dirette. La loro storia diventa testimonianza. “Solo attraverso lo sguardo degli altri ci specchiamo in noi stesse e capiamo davvero le nostre potenzialità”, dice ancora Elena. In fondo chiede aiuto. Un po’ di autostima è quello che serve per reinserirsi nel mondo. Ma la fiducia è il bene più difficile da conquistare. L’uscita dal carcere fa anche paura. Abbiamo gli strumenti per capirlo, noi che siamo fuori? “Bisogna guardarlo, conoscerlo, il mondo del carcere. È indispensabile cultura - spiega il direttore Giacinto Siciliano. Qui si impara, si cambia. Ci sono persone che lavorano, uno Stato che si impegna. Questi sforzi, faticosi, bisogna valorizzarli. Il mio sogno sarebbe che i muri di cinta del carcere diventassero trasparenti. E facessero vedere le persone che ci abitano”. L’osmosi tra fuori e dentro è utile a tutti, non solo a chi è ristretto. Lo scambio tra umani arricchisce. Della detenzione femminile, in particolare, non si parla mai (le donne sono pochissime, poco più del cinque per cento). Ecco, allora, lo sguardo, che diventa il cuore di un progetto unico nel suo genere, primo in Italia. Attraverso la fotografia otto detenute - tra cui Elisa ed Elena - escono allo scoperto. Un vero e proprio set ha invaso il reparto femminile, la regista Cinzia Pedrizzetti le ha immortalate in magnifici ritratti dentro la loro “casa” temporanea, la cella. Siciliano e il direttore della Triennale Stefano Boeri hanno stretto alleanza. Le foto sono state esposte in viale Alemagna e sempre lì questa sera, grazie a un permesso speciale, quelle stesse donne scortate dagli agenti di polizia penitenziaria, prima dello spettacolo teatrale “Diarios de Frida. Viva la vida” diretto da Donatella Massimilla del Cetec, scatteranno a loro volta ritratti ai milanesi. “Voglio dimostrare che in carcere ho acquisito uno sguardo nuovo su me stessa, ma anche sulle persone che mi vengono vicine - riprende Elisa. Mettetemi alla prova: ho imparato a trasmettere il mio punto di vista?”. Ha avuto una vita difficile, “tutta disorientata”, come dice lei. “Non avevo gli strumenti per ricominciare, meno male che mi hanno preso in carcere, meno male che sono qui dentro”. Ascoltandola cambia la prospettiva. Quello che nella nostra testa è uno spazio angusto che toglie il fiato (una cella, confini strettissimi…) nel percorso di chi vive in carcere può diventare addirittura spazio di libertà, in alcuni momenti. “Sono entrata in cella con rabbia e spavento. In più di 14 anni di carcere non era cambiato nulla dentro di me, l’ultimo anno ha fatto il miracolo-conclude Elena -. A San Vittore ho capito la gravità dei reati che ho commesso. Ho imparato ad accettare ciò che ho fatto ripromettendomi di non farlo mai più. E attraverso il teatro e la fotografia ho scoperto una risorsa straordinaria, la creatività per comunicare”. Continua: “Ho guadagnato la consapevolezza che chiunque potrebbe essere al mio posto, conquistato ai miei stessi occhi un po’ di dignità”. Si guarda la spalla. Ha tatuata la strofa di una canzone dei Moda: Come l’acqua / dentro il mare. “Inizia con la lettera C, e mio padre si chiamava Ciro, finisce con la E, come Elena. Nella mia vita non voglio più momenti di rottura. Voglio continuità. Voglio essere serena”. Pare banale? Non lo è. Milano: la maturità classica di un ergastolano di Enrico Girardi Corriere della Sera, 23 luglio 2019 La professoressa Gabriella Papagna racconta la storia di riscatto del suo studente “oltre il vetro antiproiettile”. Da vent’anni recluso nel carcere milanese di Opera, in isolamento, può vederla solo una volta all’anno. Ma ha studiato Cicerone e Senofonte, si è diplomato con 75/100 e ora punta alla laurea in Lettere antiche. Nella memorabile Novella degli scacchi, l’ultimo racconto che Stefan Zweig scrisse prima di suicidarsi nel 1942, il protagonista dottor B. spiega all’io narrante come lo studio matto e disperatissimo degli scacchi - che lo porterà a fare patta l’indomani nel match contro il campione del mondo Mirko Czetonvi - gli avesse permesso di sopravvivere alle condizioni di totale isolamento alle quali l’aveva ridotto il regime nazista. Senza gli scacchi, che avevano tenuta desta la sua mente in folli simulazioni di partite giocate contro se stesso, avrebbe certamente perso il lume della ragione e, con essa, ogni speranza. Un solo familiare La storia che si racconta qui non c’entra con gli scacchi ma ricorda eccome quella del dottor B. Franco Rossi (nome d’invenzione): un ultraquarantenne del Sud Italia che è stato condannato all’ergastolo circa vent’anni fa ed è tuttora detenuto nel carcere di Opera, appena fuori Milano, in regime di massima sicurezza. Può vedere un solo parente una volta al mese. Non può nemmeno parlare, se non per iscritto, con il proprio avvocato. Né ha contatti con altri esseri umani che non siano gli assistenti sociali. E sono stati proprio questi ultimi a segnalare alla direzione del penitenziario come l’unico desiderio del detenuto, un tipo dal fisico prestante ma dai tratti pacati e rispettosi, fosse quello di studiare con lo scopo di prendere non un diploma qualsiasi ma la maturità classica. Come noto, l’impossibile a volte è più probabile del difficile. Nobile infatti l’intenzione del condannato. Ma il suo duro regime di carcere non gli permetteva né di prendere lezioni, come è ormai prassi nei penitenziari dagli anni Duemila, né di procurarsi altri libri se non quelli ricevuti dagli assistenti sociali. Ma qui entra in gioco la professoressa Gabriella Papagna, docente di lettere al Liceo Berchet, che negli anni Novanta si era data un gran daffare come volontaria per orientare e seguire i carcerati “normali” nello studio. A lei si sono rivolti la direzione del carcere e gli assistenti sociali per redigere una sorta di piano d’azione, suggerendo per prima cosa che tipo di manuali di studio potessero fare al caso, più unico che singolare, di Franco Rossi. Ciò avveniva cinque anni fa. In questo lasso di tempo la professoressa Papagna ha incontrato il detenuto solo una volta l’anno, alla fine di ogni anno scolastico, per valutare se lo studente fosse meritevole di essere ammesso dalla