Addio a Borrelli, il pm che svelò gli affari sporchi della politica di Marina Della Croce Corriere della Sera, 21 luglio 2019 Aveva 89 anni e l’inchiesta su Tangentopoli permise di scoperchiare il rapporto illecito tra politici e imprenditori: soldi in cambio di appalti. Ci sono due frasi che, forse più di altre, spiegano dieci anni di scontro tra politica e magistratura, con la procura di Milano in prima linea. Una è del 20 dicembre 1993, due anni dopo l’inizio di Tangentopoli e appena un mese prima della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi che lo portò al governo del Paese. “Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che arriviamo noi”. La seconda è del gennaio 2002 ed è l’ammissione dolorosa che la spinta del cambiamento avviato dieci anni prima si stava esaurendo: “Bisogna resistere, resistere, resistere come sulla linea del Piave”. Non più il monito di chi si sente il protagonista di un rinnovamento, ma il grido di chi sa di essere accerchiato e di dover difendere il lavoro e l’indipendenza della magistratura. A pronunciare entrambe le frasi è stato Francesco Saverio Borrelli, morto ieri all’Istituto tumori di Milano dove era ricoverato da alcuni giorni. Aveva 89 anni e il suo nome è legato indissolubilmente al pool Mani pulite della procura milanese (ne fecero parte Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio e Piercamillo Davigo) che ha guidato e che ha avuto il merito di scoperchiare la corruzione esistente nel rapporto tra mondo politico e imprenditoriale. Borrelli lascia la moglie Maria Laura e due figli, Andrea e Federica, il primo giudice civile a Milano. Quello che in seguito venne definito dai suoi detrattori come il capo delle “Toghe rosse” era nato a Napoli il 12 aprile 1930 ed entrò in magistratura nel 1955 dopo essersi laureato in legge con una tesi su “Sentimento e sentenza”. Suo relatore fu Pietro Calamandrei. Borrelli era un uomo dai molteplici interessi. La musica, che aveva studiato al conservatorio di Firenze, e la montagna sono solo due delle sue tante passioni, come confessò una volta in un’intervista in cui ammetteva anche i propri limiti: “Sono un mediocre pianista, un pessimo cavaliere, un pessimo alpinista, un dilettante di professione, ma mi piacciono tante cose che non faccio in tempo ad essere un professionista”. Su una cosa non ci sono dubbi, ebbe modo di dimostrare tutta la sua professionalità ed è il lavoro di magistrato. Prima di diventare capo della procura di Milano, e di dare avvio all’inchiesta su Tangentopoli, ha ricoperto le funzioni di pretore, giudice fallimentare e poi civile e pubblico ministero. Negli anni ‘60 è stato tra i fondatori di Magistratura democratica. Il suo primo processo importante fu quello per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi ma come presidente di sezioni del tribunale e di Corte d’Assise ha svolto anche alcuni processi alle Brigate rosse. In Italia le cose cominciarono a cambiare il 17 febbraio del 1992 con l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, avvenuto mentre riceveva una tangente di sette milioni di lire dal titolare di una società di pulizie. L’arresto di Chiesa, esponente di spicco del Psi milanese, segnò l’avvio di Mani pulite, ma sono le sue dichiarazioni ai magistrati del pool che permisero di svelare come le mazzette fossero diventate ormai una sorta di tassa fissa da pagare ai partiti in cambio di appalti. Una rivelazione che segnò la politica italiana, dal segretario del Psi Bettino Craxi alla caduta della Prima Repubblica. Un mese dopo la vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994 venne arrestato Paolo Berlusconi, a cui fece seguito un ordine di custodia cautelare per Marcello Dell’Utri. Fino al novembre di quell’anno, quando dalla procura di Milano venne spedito un invito a comparire a Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio, mentre presiede a Napoli una conferenza internazionale sulla criminalità organizzata. Non furono pochi coloro che cercarono di attribuire all’inchiesta una presunta “regia politica” della quale la procura di Milano ne era l’artefice. Nel luglio del 1993 l’allora ministro della Giustizia Biondi emanò un decreto - letto come un tentativo di “fermare” i magistrati -che prevedeva gli arresti domiciliari per i crimini di corruzione. Si trattava di un modo per mettere fine alla carcerazione preventiva, della quale la procura era accusata, non sempre a torto, di fare un uso eccessivo per spingere un accusato alla confessione. I magistrati del pool si presentarono davanti alle telecamere dicendosi polemicamente pronti a obbedire ma chiedendo anche di essere trasferiti. Il decreto venne ritirato. Quella di mani pulite non fu una stagione priva di drammi - come testimonia una lunga catena di suicidi - e forse l’inchiesta destinata a cambiare l’Italia la cambiò meno del previsto come ammise lo stesso Borrelli nel 2011 quando, in un’intervista, chiese “scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena - disse - buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Di certo Borrelli è stato un magistrato rigoroso, un capo che ha saputo difendere i suoi pm e una persona che, come ha ricordato ieri l’attuale capo della procura di Milano Francesco Greco, “ha fatto la storia d’Italia”. “Un magistrato di altissimo valore, impegnato per l’affermazione della supremazia e del rispetto della legge, che ha servito con fedeltà la Repubblica”. È il messaggio di cordoglio inviato dal presidente della repubblica Sergio Mattarella per la morte di Francesco Saverio Borrelli. Un “magistrato integerrimo e un uomo delle istituzioni che ha scritto una parte importante della storia del nostro Paese”, si associa il presidente della camera Roberto Fico. Mentre la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati , si limita a ricordare che Borrelli ha ricoperto “incarichi di grande prestigio ed estrema delicatezza”. Toni differenti che corrispondono alle diverse appartenenze politiche. Il leader M5S Luigi Di Maio scrive infatti su twitter: “È venuto a mancare oggi il magistrato Francesco Saverio Borrelli, capo del pool di Mani Pulite. Il suo esempio, i suoi valori di indipendenza e legalità, siano guida per il lavoro di ognuno di noi e giungano a ogni cittadino. Tutto il M5S esprime cordoglio per questa scomparsa”. Nessun commento invece da parte del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Così come tace il leader della Lega e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il segretario del Pd Nicola Zingaretti “con Francesco Saverio #Borrelli scompare un grande magistrato e un uomo perbene. Lascia in eredità il suo esempio e il suo impegno sempre dalla parte della legalità”. La procura di Milano ricorda Francesco Saverio Borrelli con un comunicato del suo attuale capo e ex magistrato del pool Mani pulite, Francesco Greco: “Con la sua guida autorevole ha fondato lo spirito moderno dell’ufficio nell’intransigente rispetto dei valori di indipendenza e legalità. Il suo esempio ispira quotidianamente il nostro lavoro. Nei nostri cuori vive con orgoglio la sapienza di un uomo speciale”. I magistrati milanesi saluteranno Borrelli lunedì alla camera ardente che resterà aperta dalle 9.30 alle 12 “nel Palazzo di Giustizia dove ha lavorato tutta la vita”. In quello stesso palazzo di sabato semideserto ieri è arrivata la notizia che ha colpito tutti i presenti, compreso Greco, in lacrime. Borrelli partecipò all’insediamento di Greco alla guida della procura di Milano nel giugno del 2016 e lo abbracciò a lungo. Gherardo Colombo, arrivato nel pomeriggio all’hospice dell’Istituto dei tumori di via Venezian, ha ricordato: “Abbiamo lavorato tanto assieme, incarnava perfettamente l’idea del magistrato che svolge il suo lavoro nell’interesse di tutti, era una persona eccezionale”. E l’ex procuratore