L’ergastolo è una sconfitta di Rosaria Manconi* La Nuova Sardegna, 22 luglio 2019 La condanna a vita nega il valore rieducativo affermato nella nostra Costituzione. È fondamentale diffondere la cultura della legalità e del rispetto delle persone. Le sentenze non si commentano, si impugnano quando le si ritiene ingiuste, oppure si presta acquiescenza se le si ritiene corrette. Le sentenze, tuttavia, al di là del merito e della motivazione che le sottende, possono offrire spunti di riflessione che oltrepassano il caso concreto ed investono temi più ampi. Come le recentissime pronunce sulla drammatica vicenda del “delitto del lago” che ha visto coinvolti numerosi giovani e giovanissimi e che si è conclusa, in primo grado, con distinte condanne del Tribunale per i Minorenni e del Gip del Tribunale di Oristano a pene molto elevate e persino l’ergastolo. Sentenze precedute e seguite da notevole risalto mediatico che ha dato luogo all’ora-mai consueto movimento di opinione sul bisogno di sicurezza e sulla finalità della pena, sulla congruità e proporzionalità. L’asticella si è alzata talmente tanto che neppure l’ergastolo appare più misura sufficiente a soddisfare le aspettative di tutela e riparazione sociale. È alla pena “esemplare”, se non a quella capitale che si guarda se anche il ministro Luigi Di Maio, nel commentare un fatto di cronaca che ha visto coinvolti due bambini investiti ed uccisi da un’auto, sull’onda della comprensibile emozione generale, ha invocato per il responsabile pene più gravi rispetto all’ergastolo. Che altro ci può essere oltre la condanna a vita se non la morte o la tortura? Parole inammissibili e pericolose per chi ha giurato fedeltà alla Costituzione ed ai suoi principi. Invocazioni che trovano umana comprensione ed accettazione solo per le vittime e per i loro parenti. Perché talvolta il dolore trova consolazione nella punizione e la pratica del perdono richiede un lungo cammino che, comunque, come taluno sostiene, non azzera la memoria del crimine e non annulla il male. Ma noi tutti che abbiamo coltivato gli ideali del rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e creduto nei principi costituzionali che prevedono il recupero sociale del condannato dovremmo interrogarci sui valori che la pena in generale e l’ergastolo in particolare possono coinvolgere. Soprattutto quando l’ergastolo viene comminato a soggetti giovani o giovanissimi. In questo caso la pena, pur legittimamente inflitta nell’ambito di un giusto processo, nega il valore rieducativo che la Carta costituzionale afferma con l’art. 27, terzo comma. L’isolamento perpetuo preclude la possibilità ed anche la speranza del reinserimento sociale e fa presumere la persona di perse “non rieducabile”. L’ergastolo, anche quando non ostativo alla concessione dei benefici carcerari, spesso assume il carattere della perpetuità perché la verifica del ravvedimento è ancorata a valutazioni discrezionali ed alla possibilità, non sempre assicurata, di seguire percorsi di crescita e rivisitazione critica del vissuto. Ecco perché, sull’esempio di altri paesi europei, si dovrebbe, coraggiosamente, ragionare sulla necessità dell’abolizione dell’ergastolo. La questione della pena, peraltro, in questo caso, mette in secondo piano l’altra, preliminare, della prevenzione, della necessità di diffondere, soprattutto fra i giovani, la cultura della legalità e del rispetto delle persone. Di sostenere le famiglie nel difficile compito educativo, di sostituirsi ad esse quando vi n’è necessità, di aggiornare i programmi scolastici introducendo lo studio di materie tese alla sensibilizzazione degli studenti sui temi sociali. Ecco perché la condanna di un giovane all’ergastolo non può ritenersi “giusta”, tantomeno può rassicurare. Di fatto questa è la rappresentazione concreta e tangibile della sconfitta della società, del sistema educativo e di prevenzione, della mancanza di valori e di validi punti di riferimento, dell’isolamento culturale in cui i giovani talvolta sono relegati. Su questo occorre ragionare. Tutto il resto è mera propaganda. Clamore mediatico in favore di una politica che alimenta allarme e paure ed al quale almeno gli operatori del diritto dovrebbero opportunamente sottrarsi. *Presidente Camera Penale di Oristano La giustizia riparativa e il perdono: Agnese Moro, Faranda e il vescovo di Fabrizio D’Esposito Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2019 Non è la prima volta che si confrontano, ma il loro prossimo incontro ha una cornice ben precisa e molto significativa. Parliamo di Agnese Moro, una delle quattro figlie dello statista democristiano, e di Adriana Faranda, ex brigatista delle colonna romana che gestì l’operazione Moro nel 1978, fino al tragico epilogo del 9 maggio. Faranda fu contraria alla sentenza di morte per lo statista dc ma ebbe un ruolo attivo nel rapimento e nella prigionia. Le due donne saranno protagoniste dell’undicesima edizione del Festival Francescano che si terrà a Bologna dal 27 al 29 settembre, organizzato dal movimento francescano dell’Emilia Romagna con la collaborazione del Comune e della Chiesa locale. E con loro ci sarà, presenza non secondaria, l’arcivescovo della città Matteo Zuppi. Tema: la giustizia riparativa. Che cos’è? Gustavo Zagrebelsky riassunse così il concetto: “Il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare quella frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa”. E l’aspetto “riconciliativo” dell’evento mette a fuoco la valenza religiosa del percorso seguito da Agnese Moro, che aveva appena 25 anni nel 1978. La donna, infatti, è giunta alla prospettiva del perdono grazie all’opera del padre gesuita Guido Bertagna che raccolse l’invito del cardinale Carlo Maria Martini sul cammino di riconciliazione tra ex terroristi pentiti e familiari delle vittime. Un perdono che scaturisce da qualcosa di duro e profondo. Vale la pena rileggere cosa disse un anno fa Agnese Moro: “Tu puoi anche non dire una parola - e io non la dicevo - ma quei sentimenti che hai dentro, rabbia odio, si trasmettono a chi ti sta intorno e coinvolgono persone che neanche c’erano all’epoca dei fatti. Allora ti rendi conto che questo male colpisce innocenti, mentre tu finisci per dare di più a che non c’è più invece che a chi c’è. A questo punto ti nasce dentro un salutare vitale meraviglioso basta! Voi lo chiamate molto romanticamente perdono, io lo chiamo basta”. Una decisione, più che un sentimento. Il vero test per Salvini: la pazza riforma della giustizia grillina di Annalisa Chirico Il Foglio, 22 luglio 2019 Il disegno di legge Bonafede allunga i tempi dei processi e dà al Csm nuovi poteri sulla priorità dell’azione penale. Il leader della Lega si accoda? Abracadabra, sim sala bim, bibbidi bobbidi bu. Niente da fare, stavolta l’incantesimo non funziona. L’annunciata riforma della giustizia è fuffa, l’ennesima operazione di maquillage. Resta una domanda: il vicepremier Matteo Salvini vorrà davvero intestarsela, insieme al blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio? Tutto può accadere in questo scombiccherato governo il cui ministro della Giustizia Alfonso Bonafede brandisce come un trofeo la conclusione di un procedimento, con i suoi tre gradi di giudizio, nel giro di nove-anni-nove. I cittadini, secondo il Bonafede-pensiero, dovrebbero sentirsi sollevati: nove anni è meno di venti o trenta, può sempre andar peggio. Il disegno di legge, voluto dal Guardasigilli, non accorcia i processi, anzi li allunga; non agevola il ricorso ai riti alternativi; non interviene sull’organizzazione giudiziaria se non per aumentare il potere dei vertici degli uffici; infine, tanto per gradire, introduce un complicatissimo metodo di elezione dei nuovi membri del Csm, unico organo titolare del potere di fissazione delle priorità dell’azione penale, espropriando così il Parlamento di una competenza politica. Se la parabola di Luigi Di Maio appare segnata dall’essenza costitutiva e statutaria di un movimento allergico alle incrostazioni di leadership (tanto più per un “capo politico” che ha fatto dimezzare i consensi alle urne), diverso è il caso del leader leghista con il vento in poppa, non si sa fino a quando. Salvini è allettato dalla futura corsa solitaria verso Palazzo Chigi, perciò deve badare alle convinzioni oltre che alle convenienze. Nel governo che approva i “decreti crescita” che seppelliscono la crescita e le misure “sblocca-cantieri” che bloccano i cantieri (da ultimo, il niet di Mr. Toninelli alla Gronda, tanto per dire), il “Capitano”, che a ogni occasione scandisce uno slogan bellissimo, “fino a prova contraria”, vuole davvero perdere la faccia per inseguire l’agenda pentastellata sulle cose giudiziarie? Salvini intende davvero presentarsi agli elettori con il macigno di una prescrizione che non c’è più, dei processi in eterno, dell’intercettateci tutti? Salvini intende davvero sacrificare le ragioni del processo giusto ed efficiente sull’altare della realpolitik? La questione non è di poco conto: in Italia sulla giustizia si fanno e disfano i partiti, sorgono e tramontano le leadership, si saldano e sfaldano alleanze di governo. Il ministro Bonafede, sommo fautore del blocco della prescrizione e della riapertura dei “tribunalini” sotto casa, ha presentato il suo disegno di legge su processo civile e penale, ordinamento giudiziario e Csm. “Una norma manifesto”, ha sentenziato l’Anm in singolare sintonia con l’Unione delle Camere penali italiane. In effetti, il testo del governo sembra ispirarsi alle magie fiabesche come se bastasse un colpo di bacchetta, o una formuletta magica, per trasformare la zucca in carrozza, il ranocchio in principe, il processo lento in processo smart. Stando alle nuove norme, le indagini dovranno svolgersi entro il termine di sei mesi (per reati per cui la legge prevede la pena pecuniaria o la detenzione per non più di tre anni) oppure di un anno e sei mesi al massimo per le fattispecie di maggiore gravità. Le indagini preliminari potranno essere prorogate una volta soltanto. Il pm dovrà comunicare, senza ritardo, all’indagato il deposito delle indagini, ed egli dovrà avere la possibilità di visionare tutta la documentazione. Se il pm omette questa comunicazione, potrà incorrere in un generico illecito disciplinare. Inoltre, a dispetto delle richieste dei penalisti, il testo non estende il ricorso al patteggiamento, anzi il governo marcia nella direzione opposta di un accesso più limitato al rito abbreviato. S’ignora pure il tema decisivo del momento dell’iscrizione nel registro degli indagati né s’interviene su criteri e meccanismi organizzativi interni agli uffici giudiziari. Eppure, come documentato dallo stesso ministero di via Arenula, oggigiorno, a parità di norme e risorse, esistono vistose differenze di produttività tra uffici giudiziari: un buon magistrato non è per forza un buon dirigente. Negli Stati uniti, per esempio, l’organizzazione del lavoro è demandata a un “court manager” laureato in Business administration, non in diritto. I magistrati, ben consapevoli dello stato dell’arte, potrebbero diventare i protagonisti di un vero cambiamento, magari in cambio di più risorse, più cancellieri, più stampanti, più computer, e, perché no, compensi più alti legati ai risultati effettivi. Di questo però non vi è traccia, il ddl delega si premura di eliminare le funzioni semi-direttive di procuratori aggiunti e presidenti di sezione, fino a oggi individuati dal Csm; aumenta invece il potere dei capi degli uffici incaricati di nominare, d’ora innanzi, il “magistrato coordinatore”, figura di nuovo conio. Se l’abolizione delle “porte girevoli” tra politica e magistratura (con rientro, alla scadenza del mandato, nei ranghi della Pa senza ruoli giurisdizionali) può essere accolta positivamente, non c’è da gioire per la riforma del Csm, ennesima operazione fiabesca, da abracadabra, priva di impatto concreto. Il funzionamento della