quarta alla quinta ginnasio, dalla quinta alla prima liceo e così via. E infine di poter sostenere come privatista l’esame di diploma. “Incontri penosi e difficili”, racconta la prof. Li descrive: “Si sono sempre svolti in una stanza divisa da un vetro antiproiettile così spesso che si poteva comunicare solo attraverso un citofono. Gli “esami” erano naturalmente monitorati dall’esterno - aggiunge - e avevamo entrambi l’obbligo tassativo di evitare che la conversazione prendesse una piega anche solo minimamente personale”. Prosegue: “Dopo cinque anni ignoro ancora, e forse è meglio così, di quali terribili reati Franco Rossi si sia reso colpevole. Ma mi ha colpita fin dal primo anno la sua serietà. È un omaccione di poche parole, ma giuste: le parole di un uomo introverso e sensibile, certamente intelligente, capace di andare subito al sodo e determinatissimo. Ha studiato tutte le materie in totale solitudine, mostrando però fin da subito una speciale attitudine per il latino e il greco. Meglio le traduzioni da Cicerone o Senofonte che gli scritti d’italiano, a dire il vero”. L’ottima collaborazione tra il penitenziario e il Liceo Berchet ha infine reso possibile l’ultimo passo prima del traguardo. Una delle commissioni ministeriali che ha esaminato i maturandi di due sezioni dello storico liceo - commissione di cui non ha fatto parte la “tutor” Papagna - è stata incaricata di recarsi a Opera per esaminare il candidato autodidatta e “privatista”. Effettuate le prove scritte, Franco Rossi ha quindi sostenuto l’orale in due incontri, quasi si trattasse dei vecchi trivium e quadrivium: il primo con i docenti di materie umanistiche, il secondo con quelli di discipline scientifiche. Non è stato facile fargli commentare i dipinti di storia dell’arte o i testi dell’uno o dell’altro poeta, tantomeno l’equazione di matematica, attraverso il vetro antiproiettile. Ma non devono essere andate male le tappe del suo esame se la commissione ha ritenuto di concedere a Franco Rossi il diploma con il punteggio di 75/100. Fine della storia? La professoressa Papagna non lascia neppure finire la domanda: “Neanche per sogno. Il neodiplomato ha già richiesto di studiare lettere classiche all’università”. Milano: Manuel Agnelli e Rodrigo d’Erasmo incontrano i ragazzi del “Beccaria” affaritaliani.it, 23 luglio 2019 Incontro al carcere minorile Beccaria di Milano fra Manuel Agnelli, Rodrigo d’Erasmo e i giovani detenuti. L’iniziativa si è svolta “su input del procuratore del Tribunale per i minorenni di Milano Ciro Cascone”. “La direzione del Centro per la Giustizia Minorile per la Lombardia - spiega una nota - ha chiesto all’artista Manuel Agnelli di dedicare una giornata ai ragazzi dell’Istituto Penale per i Minorenni C. Beccaria di Milano. Obiettivo dell’iniziativa è la condivisione, in una dimensione di scambio interattivo, di esperienze musicali in grado di veicolare messaggi educativi attraverso il linguaggio e l’attrattiva che il mondo musicale ha per i giovani”. Il programma della giornata ha previsto la presenza presso l’Istituto minorile milanese, dalle ore 10,00 alle 18,00, di Agnelli, musicista rocker, produttore discografico e scrittore, fondatore della Band Afterhours, e Rodrigo D’Erasmo, violinista, compositore, polistrumentista, componente della band, che condurranno nella mattinata un workshop con i ragazzi che già frequentano il laboratorio musicale interno dell’Istituto, guidandoli nella preparazione di alcune esecuzioni artistiche che verranno esibite nel pomeriggio presso il Teatro Beccaria, coinvolgendo tutti i giovani dell’Istituto. “Gli artisti - si legge ancora nella nota- hanno aderito all’iniziativa con grande entusiasmo, auspicando la massima partecipazione da parte dei ragazzi, tanto da voler condividere con loro anche il momento del pranzo. I musicisti solleciteranno in termini espressivi, attraverso un linguaggio vicino agli adolescenti, le loro emozioni e potenzialità nel campo della musica. La scelta di svolgimento nel periodo estivo, conferisce un valore aggiunto alla proposta degli artisti, in quanto in tale periodo risulta più difficile per i ragazzi “gestire emotivamente” le limitazioni della libertà. All’esibizione pomeridiana assisteranno Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia, Valentina Paletto, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni di Milano e Francesca Perrini, dirigente del centro per la Giustizia minorile per la Lombardia”. L’anomalia italiana dell’uso dei servizi sociali di Carlo Rimini Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Il problema nasce dal fatto che ai servizi sociali sono attribuite funzioni di indagine e sono utilizzati come strumenti operativi dai tribunali nelle questioni familiari. Per commentare la vicenda di Bibbiano bisogna aspettare la conclusione delle indagini e le sentenze. Una riflessione di carattere generale possiamo però farla. Qualche cosa non funziona nella gestione dei servizi sociali. Lo dimostrano le sentenze di condanna che l’Italia ha subito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo proprio per l’incapacità dimostrata dai servizi di gestire il rapporto fra genitori e figli. Il problema nasce dal fatto che ai servizi sociali sono attribuite funzioni di indagine e sono utilizzati come strumenti operativi dai tribunali nelle questioni familiari, sia nei casi in cui i genitori sono sospettati di tenere comportamenti contrari agli interessi dei figli, sia nei casi di conflitto fra i genitori. Per gestire queste situazioni i tribunali si avvalgono dei servizi sociali comunali, nati per fare altro, ossia per svolgere le funzioni tipiche dell’assistenza sociale a favore delle persone disagiate. All’estero le stesse funzioni sono svolte da strutture centralizzate (come il Cafcass inglese) che funzionano in costante raccordo con i tribunali. Un’agenzia unica nazionale consente ai tribunali di avere un unico interlocutore e permette un controllo gerarchico delle modalità operative. Invece in Italia i tribunali sono costretti a servirsi di piccole strutture il cui operato sfugge a qualsiasi controllo e i cui standard di qualità