aggiunto a Milano Armando Spataro vuole ricordare che il celebre “resistere, resistere, resistere” era rivolto “a tutti gli italiani, contro il degrado in cui rischiava di finire il Paese, non solo ai magistrati”. E “io lo ricordo come un capo a cui non piaceva essere chiamato così”. Mani Pulite divide ancora e tra i tanti che ricordano Borrelli elogiando il suo lavoro, arrivano anche giudizi senza appello su quella stagione, in particolare dalla famiglia di Bettino Craxi. Per il figlio dello scomparso leader del Psi, Bobo, negli ultimi anni Borelli “seppe fare un’analisi compiuta”, riflettendo “sul disastro”. Il riferimento è a quando nel 2011 disse: “Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale”. Più che “revisionismo”, come lo chiama Bobo Craxi, una critica della situazione di allora. Ma per Craxi Borelli “è stato espressione di una funzione di scardinamento delle forze che governavano all’epoca. Fu una delle punte di diamante di quello che considero un colpo di Stato, il sovvertimento di un organo dello Stato da parte di un altro”. Sua sorella Stefania Craxi, senatrice di Fi, parla di “stagione infausta”. Ma, aggiunge, “Borrelli scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga e ebbe ad avanzare alcune riflessioni amare sugli effetti prodotti da Mani pulite”. Per concludere che “nel momento del dolore il silenzio e il rispetto sono dovuti all’uomo e alla famiglia”. Per Chiara Moroni, figlia di Sergio, il parlamentare del Psi che si suicidò, su quegli anni “ancora non è stata fatta una riflessione collettiva condivisa, una mancanza grave”. La sua lezione dimenticata dai magistrati di Gianluca Di Feo La Repubblica, 21 luglio 2019 Borrelli chi? Praticamente dimenticato ma ancora detestato dai suoi avversari, pochi ne ricordano la lezione. Da anni era volontariamente scomparso dalle scene, chiudendosi nel silenzio. Ed ora la sua morte obbliga una magistratura con la toga logora come non mai a un esame collettivo di autocoscienza, confrontandosi con la stagione del grande consenso che ha avuto nel giudice milanese il suo artefice. Lui è stato il primo vero procuratore capo, ruolo che gestiva come un direttore d’orchestra amministrando gli assoli dei virtuosi e gli interludi degli orchestrali meno dotati. Il pool è stata un’idea sua, perché sapeva che solo una squadra di professionalità e persone diverse avrebbe potuto reggere un’inchiesta complessa come Mani pulite. L’ha guidato con autorevolezza, senza mai farsi autoritario, ascoltando tanto nelle riunioni interne e parlando solo quando serviva una sintesi. Ha capito che senza investigatori di polizia esperti e senza strumenti moderni i pubblici ministeri poco potevano e ha preso il controllo totale delle indagini, sfruttando tutte le potenzialità offerte dal nuovo codice penale entrato in vigore proprio allora. “Ha saputo raccogliere gli impulsi dei giovani magistrati per organizzarli e dare un senso agli obiettivi investigativi - ha riconosciuto ieri l’avvocato Ennio Amodio, primo difensore di Silvio Berlusconi spesso critico verso i metodi del pool - Suonava come un messaggio al Paese che rivendicava il primato della legalità sul malaffare”. Contrariamente a una moda che si stava già diffondendo, non amava le intercettazioni - nei primi quattro anni Tangentopoli ne è priva - perché preferiva formare le prove con documenti e testimonianze, secondo un percorso “vecchio stile” illuminato dalla riflessione logica. Coniugava il rigore ambrosiano con la raffinata creatività dell’intellettuale napoletano, sapendo trarre da entrambe le tradizioni di un pragmatismo unico nell’affrontare i problemi. Eppure del suo modello si citano solo gli aspetti straordinari, quelli di cui Borrelli si era fatto carico senza compiacimento in un momento eccezionale della storia italiana. Come ad esempio le esternazioni mediatiche, quelle conferenze stampa capaci di bloccare le leggi e riempire le piazze, così lontane dal suo carattere riservato: ha usato i media perché servivano a proteggere l’inchiesta e i suoi pm. Una deviazione istituzionale? Di sicuro non un’espressione di protagonismo, visto che non è mai entrato in un salotto televisivo e non ha mai neppure scritto un libro. Altri imitatori ne hanno distorto la lezione, sostituendo l’immagine alla sostanza, con fughe di notizie che amplificano istruttorie dai fondamenti confusi: pm autoreferenziali, attaccati al privilegio più che al dovere. Nella sua visione il magistrato si trova su un piedistallo, che non serviva a spiccare sugli altri quanto a isolarsi da ogni tentazione: una figura orgogliosamente autonoma nella rivendicazione del potere che la Costituzione gli attribuisce. Si sarebbe riconosciuto nelle parole usate ieri dal presidente Mattarella: “impegnato per l’affermazione della supremazia e del rispetto della legge”. E nel ricordo del suo allievo ed erede Francesco Greco c’è il concetto chiave: “il valore dell’indipendenza”. Un valore tradito poi da troppi magistrati, come mostra lo scandalo del Csm, quel Consiglio che gli negò la promozione a presidente di corte d’appello con cui Borrelli avrebbe voluto chiudere la carriera. Oggi, con le correnti ridotte a consorterie pronte a intrallazzare con politici e imprenditori, solo riscoprendo quell’indipendenza la magistratura può sperare di risorgere. Ma forse tutti gli italiani avrebbero bisogno di chiedersi perché quell’appello a “resistere, resistere, resistere” è caduto nel vuoto. L’avversario Greganti: difendo i giudici ma il populismo è cominciato allora di Paolo Griseri La Repubblica, 21 luglio 2019 Non si può dire che il suo sia un giudizio distaccato: “Sono stato dipinto come l’uomo delle tangenti. Non ne ho mai intascata una, ma con Mani pulite la mia vita è cambiata radicalmente. Vivo con una normale pensione, non mi lamento e non penso proprio di essere un privilegiato”. Mani pulite fu un errore? “Non credo affatto. Ha avuto il merito di indicare il problema della corruzione in Italia”. Primo Greganti, il “compagno G”, si arrabbia quando i militanti del vecchio Pci lo elogiano per aver saputo tacere di fronte alle domande del pool e di Di Pietro: “Non ho fatto nulla di eroico perché non avevo proprio nulla da nascondere. Sono stato condannato una sola volta per la vendita del palazzo di Editori Riuniti al prezzo del valore catastale”. E le altre volte? Quante volte ha patteggiato? “Ho patteggiato perché non avevo il denaro per pagarmi una difesa che durasse anni, fino all’ultimo grado di giudizio. Siamo in un Paese in cui dimostrare la propria innocenza può diventare un lusso”. Ma anche recentemente, per i lavori dell’Expo, è finito sotto inchiesta: “Mi ci hanno trascinato i signori del cemento perché volevo fare le costruzioni in legno”. Borrelli, l’ha mai incontrato? “L’ho incrociato qualche volta nei corridoi dei tribunali. Poi l’ho seguito molte volte nei discorsi pubblici. L’ho seguito in modo, direi, puntiglioso e spesso mi sono trovato d’accordo con lui”. Lei difende magistrati che, per sua stessa ammissione, le hanno rovinato la vita: “Io difendo la magistratura perché spesso si è trovata sola a combattere i mali di questo Paese. E questo è uno degli errori”. Molti imputati di Borrelli hanno accusato i magistrati di aver stravolto l’equilibrio tra i poteri. Non è d’accordo? “Che ci siano stati errori è certo. E io sono una vittima di quegli errori. Ma non commetterò quello che, temo, sia stato il più grande errore di Mani pulite: dare l’avvio, indirettamente, a un generale discredito delle istituzioni che è l’inizio del populismo. La magistratura non va attaccata. La democrazia si regge sul rispetto delle sentenze, anche quelle sbagliate”. Gli interrogatori fiume di Greganti con Di Pietro furono epici: “Mi volevano far dire cose che non erano vere. Parlo di Di Pietro ma anche di Tiziana Parenti. Io