sezione disciplinare, che in molteplici casi ha mostrato le armi spuntate di Palazzo dei Marescialli, non viene intaccato se non per la previsione che i membri della disciplinare non potranno far parte di altre commissioni. Le nuove norme mettono in piedi un arzigogolato e irragionevole metodo di votazione che ne assomma in sé tre diversi (voto, sorteggio, voto percentualizzato) con il paradosso di una “riforma demagogica”, come l’ha definita Armando Spataro: “La rappresentatività dell’intera magistratura - ha scritto su Repubblica l’ex procuratore capo di Torino - non può in alcun modo essere salvaguardata con l’artificio di definire ‘eletti’ coloro che costituirebbero solo una platea da cui estrarre a sorte i membri del Csm i quali potrebbero essere persino i meno votati”. Il Csm tornerebbe a contare trenta componenti (venti togati e dieci laici), sei in più degli attuali. In base al nuovo testo, inoltre, sarà l’organo di autogoverno della magistratura a indicare alle procure i criteri di priorità dell’azione penale, estromettendo dunque il Parlamento da una funzione squisitamente politica. Se oggigiorno le procure si orientano autonomamente in base alla sensibilità dei magistrati e alle peculiarità locali (obbligatorietà, auguri), nel progetto di Bonafede il compito di determinare la politica giudiziaria verrebbe assorbito in via esclusiva dal Csm, generando una confusione tra poteri dello stato che richiederebbe invece il coinvolgimento primario del Parlamento, culla della sovranità popolare. In conclusione, si può affermare che se spetta alla riforma in questione il compito di disinnescare la “bomba atomica” (copyright di Giulia Bongiorno) della defunta prescrizione, c’è poco da stare allegri. Matteo Salvini stavolta non potrà scrollare le spalle. Gli italiani hanno a cuore il tema, anzitutto per un motivo esperienziale: in ogni famiglia almeno una persona ha attraverso una qualche bega giudiziaria. Siamo tutti, chi più chi meno, superstiti di una giustizia lenta, inefficiente, inaffidabile. Salvini dovrà parlare anche a noi, e difficilmente potrà farlo con credibilità all’indomani di una controriforma così congegnata. La battaglia per una giustizia amica di cittadini e imprese è una cosa seria, e le ragioni del garantismo non possono essere invocate soltanto quando è il momento di difendere i propri “uomini” dagli attacchi scomposti di un branco di tricoteuses a cinque stelle. L’incantesimo, stavolta, non funziona. L’Anm frena la riforma: “No a intenti punitivi” Gazzetta del Mezzogiorno, 22 luglio 2019 Poníz: sbagliato operare sull’onda emozionale di una contingenza. “No a riforme emozionali, demagogiche e punitive”, per i magistrati e per le istituzioni. Lo dice apertamente il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Poniz, riferendosi ad alcuni interventi della riforma della giustizia del Guardasigilli Bonafede. Nel mirino c’è soprattutto, ma non solo, la norma che prevede il sorteggio per la composizione del Consiglio superiore della magistratura, dopo lo scandalo delle nomine che ha investito l’organo di autogoverno dei giudici sull’onda dell’inchiesta della procura di Perugia a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. “Non accettiamo riforme che siano l’esito di una contingenza drammatica” avverte Poniz che con il segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo, sbarra la strada a un’innovazione che può portare “alla negazione della democraticità” dello stesso Consiglio superiore della magistratura e ne mina certamente “l’autorevolezza”. Il problema è duplice, come dicono i vertici dell’Anm, facendo il punto sulla riforma al Comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe. Da un lato il sorteggio è “manifestamente incostituzionale in tutte le sue versioni”, compresa l’ultima che affida a questo strumento la selezione dei magistrati candidatili, tra i quali saranno eletti in un secondo momento quelli che avranno ottenuto il maggior numero di voti. Dall’altro ha un significato inaccettabile: “È irricevibile il messaggio di sfiducia che si dà nei confronti dell’intero corpo elettorale della magistratura”, che non può “più scegliere i propri rappresentanti al Csm”. Pollice verso anche per quelle “molteplici previsioni, sulla tempistica dei procedimenti nelle varie fasi e nei vari gradi, nel processo penale come in quello civile, che sono semplicistiche, perché ignorano le dinamiche processuali effettive. A tali previsioni - nota l’Anm sono correlate in alcuni casi sanzioni disciplinari per i magistrati, evidentemente ritenuti dunque responsabili della durata eccessiva delle cause quando invece la magistratura italiana spicca per produttività in Europa e da decenni invoca, inascoltata, l’adozione degli strumenti che davvero potrebbero intervenire sui fattori di lentezza”. La volontà punitiva nei confronti dei magistrati si avverte anche nelle norme che ampliano gli illeciti disciplinari. E ad allarmare è anche “l’idea semplicistica di poter risolvere i problemi del processo, strizzando i tempi, soprattutto delle indagini preliminari, addirittura con la sanzione inedita della discovery degli atti”. Il che significa, avverte l’Anm, “disarticolare il contrasto non solo alla criminalità organizzata ma anche ai reati dei colletti bianchi”. Non è però una dichiarazione di guerra al ministro Bonafede. “Con lui il rapporto è molto buono, gli riconosciamo una sincera volontà di dialogo”, dice Poniz, che con Caputo riconosce anche che nella riforma ci sono aspetti “positivi”. L’auspicio dell’ Associazione nazionale magistrati è che il confronto continui per convincere la politica che certe scelte sono “sbagliate”. Tra gli interventi accolti positivamente dall’Anm c’è il ritorno al libero accesso al concorso dopo la laurea; la valutazione dei magistrati dell’ufficio espressa in occasione della conferma del direttivo; la valorizzazione dell’esperienza professionale maturata nella giurisdizione; “il ripristino della norma, inopinatamente soppressa a suo tempo, che prevede il decorso di un congruo periodo prima che i consiglieri del Csm uscenti possano assumere incarichi direttivi, semi-direttivi o fuori ruolo”. Indagini veloci per la violenza domestica ma il Codice rosso esclude il revenge porn di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2019 Una corsia preferenziale riservata ad alcuni reati in materia di violenza domestica e di genere. La prevede la nuova legge “Codice rosso”, approvata definitivamente lil 17 luglio dal Parlamento, che modifica in tre punti il Codice di procedura penale con l’obiettivo di dare priorità e velocità alle indagini. Però la disposizione “bandiera” della nuova legge - quella che impone al pubblico ministero di sentire le persone offese e chi ha presentato denuncia, querela o istanza entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato - non vale per le vittime del delitto di “revenge porn”, pure introdotto dalla legge, che consiste nella diffusione di immagini o video sessualmente espliciti e che sarebbero dovuti restare privati. Ma andiamo con ordine. Le procedure - In primo luogo il “Codice rosso” modifica l’articolo 347 del Codice di procedura penale, stabilendo che se ci sono ragioni di urgenza, la polizia giudiziaria dovrà dare comunicazione al Pm immediatamente anche in forma orale - a cui seguirà quella scritta - della notizia riguardante questi reati: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo, atti persecutori, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il “revenge porn”), lesioni personali e deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (anche questo un nuovo delitto introdotto dalla legge) connesse a fatti di violenza domestica o sessuale. La seconda novità, contenuta nell’articolo 362 del Codice di procedura penale, riguarda l’obbligo, per il pubblico ministero, di interrogare la persona offesa e chi ha presentato denuncia, querela o istanza (come potrebbe essere un genitore, o il tutore) entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. I delitti per cui opera tale obbligo - che viene meno solo per i casi in cui “sussistano imprescindibili esigenze di tutela dei minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini” - sono gli stessi ricordati sopra, a eccezione del “revenge porn”. Chi presenta querela per la diffusione, senza il suo consenso, di video o immagini a contenuto sessualmente esplicito non dovrà essere sentito entro tre giorni dal Pm. Un’esclusione che si potrebbe spiegare solo con l’esigenza di non inflazionare oltremodo le nuove attività del pubblico ministero. La terza modifica investe l’articolo 370, e prevede l’obbligo per la polizia giudiziaria di procedere “senza ritardo al compimento degli atti delegati dal pubblico ministero”. È chiaro il senso complessivo delle nuove disposizioni: garantire un intervento immediato della magistratura, se del caso anche di natura cautelare personale, nel contempo dimostrando alla persona offesa la vicinanza dello Stato. Diversamente non si spiega l’obbligo di assumere informazioni testimoniali - non solo dalla vittima, ma anche da altri soggetti a lei vicini - di cui viene gravato il pubblico ministero personalmente, senza possibilità di delegare l’incombente a polizia giudiziaria e psicologi specializzati: un atto dal sapore “simbolico” ma privo di reale utilità investigativa, che impegnerà molto le risorse delle Procure italiane. Va detto, infatti, che oggi il Pm non ha alcun obbligo di assumere personalmente a sommarie informazioni testimoniali la persona offesa o il querelante e che raramente lo fa, privilegiando altri mezzi di ricerca della prova che riscontrino le accuse. Il ruolo degli avvocati - Si tratta di un sistema in cui gli avvocati - e in particolare i difensori delle vittime - potranno avere un fondamentale ruolo di supporto alla magistratura, sia per la tutela dei diritti, sia per il buon funzionamento dell’apparato giudiziario. Innanzitutto la denuncia o querela - il cui termine di proposizione, per violenza sessuale e atti sessuali con minorenne, aumenta da 6 mesi a 1 anno - potrà essere preceduta da un’analisi professionale dei fatti, in modo da evitare sovrapposizioni tra componenti emotive e condotte penali, e offrire al pubblico ministero un quadro già completo che eviti inutili sforzi investigativi. Quando la vittima è un minore, il professionista potrà farsi supportare da un consulente di parte, che possa valutarne l’effettiva capacità a testimoniare, in modo da evitare il rischio di procedimenti per falsi abusi. Si tratta di attività preziose, che possono mettere il pubblico ministero nelle condizioni di valutare se, nell’interesse della persona offesa e delle indagini, non sia più utile svolgere attività di ricerca della prova diversa da un’assunzione di informazioni testimoniali che potrebbe rivelarsi una ripetizione di circostanze già esposte. Solo l’applicazione pratica potrà poi far capire se la corsia preferenziale riservata alla violenza domestica e di genere potrà convivere con i carichi giudiziari ordinari e le risorse dell’amministrazione della giustizia. Reati censiti in real time. Il database sfrutta l’intelligenza artificiale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 22 luglio 2019 Un database che sfrutta l’intelligenza artificiale per censire i reati del codice penale e delle leggi speciali aggiornato in tempo reale che può diventare un punto di riferimento per avvocati, magistrati, forze dell’ordine, assistenti giudiziari, studenti universitari e laureati impegnati nella preparazione di concorsi a tema. Si chiama “Toga” ed è stato implementato da Aldo Resta, giudice delle indagini preliminari del tribunale di Bologna e referente distrettuale per l’informatica della Corte d’appello di Bologna. Da ideatore e coordinatore del team, ha curato lo sviluppo di un’app giuridica che fornisce in formazioni su tutti i reati calcolando termini e scadenze secondo le