sono affidati al caso e alla buona volontà dei singoli operatori. Migranti. Sbarchi, Macron spinge il suo piano (senza l’Italia) di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Quattordici Paesi europei si sono trovati d’accordo ieri a Parigi nel creare un “meccanismo di solidarietà” che permetta di ridistribuire immediatamente i migranti appena sbarcati nei porti del Mediterraneo. Quattordici Paesi europei si sono trovati d’accordo ieri a Parigi nel creare un “meccanismo di solidarietà” che permetta di ridistribuire immediatamente i migranti appena sbarcati nei porti del Mediterraneo sulla base del diritto internazionale. In questo modo Francia, Germania, Portogallo, Lussemburgo, Finlandia, Lituania, Croazia e Irlanda hanno assicurato la loro “partecipazione attiva” alla gestione dei migranti, e altri sei Paesi hanno aderito all’intesa. Non l’Italia, che non ha partecipato alla riunione di Parigi e ha bocciato l’accordo. Anzi, la giornata di ieri segna la ripresa degli scontri verbali tra il presidente francese Emmanuel Macron e il vicepremier italiano Matteo Salvini, dopo mesi di tregua. L’intesa di Parigi è pensata per rispondere proprio alla lamentela più volte avanzata dall’Italia negli ultimi anni, ovvero il fatto che è stata lasciata sola nel gestire gli sbarchi. Il senso dell’accordo sarebbe questo: i Paesi europei accolgono il principio che chi sbarca in Italia sbarca in Europa, e quindi accettano di prendersi carico dei migranti, che vengono redistribuiti in tempi brevi; l’Italia è chiamata a riaprire i suoi porti per accogliere le navi in difficoltà, in conformità con il diritto internazionale. Questa specie di scambio non è stato accettato dall’Italia, che ha disertato l’incontro. Macron non ha nominato Salvini ma lo evocato chiaramente quando ha deplorato le assenze “ingiustificate” e ha aggiunto che “non si guadagna mai nulla a non partecipare”. Il presidente francese ha poi ribadito che “quando una nave lascia le acque della Libia e si trova in acque internazionali con rifugiati a bordo deve trovare accoglienza nel porto più vicino. È una necessità giuridica e pratica. Non si possono far correre rischi a donne e uomini in situazioni di vulnerabilità”. E i porti più vicini ai quali allude Macron sono quelli italiani. Salvini ha definito la riunione di Parigi “un flop”, “un errore di forma e di sostanza. Nella forma, perché convocata con poco preavviso e in modo assolutamente irrituale visto che siamo nel semestre di presidenza finlandese. Nella sostanza, perché ha ribadito che l’Italia dovrebbe continuare a essere il campo profughi dell’Europa”. Salvini poi ha aggiunto una risposta diretta a Macron, nuova puntata della polemica che lo contrappone al leader francese dall’estate scorsa: “L’Italia ha rialzato la testa, non prende ordini e non fa la dama di compagnia: se Macron vuole discutere di immigrati venga pure a Roma”. Non il più diplomatico degli inviti. Fino a domenica Francia e Germania speravano in un risultato minimo che comprendesse l’Italia, ma poi è stato chiaro che Roma avrebbe assicurato solo una presenza tecnica, non politica. E Salvini aveva già espresso la sua contrarietà alla riapertura dei porti italiani in occasione del vertice dei ministri dell’Interno la settimana passata a Helsinki. Da una parte Francia e Germania, dall’altra Italia e Malta che secondo Salvini non vogliono “essere gli hotspot dell’Europa” Migranti. A Lampedusa 230 relitti di barche. I pescatori: “toglieteli, siamo bloccati” di Alessandra Puato Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Peppe Billeci, pescatore da generazioni a Lampedusa, guarda il Molo commerciale dal suo peschereccio Vincenzo Padre, indica le barche dei colleghi costrette ad attraccare “a ponte”, le une addossate di piatto contro le altre, a tre per volta, e allarga le braccia. “Lo vede? Per noi non c’è più spazio in banchina. Siamo costretti ad attraccare gli uni agli altri e a saltare di barca in barca con le casse in spalla. Già c’è il traghetto della Siremar, poi l’aliscafo, poi sono stati allargati i moli per le imbarcazioni da diporto. Ora le barche sequestrate degli scafisti che hanno portato i migranti. Sono qui abbandonate, le vedete. E noi? Dove lo scarichiamo, noi, il pesce?”. Nell’isola degli sbarchi, la cui economia è basata su due punti, il turismo e la pesca, c’è una emergenza della quale nessuno parla. Le imbarcazioni con le quali arrivano i migranti non vengono rottamate. I relitti - Sono centinaia, parte in mare e parte a terra. Fra queste, due grandi barche arrugginite, inclinate, con le scritte in arabo sulla vernice scrostata giacciono da oltre un anno sul Molo commerciale, uno dei quattro di Lampedusa. Occupano spazio, sono relitti alla vista dei tanti turisti dell’isola, particolarmente abbondanti quest’anno. Ci sono circa 100 metri di banchina disponibile in tutta Lampedusa per l’attracco dei pescatori. Un decimo di quanto servirebbe, visto che i pescherecci sono una quarantina. Chi non ci sta, va al largo per scaricare: si aggancia alla boa e da lì porta il pesce a terra con un barchino. Lavoro lungo. Il piano - “Il 26 luglio partirà la demolizione di 96 barche abbandonate e già portate al campo sportivo”, annuncia Luca Benini, responsabile della sezione operativa territoriale di Lampedusa dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. È il primo colpo significativo per risolvere il problema delle barche fantasma. Non basta. Benini è qui da poco più di un anno in pianta stabile, arrivato con la moglie da Orio al Serio, Bergamo. Sta completando il piano di smaltimento delle imbarcazioni e potenziando l’ufficio. “Ne abbiamo demolite 71 l’anno scorso, ne restano circa 230 - dice: 150 sono a terra, in più ce ne sono 44 galleggianti al Molo Favarolo, di cui sei-sette affondate. Sono quelle arrivate dal gennaio di quest’anno, sbarchi recenti”. Più un’altra cinquantina all’ex base Loran, l’ex Nato. “Tutti giorni vado a fare il pattugliamento - dice Benini, ho organizzato con la Capitaneria di porto il registro unico degli sbarchi”. Prima non c’era. Gli ultimi sbarchi - Per gli sbarchi del 2019, cioè i 44 relitti