servivo. Ero quello che dimostrava che il Pci non era estraneo alla corruzione, anche se era all’opposizione”. E non era vero? “Non dico che anche nella sinistra non ci fosse chi cedeva alla tentazione della corruzione. Per questo penso che in fondo lo shock di Mani pulite sia stato salutare per il Paese”. Quale fu il più gande errore dei magistrati guidati da Borrelli? “L’utilizzo della carcerazione per strappare confessioni. Non c’è certezza con quel metodo. Finisce che la gente dichiara anche cose non vere”. Primo Greganti, il compagno G, l’uomo che avrebbe difeso i segreti del Pci dalle indagini. La sinistra non approfittò del terremoto creato dall’inchiesta? “Ci fu chi, come Occhetto, si illuse che si potesse trarre qualche vantaggio dal frantumarsi della Dc e del Psi. Ma in realtà si sarebbe scoperto più tardi che non era così e che anche la sinistra sarebbe stata travolta dal discredito generalizzato che quella stagione provocò”. Il Pci scoprì allora di non essere diverso dagli altri. Così si disse allora... “Mah, ricordo che chi ci diceva di essere un partito corrotto come tutti, e non era vero, era lo stesso che fino a pochi anni prima ci dava dei moralisti perché nei consigli comunali chiedevamo conto delle spese degli enti locali e volevamo delle giustificazioni”. Ma alla fine, la corruzione è stata sconfitta: “Sono d’accordo con Colombo: oggi in Italia ce n’è di più. E i rischi per la democrazia sono aumentati”. Intervista a Gherardo Colombo “Avanti contro la corruzione. La sfida non è finita” di Giampaolo Visetti La Repubblica, 21 luglio 2019 “Adesso sono io il più vecchio di quelli di Mani pulite. Personalmente sento il vuoto di un affetto profondo, inciso dal passaggio pesante e grave del tempo. A livello pubblico il vuoto lasciato è quello di un eccezionale punto di riferimento, intellettuale e culturale, di una visione lucida degli eventi. Spero non si offenda nessuno, ma con questo addio si fa più evidente come nel nostro Paese quel certo modo di intendere l’esercizio della giurisdizione, proprio di Francesco Saverio Borrelli, si sta progressivamente perdendo”. Gherardo Colombo si toglie gli occhiali, li appoggia sul tavolino e spinge lo sguardo oltre la finestra. Oggi ha 73 anni e ha conosciuto il magistrato-simbolo della procura di Milano quasi 45 anni fa. Ha lavorato al suo fianco dal 1989 al 2002 e non è rimasto solo un collega: come Gerardo D’Ambrosio, con il tempo, si è trasformato in un amico e in qualche misura in un erede morale. “In questi anni - dice al rientro dall’ultimo saluto in ospedale - non ci vedevamo assiduamente, ma non ci siamo mai persi di vista. Ci si incontrava a pranzo, più spesso a cena, a volte assieme alle nostre mogli. Dopo l’improvvisa scoperta della sua malattia sono andato a trovarlo al San Raffaele, qualche volta a casa, ancora pochi giorni fa all’Istituto tumori. È rimasto, fino all’ultimo, la persona di sempre, accompagnato dalla sua signorilità, dalla sua gentilezza, dal disincanto verso le cose del mondo, ma sempre saldo nel principio che prima di tutto viene la dignità”. Quale pensa sia l’eredità che Borrelli lascia all’Italia? “Saverio non è stato soltanto il procuratore di Mani pulite. Prima è stato procuratore aggiunto per qualche anno, e prima ancora ha svolto lungamente le funzioni di giudice. Lascia tante cose: la sua umanità, l’acume, la sagacia, anche il sarcasmo con il quale reagiva quelle rare volte in cui le aggressioni che subivamo superavano la soglia della sopportazione”. E sul piano pubblico? “Il senso della giurisdizione, dell’affermare il diritto, del possedere la formazione intellettuale del giudice, imparziale e terzo, anche facendo il pubblico ministero. E poi la capacità di riversare la sua vasta cultura nell’esercizio della funzione, evitando che divenisse un rito burocratico routinario, incurante del rispetto per la persona, di qualunque reato potesse essere accusata. Saverio ci ha mostrato che si può fare il procuratore senza obbedire al potere (al potere, non alle istituzioni, che sono una cosa diversa), contrariamente a quanto succedeva fino a poco prima della sua nomina. È questa differenza la sua eredità collettiva”. Cosa intende dire? “Anche in quella che veniva definita la capitale morale d’Italia la tradizione voleva che il capo della procura evitasse di disturbare il potere. Ho esperienze personali al riguardo. Il suo predecessore, per esempio, cercò di convincere Giuliano Turone e me, che avevamo scoperto le carte della P2, a restituirle a Licio Gelli senza nemmeno guardare quelle che ancora non avevamo potuto vedere”. Oggi manca un Borrelli al Paese? “Moltissimo e per tanti aspetti. Oggi, per esempio, la cultura del pubblico ministero si divarica sempre più da quella del giudice, con il risultato che si corre maggiormente il rischio che si celebrino dibattimenti nei quali la prova è irrimediabilmente carente e l’imputato alla fine viene assolto dopo un processo che gli ha creato danni a volte difficilmente riparabili”. È vero che aveva un carattere spigoloso? “Non direi. Era disturbato dagli atteggiamenti intrusivi, dall’insistenza priva di senso. Ma tendeva, anche quando per altri sarebbe stato quasi impossibile, a non abdicare dalla sua signorilità”. La figura di Borelli, come la sua e come quella dei vostri colleghi del pool di Mani pulite, è indissolubilmente legata a Tangentopoli: avete mai parlato degli effetti che ha avuto sul Paese? “Sì e i nostri punti di vista concordavano. Mani pulite è stata la dimostrazione scientifica di come un fenomeno tanto diffuso, capillare e sistematico, come la corruzione, non possa essere espulso dalla società attraverso un’indagine penale”. Nel gennaio 2002, alla vigilia del suo famoso “Resistere, resistere, resistere”, vi aveva anticipato il suo richiamo estremo al ruolo terzo del potere giudiziario? “Quel giorno Borrelli sapeva di tenere per l’ultima volta il discorso inaugurale dell’anno giudiziario. Sarebbe andato in pensione nell’aprile dello stesso anno, compiendo 72 anni. L’appello non era rivolto al passato, ma al futuro: incitava la cittadinanza e noi tutti ad andare avanti, a resistere alla normalizzazione in corso”. Quando capiste che il vento, verso Mani pulite, stava girando? “Saverio ed io ne abbiamo parlato spesso. C’è stata interazione tra l’insofferenza del cittadino comune, che sempre più si riconosceva nella corruzione di basso livello, e la politica, insofferente al controllo del giudice, che progressivamente ha modificato il quadro legislativo, rendendo sempre più difficile sanzionare la corruzione”. Le vostre inchieste cambiarono la geografia politica dell’Italia e la Prima Repubblica venne archiviata. Quale era la vostra percezione in quegli anni, quale la valutazione in quelli successivi? “Oggi è giusto parlare dell’addio a Borrelli. Il tema non è Mani pulite. Ci vorrebbe troppo spazio e sarebbe indelicato verso di lui”. Ormai però Borrelli non può più difendersi dagli attacchi, da chi coglie la sua morte per rinnovare l’accusa di aver guidato “un colpo di Stato giudiziario”: avete mai parlato della possibilità di simili giudizi postumi? Cosa risponde lei oggi in qualità di amico e di collega? “Credo che la questione possa essere risolta andando a leggere le sentenze e le gazzette ufficiali. C’è qualche cosa che delle prime può essere smentito? Per le seconde, quante sono le leggi emanate in quei periodi che hanno reso più difficile scoprire la corruzione e più facile uscire dal processo (abuso d’ufficio, falso in bilancio, prescrizione, per citarne qualcuna)? E se c’è ancora chi sostiene, magari dietro a frasi ad effetto, che si sia stati parziali, per cortesia almeno dopo una quindicina di anni dalla fine di indagini e processi ci porti perlomeno uno brandello di prova”. Come affrontava Borrelli le crescenti difficoltà? “Lui