esigenze del cliente, dal singolo professionista a un intero tribunale che abbia bisogno di un utilizzo in multiutenza. Attraverso la ricerca, individua facilmente l’esatta fattispecie di reato cercando i codici e le leggi speciali per articolo, materia o parole chiave, con la consultazione, calcola per ogni fattispecie di reato gli istituti giuridici, sostanziali e processuali fornendo informazioni dettagliate. In termini di applicazione, il sistema calcola la prescrizione tenendo conto del tipo di reato, della recidiva, degli eventi interruttivi e delle scadenze dei termini: indagini, notifica, lista testi e querela, tenendo conto della sospensione feriale, permettendo anche di calendarizzare gli eventi del procedimento per ciascun reato del fascicolo. La ricerca può avvenire per articolo dei codici, per legge speciale e per ricerca guidata che è una ricerca tematica che consente di eseguire la ricerca per titolo del codice penale o materia della legge speciale selezionando fonte e titolo per iniziare la ricerca. L’ultimo tipo di ricerca è quella libera, per parola chiave: inserendola, Toga restituirà un risultato andando a cercare nel titolo, nella fattispecie e nel testo del reato. Il software che ne è alla base, funziona sul cloud ed è utilizzabile con qualsiasi dispositivo, Mac, iPhone, iPad, PC, dispositivi Android, d’interesse per le professioni legali perché gestisce l’intero corpus dei reati previsti dalla legislazione penale italiana: oltre 5.000 fattispecie previste nel codice penale, civile e nella legislazione speciale, dal 1930 a oggi. Il funzionamento è semplice: alla base del sistema c’è un motore di calcolo in grado di modificare i criteri, e quindi i risultati degli istituti giuridici sostanziali e processuali delle fattispecie di reato previste dalla legislazione italiana. Se viene modificata la norma-reato, cambia la pena edittale o la norma dell’istituto, Toga calcola e aggiorna i risultati e le informazioni. Cambia la norma, cambia l’informazione. In tempo reale. Il sistema fornisce informazioni aggiornate su tutte le fattispecie di reato, anche rispetto all’evoluzione normativa del reato stesso, senza dover investire continuamente in banche dati cartacee o informatiche, destinate a diventare obsolete non appena entra in vigore una nuova legge o un reato viene introdotto o modificato. Toga consente di migliorare la gestione delle pratiche perché, una volta selezionati i reati di un caso concreto, è possibile registrarli in una pratica, gestirne scadenze e termini. “Il dl 53/2019 Sicurezza-bis modifica ancora norme, reati e istituti di diritto penale. Da inizio anno e in soli sei mesi siamo arrivati a cinque leggi di riforma e oltre 50 norme penali modificate. Diamo i numeri? No, è la “dura” realtà normativa del “mobile” diritto penale”, scrive dalla sua pagina Linkedin Resta, il magistrato ideatore che condivide con l’utente la sua visione di intelligenza artificiale. “L’intelligenza artificiale”, scrive, “non è una macchina che fa qualcosa al posto dell’uomo, ma è l’uomo che fa qualcosa con una macchina. E lo fa meglio! La macchina calcola e libera l’uomo da attività ripetitive, seriali, matematiche. L’uomo, giurista, legge, consulta, pensa, ragiona, valuta, elabora, interpreta, applica, decide”. In 7 mesi 7 infanticidi. I figli ammazzati di botte da genitori-bambini di Nadia Ferrigo La Stampa, 22 luglio 2019 Sono le vittime di un mix di povertà, emarginazione, genitori fragili e “violenza strutturale”. Gli ultimi episodi a Frosinone e Crema. Sui social network il processo mediatico ai “mostri”. Di emergenza-minori si parla da tre settimane per l’ inchiesta “Angeli e Demoni” della procura di Reggio Emilia su un presunto giro di affidi illeciti a Bibbiano, nella Val D’Enza. Ma i numeri sull’infanzia maltrattata sono allarmanti dall’inizio dell’anno in tutta Italia. Chi passa davanti al cancello scuro pieno di peluche e bambole di corso Trieste abbassa lo sguardo e si allontana in fretta. Palazzine scrostate e villette in vendita da anni con l’erba alta, qualche fabbrica che ha resistito alla crisi e un abbozzo di centro commerciale: tre mesi dopo nel quartiere Sant’Agabio, periferia di Novara, nessuno ha più voglia di parlare di Leonardo Russo, bimbo di venti mesi ammazzato di botte dal patrigno. Le giovani famiglie in crisi Il processo alla madre, Gaia Russo, 22 anni, e al suo compagno Nicolas Musi, 23, si alimenta con i servizi alla tv e continua sui social network con migliaia di commenti divisi tra minacce di morte, insulti e chiacchiere di paese. Gaia, al settimo mese di gravidanza, è ai domiciliari con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato. Anche se è molto giovane, ha vissuto tanto e in fretta. I suoi numerosi profili di Facebook raccolgono qualche scatto spensierato dell’adolescenza, poi l’amore con Mouez Ajouli, il padre di Leonardo e anche di una bimba e un bimbo con i capelli ricci e la pelle ambrata. Nella gogna virtuale le più commentate sono le fotografie con Nicolas, per i social Nico Cerra. C’è l’aggiornamento di stato di gennaio: “Fidanzamento ufficiale”. Aprile: “Convivenza”. Nico negli anni ha pubblicato decine di sue fotografie, ma solo di due tipi: in posa sorridente con un bambino in braccio. Con i suoi fratelli più piccoli, con Leonardo. In tutte le altre invece fuma. Canne e bong. Lui è cresciuto con il compagno della madre, ma il suo padre biologico è un altro. “Per questo quei due l’hanno sempre picchiato” ha detto l’uomo alle telecamere per difendere il figlio. “Quei due”, la madre e il compagno, hanno buttato Nicolas fuori casa a 16 anni. Lui li ha denunciati, cinque anni fa. Ma il processo è iniziato solo ora. Troppo tardi. Nicolas si è ritrovato in fretta nel ruolo di chi l’aveva picchiato e abbandonato, e ha fatto peggio. Da vittima si è trasformato in spietato carnefice. Nelle cronache degli ultimi mesi, si rincorrono le storie di bambini ancora piccoli ammazzati di botte dai genitori. Separazioni difficili La scorsa settimana a San Gennaro Vesuviano, Napoli, Salvatore Narciso, 35 anni, ha lanciato la figlia Ginevra, 17 mesi, dal balcone. A Cremona a fine giugno Jacob Danho Kouao, operaio ivoriano, 27 anni, ha ucciso a coltellate sua figlia Gloria, 2. Poi ha provato a suicidarsi con una lametta nella pancia. Si era da poco separato dalla moglie, che l’aveva affidata a lui per poche ore. Lo stesso giorno un’altra bimba, otto mesi, è morta nell’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, Salerno. Era piena di lividi e lesioni, c’è un’inchiesta per capire cosa sia successo in un’altra giovane famiglia, già seguita dai servizi sociali. I protagonisti di queste storie dell’orrore sono “genitori fragili”. Ragazze madri che restano sole, senza un lavoro stabile, il contributo del partner o una rete di sostegno. Giovani donne, prima vittime e poi complici di giovani uomini violenti, impreparati a prendersi cura di figli che non riconoscono come una loro responsabilità. Fragili sono le famiglie numerose con scarsa disponibilità economica, quelle dove uno o tutti e due i genitori stranieri hanno difficoltà di integrazione sociale. Fragili sono le famiglie dove tra i genitori la separazione è difficile. “Lo avevo solo picchiato, come le altre volte” è in sintesi la difesa di Tony Essobti Badre, 24 anni, che ha ucciso con un manico di scopa Giuseppe Dorice, 7, davanti alla sorellina. Giuseppe era il figlio della compagna, Valentina Cara, 30 anni, tre figli avuti da ragazza e gli studi abbandonati per mantenerli. Lei c’era, ha ripulito il sangue e non ha chiamato l’ambulanza. Voleva proteggere il suo uomo. Come Donatella Di Bona, 28 anni, che è arrivata al Pronto soccorso con il figlio Gabriel Feroleto, 2, in braccio. Morto. Prima ha detto di averlo investito con l’auto, poi che era stato il padre Nicola. Infine, la confessione: si erano visti nel pomeriggio in un campo di Piedimonte San Germano, Frosinone, per fare l’amore. Erano genitori e coppia clandestina. Il bimbo piangeva, la mamma l’ha strangolato e il padre è rimasto a guardare. Anche Mehmed Hrustic, 2 anni e 5 mesi è stato ammazzato di botte dal padre, Aliza Hrustic, davanti alla madre Silvija Zahirovi, 23 anni, incinta del quinto figlio. Vivevano in una palazzina popolare occupata nel quartiere San Siro, Milano. Come in tutti gli altri casi, anche qui c’è la testimonianza del vicino di casa che aveva sentito urla e pianti. Giovani vite a rischio, che non siamo capaci di salvare. Un fenomeno sommerso Nemmeno sappiamo quanti bambini vivono in una situazione di pericolo, denuncia l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Se come Mehmed vivi in un casermone che cade a pezzi, tra materassi vecchi buttati nel cortile e immondizia, dove in una mattinata tranquilla arrivano un paio di ambulanze e una volante, non sei il bambino che piange, ma uno dei bambini che rompe le scatole anche di notte. “Mai sentito parlare di violenza strutturale?” quasi sospira Paolo Grassi. È un antropologo, al lavoro nel suo ufficio piantato nel mezzo del quartiere milanese. Da lì porta avanti un progetto di ricerca internazionale sul rapporto tra violenza e spazi urbani. “Nei contesti sociali segnati da profonde diseguaglianze economiche e difficoltà di emancipazione e integrazione, le vittime sono sempre i più deboli - continua -. I bimbi ammazzati sono come sfiati di violenza: li vediamo tutti, quando è troppo tardi. L’unico sforzo che può avere un senso è occuparsi e preoccuparsi delle violenze di tutti i giorni”. La figlia di Borrelli: “In casa per noi era “Severio”. Soffrì per i suicidi in carcere” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 22 luglio 2019 La figlia del magistrato: consapevole dei rischi di rovinare le vite degli altri. Il sole caldo che filtra dalle finestre nel corridoio riscalda l’aria gelida dei condizionatori, mentre un viavai di magistrati, personalità e amici rende omaggio alla salma di Francesco Saverio Borrelli nella camera mortuaria dell’Istituto dei tumori di Milano. Quando scompare una persona cara, è dolce abbandonarsi ai ricordi di una vita, come fa Federica Borrelli, figlia di colui che fu il capo di Mani pulite. Qual è il primo ricordo che ha di suo padre? “Avevo due anni e mezzo quando mi mandarono all’asilo. Mamma (Maria Laura, professoressa d’inglese, ndr) e papà lavoravano, per me fu un trauma. Ricordo l’uscita da casa al mattino con papà che mi metteva sulla canna della bicicletta e mi consegnava a una maestra. Mi sentivo un po’ tradita”. Che padre è stato? “Un grandissimo, dolcissimo educatore. Quando io e Andrea (il figlio maggiore, anche lui magistrato, ndr), eravamo piccoli era rigoroso, ma mentre crescevamo ci educava con consigli e chiacchierate in cui suggeriva il comportamento migliore”. Severo? “Lo chiamavamo Francesco “Severio”. Voleva che fossimo severi con noi stessi. Dovevamo sempre chiederci: “Sei sicuro di aver fatto tutto il possibile?”