ancora in mare da smaltire (sono al Molo Favarolo) nulla è stato deliberato. “Siamo ancora in attesa del bando europeo”, dice Benini, e annuncia: “Dopo la demolizione delle 96 barche già autorizzate con bando europeo, anche queste saranno portate a terra”. Il funzionario delle Dogane è ottimista: “Con il mio insediamento si procederà più velocemente - dice - perché da semplice presidio di confino la Dogana di Lampedusa ora si rafforza”. Ma è anche consapevole delle difficoltà. “Non si può gestire una situazione d’emergenza simile con i tempi lunghi dell’amministrazione civile. Servono interventi rapidi che con il sistema degli appalti non possiamo permetterci”. Perché servono le gare, naturalmente. E comunque, non tutto passa dal piano di smaltimento delle Dogane. I due mostri arrugginiti che bloccano i pescatori al Molo commerciale, per esempio, dentro al pacchetto delle 96 barche previste in demolizione a fine mese non ci sono. Le gare che non partono - Quelle due barche che bloccano i pescatori e deturpano l’ambiente fanno capo ad altri: una è di competenza della Guardia di Finanza e l’altra della Capitaneria di Porto, dicono all’Agenzia delle Dogane. Una pare sia reduce da un ammutinamento. Pare si sia aspettato che un fantomatico “armatore egiziano” le rivendicasse, o vi rinunciasse, prima di procedere. Serve una gara. Un bando che non arriva mai. Nessuno le sposta. E i pescatori devono lanciarsi le corde da una barca all’altra, chi primo arriva attracca in banchina, gli altri no, si agganceranno a lui. E toccherà loro scavalcare le altre barche per arrivare a terra, dopo una notte di fatica in mare, con il rischio di non arrivare in tempo per portare il pesce fresco alla barca che parte per il Continente. Ma lo spazio è poco anche per scaricare a tre a tre. “Il 90% dei pescherecci non riesce ad attraccare”, dice il sindaco, Totò Martello. La lettera a Salvini - Il paradosso è che c’è chi, questi relitti, li demolirebbe gratis, ma l’offerta è stata respinta. Lo dice il sindaco Martello, che ha trovato l’azienda (si potrebbe tenere il ferro delle barche, rivendibile) e scritto alcune lettere chiedendo di risolvere il caso, senza risultato. Una al ministro degli Interni, Matteo Salvini: “Nessuna risposta”. E al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa: “Loro sono usciti, un paio di mesi fa, e hanno bonificato”. Questa prima lettera al governo è del 14 dicembre 2018. Lo informa di questo: c’è un “grave rischio di inquinamento ambientale in cui versa il porto commerciale di Lampedusa a causa del possibile affondamento dell’ultima imbarcazione sequestrata dalla Guardia di Finanza, lo scorso novembre, dopo essere stata fermata con 68 migranti a bordo. L’imbarcazione, ormeggiata nel porto, è inclinata e poggia sul fondale ed è anche carica di gasolio”. La demolizione gratuita (rifiutata) - Quanto all’offerta di demolizione gratuita, è in una seconda lettera del sindaco, quella del 30 gennaio. È stata spedita al ministro degli Interni, a quello dell’Ambiente, al Prefetto di Agrigento e all’Agenzia delle Dogane” (che ha risposto al sindaco). Offerta declinata, grazie ma non si può fare. Perché? “Serve un piano operativo di servizio dettagliato, ci vogliono prescrizioni che tutelino le manovre in porto - dice Benini. Questa società (che vuole rottamare le barche fantasma subito e gratis, ndr.) dovrebbe fare richiesta alla direzione regionale delle Dogane Sicilia per poter partecipare al bando europeo di demolizione di questa imbarcazione”. Un caso kafkiano, insomma. I costi salgono - Eppure la lettera del sindaco è chiarissima: “Il Comune di Lampedusa - c’è scritto - è disposto a demolire le imbarcazioni in ferro a oggi stazionate presso il Molo Favarolo (il motopeschereccio Maka, fermo dal 2016, di cui le Dogane stanno valutando l’affondamento controllato, ndr.) e il Molo Commerciale senza alcun costo per la pubblica amministrazione. Si chiede urgente riscontro”. Ma il riscontro del governo non c’è. Le barche fantasma sono ancora lì. E i pescatori, i calamari e le ricciole, li hanno scaricati a spalla saltando di barca in barca anche in questi giorni. Ovviamente, nel frattempo le condizioni delle barche peggiorano. Allungando i tempi dei bandi, possono aumentare i costi. E gli introiti per eventuali aggiudicatari, perché il lavoro sarà più complesso. In Ucraina vivaio Nato di neonazisti di Manlio Dinucci Il Manifesto, 23 luglio 2019 Proseguono le indagini sui moderni arsenali scoperti in Piemonte, Lombardia e Toscana, di chiara matrice neonazista come dimostrano le croci uncinate e le citazioni di Hitler trovate insieme alle armi. Resta però senza risposta la domanda: si tratta di qualche nostalgico del nazismo, collezionista di armi, oppure siamo di fronte a qualcosa di ben più pericoloso? Gli inquirenti - riferisce il Corriere della Sera - hanno indagato su “estremisti di destra vicini al battaglione Azov”, ma non hanno scoperto “nulla di utile”. Eppure vi sono da anni ampie e documentate prove sul ruolo di questa e altre formazioni armate ucraine, composte da neonazisti addestrati e impiegati nel putsch di piazza Maidan nel 2014 sotto regia Usa/Nato e nell’attacco ai russi di Ucraina nel Donbass. Va chiarito anzitutto che l’Azov non è più un battaglione (come lo definisce il Corriere) di tipo paramilitare, ma è stato trasformato in reggimento, ossia in unità militare regolare di livello superiore. Il battaglione Azov venne fondato nel maggio 2014 da Andriy Biletsky, noto come il “Führer bianco” in quanto sostenitore della “purezza razziale della nazione ucraina, impedendo che i suoi geni si mischino con quelli di razze inferiori”, svolgendo così “la sua missione storica di guida della Razza Bianca globale nella sua crociata finale per la sopravvivenza”. Per il battaglione Azov Biletsky reclutò militanti neonazisti già sotto il suo comando quale capo delle operazioni speciali di Pravy Sektor. L’Azov si distinse subito per la sua ferocia negli attacchi alle popolazioni russe di Ucraina, in particolare a Mariupol. Nell’ottobre 2014 il battaglione fu inquadrato nella Guardia nazionale, dipendente dal Ministero