era il capo della procura, non si occupava solo di Mani pulite. Seguiva le inchieste più delicate. Però è stata la persona capace di coordinare il pool e di tutelarlo dagli attacchi, esponendosi personalmente per proteggere le indagini e chi le conduceva. Ha sempre mantenuto questa correttezza, anche quando non era del tutto d’accordo con le nostre iniziative”. Perché lei insiste sull’importanza dell’idea delle istituzioni trasmessa da Borrelli? “Perché coincide con la Costituzione e il suo significato più profondo. Saverio non ha fatto il burocrate, era in ufficio dal mattino a sera inoltrata, disponibile nei confronti di tutti. Dirigeva la procura con la consapevolezza che il nostro lavoro incideva enormemente sulla vita dei cittadini. Per questo curava la tutela delle garanzie per l’indagato, ma anche quelle che riguardano la collettività”. Borrelli, su Mani pulite, ha scritto che “non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”: condivide la sua analisi? “Quella stagione ha sollevato il velo sullo specchio dell’Italia. La corruzione era un sistema e serviva al finanziamento illecito dei partiti, cuore delle istituzioni. A Milano non si accendeva un fiammifero senza pagare una tangente: mi riferisco a esponenti di tutti i partiti che contavano in città e non solo. Oggi Mani pulite è finita ma la corruzione resiste, anche se - fino a prova contraria - non è più un sistema, come allora. Ma credo che quella frase si riferisca a un altro problema”. Quale? “Saverio si era reso conto che in quegli anni in Italia non sarebbe potuto succedere nulla di diverso rispetto a quanto è successo. La corruzione era sistematica, sorretta da una diffusissima cultura che a qualsiasi livello sociale la consentiva. Con quella frase ha manifestato una grande delusione, consapevole che quando la cultura (cioè la tolleranza della corruzione) e le leggi confliggono, a rimetterci sono queste ultime”. Solo quando il colloquio volge al termine, Gherardo Colombo riconduce il suo sguardo dentro la stanza. Si commuove e per la prima volta la sua voce s’incrina. “Basta così - dice - Aggiungo solo ciò che siamo detti una delle ultime volte che ci siamo potuti parlare. Concordammo sul fatto di non aver omesso di fare, come magistrati, solo il nostro dovere e solo ciò che era necessario. Forse, mi disse Saverio, in qualche circostanza avremmo potuto essere formalmente ancora più delicati e maggiormente prudenti. Anche questa umanità ha fatto di lui una figura che segna un prima e un dopo”. Salerno: Salzano (Partito Radicale) “situazione carcere migliorata, ma c’è tanto da fare” di Erika Noschese cronachesalerno.it, 21 luglio 2019 Quella che doveva essere una ispezione in piena regola si è poi rivelata una semplice visita all’interno del carcere di Fuorni. A visitare la Casa circondariale di Salerno Donato Salzano del Partito Radicale; l’avvocato Fiorinda Mirabile coordinatrice nazionale comitati territoriali Fidu; Antonio Stango, presidente nazionale Fidu; l’avvocato Luigi Gargiulo, presidente della Camera Penale Salernitana; Paola De Roberto, presidente commissione Politiche Sociali del Comune di Salerno e l’avvocato Loredana De Simone. Ad oggi, nonostante alcuni miglioramenti apportati anche grazie al lavoro della nuova direttrice Rita Romano persiste il fenomeno del sovraffollamento, soprattutto nel settore dei detenuti comuni in attesa di giudizio dove la situazione è particolarmente grave perché “le condizioni lasciano un po’ a desiderare nel senso della dignità umana - ha dichiarato il presidente Stango - Non è imputabile al personale penitenziario o alla direzione ma sono carenze strutturali che sono tipiche della situazione penitenziaria italiana”. Ad oggi, secondo Salzano ci sono stati alcuni progressi: una piccola sezione dei detenuti in stato di semi libertà è stata ristrutturata; nel reparto di alta sicurezza, invece, i presenti hanno spazi adeguati mentre la sezione femminile sembra quella più avvantaggiata in quanto hanno la doccia nelle stanze e le condizioni di vivibilità sono sicuramente migliori rispetto al resto della struttura. Intanto, proprio la direttrice Romano ha chiesto alla consigliera De Roberto di illuminare con un albero di Natale la zona del carcere, in occasione di Luci d’Artista. “C’è ancora tanto da fare per il ramo femminile - ha detto la consigliera -noi abbiamo già attivato il progetto della realizzazione della pizzeria sociale; grazie alla Fidu abbiamo messo in rete l’operato delle varie partecipate da Salerno Sistemi a Salerno Pulita per migliorare le condizioni di vita all’interno di vita all’interno del carcere garantendo acqua calda 24 ore su 24 e di un servizio migliore di erogazione. Auspico ci possa essere l’avvio della raccolta differenziata che possa migliorare le condizioni di chi ci vive”. Sembra essere fiduciosa anche l’avvocato Fiorinda Mirabile che ha tenuto un colloquio con la direttrice non solo per fare il punto della situazione ma anche per accertarsi dello stato di salute dei detenuti. Tra le altre problematiche evidenziate i tempi di attesa per le visite specialistiche: “Non è possibile aspettare visite specialistiche, un cardiologo. Non si può aspettare in lista tanto tempo per interventi chirurgici importanti”, ha dichiarato Salzano sottolineando come all’interno del carcere ci sia una donna ancora in attesa di un intervento alla colonna vertebrale. Salzano lancia dunque un appello a chi dirige l’Asl e a chi dirige il nosocomio locale affinché si accelerino i tempi per garantire a tutti i detenuti il diritto alla salute. Tra i detenuti, maggior attenzione l’avvocato Mirabile lo ha rivolto ai detenuti diversamente abili: “Abbiamo registrato dei miglioramenti anche in questo senso; vengono assistiti in maniera diversa oggi”, ha spiegato la coordinatrice Fidu che parla appunto di notevoli miglioramenti anche se, attualmente, i disabili sono solo due, dopo il decesso avvenuto lo scorso anno. “Purtroppo questi non sono temi da campagna elettorale ma va bene così”, ha aggiunto l’avvocato salernitano. Sono 504 le persone detenute presso il carcere di Salerno a fronte di una capienza legale pari a 366 posti. Di questi 44 sono donne e 442 uomini. Di tutti questi detenuti, 328 sono stipati nella sezione dedicata ai reati comuni e, ancora, 300 sono quelli in attesa di giudizio. Detenuti in semi libertà: attualmente sono 17 e le loro celle sono aperte. Alta sicurezza: 51 le persone che si trovano in condizione di alta sicurezza, con spazi fruibili. Donne: sono 44 le carcerate che, ad oggi, hanno sicuramente condizioni di vivibilità migliori ma per loro le attività sono troppo poche. A differenza del settore maschile, infatti, non hanno la possibilità di cucinarsi. Popolazione straniera: in netto aumento gli stranieri, di cui 54 uomini e 12 donne. Condizione, secondo i radicali, peggiorata proprio a causa della legge sicurezza. Lavoro: quasi totalmente assente. Su 504 detenuti solo 80 lavorano su turnazione di due mesi. Di questi 80 solo 8 sono le donne che, ad oggi, conquistano la maglia nera proprio per l’impossibilità di far svolgere loro lavori per tenerle impegnate. Agenti di polizia penitenziaria: in pianta organica sono 243; di questi, 40 sono del nucleo traduzione mentre amministrativamente sono 190. Ieri erano presenti sono 160 agenti, a causa di permessi, ferie o malattie. E molti detenuti sono costretti a restare presso la caserma in quanto vivono lontani dalle abitazioni. Una situazione drammatica, nonostante i miglioramenti che si percepiscono ad oggi proprio grazie al lavoro della direttrice Romano che in soli 5 mesi sembra aver apportato vari cambiamenti all’interno della struttura proprio per migliorare le condizioni di vivibilità dei detenuti. Ad occuparsi della salute dei detenuti non è più la sanità penitenziaria ma l’azienda ospedaliera