“. Era anche allegro? “Sono stati tantissimi gli scherzi in casa”. Parlava del lavoro? “Certo, come quando era giudice d’Assise nei processi alle Brigate Rosse negli anni di piombo. Temevo che lo uccidessero, anche perché non lo proteggevano. Lui sdrammatizzava sempre”. Il periodo più duro? “Mani pulite, per ciò che dicevano i politici sui giornali. Si è rischiata la vera solitudine del magistrato”. Ci soffriva? “Ha sofferto enormemente per i suicidi. Aveva la consapevolezza che, facendo il proprio dovere, si rischiava di rovinare le vite degli altri”. Eppure c’erano i fax e le fiaccolate di solidarietà. “Una volta, tornando a casa, ci disse: “Adesso applaudono, vedrete che fra poco saremo additati come quelli che hanno rovinato il Paese”. Ricordo che quando in una ricorrenza in Duomo si alzò per salutare il Cardinal Martini, molti si misero ad applaudire. Martini gli disse: “Dottore questo è per lei, vada avanti così”. Si stupì”. Il suo più grande dolore? “L’omicidio di Guido Galli e la mancata conferma alla presidenza del Conservatorio di Milano. Amava la musica, quello era il suo mondo dopo la pensione e il veto di un partito e il fatto che l’allora ministro Gelmini non gli avesse neppure telefonato, tanto che lo aveva saputo dai giornali, lo colpirono. Eppure in un’occasione in cui il ministro era stata in visita al Conservatorio, l’aveva, diciamo così, salvata durante una contestazione di studenti facendola uscire da una porta laterale. Si offese profondamente”. C’era chi voleva entrasse in politica. “Non ci pensava proprio, perché il magistrato è magistrato fino alla morte. Però non ha ricevuto grandi proposte. Come diceva lui: “A una signora perbene non si fanno proposte sconce”“. C’è stato un momento in cui si diceva potesse essere eletto Presidente della Repubblica. “Si diceva... Forse c’è stato un momento in cui per molti mio padre rappresentava una sicurezza di legalità, di equilibrio e di integrità. Lui era a disposizione della Repubblica, ma nei limiti delle sue funzioni di magistrato”. Il famoso “resistere, resistere, resistere” fu il suo testamento civile? “Credo proprio di sì”. Amava la natura, lo si è visto fino ad oltre gli 80 anni sciare sulle piste di Courmayeur. “Amava le montagne. Ha detto due o tre volte che avrebbe voluto essere sepolto a Courmayeur dove i miei genitori hanno una casa. Lo disse anche al sindaco anni fa quando fu fatto cittadino onorario del paese. Chissà se sarà possibile...”. Se potesse commentare quello che sta accadendo intorno a lui, cosa direbbe? “Riderebbe come un matto e, in napoletano, direbbe: “Cose ‘e pazzi”“. Frammenti di discorso antimafia. Rivoluzione? È lavorare con amore di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2019 Una studentessa universitaria (e sua madre). E un capitano dei carabinieri. Estranei l’una all’altro, ma intrecciatisi nei miei pensieri questa settimana. Frammenti buoni dello stesso Paese. E vi spiego perché. La studentessa, prima di tutto. Si chiama Chiara. Ha frequentato lo scorso autunno un mio corso. Due pomeriggi a settimana. La vedevo quasi sempre nelle prime file. Attenta, curiosa. A volte in certi passaggi delle lezioni gli occhi le si sgranavano, segno che quel che stavo dicendo le suggeriva questioni inaspettate o per le quali provava una particolare sensibilità. Superò l’esame orale con un voto d’eccezione: 30 e lode. Passò qualche settimana, il tempo delle vacanze di Natale, e giunse in ufficio chiedendo di fare la tesi di laurea con me. Gestione e comunicazione d’impresa: la interessava occuparsi della comunicazione delle aziende di ristorazione e in particolare della giovane catena Miscusi. Una scelta, mi spiegò, derivante dallo studio personale e molto empirico che lei riservava da tempo ai locali che frequentava e ai nuovi stili di comunicazione della gastronomia. Gliela accettai; per il suo valore e perché la motivazione di partenza prometteva già da sé buoni risultati. Non tradì le aspettative, destreggiandosi benissimo tra teoria e ricerca. Per mesi Chiara è arrivata al ricevimento studenti portandomi i capitoli via via scritti per sentire le mie osservazioni. Solare, disponibile ai cambiamenti, propositiva. A fine giugno ha sostenuto il colloquio di valutazione finale. Punteggio massimo. E relativi saluti: grazie professore, buona fortuna Chiara. Passano due-tre settimane e ricevo, per ragioni del tutto diverse, una lettera da una mia collega, con cui ho spesso collaborato e con la quale stiamo progettando un seminario in spagnolo sulla criminalità organizzata in America latina. Non un’estranea, insomma. Dice così: “Altra cosa... avevi una studentessa laureanda di nome Chiara Primavesi, che si è laureata in Ces con il massimo del punteggio. È mia figlia e ti ringrazio per averla seguita”. Resto di stucco. Dunque Chiara è la figlia di Marzia. E nessuna delle due me ne ha mai fatto cenno. I giovani, lo so benissimo, sono più restii a dare questo tipo di informazioni. I migliori, quelli più gelosi della propria indipendenza, non amano vantare parentele di alcun tipo. Si farebbero sparare, piuttosto. Ma anche la madre non ha fatto un cenno. Nemmeno di quelli eleganti, del tipo “mia figlia sta frequentando il tuo corso, è entusiasta”, a cui segue breve e affettuosa richiesta di informazioni. Ecco, se il cancro del Paese, il binomio mafia-corruzione, passa dalle raccomandazioni, abbiamo la prova provata che, anche fuori dall’antimafia, ci sono dei punti da cui non passa. E qui entra in scena il capitano dei carabinieri. Diversamente da Chiara, non lo conosco, ma solo immagino. E che mi è piaciuto intravedere dietro la brillantissima operazione dell’Arma che ha portato a scoprire la trama di mafia che stava riportando dagli Stati Uniti a Palermo gli “scappati”, i vecchi clan di Cosa nostra. Nomi di peso, i Gambino e gli Inzerillo, con una gran voglia di riconquistarsi Palermo e la Sicilia. Non sarà sfuggito ai lettori il livello di professionalità delle indagini. I boss adiposi in costume e camicia che vengono filmati in mare sopra un gommone mentre discutono dei loro progetti e delle loro sorti (essi sperano) magnifiche e progressive. Ascoltati, videoregistrati nei luoghi che ritengono più inaccessibili. Viene spontaneo domandarsi quanto lavoro ci sia dietro quei pedinamenti, quante accortezze e intelligenza, quanta abilità e coraggio abbiano contribuito a quello straordinario successo tra le due sponde dell’Atlantico. In genere il fulcro operativo di queste indagini sono un maresciallo e un capitano. Così penso per associazione mentale a quel capitano dell’Arma che collaborò decisivamente all’inchiesta “Infinito” (sfociata nei celebri arresti milanesi-brianzoli del 2010) dando al paese 800 ore di straordinario gratuite, e di cui non sapremo mai il nome. Ecco perché, nonostante tutto, mi sento meglio. Una studentessa figlia di una collega e amica che per un anno non fa trasparire, come la madre, nulla sulla sua parentela, per essere certa di guadagnarsi col merito il massimo dei voti. Investigatori che lavorano senza sciatteria ma con più ingegno dei mafiosi, senza chiedersi chi me lo fa fare e nemmeno che ore sono. Ma che cosa ci vuole ad avere un’Italia così? Resistenza a pubblico ufficiale: la minaccia va valutata con giudizio ex ante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 10 luglio 2019 n. 30424. Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è stato tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta a impedire la libertà d’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, di talché la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto in modo idoneo e univocamente a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l’atto di ufficio o di servizio intrapreso, ciò perché l’idoneità della minaccia va valutata con giudizio ex ante, a nulla rilevando il fatto che in concreto i destinatari non siano stati intimiditi e che il male minacciato non si sia realizzato. Così la sezione VI della Cassazione con la sentenza 30424/2019. Nella fattispecie, l’imputato risultava avere cercato di ostacolare l’attività degli agenti, facendo intendere di essere in grado di arrecare loro problemi in sede giudiziaria, millantando di averlo già fatto contro altri agenti, quindi prospettando implicitamente la presentazione di una denuncia calunniosa: la Corte, nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di condanna, ha ritenuto che anche una millanteria può costituire mezzo idoneo a turbare e ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, per effetto della prospettazione di conseguenze pregiudizievoli attraverso la presentazione di un esposto calunnioso con l’implicito riferimento alla possibilità di creare problemi grazie alle proprie conoscenze influenti. Sull’utilizzo della minaccia di iniziative legali quale mezzo idoneo a minacciare il pubblico ufficiale, cfr., peraltro, sezione VI, 20 dicembre 2011, Paolella, secondo cui ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 336 del Cp, l’idoneità della minaccia posta in essere per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri di ufficio deve essere valutata ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto e in particolare del tenore delle espressioni verbali e del contesto nel quale esse si collocano, onde verificare se e in quale grado tale minaccia abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa. Ciò che deve escludersi in presenza della minaccia di un’iniziativa legale, che, come tale, non può ritenersi univocamente come espressiva della prospettazione di un male ingiusto, finalizzato a condizionare il pubblico ufficiale, ma semmai come manifestazione di un disappunto, finalizzata alla tutela dei propri diritti, attinenti alla sfera della libertà personale (da queste premesse, la Corte ha annullato con rinvio, per insussistenza del fatto, la condanna per il reato di cui all’articolo 336 del Cp pronunciata nei confronti dell’imputato, al quale il reato era stato addebitato per il fatto che, nel corso di un controllo cui era stato sottoposto da una pattuglia della Polizia di Stato, aveva dichiarato agli operanti “che li avrebbe denunciati tutti, avendo a disposizione parecchi avvocati”). Strumento della perizia necessario per indagini che richiedono competenze tecniche di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 giugno 2019 n. 28102. L’articolo 220 del Cpp prevede l’espletamento della perizia ogniqualvolta sia necessario svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedano specifiche competenze di natura tecnica. Dunque la perizia, prosegue la Cassazione con la sentenza 28102/2019, pur essendo rimessa a una valutazione discrezionale del giudice, rappresenta un indispensabile strumento probatorio, allorché si accerti il ricorrere del presupposto inerente alla specificità delle competenze occorrenti per l’acquisizione e la valutazione di dati, perfino laddove il giudice possieda le specifiche conoscenze dell’esperto, perché l’eventuale impiego, a opera del giudicante, della sua scienza privata costituirebbe una violazione del principio del contraddittorio e del diritto delle parti sia di vedere applicato un metodo scientifico sia di interloquire sulla validità dello stesso. La Cassazione, a corredo del principio di cui in massima, ha sviluppato il significato normativo del ruolo di peritus peritorum attribuito al giudice rispetto al contenuto della perizia. Tale ruolo, si osserva, non autorizza affatto il giudice a intraprendere un percorso avulso dal sapere scientifico, avventurandosi in opinabili valutazioni personali, sostituendosi agli esperti e ignorando ogni contributo conoscitivo di matrice tecnico-scientifica. Il ruolo di peritus peritorum abilita invece il giudice a individuare, con l’aiuto dell’esperto, il sapere accreditato che può orientare la decisione e a farne un uso oculato, pervenendo a una spiegazione razionale dell’evento. Il perito non è, quindi, l’”arbitro” che decide il processo, ma l’esperto che espone al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito fenomenologico al quale attiene il giudizio, spiegando quale sia lo stato del dibattito, nel caso in cui vi sia incertezza sull’affidabilità degli enunciati a cui è possibile addivenire, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecnologiche disponibili in un dato momento storico. Toccherà poi al giudice tirare le fila e valutare se si sia addivenuti a una spiegazione dell’eziologia dell’evento e delle dinamiche in esso sfociate sufficientemente affidabile e in grado di fornire concrete, significative e attendibili informazioni, che possano supportare adeguatamente l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato. Il giudice, in proposito, proprio in ossequio al suo ruolo di “perito dei periti”, deve esaminare le basi fattuali sulle quali le argomentazioni del perito sono state condotte; l’ampiezza, la rigorosità e l’oggettività della