degli interni, e Biletsky fu promosso a colonnello e insignito dell’”Ordine per il coraggio”. Ritirato dal Donbass, l’Azov è stato trasformato in reggimento di forze speciali, dotato dei carrarmati e dell’artiglieria della 30a Brigata meccanizzata. Ciò che ha conservato in tale trasformazione è l’emblema, ricalcato da quello delle SS Das Reich, e la formazione ideologica delle reclute modellata su quella nazista. Quale unità della Guardia nazionale, il reggimento Azov è stato addestrato da istruttori Usa e da altri della Nato. “Nell’ottobre 2018 - si legge in un testo ufficiale - rappresentanti dei Carabinieri italiani hanno visitato la Guardia nazionale ucraina per discutere l’espansione della cooperazione in differenti direzioni e firmare un accordo sulla cooperazione bilaterale tra le istituzioni”. Nel febbraio 2019 il reggimento Azov è stato dislocato in prima linea nel Donbass. L’Azov è non solo una unità militare, ma un movimento ideologico e politico. Biletsky - che ha creato nell’ottobre 2016 un proprio partito, “Corpo nazionale” - resta il capo carismatico in particolare per l’organizzazione giovanile che viene educata, col suo libro “Le parole del Führer bianco”, all’odio contro i russi e addestrata militarmente. Contemporaneamente, Azov, Pravy Sektor e altre organizzazioni ucraine reclutano neonazisti da tutta Europa (Italia compresa) e dagli Usa. Dopo essere stati addestrati e messi alla prova in azioni militari contro i russi del Donbass, vengono fatti rientrare nei loro paesi, mantenendo evidentemente legami con i centri di reclutamento e addestramento. Ciò avviene in Ucraina, paese partner della Nato, di fatto già suo membro, sotto stretto comando Usa. Si capisce quindi perché l’inchiesta sugli arsenali neonazisti in Italia non potrà andare fino in fondo. Si capisce anche perché coloro che si riempono la bocca di antifascismo restano muti di fronte al rinascente nazismo nel cuore dell’Europa. In Iraq con le vittime delle mine anti-uomo. “Le armi italiane qui ancora uccidono” di Amalia De Simone e Marta Serafini Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Durante la guerra tra Bagdad e Teheran sono stati piazzati 10 milioni di ordigni, molti dei quali venduti dal nostro Paese. Ma ora, a distanza di 30 anni, l’opera di bonifica sul confine non è stata terminata e si continua a morire. “Ormai a questo pezzo di plastica mi sono affezionato. Ma all’inizio ho pianto, eccome se ho pianto”. Mahmoud Marjaf, sta aspettando il suo turno per il controllo con il fisioterapista. Ha 50 anni. Era un peshmerga, un soldato curdo, oggi è un uomo senza una gamba. Sorride mentre si accarezza la protesi. Amputazione dell’arto sinistro sotto il ginocchio. Mahmoud vive così dal 1999. Dolore, riabilitazione, visite su visite. “Non so che tipo di mina mi abbia fatto del male, alcuni mi hanno era detto che era tedesca ma non ne sono sicuro”, dice abbassando gli occhi. Lui quell’arma che gli ha portato via la carne non l’ha mai vista. “Ero vicino al confine con l’Iran a Benjum, stavo camminando e all’improvviso ho scorso un lampo. E poi più niente”. Le mine sul confine Iraq-Iran Guerra Iran-Iraq, guerra del passato, uno dei conflitti più lunghi del secolo scorso. Saddam Hussein da una parte, l’Ayatollah Khomeini, appena tornato dall’esilio per guidare la rivoluzione iraniana del 1979, dall’altro. Due Paesi vicini che si combatterono fino allo stremo senza che nessuno dei due riuscisse a prevalere sull’altro. Nessuno sa con esattezza quanti ordigni esplosivi siano stati disseminati su quelle montagne, si parla di 10 milioni. Le vittime, quelle sì hanno un numero: sono state un milione. È il 20 agosto del 1988 quando entra in vigore il cessate il fuoco. Su entrambi i fronti le ferite sono state profonde. Gli iracheni all’epoca sono ben armati ma per rimediare allo scarso addestramento dei soldati usano tonnellate di armi chimiche, i cui componenti arrivano anche dall’Europa e dagli Stati Uniti. Gli iraniani per ovviare alla mancanza di armi arruolano migliaia di bambini soldato. Troppo piccoli e deboli per essere utilizzati in combattimento, li inviano a ripulire i campi minati. “Li mandavano legati a gruppi di dieci - per evitare che qualcuno di loro potesse tirarsi indietro - a correre sulle mine per aprire una strada alle ondate degli assalti”, si legge nelle cronache dell’epoca. La guerra non è mai finita. Non finisce mai. “Al Teresa Rehabilitation Center dal 1998 ad oggi abbiamo curato oltre 6.000 piazenti”, spiega Faris Hama, coordinatore medico di Emergency. A mettersi in fila tra le stanze della fisioterapia e quelle dove si fabbricano i calchi per le protesi sono per lo più i reduci di quel conflitto lontano. Le divise color cachi dei peshmerga, i sorrisi fieri nonostante la menomazione, le mogli dietro che assistono. Anche dopo trent’anni le cicatrici sono ancora lì. Ma non ci sono solo le ferite del passato da sanare. “Oggi abbiamo anche 400 pazienti che provengono da Mosul, colpiti dagli ordigni dell’Isis o dai raid”, sottolinea Hama. Sulaymaniyah, seconda città della regione autonoma del Kurdistan iracheno, la più vicina all’Iran. La più lontana da Bagdad e dalla sue lotte fratricide. Fu qui vicino, ad Halabja, che Saddam Hussein nel 1988 massacrò i curdi col gas. Ed è qui vicino che sono arrivati i primi sfollati in fuga dall’Isis, dopo che Al Baghdadi è salito sul pulpito della moschea di Al Nuri a Mosul nel 2014. Ed è sempre qui che oggi le tensioni tra Iran e Stati Uniti fanno soffiare nuovi venti di guerra. “Cosa succederà? Dovremo combattere ancora? Con chi ci dovremo schierare?”, è la domanda che rimbalza mentre il sole infuocato di giugno tramonta e i bambini saltano su un materasso elastico. Cinquanta chilometri a Est, verso il confine con l’Iran, a Golin Barbe, le cavallette saltano senza sosta. “Quest’anno siamo stati fortunati, ci hanno invaso ma almeno sono di quelle che non mordono. Che volete, noi curdi siamo abituati alle sciagure”, scherza Dler Muhmad Alì, da 24 anni a capo del team di ricerca e bonifica dell’Ikmaa, la Iraqi Kurdistan Mine Action Agency. Dalle cinque e mezzo della mattina i suoi