universitaria San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona, con l’Asl di Salerno. Ad oggi, i detenuti ricoverati nell’articolazione salute mentale sono 5. Pari, dunque, al totale dei posti letto che hanno subito una drastica riduzione proprio su disposizione dell’azienda sanitaria locale che ne ha decisi di tagliare 3. Tra le persone in carcere per scontare la loro pena anche i tossicodipendenti: sono infatti circa una cinquantina i detenuti in trattamento metadonico che sono al piano terra della sezione reati comuni. Dati allarmanti anche per quanto riguarda le patologie: le più diffuse sono la cardiopatia che vede circa 20 detenuti coinvolti; 10 che necessitano di trattamenti insulinici. E, come facilmente prevedibile, non mancano i malati di Hiv che, ad oggi sono 5. A tentare di fronteggiare l’emergenza sanitaria l’avvocato Fiorinda Mirabile che sta realizzando la possibilità di mettere a disposizione delle persone in carcere medici specialisti che effettueranno visite di controllo in maniera gratuita. Istruzione Disagi anche sul fronte dell’istruzione. A settembre riprenderanno i corsi per le scuole medie ed elementari ma, attualmente, solo 20 detenuti della sezione Alta sicurezza frequentano l’istituto alberghiero. Poco e nulla si fa, attualmente, per reinserire i detenuti nella società dopo aver scontato la pena. La direzione dell’istituto nel frattempo è al lavoro per realizzare una palestra da destinare alla sezione femminile, la più svantaggiata dal punto di vita delle attività. Accendiamo i riflettori sul carcere di Fuorni: è lo slogan lanciato dall’associazione culturale Andrea Proto, dal collettivo Handala di Salerno, da Radio Asilo.it e da Prospettiva Operaia che, ieri mattina, hanno tenuto una manifestazione pacifica all’esterno della casa circondariale di Fuorni per esprimere il loro dissenso sulla Legge sicurezza voluta dal ministro degli Interni Matteo Salvini. “Si protesta prima di tutto perché a livello nazionale nelle carceri stanno scoppiando molte rivolte, non solo da parte dei detenuti ma anche da parte dei familiari che protestano contro questa nuova emergenza del sovraffollamento”, ha dichiarato Francesco Cittadino del collettivo Asilo Politico che punta il dito proprio contro le condizioni di vita di molti detenuti. Comitati e associazioni, tra le altre cose, sottolineano l’assoluta assenza di forme alternative al carcere per gli assuntori di droga o chi ha avuto il Daspo in quanto ambulanti o abusivi. “Vogliamo mandare un messaggio di solidarietà e umanità alle persone detenute perché molto spesso le persone detenute perché spesso delle loro condizioni non se ne parla. Soprattutto in estate, le condizioni diventano ancora più critiche perché con il sovraffollamento e con il caldo ci sono situazioni che tendono ad esplodere”, ha invece dichiarato Davide D’Acunto del collettivo Handala Salerno, secondo cui in estate le condizioni di vita peggiorano ulteriormente. La manifestazione pacifica si è tenuta all’esterno del carcere con la distribuzione di materiale informativo anche ai parenti dei detenuti presenti proprio per tentare di far comprendere i danni che la cosiddetta legge Salvini sta provocando in quanto nonostante lo stesso ministro abbia detto che i reati sono diminuiti il numero dei detenuti aumenta”. In totale, nelle carceri italiane ci sono circa 61mila detenuti su una capienza massima di 50mila. Tanti sono i volontari che lavorano, a titolo gratuito, all’interno del carcere di Salerno. Tra questi spicca la Crivop, associazione di volontariato penitenziario che non si occupa solo di fornire ai detenuti beni di prima necessità ma di aiutarli con la preghiera. I volontari Crivop sono infatti evangelici che hanno come unico scopo quello di portare il nome di Gesù e l’amore di Dio all’interno del carcere. “In Campania curiamo circa 300 detenuti, a Salerno una ventina al momento. I volontari di sesso maschile, il sabato sono al reparto articolazione per rispondere ai bisogni dei detenuti che hanno esigenze particolari”, ha dichiarato il responsabile dell’associazione Davide Di Falco. A svolgere assistenza spirituale è invece il pastore della chiesa evangelica Samuele Prudente, autorizzato dal ministro della giustizia ad entrare al carcere ogni settimana. Tra le loro mission anche quella di rafforzare e preservare il legame tra il detenuto e la famiglia che, sempre più spesso tende a spezzarsi proprio a causa della difficile situazione in cui vivono. Una situazione difficile per tutti. Avellino: “Salute nelle carceri assente, dove è l’Asl”, la nota di Fp Cgil irpinianews.it, 21 luglio 2019 “La Funzione Pubblica Cgil è stata nuovamente costretta ad avviare la prevista procedura conciliativa in Prefettura nei confronti della direzione generale dell’ASL. Vane sono risultate le reiterate richieste di intervento sulla disorganizzazione nella medicina penitenziaria. La ormai cronica carenza di personale, tra tutte le figure professionali previste e l’incremento esponenziale del numero dei detenuti sono divenuti intrecci ingestibili senza un accurato e sensibile intervento” è quanto si legge in una nota stampa a firma della segretaria generale Licia Morsa. “La carenza di Infermieri Professionali - prosegue - non consente la predisposizione di turni adeguati nelle 24 ore previste di assistenza e la natura del rapporto di lavoro atipico con detto personale di certo non facilita la causa. L’assenza di specialisti, come lo psichiatra, fa degenerale la situazione già precaria tra i circa 600 detenuti al carcere di Bellizzi per esempio”. “Viste le scarse unità in servizio, che svolgono il proprio ruolo nella quasi totale assenza di garanzie e di tutele, non vengono organizzate in turni nel rispetto delle disposizioni normative sull’orario di lavoro. I turni di lavoro non tengono conto dei riposi obbligatori ed in alcuni casi vengono notificati alla fine del mese di riferimento, vale a dire a lavoro svolto, in quanto nessun dirigente è disponibile a firmarli preventivamente”. “Presso l’istituto a custodia attenuata per madri di lauro che dovrebbe ospitare le detenute madri con bambini fino a 6 anni di età, con capienza di posti pari a n. 35 detenute, unico istituto del centro sud, risulta in servizio ancora una sola unità di personale infermieristico che ovviamente non può da sola ricoprire i turni ed assicurare i servizi essenziali di assistenza nelle 24 ore giornaliere, per non parlare dell’assenza del ginecologo. Si stigmatizza il superficiale comportamento dei vertici dell’Asl di Avellino nell’esercizio di un così delicato servizio, non si comprende il reale motivo della cattiva organizzazione, tenuto conto, tra l’altro, che la medicina penitenziaria è a totale carico dello Stato e per l’Asl si tratta di solo partita di giro e che quindi necessita solo interventi organizzativi oculati” conclude Morsa. Cassino (Fr): detenuti al lavoro per il Comune, sottoscritta una convenzione di Alberto Simone ciociariaoggi.it, 21 luglio 2019 Il sindaco ha sottoscritto un accordo con il presidente del Tribunale. Dieci i soggetti ammessi: si occuperanno anche di cura del verde e manutenzione degli immobili. Il Comune di Cassino - così come avevano fatto di recente già alcuni centri del circondario - ha sottoscritto la convenzione con il tribunale di Cassino che permette ai detenuti condannati a meno di 4 anni e coloro che sono sottoposti a indagine di svolgere lavori di pubblica utilità per l’Ente. Il sindaco e il presidente del tribunale hanno siglato il protocollo che permette di accedere a questa misura alternativa che, ovviamente, segue regole ben precise. La messa alla prova - come recita il codice 168 bis del codice penale - comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché (ove possibile) il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. Con