ricerca; l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonché il grado di consenso che le tesi sostenute dall’esperto raccolgono nell’ambito della comunità scientifica, fermo rimanendo che, ai fini della ricostruzione della vicenda, è utilizzabile anche una legge scientifica che non sia unanimemente riconosciuta, essendo sufficiente il ricorso alle acquisizioni maggiormente accolte o generalmente condivise, attesa la diffusa consapevolezza della relatività e mutabilità delle conoscenze scientifiche. Di tale indagine il giudice è chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e utilizzate e fornendo una razionale giustificazione, in modo completo e, il più possibile, comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto. Si tratta di accertamenti e valutazioni di fatto, insindacabili in cassazione, ove sorretti da congrua motivazione, poiché il giudizio di legittimità non può che incentrarsi esclusivamente sulla razionalità, completezza nonché sul rigore metodologico del predetto apprezzamento. Il giudice di legittimità, infatti, non è giudice del sapere scientifico e non detiene proprie conoscenze privilegiate, di talché esso non può, ad esempio, essere chiamato a decidere se una legge scientifica, di cui si postuli l’utilizzabilità nell’inferenza probatoria, sia o meno fondata, avendo come proprio compito esclusivo (solo) quello di valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare e indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Il giudizio demandato alla Corte di cassazione non riguarda dunque l’attendibilità della legge scientifica, ma esclusivamente la razionalità dell’apparato argomentativo a sostegno delle determinazioni del giudice di merito in ordine all’apprezzamento della validità della legge scientifica e all’utilizzo di quest’ultima nell’inferenza probatoria (in termini, di recente, sezione IV, 9 aprile 2019, Molfese e altri; nonché, sezione IV, 11 marzo 2014, Carlucci, dove si è precisato che, in tema di valutazione delle diverse tesi prospettate dal perito e/o dai consulenti tecnici, il giudice di merito può fare legittimamente propria l’una piuttosto che l’altra tesi scientifica, purché dia congrua e motivata ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire. Entro questi limiti, non rappresenta vizio della motivazione, di per sé, l’omesso esame critico di ogni più minuto passaggio della relazione tecnica disattesa, poiché la valutazione delle emergenze processuali è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il quale, per adempiere compiutamente all’onere della motivazione, non deve prendere in esame espressamente tutte le argomentazioni critiche dedotte o deducibili, ma è sufficiente che enunci con adeguatezza e logicità gli argomenti che si sono resi determinanti per la formazione del suo convincimento. Laddove il giudice abbia rispettato tali principi, il giudizio di fatto formulato è incensurabile in sede di legittimità). Deposito delle liste testimoniali e termine di cui all’articolo 468, comma 1, del Cpp Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2019 Giudizio - Atti preliminari al dibattimento - Citazione testimoni, periti, consulenti - Deposito lista - Termine - Perentorio - Controprova - Termine - Inapplicabilità. In tema di citazione di testimoni, periti e consulenti tecnici, mentre è previsto un termine a pena di inammissibilità per il deposito delle liste, con l’indicazione delle circostanze su cui deve vertere l’esame, non è previsto un termine entro il quale l’indicazione a prova contraria deve essere effettuata, né il diritto alla controprova è collegato a quello alla prova esercitato dalla medesima parte. Ciò risponde ad una logica comune oltre che giuridica, dato che il diritto alla controprova concerne le prerogative di contrasto di una parte rispetto alla prova articolata da altri, sicché è condizione imprescindibile non che la parte che intenda invocarla abbia presentato una propria lista, ma che l’abbia presentata un’altra parte. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 1° luglio 2019 n. 28552. Giudizio - Atti preliminari al dibattimento - Esami a richiesta di parte - Testimoni - Omessa citazione dei testimoni ammessi - Conseguenze - Decadenza dalla prova testimoniale - Ragioni. In tema di prova testimoniale, la mancata citazione dei testimoni già ammessi dal giudice comporta la decadenza della parte dalla prova. (In motivazione la Corte ha chiarito che il termine per la citazione dei testimoni è inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti ed ha, pertanto, natura perentoria). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 gennaio 2018 n. 594. Giudizio - Dibattimento - Atti introduttivi - Richieste di prova - Prova documentale - Rispetto del termine di cui all’articolo 468 cod. proc. pen. - Esclusione - Richiesta di acquisizione documentale ai sensi dell’articolo 493, cod. proc. pen. - Necessità - Esclusione. La preclusione alle richieste probatorie delle parti, conseguente al mancato rispetto del termine fissato nel primo comma dell’articolo 468 cod. proc. pen., non riguarda le richieste di acquisizione di prove documentali, che possono dunque essere avanzate anche in un momento successivo a quello fissato dalla disposizione suddetta; ne consegue che deve escludersi che l’articolo 493 cod. proc. pen., il quale disciplina l’esposizione introduttiva e le richieste di prova avanzate dalle parti, preveda una preclusione alla esibizione di documenti, ed all’ammissione di essi da parte del giudice, in un momento successivo a quello fissato dalla norma suddetta, essendo tale preclusione esplicitamente limitata alle prove che devono essere indicate nelle liste di cui all’articolo 468 cod. proc. pen. (In motivazione la S.C. ha precisato che in caso di esibizione di documenti successiva all’esposizione introduttiva, tuttavia, deve essere garantito alle altri parti il diritto di esaminarli, secondo quanto prescrive l’articolo 495, comma terzo, cod. proc. pen.). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 11 maggio 2017 n. 23004. Giudizio - Atti preliminari al dibattimento - Esami a richiesta di parte - Testimoni - Richiesta di citazione testi a prova contraria - Omessa presentazione della lista entro il termine di cui all’art. 468, comma primo, cod. proc. pen. - Ammissibilità. La parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge ha la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, considerato che il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall’art. 468, comma primo, soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, e che l’opposta soluzione vanificherebbe il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 4 ottobre 2016 n. 41662. Giudizio - Atti preliminari al dibattimento - Esami a richiesta di parte - Testimoni - Omessa presentazione della lista dei testimoni nel termine di legge - Richiesta di citazione testi a prova contraria - Ammissibilità - Ragioni. L’omesso deposito in cancelleria della lista dei testimoni, periti, consulenti tecnici nonché delle persone indicate nell’articolo 210, nel termine di legge di cui al primo comma dell’articolo 468 c.p.p., non esclude la facoltà di chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, dovendosi tale termine considerare posto solo per la citazione diretta ma non per quella contraria, poiché va sempre garantito il diritto alla controprova, espressione del diritto di difesa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 13 marzo 2012 n. 9606. Abruzzo: Garante regionale dei detenuti, ore decisive. In corsa anche l’aquilano Sirolli di Roberto Ciuffini news-town.it, 22 luglio 2019 Domani, martedì 23 luglio, tornerà a riunirsi il Consiglio regionale, nella penultima seduta in programma prima della pausa estiva. Tra gli ordini del giorno inseriti in agenda, c’è anche l’elezione del Garante dei detenuti. Complice anche una normativa che richiede la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli, l’Abruzzo è l’unica regione italiana a non averlo ancora nominato, nonostante la legge istitutiva di questa figura risalga addirittura al 2011. Proprio a causa di questo quorum così alto, nella scorsa legislatura non si riuscì a trovare un accordo sulla radicale Rita Bernardini, la cui candidatura era fortemente appoggiata anche dall’ex governatore D’Alfonso. Dopo le elezioni e il cambio di maggioranza, la Regione ha deciso di indire un avviso pubblico, al quale hanno risposto in 13. A fronte dell’istruttoria effettuata dagli uffici regionali, sono stati scartati Marco Fanfani (ex presidente della Fondazione Carispaq), Rosa Pestilli, Emilio Enzo Quintieri, Carla Cotellessa e Gabriella Sacchetti. Restano in corsa Salvatore Braghini, Gianmarco Cifaldi, Leonardo Colucci, Edda Giuberti, Teresa Lesti, Francesco Lo Piccolo, Fabio Nieddu, Alessandro Sirolli e Fiammetta Trisi. Il nome sarà scelto tra questi nove. L’elezione sarebbe dovuta arrivare nel consiglio regionale di ieri ma su richiesta del consigliere del Cinque Stelle Pietro Smargiassi l’aula aveva deciso di posticipare tutto al 23 luglio per esaminare meglio le candidature. Il presidente Lorenzo Sospiri vuole chiudere la partita prima della pausa estiva. Firenze: Sollicciano, troppi detenuti e struttura fatiscente, il carcere è un’emergenza di Orlando Pacchiani La Nazione, 22 luglio 2019 L’antologia di allarmi e proteste sulla situazione del carcere di Sollicciano è un capitolo infinito che si aggiorna continuamente. L’episodio di due giorni fa, con nove agenti costretti a ricorrere alle cure dei sanitari nel tentativo di fuga di un detenuto, ha riportato alla ribalta i mille problemi di una struttura nata già vecchia negli anni Ottanta. Lo stesso direttore Fabio Prestopino pochi giorni fa ha elencato alcune delle carenze principali: il sovraffollamento, l’attesa per il reparto speciale in uno degli ospedali fiorentini, l’attesa di un programma di recupero edilizio nelle zone circostanti per andare incontro agli agenti. Perché tutti i disagi della struttura ricadono ovviamente anche su di loro e su tutti gli operatori a vario titolo, oltre che sui detenuti. “Le condizioni di vivibilità sono dure per tutti, reclusi e dipendenti”, ha detto il presidente del consiglio comunale Luca Milani, che proprio a Sollicciano ha compiuto la prima uscita ufficiale. Il caldo eccezionale ha indotto il direttore Prestopino a ripristinare la riapertura delle celle, per far fronte al caldo insopportabile che fa il paio con il freddo altrettanto feroce nei mesi invernali. Proprio domani in Regione saranno presentati alcuni interventi su Sollicciano e “Mario Gozzini”, ma il tema è enorme. Anche per i problemi delle strutture fiorentine il garante regionale dei detenuti Franco Corleone aveva attuato tre giorni di sciopero della fame e a marzo una delegazione coordinata dal partito Radicale con gli attivisti di Progetto Firenze e gli allora consiglieri comunali Donella Verdi e Tommaso Grassi aveva messo in fila una serie di mancanze: dal sovraffollamento ai pochi accessi al lavoro, dal riscaldamento alla mancanza di lampade, allo stato delle docce maschili. “Non c’è dubbio che la situazione al carcere di Sollicciano - aveva detto a inizio anno il sindaco Dario Nardella - sia insostenibile, perché non rispetta moltissimi dei criteri basilari del sistema detentivo di qualunque paese democratico, moderno e civile”. Anche il prefetto Laura Lega ha compiuto un sopralluogo, nel mese di marzo, per verificare lo stato dei luoghi. E, il 17 dicembre, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede era arrivato a sorpresa per controllare la situazione di piena emergenza; appena due giorni prima Regione e Misericordia avevano inviato 400 coperte per far fronte alla rottura dell’impianto di riscaldamento. “Abbiamo il monitoraggio completo della situazione - disse il ministro nell’occasione - ho trovato grande collaborazione ma è un viaggio che fa male, perché si tocca con