uomini sono impegnati sotto il sole. Il campo minato copre un’area di 39 mila metri quadrati. Di questi, quasi la metà sono ancora da pulire. “Prima di avvicinarsi chiunque deve comunicare il proprio gruppo sanguigno”, avvisa. In caso di incidente l’ospedale più vicino è a due ore di auto. Nelle scorse settimane un pastore di un villaggio nei dintorni è morto, un altro è rimasto mutilato, il 14 maggio un membro del team di Alì ha perso due dita del piede. Due tecnici salgono piano il crinale. Hanno appena piazzato i bastoni dipinti di bianco, blu e rosso che indicano se il terreno è “clean”, pulito, e se gli ordigni disinnescati possono essere rimossi. “Quando si parla di bonifica non esiste la certezza del 100 per cento, alcune mine restano nascoste nel terreno per decenni. Inoltre non abbiamo mappe su cui basarci, dobbiamo ricostruire le posizioni degli esplosivi sulla base dell’esperienza e dell’osservazione”, continua Alì. Il termometro segna 43 gradi e ogni 40 minuti gli uomini devono fare una pausa per bere e spostarsi all’ombra. Addosso hanno in media otto chili di attrezzatura, tra protezione, caschi e strumenti. I meno esperti si sono addestrati per un mese, ma i veterani hanno anni di attività alle spalle e hanno imparato a fiutare una mina da lontano. “L’Iraq nel 2007 ha firmato il trattato di Ottawa che mette al bando gli esplosivi anti uomo e si è impegnato a bonificare tutta la regione. Eppure da Bagdad non stanno arrivando più fondi per le attività di sminamento. I nostri tecnici guadagnano l’equivalente di 800 dollari al mese”. Mine anticarro. Mine antiuomo. Quelle a pressione esplodono quando vengono calpestate: lo scoppio dilania il piede e parte della gamba, ma se la carica è molto elevata può provocare danni anche al di sopra del ginocchio, alle natiche, ai genitali, e generare fratture ossee multiple ed esposte. Le mine “a frammentazione”, invece, uccidono all’istante chi le calpesta e provocano ferite su tutto il corpo a chi si trova vicino all’esplosione. “Le più difficili da scovare sono quelle cinesi, perché hanno basso contenuto di metallo. In questa zona ci sono 18 tipi di mine. E dieci sono italiane”. VS 50, TS 50, VAR 40. “Ma la più terribile è la V 69, la Valmara”. A guardarla lì sdraiata nell’erba pare un giocattolo, un barattolo con le antenne. La leggenda narra che sia stata chiamata così in “onore” di una donna che voleva vendicarsi di una rivale. “Non so se sia vero ma sicuramente è più pericolosa di uno scorpione o di un serpente”. Tradotto, la Valmara è una delle mine più diffuse al mondo che colpisce fino a 50 metri di distanza. “È made in Italy, made to kill”. Dall’Iraq e ritorno. A Castenedolo, in provincia di Brescia, Franca Faita, 70 anni, apre la porta della sua casa. Sorride. La signora Franca, come la chiamano tutti da queste parti, conosce la Valmara meglio di chiunque altro. “Ho lavorato per più di 30 anni come operaia prima alla Meccanotecnica poi diventata Valsella. Lì producevamo mine, ne fabbricavamo tantissime, si è parlato di 30 milioni”. Uno dei clienti principali della Valsella è proprio l’Iraq. Nel 1983 gli affari vanno talmente a gonfie vele da far balzare il fatturato della società oltre la soglia dei 100 miliardi di lire. E il “merito” è soprattutto della guerra tra Bagdad e Teheran. Nella relazione di bilancio del 1981 si legge come l’azienda stia fiorendo grazie all’”acquisizione di importanti commesse nel settore militare e in particolare con il ministero della Difesa dell’Iraq” e al conseguente “potenziamento della struttura produttiva dell’azienda”. Il grande balzo non si fa attendere. Un militare iracheno parlando con una televisione italiana afferma che nell’opposizione all’offensiva della fanteria di Khomeini “l’Iraq deve molto ad una piccola azienda bresciana”. All’epoca molti operai della Valsella girano la testa dall’altra parte, gli stipendi sono buoni, il lavoro non manca. Ma la signora Franca e le sue compagne iniziano a fare domande. “Eravamo madri, cosa stiamo facendo, contribuiamo alla morte di bambini e giovani, ci chiedevamo. Ma eravamo sole, nessuno voleva darci ascolto”. Nel 1984, attraverso l’acquisizione da parte della Borletti, la Valsella Meccanotecnica diventa una controllata del Gruppo Fiat. Ma le cose si complicano, dopo che l’Italia aderisce all’embargo contro Iran e Iraq. La produzione però non si ferma. E le mine lasciano il Paese in pezzi. “Sugli imballaggi c’era scritto “componenti di giocattoli”“, racconta ancora la signora Franca. Dal porto di Talamone le casse vengono spedite a Singapore, dove la Valsella all’epoca ha un’altra società. È la triangolazione che consente ancora alle mine di arrivare a destinazione. Per altri tre anni tutto va avanti come nulla fosse. Poi nel 1987, scoppia il caso. Il settimanale francese L’Événement du jeudi rivela che tra il 1981 e il 1984 l’azienda bresciana ha venduto all’Iran un milione di mine, con la complicità della società svedese Nobel Kemi e della francese Snpe, specializzate nella produzione di esplosivo, e con l’autorizzazione dello stesso governo italiano. Lo scoop del giornale parigino attiva le procure di Brescia, Venezia e Roma e fa divampare in Italia la polemica politica. Travolta dai processi e dalla moratoria del 1994 che mette al bando la produzione di mine anti-uomo in Italia, la Valsella si avvia a grandi passi verso il tramonto. Nel 1997 l’ong Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo, di cui Franca Faita è una delle voci più importanti, vince il premio Nobel per la Pace. Ma lei a ritirare il premio non ci va perché è impegnata nella battaglia per salvaguardare il posto di lavoro. Lotte, leggi, messa al bando e trattati internazionali. È la spinta della società civile ad accendere la luce sugli effetti devastanti di questo tipo di armi. “Alla Borletti amavano ripetere che le mine sono soldati perfetti, non mangiano, non dormono e fanno sempre la guardia. D’altro canto sono state le denunce e le testimonianze delle vittime e di persone come Gino Strada ad accendere i riflettori sui danni di questi ordigni”, spiega Guido Beretta analista dell’Opal, l’Osservatorio