la convenzione stipulata ieri, l’Ente consente che dieci soggetti svolgano presso le proprie strutture l’attività non retribuita in favore della collettività per l’adempimento degli obblighi previsti dall’articolo 168 bis del codice penale. La sede dove potrà essere svolta l’attività lavorativa è dislocata sul territorio e il Comune informerà periodicamente la cancelleria del Tribunale sulla situazione dei posti di lavoro. I soggetti ammessi allo svolgimento dei lavori di pubblica utilità presteranno presso le strutture dell’Ente le seguenti attività: servizio di supporto in attività socio-assistenziali ed educativi; attività di segretariato sociale; manutenzione di immobili e ambienti di servizio. Gli oneri per la copertura assicurativa sono a carico dell’Ente: se previsti, il Comune potrà beneficiare di eventuali finanziamenti. Salera si dice orgoglioso di quanto fatto. San Marino: quattro milioni per il nuovo carcere, ecco come sarà di Monica Fabbri sanmarinortv.sm, 21 luglio 2019 Se in Repubblica c’è chi, come il capogruppo di Ssd, vorrebbe aprire un ragionamento sull’applicazione delle misure alternative al carcere, il Segretario al Territorio Augusto Michelotti, interpretando come provocazione la proposta lanciata da Giuseppe Morganti al Congresso dei Radicali, punta invece ad una struttura detentiva di eccellenza, che rappresenti un vanto per San Marino nel mondo. Si va dunque avanti con il progetto assegnato dal Congresso a maggio all’esperto in edilizia penitenziaria Cesare Burdese. L’edificio attuale non è adeguato - spiega il Segretario - e costa allo Stato 25.000 euro l’anno. Obiettivo: costruire una struttura innovativa, rispondente ai principi e criteri internazionali in materia di trattamento penitenziario e diritti umani. Già a partire dallo studio di fattibilità, l’architetto è stato coadiuvato da un Gruppo di Lavoro costituito, oltre che dai Segretari Particolari delle Segreterie Territorio ed Esteri, dai Comandanti delle Forze dell’Ordine e dal Dirigente dell’Ufficio Progettazione. Sono state elaborate linee guida. Il nuovo carcere ospiterà 24 detenuti in 12 camere doppie. Le sale interne per l’attività saranno 6. Oltre alla zona giorno per il pranzo troveremo palestra, biblioteca e luogo di culto. Altri ambienti - attrezzati con videosorveglianza - saranno dedicati a visite e incontri con gli avvocati e ci sarà una sala per l’interrogatorio. E ancora: cucina; infermeria con servizi igienici annessi; locale lavanderia; magazzino e zona relax per il personale penitenziario. Nel progetto diversi uffici, una sala riunioni e si sta valutando anche la possibilità di inserire all’interno dell’Istituto un monolocale attrezzato per il ricongiungimento famigliare. Si vorrebbe realizzare il nuovo carcere a Murata, in zona Carrare. Serviranno circa 4 milioni. “Pensiamo di essere sulla strada giusta. Se poi un domani non si dovesse fare più uso di questi sistemi detentivi - provoca Michelotti - lo trasformeremo in qualcos’altro”. Catania: negato il saluto alla moglie morta, l’altra prigione di un detenuto di Laura Distefano livesicilia.it, 21 luglio 2019 L’ultimo bacio negato. Salvatore Proietto ha potuto solamente sfiorare la foto della sua compagna sulla lapide. Tina ha lottato per 22 giorni, poi la malattia ha vinto. Tutto questo mentre il 40enne randazzese scontava ai domiciliari una pena per droga. Due anni per 70 maledetti grammi di marijuana. Il silenzio di un giudice non gli ha permesso di poter stringere la mano della moglie mentre soffriva in ospedale. E, nonostante le istanze e gli appelli, Salvatore non ha avuto nemmeno il permesso di piangere su quel petto dove il cuore aveva smesso di battere. La sua compagna è andata via. E lui è rimasto intrappolato tra le trame di una giustizia disumana. L’autorizzazione dell’ufficio del Tribunale di Sorveglianza è arrivata solo dopo il funerale. “Sono inferocito”, commenta l’avvocato Baldassare Lauria, difensore di Proietto. “Ci troviamo davanti a una vicenda vergognosa. Sono stati disattesi tutti i principi dell’ordinamento penitenziario. E la cosa ancora più assurda non è che ci siamo trovati davanti a un diniego su cui avremmo potuto discutere, ma ci siamo trovati davanti ad un silenzio assordante. E nonostante questo Proietto ha rispettato la legge e non ha violato i domiciliari”. Salvatore è rimasto in attesa. Sperando. Pregando. Eppure quell’inferno lo aveva già vissuto un anno prima. Quando a luglio, mentre si trovava in una cella del braccio Amenano del carcere di Piazza Lanza, è arrivata la notizia dell’aggravamento di mamma Carmela. Il giudice in quell’occasione (il processo era ancora in corso) ha risposto immediatamente ed ha concesso tre permessi. Ma nonostante questo Salvatore ha aspettato in cella. In attesa che lo venissero a prendere. “Preparati, arrivano presto”, gli avevano detto gli agenti della penitenziaria. Ma la scorta lo ha accompagnato al cimitero il 7 luglio 2018. La madre, purtroppo, era morta tre giorni prima. Ancora una volta solo una fotografia su cui piangere. Un dolore nel dolore. “Anche in questo caso, qualcosa non ha funzionato - afferma l’avvocato -nella macchina della giustizia”. Salvatore Proietto ha lasciato il carcere catanese lo scorso anno ad agosto. Ma il giudice ha posto un limite nel concedere i domiciliari: doveva vivere in una casa diversa, perché la sua abitazione era il luogo dello spaccio. E allora la sorella di Salvatore ha trovato un piccolo appartamento. E Proietto è andato lì con Tina. Ma a Randazzo l’autunno e l’inverno sono molto rigidi. E la mancanza di riscaldamento si è fatta sentire. Istanze su istanze per poter tornare nella sua abitazione. Nulla. La risposta è stata no. Fino alla scorsa primavera. Ad aprile Salvatore ha potuto nuovamente varcare la porta di casa. E con lui c’era Tina. Ma solo per pochi giorni. Poi la compagna di Proietto è finita in ospedale a Siracusa. Nei nosocomi di Catania non c’erano posti. Ed è cominciato il calvario di carte bollate all’ufficio del Tribunale di Sorveglianza. A senso unico. Tina poi è stata trasferita al Policlinico di Catania in terapia intensiva. È morta. L’hanno portata a casa della suocera di Salvatore. E in 22 giorni, la risposta alla richiesta di autorizzazione non è arrivata. Ha aspettato Proietto, mentre nella sua testa passavano i progetti di una vita insieme. Di un matrimonio pianificato dopo dicembre, quando finirà di scontare la condanna. Tina, pero, non indosserà mai quel vestito da sposa. “Non ci fermeremo - annuncia l’avvocato Baldassare - questa storia la denunceremo al Csm e anche alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. In un anno Salvatore ha perso le donne più importanti della sua vita: sua madre e la sua compagna. Lui ha chiesto solo di poterle accompagnare nel loro ultimo viaggio. Al detenuto è stato negato di poter lasciare la sua prigione. All’uomo è stato negato di vivere il suo dolore. Alessandria: “Voci di dentro”, quando i detenuti si raccontano di Alessandro Francini ilpiccolo.net, 21 luglio 2019 Nel documentario di Lucio Laugelli sei testimonianze raccolte nel carcere di San Michele. “Il carcere è noia - dice Armand, fine condanna 2021 - preferirei spaccare le pietre, almeno servirebbe a qualcosa”. Mario, invece, per sopravvivere al “fine pena mai”, ha deciso che la vita vera è quella che sta nei sogni che fa di notte, mentre quella che vive di giorno, sempre uguale, è solo un sogno. Giovanni, che sarà libero nel 2024, rimpiange il mare e le montagne che in Sicilia osservava dalla sua cella. Armand, Mario e Giovanni sono reclusi nel carcere di San Michele e le loro testimonianze (insieme a quelle di altri tre detenuti, Preng, Renato e Vlad) sono raccolte nel documentario Voci di dentro, diretto da Lucio Laugelli. Il progetto - “Ad aprile dello scorso anno abbiamo avviato un