mano la situazione grave in cui versano le carceri italiane e questa in particolare. Sollicciano è una struttura nata male”. Sempre lì si torna, alla struttura che non ha nemmeno quaranta anni ma una sfilza di problemi lunga così. Il deputato leghista Manfredi Potenti ha annunciato l’arrivo di 34 agenti “entro agosto” ed è prevista anche l’attivazione della seconda cucina. Bene, ma come rispondere all’accorato grido di dolore del cappellano Vincenzo Russo: “A fronte dei pur lodevoli sforzi di direzione, personale e volontari, i problemi strutturali restano enormi, la rieducazione impraticabile, l’assistenza sanitaria inadeguata; situazioni di degrado che in qualunque altro luogo della città sarebbero considerate da tutti intollerabili” Sassari: Asinara, ex detenuti raccontano la storia delle carceri dell’Isola di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 22 luglio 2019 Al centro dell’appuntamento testimonianze, lettere e pensieri dei detenuti del penitenziario. Lettere di detenuti, testimonianze e storie che raccontano la vita dei detenuti nelle carceri dell’isola dell’Asinara. Martedì 23 luglio alle ore 9.30 presso la sede del Parco Nazionale dell’Asinara a Porto Torres, si terrà un breve incontro in occasione della ripresa del lavoro di studio e digitalizzazione dei vecchi archivi del carcere dell’isola da parte di 4 detenuti in regime art. 21. Saranno presenti il vicepresidente Antonio Diana, la responsabile dell’area educativa del carcere di Bancali Ilenia Troffa, la direttrice dell’archivio di stato Federica Puglisi, il responsabile dell’Area marina protetta dell’Asinara Vittorio Gazale e la presidente della cooperativa Andalas de Amistade. Una ricerca in continuità con un progetto iniziato nel 2012 nella carcere di Sassari - prima a San Sebastiano e poi a Bancali - che ha visto la stretta collaborazione dell’area educativa del carcere, l’Archivio di Stato e i Parchi dell’Asinara e di Porto Conte, per il recupero dei vecchi archivi delle ex colonie penali della Sardegna. L’attività ha permesso il ritrovamento e lo studio di un eccezionale materiale inedito contenente le storie più svariate, le testimonianze, le lettere, i pensieri, le varie tipologie comportamentali dei reclusi che si sono succeduti nel tempo, che hanno permesso di ricostruire molteplici momenti di vita carceraria quotidiana da fine ‘800 a oggi, l’allestimento di due musei carcerari - Asinara e Tramariglio - e la pubblicazione di alcuni volumi divulgativi. Il medico dei detenuti racconta il carcere, e la cura per l’Italia di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2019 Nella vita di molti di noi ci sono state due stagioni in cui le carceri, immaginazione e realtà, hanno occupato la nostra attenzione: dopo il fascismo e adesso. Dopo il fascismo filtravano e circolavano le storie di coloro che ne erano usciti vivi e potevano raccontare. Parlo delle prigioni che ti facevano vedere dal bus andando in campagna, degli strani edifici bassi e scuri che notavi da lontano senza sapere o capire, mentre partecipavi alla gita in uno sciame di biciclette; nomi che in ogni città sono incrostati dal tempo e dal frequente ripetere (“Le Nuove”, “San Vittore”). C’era un mistero lì dentro, sapevamo da bambini, il mistero della non libertà fisica, dell’essere trattenuto da porte di ferro, sbarre di ferro e mura. I sopravvissuti al fascismo ce le hanno narrate, anche a scuola (alcuni erano insegnanti ritornati ) e in quel punto e momento si è formato una consapevolezza, limitata ma forte, del “dentro” e “fuori” che i regimi stabiliscono sulla vita delle persone. Ha cominciato a profilarsi l’idea dell’assurdità, sia pure a confronto con quella del delitto. Comincia il dibattito sulla giustizia, che si è evoluto fino a diventare “radica - le”, nel senso del partito che per questa consapevolezza si è battuto e nel senso del durissimo scontro fra “dentro” come la sola espiazione possibile e “fuori” nel senso dell’immenso valore delle persone, persino se colpevoli. Questo è il tema, grande e impossibile, del libro “Uomini come bestie”, di Francesco Ceraudo (Edizioni ETS) medico per decenni nelle carceri italiane, medico appassionato che però si domanda: si può curare un essere umano in prigione, dove la malattia è la prigione? Ceraudo arriva con la straordinaria memoria dei suoi pazienti in catene in un periodo della storia italiana in cui il carcere torna ad essere protagonista di vita sociale e di militanza politica. Da giovanissimo, nel momento della distruzione del fascismo, ho partecipato alla grande festa della apertura delle carceri e al diffondersi delle storie su ciò che accade in prigione. Adesso, come tanti concittadini scossi e stupiti, sono spettatore di un’epoca italiana in cui un ministro ti dice che un imputato “può marcire in prigione”, e un bel po’ di altri tuoi concittadini pensano che il carcere lungo e duro sia (insieme con la chiusura delle frontiere) l’unica soluzione per riportare “sicurezza” (una parola che copre qualunque invocazione di repressione). E che “buttare via la chiave” sia la vera soluzione. Il medico di prigione Ceraudo ha provato, in un libro forte e appassionato, a raccontare che cos’è la prigione se sei malato o ferito, e perché un Paese civile non può dividersi fra “dentro” come soluzione e “fuori” come sicurezza. La cura che con competenza prescrive al “paziente” non compare nel “contratto” di questo governo. “Sono nato già condannato”. Il libro inchiesta sul carcere di Fernando Massimo Adonia livesicilia.it, 22 luglio 2019 La giornalista e scrittrice catanese Katya Maugeri è andata negli istituti di reclusione. Ecco cosa ha scoperto. “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta sulle carceri italiane: dal reato al cambiamento” (Villaggio Maori Edizioni). Un tema forte, difficile da affrontare e raccontare perché riguarda a tutto tondo le regioni oscure dell’umanità. Che succede quando si chiudono le porte del penitenziario? La giornalista Katya Maugeri ha attraversato le mura di cinta per consegnarci una fotografia in bianco e nero dalle periferie esistenziali di questa società. “Non è un libro sul perdono, assolutamente - spiega immediatamente - Lo dico a scanso di equivoci. Io non sono dalla parte dei detenuti, in quanto uomini che hanno commesso un reato. Tuttavia ci sono delle realtà che vanno comunque fotografate. Almeno per averne un’idea”. Appunto perché molti di noi non ci sono mai entrati, com’è il carcere? Non è un hotel cinque stelle come purtroppo spesso si pensa. È brutto, tanto brutto: sia strutturalmente sia emotivamente. Quale scopo ti sei data quando hai deciso di indagare su questo mondo? Di far emergere quella che è una realtà che in fondo noi non conosciamo. Soprattutto noi giornalisti. Scriviamo tanto di arresti, processi e reati. Ci fermiamo al prima, ma non sappiamo cosa succede negli anni a venire. Giustamente, identifichiamo l’uomo e la donna per il reato commesso. Poi però finisce lì. Invece, ho voluto scavare dentro le loro vite. Cosa hai trovato? È emerso che molti di loro avessero il destino segnato. Guarda, molti provengono da famiglie già disagiate, con i padri al 41 bis. Un ragazzo mi diceva: sono stato condannato a morte sin dalla nascita. Lui, ultimo di 10 figli, è nato in una famiglia totalmente coinvolta nel traffico di droga. E lui stesso mi diceva: non mi sono ribellato perché non potevo ribellarmi. Per un detenuto com’è lasciarsi intervistare? Intanto non è facile presentarsi come giornalista, perché dal loro punto di vista siamo il male. Siamo quelli che li sbattiamo in prima pagina e quindi distruggiamo la loro dignità. Con loro tuttavia ho fatto un percorso, non sono arrivata lì e li ho subito intervistati: prima li ho voluti conoscere. Alcuni di loro si sono prestati volentieri, soprattutto gli ergastolani. Perché gli ergastolani? Forse perché sanno che, arrivati ad una età avanzata, per loro è finita. Sono loro stessi a dirti che è giusto che stiamo pagando un prezzo con la giustizia. Ti spiegano però che è stata la vita che hanno deciso di intraprendere a portati lì: per la sete di potere, la droga, le donne, il prestigio. Uno di loro racconta che si sentiva importante quando passava per le vie del suo paese Quando vedeva la gente abbassare lo sguardo. È chiaro che un uomo così, ridotto in cella, perde tutto. La corazza? Sì, perché tu puoi avere il portamento, ma una volta dentro non c’è più il boss. Sei un detenuto. La sensazione che per alcuni, il carcere, sia una sorta di università del crimine l’hai avuta? Sì, loro stessi lo dicono che il carcere sia una scuola. Molti di loro continuano a essere dei capi anche da dentro. Convinti che se sono in carcere è proprio perché sono delle persone importanti. Insomma, la galera è una sorta di certificazione. Il carcere è però anche un luogo di sofferenza... Nelle interviste è emerso, sì. Loro mi raccontano che, all’inizio, sono stati rinchiusi in celle da 20 posti, dove si dormiva nei letti a castello e l’ultimo è come se dormisse sul pavimento, appunto perché aveva il naso schiacciato sulle muffe del tetto. Questo cosa ti fa pensare? Che se un uomo lo incattivisci all’interno di una struttura nata per rieducare, questa persona tornerà in società incattivito e la società stessa sarà costretta a riprendere un uomo che non ha capito ciò che ha fatto. Anzi, lo riprenderà peggiorato. Com’è per una donna entrare in carcere e incontrare uomini che non vedono una donna da tantissimo tempo. Ti sei sentita in qualche modo imbarazzata o minacciata? Non ho provato alcun senso di pericolo, mai. Ho percepito semmai il loro imbarazzo, legato però soprattutto al fatto di dover raccontare vicende che li riguardassero. Con loro dunque non ho avuto problemi. Lavorando invece con i minori, ma si tratta di altri progetti, ho percepito degli occhi più maliziosi. Ma nulla di più. Quale messaggio vuoi mandare ai lettori? Vorrei che il mio libro fosse una goccia affinché si impari ad approfondire le cose. Non dobbiamo per forza accettarle, o giustificarle, dobbiamo quantomeno conoscerle. Una volta che conosci una situazione puoi avere un tuo parere. Ma non puoi condannare così, a priori. Abbiamo comunque a che fare con persone che hanno commesso cose terribili... È normale che nella mente di chiunque ci sia l’auspicio affinché un criminale sconti la pena nel peggiore dei modi possibili perché ha creato tantissimo dolore. Però, poi, deve subentrare un’etica che ci fa capire che non siamo come loro. Credo che sia importante fare emergere la differenza. Diritto all’affettività per i figli dei detenuti: la storia di Denyse Cutolo diventa un docufilm di Giampiero Casoni cisiamo.info, 22 luglio 2019 La storia di Denyse Cutolo, figlia di Raffaele Cutolo, diventa un docufilm dove ci si interroga sul diritto all’affettività per i figli dei carcerati. La questione del diritto all’affettività per il figli dei detenuti al carcere duro diventa un docufilm. Protagonista è Denyse, la figlia ormai quasi 12enne di uno che, con il 41 bis, ci convive ormai da decenni e senza sconti, né folgorazioni sulla via di Damasco: Cutolo Raffaele da Ottaviano, classe 1941, capo della Nuova Camorra Organizzata, quattro ergastoli da scontare dal 1995, una reclusione nel carcere di massima sicurezza di Parma farcita dal continuo precipitare delle suo condizioni di salute ed una figlia avuta per inseminazione artificiale. Il caso di Denyse - Una figlia, Denyse appunto, che sta per compiere 12 anni, l’età in cui, secondo la legge italiana, si diventa “adulti” e si inizia a sottostare alle leggi. Leggi come quella istitutiva del 41 bis, il carcere duro, che fa divieto a chiunque oltre quell’età di avere contatti diretti con il detenuto. È questa la storia che, in esclusiva per Fanpage.it, il regista e sceneggiatore Gianfranco Gallo racconta con il suo “Denyse al di là del vetro”. Perché allo scoccare dei 12 anni la figlia del boss campano potrà parlare con suo padre solo al di là del vetro divisorio di un parlatorio, come gli adulti, anzi, proprio perché è adulta. Lo dice la legge. Il diritto all’affettività - Ma davvero una ragazzina di 12 anni è adulta? Davvero può rinunciare senza traumi all’idea di toccare un genitore in carcere e tenergli la mano, anche se quel genitore si chiama “O Prufessore” e a suo tempo muoveva eserciti di guappi armati e dava ordini a gente che mangiava il cuore dei nemici? Il dilemma del docufilm è questo. Non dà risposte ma pone domande, lasciando al telespettatore la assoluta libertà di digerire la vicenda secondo la sua sensibilità personale. “Il documentario che parla della vita di Denise - scrive Cronache della Campania - all’apparenza simile a quella di tante altre ragazzine della sua età che vivono nel Vesuviano, tocca con molta delicatezza, senza prendere posizione, una questione spinosa e poco trattata: i figli del 41 bis hanno il diritto all’affettività?”