per la produzione di armi leggere e politiche di sicurezza, e di Rete disarmo. L’Italia non può più fabbricare mine ma l’export di armi non si è certo fermato Ma delle armi italiane vendute nel mondo per uccidere civili ancora si parla. “La vicenda della Valsella ha avuto il merito di portare alla legge 185 del 1990 che tra le altre cose obbliga il governo a presentare una relazione annuale al Parlamento sull’export di armi e condiziona l’autorizzazione delle vendite ad una valutazione sulla possibile violazione dei diritti umani e sui danni ai civili”, sintetizza Carlo Tombola, Coordinatore scientifico dell’Opal. Passi in avanti che però non sono considerati dagli esperti sufficienti. Alle prime luci del mattino sulla strada tra Sulaymaniyah e Erbil i camion si spostano lenti. A ridosso del checkpoint verso Mosul le macerie delle case distrutte dall’Isis si stagliano all’orizzonte. Un medico scuote la testa. “Ora, qui abbiamo una nuova guerra da combattere e sono gli ordigni inesplosi piazzati da Daesh che ancora uccidono anche se i combattimenti sono finiti”. Proprio come le mine della guerra Iran-Iraq. Brasile. Sistema penitenziario in tilt, tra sovraffollamento e storture croniche di Luigi Spera osservatoriodiritti.it, 23 luglio 2019 Le carceri brasiliane superano la soglia degli 800 mila detenuti e il sistema sembra ormai fuori controllo. Il tasso di sovraffollamento sfiora il 70% e di questo passo si prevede che la popolazione carceraria passerà la boa di 1,5 milioni di carcerati entro il 2025. Ecco cosa succede nei nuovi dati del Consiglio nazionale di giustizia. Già oggi il Brasile registra un sovraffollamento del sistema carcerario di quasi il 70% e un totale di detenuti che lo piazza al terzo posto a livello mondiale come popolazione carceraria. E se continuasse a mantenere lo stesso ritmo di crescita degli ultimi anni potrebbe quasi raddoppiare il numero di detenuti in appena sei anni, raggiungendo nel 2025 la quota record di 1,5 milioni di carcerati. È questa la stima presentata dal Consiglio nazionale di giustizia (Cnj) brasiliano nell’ambito della pubblicazione dell’ultima ricerca svolta dal sistema di monitoraggio delle carceri. Brasile, la terza popolazione carceraria al mondo L’aggiornamento riporta numeri preoccupanti. Il 17 luglio 2019 il Brasile contava almeno 812.564 detenuti. La banca dati del Cnj viene aggiornata quotidianamente con i dati forniti dai tribunali dei ventisette stati della federazione. E il numero di detenuti potrebbe essere persino più alto, perché alcuni stati non hanno completato la raccolta di informazioni e hanno fornito numeri parziali. Il dato, in ogni caso, conferma quella del Brasile come la terza più grande popolazione carceraria al mondo, dietro solo a Stati Uniti e Cina. Secondo il Dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, a giugno 2016 il Brasile aveva 726.700 detenuti, quindi il tasso annuo di crescita è stato dell’8,3%. La contabilità del Cnj considera prigionieri già condannati, quelli in attesa di processo e chi sconta una pena in regime chiuso, semi-aperto, affidati in prova e in casa famiglia. Non sono inclusi, invece, i detenuti agli arresti domiciliari e quelli che usano cavigliera elettronica per vigilare i movimenti. Oltre ai detenuti in cella, c’è poi la quota di detenuti “potenziali”, costituita dalle 366.500 persone per le quali è stato emesso un ordine di cattura dalla polizia o dalla magistratura, ma che risultano irreperibili o latitanti. I dati mostrano che il 41,5% della popolazione carceraria del Cnj, ben 337.126 persone, è costituita da detenuti in attesa di giudizio. Inoltre, il colore della pelle sembra essere un elemento di discriminazione: il 61,7% dei detenuti è nero, mentre i bianchi rappresentano il 37,2% dei detenuti (in Brasile il 53,6% della popolazione brasiliana è nera, il 45,4 bianca). Sempre secondo il dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, oggi oltre il 60% delle donne e il 25% degli uomini arrestati rispondono per traffico di droga, che è la causa più frequente di arresti per entrambi i sessi. A livello nazionale, il sovraffollamento nel sistema carcerario ha raggiunto il 69,3% nel 2019. Ad aprile, il Brasile contava 704.395 detenuti in regime chiuso, su un totale di 415.960 posti disponibili: un deficit di almeno 288.435 posti. In alcuni stati come Amapá, Amazonas, Distretto Federale, Goiás, Mato Grosso del sud, Roraima e Pernambuco, il numero di detenuti è più del doppio rispetto di posti disponibili. Il Pernambuco, in particolare, è lo stato con il maggiore livello di sovraffollamento nel 2019, con ben 32.781 detenuti rispetto a1 11.767 posti nei vari penitenziari. Il presidente della Corte suprema Dias Toffoli, che secondo la Costituzione è anche presidente del Consiglio nazionale di giustizia, ha definito il tasso di crescita della popolazione carceraria brasiliano “sbalorditivo”, sottolineando che, nonostante il numero dei carcerati sia cresciuto, “la violenza nel paese non è diminuita e il senso di insicurezza nella società è aumentato”. Solo il 18,9% dei detenuti riesce a ottenere un posto di lavoro in carcere. E nella maggior parte dei casi le organizzazioni criminali più potenti controllano o influenzano le migliori opportunità di lavoro, oltre che l’accesso a servizi, beni, spazi, concedendo maggiori prerogative ai propri membri. In questo modo molti detenuti non affiliati originariamente alle fazioni della criminalità organizzata si sottopongono ai riti di iniziazione e alle procedure dei comandos come unica opzione per sopravvivere ai mali del sistema carcerario. Il presidente della Corte Suprema e del Consiglio nazionale di giustizia Toffoli ha anche lanciato un altro allarme: “Le fazioni criminali hanno approfittato dell’offerta di lavoro del sistema carcerario per rafforzare ed espandere il suo potere, guadagnando spazio nella capillarità del sistema carcerario”. Ancora più bassa è la proporzione di detenuti che studiano, pari al 12,6% del totale dei detenuti. La bassa percentuale non può essere giustificata dell’alto livello di scolarizzazione dei detenuti, dal momento che, secondo l’ultimo