laboratorio audiovisivo nel carcere di San Michele grazie alla collaborazione con Piero Sacchi, presidente di Ics Onlus - spiega Laugelli - all’interno del progetto artistico-culturale “Artiviamoci”. Dopo qualche tempo, insieme ai detenuti, abbiamo deciso di realizzare un documento video in cui loro stessi potessero esprimere le proprie sensazioni raccontando in prima persona la vita da reclusi. Abbiamo cercato di trasmettere il loro punto di vista ad un pubblico più vasto possibile”. I detenuti si raccontano - Nei 20 minuti di Voci di dentro emergono speranze ed angosce, riflessioni e autocritiche di chi è costretto - in alcuni casi per il resto dei suoi giorni - a trascorrere la giornata in una cella “3 per 2”, al di là della quale “c’è solo il corridoio”. Gesti e rituali, ogni giorno sempre uguali, una routine “che ti fa andare fuori di testa” e che spesso porta chi non riesce a razionalizzare a compiere atti di autolesionismo. “In molti si tagliano, ne combinano di tutti i colori. Subito sono scene spaventose, poi ti abitui e ti fanno quasi sorridere” commenta Renato, fine pena 2020. “Questo documentario è il frutto di un lungo periodo di conoscenza reciproca, fondamentale per limare quelle barriere che all’inizio, inevitabilmente, si percepivano - commenta Laugelli.- Quasi subito è crollato il muro del fuori/dentro: noi, liberi cittadini, e voi, detenuti in una Casa di reclusione”. Voci di dentro dallo scorso gennaio è in diffusione nei principali festival nazionali con Associak Distribuzioni e la scorsa primavera ha ricevuto la Menzione Speciale al Festival Nazionale del Cinema d’Inclusione di Courmayeur. Bologna: “Eredi eretici”, in scena i ragazzi del Pratello di Paola Naldi webbol.it, 21 luglio 2019 Non sono sponde diverse e separate del fiume della vita i ragazzi detenuti all’Istituto del Pratello e i giovani chiacchieroni che si rilassano in queste giornate estive senza scuola. Sono parti della stessa comunità e chi sta dentro è lo specchio di chi sta fuori. Da questo assunto parte il progetto di teatro nel carcere che Paolo Billi porta avanti da diversi anni al Pratello, come in altri istituti detentivi. Un progetto che invita la città ad entrare, dal 3 al 6 settembre, nel cortile dell’istituto Penale minorile di Bologna per assistere allo spettacolo “Eredi eretici” portato in scena dalla Compagnia del Pratello: 15 ragazzi, sui 22 ospiti del carcere, in questi giorni nelle prove di una pièce che analizza il rapporto tra genitori e figli, conflittuali e intensi, partendo dalle lettere scritte ai propri padri da persone illustri come Mozart, Leopardi, Marx, Kafka. Per vedere lo spettacolo bisogna prenotarsi - inviando una mail corredata di copia del documento di identità a teatrodelpratello@gmail.com - entro il 10 agosto perché l’accesso al carcere è subordinato al permesso dell’Autorità giudiziaria competente. “Dall’anno scorso abbiamo ripreso gli spettacoli all’interno dell’istituto, nel giardino perché l’ex chiesa che fungeva da palcoscenico è ancora inagibile, ma è fondamentale per noi aprirci alla città - spiega il regista Paolo Billi -. Lo spettacolo “Eredi eretici” è già stato portato in scena all’Arena del Sole ma con i ragazzi dell’area penale esterna, quindi quello che si vedrà a settembre sarà qualcosa di completamente diverso, con attori diversi”. L’adesione dei ragazzi detenuti al progetto è molto alta confermando l’idea che il teatro in carcere sia un progetto educativo alternativo valido. “Abbiamo un gran bisogno di padri che ci facciano prospettare un futuro - sottolinea Paola Ziccone del Centro Giustizia Minorile -. Per molti ragazzi che abbiamo incontrato in questi anni è stato fondamentale l’incontro con adulti che li hanno aiutati a confrontarsi con i propri errori e con le fatiche della vita”. “Eredi eretici” è la prima tappa di un progetto triennale che il prossimo anno andrà avanti con un nuovo spettacolo “Le orme dei figli” in cui si ribalteranno altri luoghi comuni perché non saranno i giovani a seguire le tracce lasciate dagli adulti. “Metaforicamente, se in “Eredi eretici” gli attori ragazzi avanzano su un piano inclinato, rotolando spesso a terra - aggiunge Billi - nel nuovo spettacolo i protagonisti avranno davanti a loro una parete verticale, come quella da alpinismo, che dovranno scalare: troveranno il modo di salire e di trovare il proprio sentiero”. Milano: San Vittore, mostra del writer Bros solo per i detenuti di Sara Bernacchia La Repubblica, 21 luglio 2019 Installazione del writer con specchi e bandiere per ridare dignità a chi è in carcere. Democratica perché accessibile a pochi, inclusiva perché capace di escludere, perfetta perché cambiata in corsa. E Rubabandiera, l’installazione (non) in mostra nella “rotonda” del carcere di San Vittore. Bandiere, specchi e decorazioni sono utilizzate dall’artista Bros, al secolo Daniele Nicolosi, per rovesciare, almeno una volta, la prospettiva. “I detenuti, proprio perché reclusi, sono esclusi da qualsiasi evento pubblico, come le mostre. Realizzare un’installazione visibile solo a chi si trova in carcere ristabilisce, almeno in parte, l’equilibrio” spiega l’artista. “Perché per una volta sono loro ad avere qualcosa che agli altri è precluso”. Non a caso le prime immagini dell’installazione vengono diffuse un mese dopo il suo allestimento, lo scorso 19 giugno, quasi a voler preservare il più a lungo possibile il privilegio. Il progetto, realizzato con il supporto di Fondazione Maimeri e del ministero della Giustizia, non è compatire o riabilitare i carcerati, ma restituirgli dignità e stimoli per affrontare la vita dietro le sbarre. Per questo una decina di loro è stata coinvolta nella realizzazione dell’installazione: due delle dodici bandiere sono state cucite dalle detenute del laboratorio di sartoria, mentre gli uomini hanno collaborato all’allestimento. “Sono entrato a San Vittore cinque volte - racconta Bros ho spiegato il progetto ai ragazzi e abbiamo valutato come realizzarlo sulla base delle limitazioni previste dal carcere”. L’idea iniziale, così, si è dovuta adeguare alle esigenze del luogo e questo l’ha migliorata, perché “l’ha resa unica, fatta apposta per San Vittore”. L’elemento su cui l’artista non ha ceduto sono gli specchi. “I detenuti hanno solo specchi piccoli per radersi - racconta Bros ho insistito perché nell’istallazione ce ne fossero di più grandi. Credo che il potersi vedere restituisca dignità e consapevolezza della propria condizione”. Elemento, quest’ultimo, che spesso manca. “Se chiedi a un detenuto dove abita ti descriverà la sua casa “fuori”, anche se dovrà passare dietro le sbarre tanti anni - spiega l’artista. Come se volessero esorcizzare il fatto di non poter uscire”. Rubabandiera, invece, dà consistenza al carcere, il luogo in cui vivono ora. L’obiettivo è far sì che i detenuti, passando davanti ai drappi di colori sgargianti, si trovino a pensare a qualcosa di diverso, “a riappropriarsi delle loro emozioni in modo istintivo”, aggiunge Bros, come accadeva da bambini quando, appunto, si giocava a ruba bandiera. La mostra resterà nella rotonda di San Vittore fino a data da destinarsi, perché in carcere il tempo ha un peso diverso. La rivoluzione maggiore, però, la fa lo stesso Bros, primo writer processato per “imbrattamento” e sottoposto all’affidamento in prova per cinque mesi: “So cosa significa non poter uscire di casa. La mia opera? Non auguro a nessuno di vederla”. Internet, non è più tempo di irresponsabilità di Giovanni Pitruzzella Corriere della Sera, 21 luglio 2019 Il lato oscuro della rete è sempre più visibile a tutti e si diffonde la tendenza a stabilire norme e a definire gli oneri delle piattaforme informatiche. La responsabilità delle piattaforme è la grande questione che, nei giorni scorsi, è rimbalzata tra le due sponde dell’Atlantico e tra