. A pensarci bene è la classica domanda delle cento pistole, eppure la risposta non dovrebbe essere poi così difficile. La vita privata non esiste più di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 22 luglio 2019 Non esiste più una sfera privata sottratta ai tentacoli del potere. In compenso tributiamo un culto ridicolo della privacy e sprechiamo tonnellate di carta per dichiarazioni inutili. Con l’invenzione dei pannolini muniti di sensori che segnalano se il bebè ha fatto pipì o popò si realizza la profezia di un controllo totale sulla vita di ciascuno dalla culla alla tomba. La “vita privata”, meravigliosa creatura culturale e psicologica della civiltà borghese oramai in via di estinzione, è tristemente arrivata al suo capolinea. Si materializza il sogno - l’incubo - totalitario e oppressivo dell’assoluta trasparenza di ogni aspetto, anche il più minuto, della nostra esistenza. Si instaura il regine di sorveglianza universale e assoluta descritto da Michel Foucault. Potere politico, poliziesco e giudiziario e potere economico si danno una mano per convergere su un obiettivo comune: la subordinazione dell’individuo agli imperativi del controllo sociale. La carta di credito offre di te a chi ti controlla una visione totale e asfissiante: cosa mangi, dove, con chi, cosa consumi, dove vai, che abitudini hai. I dati sanitari cessano di essere tutelati da un velo di riservatezza, alla mercé del potere pubblico. Il telepass racconta i tuoi percorsi, e persino le tue pause. Le mappe su Internet controllano ogni tuo passo. Le tessere del supermercato dicono quanto spendi, che spesa fai, che tipo di carta igienica usi e se bevi acqua frizzante o naturale e tutto il resto, sin nei minimi dettagli. La “geolocalizzazione” ti segue sin negli anfratti più reconditi. Un trojan spia ogni tua parola, ogni tua immagine condivisa su Whatsapp: l’unica soddisfazione è che a subirne le conseguenze sono ora dei magistrati, che di quello strumento fanno un uso smodato per massacrare la reputazione di chiunque. Ogni flirt è registrato. Non esiste più una sfera privata sottratta ai tentacoli del potere. In compenso tributiamo un culto ridicolo della privacy e sprechiamo tonnellate di carta per dichiarazioni inutili. E somme ingenti per mantenere un’Authority. Vita privata, addio. Migranti. La verità che serve al Pd di Alexander Stille La Repubblica, 22 luglio 2019 I numeri sono molto chiari: l’anno scorso sono nati 449.000 italiani e sono morti 636.000 (secondo l’Istat). Quindi ogni anno l’Italia perde 187.000 persone. Il calcolo aritmetico non è molto difficile: senza l’immigrazione, la popolazione dell’Italia scenderebbe da 60 milioni a 50 milioni in poco più di cinque anni. Senza l’arrivo di nuove persone di età lavorativa, l’economia italiana andrebbe in crisi. Non ci sarebbe mano d’opera sufficiente nelle fabbriche, nei campi, nei negozi, badanti nelle case, o contribuenti per il sistema pensionistico per mantenere il numero crescente di anziani. La politica dell’attuale governo è basata sull’illusione che, se l’Italia potesse cacciare una buona parte dei sui sei milioni di immigrati, i problemi del Paese scomparirebbero: ci sarebbe lavoro per tutti, i salari aumenterebbero, le città sarebbero più vivibili e si tornerebbe all’età d’oro degli Anni Sessanta e Settanta, quando l’economia italiana era tra le più robuste nel mondo e il Paese era etnicamente omogeneo. Mentre è vero l’esatto contrario: senza la presenza e i contributi degli immigrati il Pil del Paese crollerebbe e il tenore di vita degli italiani sarebbe insostenibile. Quando ho posto questi problemi all’attuale sottosegretario per la Finanza, il senatore Massimo Garavaglia, in un’intervista l’anno scorso, lui ha dato la colpa alla stagnazione e alla precarietà economica della vita dei giovani italiani. E da buon leghista ha mostrato che il tasso di fertilità è più alto nel Trentino Alto Adige che gode di maggior autonomia rispetto a molte regioni. Ma anche lì la media di figli per ogni donna è di 1,62, ben al di sotto del tasso di sostituzione di 2,3 bambini che servirebbe per mantenere la popolazione. Non c’è un Paese europeo - compresi i più ricchi come la Germania o la Danimarca - che arrivi vicino a 2 bambini per ogni donna. La Francia, che ha una politica intelligente di sostegno alle coppie, ha il tasso di natalità più alto: 1,9 bambini per dorma. Comunque molto al di sotto del tasso di sostituzione. L’Italia è scesa sotto il livello nel 1975 e da allora il tasso di natalità si è ridotto da 2,3 bambini per donna a 1,32 attuale. Il basso livello di fertilità è una caratteristica di tutte le società ricche e indietro non si torna. Per fortuna, c’è già una soluzione al problema ed è quello che l’Italia e il resto dell’Europa ha già sperimentato: l’immigrazione. Senza i sei milioni di immigrati, la popolazione dell’Italia sarebbe già scesa da 60 a 54 milioni. Una delle ragioni per cui il Pil americano cresce più rapidamente di quello europeo è l’immigrazione. Secondo uno studio recente dell’American Enterprise Institute (una fondazione conservatrice tra l’altro) il tasso di crescita diminuirebbe del 15 percento senza immigrati. Le ragioni sono molto semplici: 75 percento degli immigrati sono di età lavorativa e il 40 percento dei brevetti e circa un terzo dei premi Nobel americani sono di cittadini nati altrove. I partiti dell’attuale maggioranza - M5S e la Lega - dicono che non sono contro l’immigrazione in sé, ma solo contro l’immigrazione clandestina. Il loro comportamento, però, li contraddice. Si sono opposti, per esempio, alla legge dello Ius soli, che permetterebbe ai figli di immigrati, che o sono nati in Italia o hanno fatto le scuole in Italia, di diventare cittadini. È esattamente l’immigrazione che serve all’Italia: persone che sono già integrate, che conoscono la lingua, che hanno assorbito la cultura attraverso la scuola e che sono pronte a contribuire alla vita italiana. Invece, niente. L’Italia ha sofferto per la mancanza di una vera politica di immigrazione. La Destra si è opposta, facendo leggi come la Bossi-Fini che doveva disciplinare l’immigrazione clandestina e accelerare le espulsioni con pochi risultati. La Sinistra ha preferito un atteggiamento passivo, non opporsi all’immigrazione, ma senza un programma per integrare il flusso migratorio. Questa non-politica, insieme al collasso del governo libico e all’abbandono della Ue, ha fatto sì che gli sbarchi clandestini siano passati da circa 42,000 nel 2013 a 182,000 nel 2016, spianando la strada a Matteo Salvini e Lega per una campagna elettorale basata su un attacco feroce all’immigrazione. L’Italia avrebbe potuto servirsi di molti dei giovani che rischiano la vita cercando di arrivare in Europa. Quando la politica della Destra si rivelerà una vana illusione, saprà la Sinistra trarne vantaggio, offrendo l’alternativa di un’immigrazione positiva e realista? Migranti. I veri numeri dei rimpatri flop. 500 al mese, 1 su 4 in Albania di Alessandra Ziniti La Repubblica, 22 luglio 2019 Il Garante dei detenuti: in calo i migranti che l’Italia riporta negli Stati d’origine. Salvini ne promise 600 mila. Al rallentatore i charter verso la Tunisia, primo Paese per arrivi via mare. E si ingrossano le file degli irregolari. Rimpatriamo albanesi, innanzitutto. Ed è una sorpresa scoprire non solo che i rimpatri di migranti irregolari sono in calo rispetto all’anno scorso, ma soprattutto che riguardano solo in parte chi arriva via mare. “Per la prima volta i rimpatri sono più degli sbarchi”, uno dei ritornelli del ministro dell’Interno Salvini in questi mesi. Non è vero. Fermando pure a 3.000 gli arrivi da gennaio a giugno sulla rotta mediterranea, di irregolari rimpatriati il monitoraggio volo per volo del Garante dei detenuti Mauro Palma - stando alla relazione depositata nei giorni scorsi in commissione Affari costituzionali alla Camera - ne ha contati 2.839. E tra questi i più numerosi (680, cioè uno su quattro) sono albanesi. Non certo arrivati su barchini e men che mai su navi umanitarie. Di quei migranti lì, di quegli “Espulsi!” col punto esclamativo di cui i social salviniani danno ogni giorno notizia, ne rimandiamo a casa molti meno di quanti dovremmo, stando alle promesse elettorali del leader leghista (ne aveva promessi 600 mila). Ma anche molti meno di quanti potremmo, stando agli accordi con i Paesi d’origine. Che pochi erano e pochi sono visto che, in più di un anno al Viminale, Salvini non ne ha siglato neanche uno nuovo e delle sue missioni in Africa non si è più saputo nulla. L’unico che, in qualche modo, funziona è l’accordo con la Tunisia che, come l’anno scorso, è il Paese da cui arriva la maggioranza dei migranti che entrano in Italia via mare. Quasi tutti migranti economici, quasi tutti senza diritto all’asilo. Sono i più numerosi, e anche quelli che più facilmente potremmo rispedire indietro, visto che i patti esistenti prevedono due voli charter a settimana da 40 persone ciascuno. Fatto un rapido calcolo, al ritmo di 80 a settimana, fino a metà giugno avremmo potuto rimpatriare più di 1.900 tunisini irregolari. Invece ci siamo fermati a 510, con soli 17 voli sui 48 previsti. Pochi giorni fa il vicepremier, messo in imbarazzo dal gran numero di barchini e barconi provenienti dalla Tunisia che entrano indisturbati nell’Italia dei porti chiusi, ha chiesto al presidente tunisino di aumentare il numero di rimpatri concordato, utilizzando anche le navi commerciali che due volte a settimana fanno la spola dalla Sicilia. La risposta è stata la stessa che in passato: “Ma se non riuscite neanche a riempire i voli concordati, perché prevedere rimpatri ulteriori mescolando i migranti a viaggiatori e turisti?”