sondaggio di Infopen (2016), il 51% dei detenuti non aveva completato la scuola dell’obbligo. Di fronte a questa emergenza, il dipartimento penitenziario ha affermato di essere al lavoro per migliorare la realtà del sistema carcerario attraverso investimenti per aumentare i posti a disposizione nelle carceri, anche attraverso il ricorso a partenariati pubblico-privato che prevedono la gestione dei penitenziari da parte di società private. Il monitoraggio delle carceri stima che oggi siano in costruzione strutture pronte ad allargare il numero di posti a disposizione di 56.641 unità. Cifra che coprirebbe meno di un quinto del deficit. Un decreto firmato dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro a giugno ha permesso l’assunzione di ingegneri per realizzare interventi di ampliamento o la costruzione di nuove carceri. Secondo il dipartimento, l’obiettivo è creare tra 10 e 20.000 nuovi posti entro la fine del 2019. Ed entro il 2022 la previsione è realizzare tra 100 e 150.000 nuovi posti. La situazione rischia di aggravarsi se dovesse passare un disegno di legge presentato l’8 maggio dell’anno scorso da una commissione di giuristi guidata dal ministro della Corte suprema, Alexandre de Moraes, ai presidenti di Camera e Senato. Il documento prevede sanzioni più severe per la criminalità. Tra le principali modifiche proposte ci sono l’aumento della privazione massima della libertà dagli attuali 30 a 40 anni e termini più lunghi per la raccolta di prove contro chi è accusato di crimini. Entrambe le misure avrebbero un impatto sulla popolazione carceraria. Secondo quanto riportato nel “monitor della violenza”, in Brasile mancano le condizioni per indagini adeguate. Questo fa sì che crimini come omicidio e stupro passino spesso impuniti, mentre traffico e consumo di droga e altri reati minori continueranno a essere perseguiti e puniti in maniera maggiore. Col risultato di avere assassini liberi e carceri piene di detenuti accusati di reati meno gravi come consumo di droga, e reati non violenti, i quali potrebbero accedere a sanzioni alternative. Inoltre, le istituzioni brasiliane conoscono la situazione delle carceri. Secondo uno studio del Senato, infatti, la mancanza di controllo da parte della pubblica amministrazione sulle carceri è evidente. Le organizzazioni criminali controllano la vita nei penitenziari e gestiscono dalle celle i propri affari, in particolare il traffico di droga. I telefoni cellulari entrano in prigione e servono da mezzo di comunicazione tra i vertici criminali all’interno delle prigioni e i membri a piede libero. Il tutto determina un corto circuito che genera impunità, non certezza della pena, mancanza di recupero per i detenuti, violazione dei diritti umani e un profondo messaggio di ingiustizia. Siria. Morto il fotografo dei Caschi Bianchi: “Era un eroe” di Marta Serafini Corriere della Sera, 23 luglio 2019 Anas al-Dyab, 23 anni, era embedded con i volontari della difesa civile siriana. È rimasto ucciso in un raid russo a Khan Sheikhun. L’appello del Papa ad Assad: “Fermi la catastrofe umanitaria”. Il dolore delle vittime ma anche il sorriso dei compagni nei momenti di pausa. Le sue immagini hanno fatto il giro del mondo e continueranno a farlo, anche se lui non c’è più. Il fotografo di guerra siriano, Anas al-Dyab, volontario della Syria Civil Defense - le squadre di soccorso che operano nelle aree fuori del controllo governativo note col nome di Caschi Bianchi - è rimasto ucciso ieri in un bombardamento aereo su Khan Sheikhun, nella provincia nord-occidentale di Idlib. Al Dyab aveva 23 anni e collaborava con l’agenzia francese Afp. Correndo nei siti appena bombardati per assistere i civili rimasti intrappolati nelle macerie, al-Dyab raccontava gli orrori causati dalla guerra, ma al tempo stesso i suoi scatti mostravano anche il coraggio e l’umanità delle persone costrette a vivere nelle zone al centro del conflitto. “Anas era un ragazzo amato da tutti, che non aveva nemici, il suo unico scopo era quello di mostrare al mondo ciò che sta davvero accadendo in Siria, ha affermato un suo amico e collega, Hamid Kutini. Sul loro profilo Twitter, i Caschi Bianchi hanno reso omaggio al loro compagno esprimendo”cordoglio per la perdita di un eroe, Anas al-Dyab, un volontario e attivista dei media per il Centro di Difesa Civile di Idlib”. Nelle stesse ore un altro raid russo ha colpito la zona di Idlib, dove sono morte almeno 37 morti. L’ultima roccaforte dei ribelli siriani è assediata da anni. E proprio sull’emergenza umanitaria, è stato reso noto oggi dal portavoce del Pontefice che Papa Francesco ha scritto una missiva al presidente siriano Bashar al Assad per chiedergli di fermare i bombardamenti. Il testo dell’appello, contenuto in una lettera consegnata a Damasco dal cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, accompagnato dal nunzio Mario Zenari e dal sottosegretario Nicola Riccard, resta riservato ma si sa che il Papa ha espresso una profonda preoccupazione per la situazione umanitaria nel Paese, “con particolare riferimento alle condizioni drammatiche della popolazione civile a Idlib”. È il cardinale segretario di Stato della Santa Sede, in una lunga intervista rilasciata al direttore editoriale del dicastero per la Comunicazione, Andrea Tornielli, a spiegare più a fondo le intenzioni del Pontefice: “Il Papa segue con apprensione e con grande dolore la sorte drammatica delle popolazioni civili, soprattutto dei bambini che sono coinvolti nei sanguinosi combattimenti”. Parolin ricorda che nei bombardamenti sono state distrutte diverse strutture sanitarie, e che molte altre hanno dovuto sospendere del tutto, o parzialmente, la loro attività. Quindi il Papa rinnova il suo appello perché venga protetta la vita dei civili e siano preservati scuole e ospedali: “Davvero quello che sta accadendo è disumano e non si può accettare”, sostiene Parolin. Quello che Francesco chiede ad Assad è di fare tutto il possibile per “fermare questa catastrofe umanitaria, per la salvaguardia della popolazione inerme, in particolare dei più deboli, nel rispetto del Diritto Umanitario Internazionale”.