. Il che, evidentemente, richiederebbe una scorta internazionale adeguata. Proprio questo, utilizzo di personale e costi spropositati, è l’altro punto dolente. Sui 26 voli charter effettuati nel 2019 verso Tunisia, Nigeria, Egitto e Gambia sono saliti 566 migranti scortati da 1.866 poliziotti, uno a tre. Gli altri, diretti in Albania, Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria, sono stati espulsi su voli commerciali. Anche scorrendo la lista dei 6.398 irregolari rimpatriati nel 2018 ( in ribasso rispetto ai 6.514 del 2017), balza agli occhi che circa un terzo del totale sono stati rispediti in Paesi d’origine ben diversi da quelli che la narrazione salviniana collega a una presunta “invasione”: ai primi posti ancora Albania, poi Ucraina, Perù, Georgia, Moldavia, Brasile, Cina, tutti i paesi sudamericani e persino Stati Uniti, Svizzera e Singapore. La media, si diceva, è di 500 persone al mese: se confermata, porterà a fine anno a un totale intorno ai 6.000. A conferma, se ce ne fosse bisogno, che gli oltre 40.000 nuovi irregolari creati dal Decreto sicurezza con 1’80% di richieste d’asilo respinte sono andati a ingrossare l’esercito dei fantasmi che vagano nelle periferie. E di nessuna efficacia si è rivelato finora l’aumento dei tempi di trattenimento dei migranti da espellere nei Centri di rimpatrio. Più della metà, dopo 6 mesi di detenzione, vengono lasciati liberi con un foglio di via che nessuno rispetta. Osserva Palma: “A colpire è la mancanza di correlazione tra durata della permanenza nei centri e effettività del rimpatrio. La media dei rimpatri di persone detenute realmente eseguiti ha sempre oscillato attorno al 50%. Più della metà di chi vi ha passato periodi spesso lunghi, in situazioni precarie e senza tutele, è stata privata della libertà inutilmente e, aggiungo, illegittimamente. Solo un po’ di sofferenza inflitta, quasi un avvertimento. Per le donne peggio: l’anno scorso, solo il 13% di quelle ristrette è stato effettivamente rimpatriato”. Migranti. Il Viminale ai francesi: l’Italia non è il vostro campo profughi di Cristiana Mangani Il Messaggero, 22 luglio 2019 Uno strappo diplomatico in piena regola con la lettera inviata al ministro dell’Interno Christophe Castaner e la decisione di non essere oggi a Parigi per la nuova riunione dopo quella che si è tenuta nei giorni scorsi a Helsinki. Il Viminale sembra deciso a mandare solo dei tecnici e nessuna presenza politica. Salvini “diserterà”, ma nel frattempo ha deciso di scrivere al suo omologo francese. “L’Italia - ha dichiarato - non è più il campo profughi di Bruxelles, Parigi, Berlino. E non è più disposta ad accogliere tutti gli immigrati in arrivo in Europa”. Lo scontro si riaccende nel giorno in cui Sos Mediterranee e Medici senza frontiere annunciano la ripresa delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale davanti alla Libia con una nave battente bandiera norvegese. Le politiche migratorie portate avanti dall’asse franco-tedesca non piacciono proprio a Salvini che, alla vigilia della riunione convocata dal governo francese, riparte lancia in resta. A spingerlo, gli stessi motivi che hanno agitato il dibattito con Castaner e con il ministro tedesco Horst Seehofer al vertice informale di Helsinki: nella bozza del documento che sarà portato alla riunione di oggi, infatti, Parigi riproporrà la proposta franco-tedesca nella quale si afferma che i migranti vanno sbarcati nel “porto vicino più sicuro”. Una proposta già bocciata da Italia e Malta. E necessario, si legge nella bozza, un “meccanismo più prevedibile ed efficiente” in modo da “consentire lo sbarco sicuro, dignitoso e rapido” dei migranti soccorsi nel “porto sicuro più vicino”. Sbarchi che “dovrebbero essere effettuati il più rapidamente possibile, tenendo conto della vulnerabilità delle persone interessate e delle capacità di accoglienza nei porti di sbarco”. Un documento al quale Salvini ha risposto con un secco no: “Non lo firmerò mai. È una proposta inammissibile”. Così ieri è tornato all’attacco: Francia e Germania “non possono decidere le politiche migratorie ignorando le richieste dei paesi più esposti come noi e Malta”. E per questa ragione non sarà nella capitale francese. Ma ai tecnici del Viminale che parteciperanno ha dato mandato di “muoversi esclusivamente nel perimetro delineato, evitando nuove e d iverse dichiarazioni non coerenti con i lavori svolti finora”. La posizione resta dunque quella espressa nel documento portato da Italia e Malta alla riunione in Finlandia: hotspot in tutti i paesi, redistribuzione obbligatoria dei migranti, rimpatri a livello Ue o ripartiti tra i 28, più espulsioni con la creazione di una lista di “paesi sicuri” in modo che chi proviene da quei paesi sarebbe rimpatriato automaticamente, ulteriore stretta sulle Ong, revisione delle regole Sar per “impedire abusi” che favoriscono un’immigrazione “illegale e incontrollata”. Proposte che, scrive ancora Salvini nella lettera a Castaner, “hanno fatto registrare (a Helsinki, ndr) un diffuso apprezzamento apportando al confronto significativi e utili elementi per una nuova impostazione del tema”. Ma intanto lo scontro rischia di spostarsi anche in mare. La Ong francese Sos Mediterranee e Medici Senza Frontiere hanno annunciato il ritorno nelle acque internazionali davanti alla Libia dopo quasi un anno di sospensione dell’attività in seguito al blocco dell’Aquarius. Stavolta ad operare sarà la “Ocean viking”, una nave di 70 metri con 31 persone tra equipaggio e volontari battente bandiera norvegese. Cosa pensi dell’iniziativa, Salvini lo ha scritto su twitter nei giorni scorsi: “Adesso partono pure dal Mare del Nord per venire ad aiutare gli scafisti nel Mediterraneo, roba da matti... Ong avvisata, mezza salvata: in Italia non sbarcate”. In Europa avanza l’antisemitismo di sinistra di Massimiliano Panarari La Stampa, 22 luglio 2019 Lo spirito dei tempi volge sempre di più all’odio, in Europa e in America. E in un periodo di intolleranza crescente e di identitarismi che stigmatizzano il diverso non poteva non ritornare l’allarme sull’antisemitismo. Con una peculiarità inquietante: accanto al dilagare del populismo di estrema destra e dei neofascismi non si è ancora rimarginata la ferita dell’antisemitismo di sinistra. Anzi, si moltiplicano indizi che vanno in una direzione preoccupante. Come evidenzia la lettera di denuncia sottoscritta da numerosi componenti della Camera dei Lord e parlamentari del Labour Party sui frequenti rigurgiti antisemiti nel partito sotto la guida di Jeremy Corbyn. Come ribadiscono alcune ricerche recenti del Kantor Center for the Study of Contemp orary European Jewry dell’Università di Tel Aviv e dell’ufficio di Bruxelles dell’European Union for Progressive Judaism, dove viene segnalato come l’antisionismo costituisca il paravento dietro il quale una certa sinistra occulta pulsioni antisemite. E, ancora, come mostra la demonizzazione di George Soros in vari ambienti dell’ultrasinistra. L’escalation dell’avversione per gli ebrei è anche un indicatore di un più generale clima d’opinione di fastidio verso il pluralismo e le minoranze, e aderisce perfettamente alla logica (narrativa e mediale) della creazione del nemico che costituisce un pilastro della propaganda popul-sovranista. Proprio per questo il riaffacciarsi di una “questione ebraica” in seno all’universo progressista appare una spia grave. E, dunque, un problema da affrontare una volta per tutte per definire con precisione, in questi tempi confusi, il proprio campo politico e culturale. Le radici di questo antisemitismo goscista, come noto, sono di lunga durata, e vanno dall’antico retaggio cristiano del deicidio sino, nella modernità, alla supposta equazione tra finanza, “speculazione” ed ebraismo. E, all’indomani della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e, poi, dei processi di decolonizzazione, si è aggiunto anche il filone antisionista del terzomondismo, spesso alimentato dall’Urss erede di quella Russia zarista dove l’antisemitismo era diffusissimo (e la cui polizia segreta aveva fabbricato il falso storico dei Protocolli dei savi anziani di Sion). Ultimamente, la retorica giudeofobica ha rispolverato il trasversalismo, mettendo insieme il radicalismo di destra, l’islamismo e l’estrema sinistra antagonista, e potendo contare sulla viralità del web, fertile terreno di coltura per cospirazionismi e complottismi di ogni genere. Ecco perché, nell’epoca attuale colma di suprematismi razzisti, la credibilità della sinistra passa ancor più fortemente per il rigetto di ogni lascito di un passato antiebraico. Nella battaglia culturale con i nazional-populismi che hanno riesumato un’altra presunta equivalenza (quella tra l’ebraismo e il cosmopolitismo “senza radici”) una sinistra moderna deve rivendicare con ancora più decisione i valori illuministici, il liberalismo e i diritti degli individui e di coloro che non appartengono alla “maggioranza”. E dovrebbe quindi separare integralmente, senza residue ambiguità, la propria strada da qualunque reminiscenza mascherata di antisemitismo, che - come avviene in certe frange del Partito laburista inglese - si ammanta di radicalismo anti-mercato e antieuropeista. Un buon modo anche per onorare l’appena scomparsa (e importante filosofa antitotalitaria di origini ebraiche) Agnes Heller. Iran. Arrestate “spie addestrate dalla Cia”. Carcere e condanne a morte La Repubblica, 22 luglio 2019 Lo fa sapere l’agenzia di stampa vicina ai Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione islamica. “Diciassette spie addestrate dalla Cia sono state identificate e arrestate in Iran”. Lo rende noto Farsnews citando il direttore generale del dipartimento di controspionaggio del ministero dell’Intelligence. Nei confronti degli arrestati sono già state emesse alcune condanne a morte. L’accusa è di avere spiato centri sensibili nel Paese. Farsnews, che è vicina ai Pasdaran, definisce l’arresto il secondo colpo dell’intelligence iraniana alla Cia. L’annuncio arriva nel mezzo di una pericolosa escalation nel Golfo di Hormuz, dove una petroliera britannica, la Stena Impero, è stata sequestrata dal governo di Teheran. Burundi, si teme l’ennesima sparizione forzata di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 luglio 2019 Channel Nkunzimana è un burundese di 26 anni. Ci ostiniamo a parlarne al presente. Orfano di entrambi i genitori, è stato cresciuto dalla sorella del padre e poi sostenuto negli studi (attualmente è al secondo anno di Scienze infermieristiche dell’Università di Ngozi) dalla cugina Dylla Gaelle Gateka e dal di lei compagno Andrea Casale, entrambi cooperanti a Ngozi con Amahoro Onlus e da poco rientrati in Italia. Channel viene visto l’ultima volta il pomeriggio del 29 giugno a Ngozi, nel quartiere di Kinyami. Passano 24 ore e iniziano le ricerche, presso le prigioni ufficiali e soprattutto quelle “non ufficiali”. Vengono esaminate le piste più disparate. Nei giorni precedenti la sparizione Channel ha testimoniato in favore dell’amico Viateur Nzoyihaya, arrestato con l’accusa di violenza sessuale verso una “diciassettenne di Ngozi” di cui non si conoscono le generalità. L’amico viene ritenuto estraneo ai fatti e rilasciato. È una vendetta della famiglia della ragazza? Alcuni parenti di Channel hanno problemi coi proprietari dei terreni confinanti a Ryarusera, nella provincia di Muramvya. È stato rapito per forzare la situazione? Più semplicemente, Channel è il primo del suo corso e può avvalersi del sostegno di due persone, Dylla e Andrea, economicamente benestanti rispetto alla media del paese. È stato rapito per invidia, gelosia o a scopo di riscatto? Piste vaghissime, nulla di più, ma in casi del genere ha senso non escludere nulla. Nel frattempo il procuratore generale di Ngozi interroga diverse persone che potrebbero essere informate dei fatti, senza alcuna conclusione significativa. Infine, prende piede l’ipotesi che Channel sia stato vittima di un arresto arbitrario e della successiva sparizione forzata da parte dei servizi di sicurezza. A sostenerlo è Jean Nayabagabo, un attivista dei diritti umani locale. Il 16 luglio si sparge la voce che Channel sarebbe stato prelevato da alcuni “imbonerakure” (la milizia giovanile del partito al potere) e consegnato a un noto estremista, Alexis Ndayikengurukiye. Torturato in un bistrot di proprietà di un certo Dominique Nyamugarukwa a Vyerwa, un piccolo centro a pochi chilometri da Ngozi, successivamente sarebbe stato trasferito in luogo ignoto da un certo Jovin, responsabile dei servizi di sicurezza a Ngozi. Pare che sia accusato di aver criticato pubblicamente il partito al potere. Chi conosce Channel lo descrive come estraneo alla politica. Inoltre, non avrebbe mai commesso l’ingenuità di parlare male del governo proprio nella sua roccaforte di Ngozi. Da ormai quattro anni, il Burundi è sprofondato in una profonda crisi dei diritti umani. Le sparizioni forzate sono entrate a far parte della strategia del governo per tenere sotto controllo le proteste. A volte ci va di mezzo anche chi non protesta e si trova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Che fine ha fatto Channel?