le capitali europee. Tre fatti meritano una riflessione: la decisione della Federal Trade Commission di multare Facebook per la violazione della privacy nel caso Cambridge Analytica (12 luglio), la legge approvata dall’Assemblea nazionale francese in prima lettura contro la diffusione dei discorsi d’odio su Internet (9 luglio) e le conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar nella causa davanti la Corte di giustizia dell’Unione europea sulla responsabilità di Facebook per la diffusione di contenuti diffamatori (4 giugno). L’ideologia della Silicon Valley ha sempre rivendicato che le piattaforme sono uno spazio di libertà in cui può esprimersi la ricchezza informativa delle nostre società senza che i gestori delle piattaforme fossero responsabili per i contenuti ospitati e l’uso dei dati degli utenti. In nome di un’ideologia libertaria si è costruito uno spazio economico, sociale e politico senza regole e senza responsabilità. Oggi, però, il lato oscuro di un Internet senza regole comincia a essere ben visibile a tutti e i tre fatti richiamati all’inizio, pur nella loro diversità, paiono riconducibili a una tendenza comune: l’espansione della rule of law su internet e il consequenziale riconoscimento della responsabilità delle piattaforme, che costituisce il risvolto del potere che esse hanno accumulato. La profilazione ogni giorno più accurata di ciascuno di noi non ha solo un grande valore economico ma può essere impiegata per condizionare i comportamenti elettorali sfruttando i gusti e i pregiudizi di ciascun cittadino. Ora, la decisione della Federal Trade Commission pone un limite allo sfruttamento dei dati. Noi in Europa siamo più avanti perché abbiamo introdotto il principio che subordina il trattamento dei dati al consenso dell’utente. Ma è importante segnalare che la decisione - al di là delle polemiche sull’importo della sanzione che, per alcuni, sarebbe troppo basso - segna che anche negli Usa è caduta l’immunità dei giganti della rete. Ed è importante che ciò sia avvenuto con riguardo a un caso in cui l’uso da parte delle piattaforme del loro potere non si limita a pregiudicare la concorrenza - come è avvenuto in Europa con le sanzioni miliardarie nei confronti di Google per abuso di posizione dominante - ma tocca lo stesso funzionamento della democrazia e la tutela delle libertà individuali. Sullo stesso terreno si collocano gli altri due fatti citati. Il Parlamento francese ha approvato una legge che obbliga le piattaforme a ritirare o rendere inaccessibili, entro 24 ore dalla notificazione della richiesta, tutti quei contenuti che incitano all’odio, alla violenza, alla discriminazione o sono ingiuriosi nei confronti di una persona o di un gruppo. Fake news e incitamento all’odio sono sempre esistiti, ma oggi le caratteristiche dei social media, con la condivisione, i like e la diffusione automatica decisa dall’algoritmo, ne aumentano enormemente la capacità di propagazione, mettendo a rischio la funzionalità della democrazia. D’altra parte, nel nuovo contesto tecnologico, non basta la rimozione di un commento per bloccare la sua diffusione, perché altri attori della rete nei possono riprodurre il contenuto. Su questo tema intervengono le conclusioni dell’Avvocato generale in una causa davanti la Corte di giustizia (che ancora non è stata decisa), secondo cui se, da una parte, il diritto dell’Unione non ammette un dovere generale di sorveglianza dei contenuti da parte delle piattaforme, dall’altra, una volta che sia stato accertato il carattere diffamatorio di un commento, la piattaforma può essere tenuta a eliminare tutti gli altri commenti identici. La fase dell’irresponsabilità sembra volgere al termine anche se ancora siamo alla ricerca di un assetto che permetta di garantire i benefici di cui godiamo grazie a Internet e di tutelare le nostre libertà. Instagram contro odio e violenza: nuove regole per disabilitare gli account La Repubblica, 21 luglio 2019 Nuova stretta contro pornografia, bullismo e intimidazioni: i profili verranno disabilitati in base alle violazioni. Nuove norme di Instagram per disabilitare gli account che presentano contenuti non conformi agli standard. In base alle regole esistenti, la società già disabilita i profili che presentano una determinata percentuale di contenuti non conformi. Ora, rimuove gli account con un certo numero di violazioni in un determinato intervallo di tempo. E introduce anche una nuova procedura di notifica per aiutare gli utenti a capire se il loro profilo è a rischio disabilitazione. “Questa notifica - spiega la società - offrirà la possibilità di fare ricorso in caso di rimozione di contenuti per nudità e pornografia, bullismo e intimidazioni, incitamento all’odio, vendita di sostanze stupefacenti e terrorismo. Se un contenuto viene rimosso per errore e viene presentato ricorso contro la decisione, la violazione verrà rimossa dai record dell’account”. “L’aggiornamento di oggi - conclude Instagram - è un passaggio molto importante per il miglioramento delle nostre normative e per la sicurezza e la solidarietà sulle nostre piattaforme. Lavoriamo con il team di Facebook per garantire che Instagram sia un luogo solidale per tutti e queste modifiche ci consentiranno di rilevare e rimuovere velocemente gli account che violano ripetutamente le nostre normative”. Il terrorismo d’impronta suprematista che minaccia Unione europea e Nord America di Maurizio Molinari La Stampa, 21 luglio 2019 Il battistrada è il Canada ma Germania e Gran Bretagna sono in piena sintonia e l’allarme investe Stati Uniti, Austria e Francia: l’estremismo neonazista ha generato gruppi terroristi che devono essere affrontati in quanto tali. È la decisione del Canada di includere due gruppi neonazisti nella lista delle organizzazioni terroristiche a segnare una svolta nell’approccio delle democrazie occidentali al pericolo che viene dall’estrema destra. L’identikit di questi gruppi ne descrive la pericolosità: “Blood and Honour” (Sangue e Onore) prende nome dal motto della Hitler-Jugend nazista, nasce in Gran Bretagna, si sviluppa nell’Europa continentale e in Nord America come un network di naziskin razzisti che promuove l’odio violento contro migranti, musulmani, ebrei e chiunque non la pensi come loro. Anche “Combat 18” si origina in Gran Bretagna, poi si espande in Europa con omicidi e attentati che culminano con l’uccisione del politico tedesco Walter Lubcke, in giugno, accusato di essere pro-migranti. In particolare, il governo di Ottawa individua in “Combat 18” e “Blood and Honour” quattro elementi che li assimilano alla pericolosità delle cellule jihadiste islamiche. Primo: sono “globali per natura” perché operano in più Paesi. Secondo: aderiscono ad un’ideologia che incita all’uso della violenza contro i civili e all’intimidazione del prossimo per raggiungere i propri obiettivi. Terzo: includono gruppi armati. Quarto: adoperano il web per reclutare, diffondere le immagini dei propri attacchi e favorire emulazioni. Da qui la decisione canadese di includere “Blood and Honour” e “Combat 18” nella lista di organizzazioni terroristiche creata dopo gli attacchi jihadisti dell’11 settembre 2001 dove finora c’erano circa 60 gruppi islamici. “Siamo molto preoccupati per la minaccia violenta che viene dai gruppi neonazisti che sostengono, promuovono e commettono atti razzisti, etno-nazionalisti, anti-governativi e misogini” spiega David Vigneault, direttore dell’intelligence canadese, ricordando come gli attacchi neonazisti contro la moschea di Quebec City nel 2017 e con un camioncino a Toronto nel 2018 hanno una genesi ideologica comune alla strage di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove in marzo un killer suprematista ha ucciso 51 fedeli in due luoghi di culto musulmani. Si tratta infatti di individui e gruppi che usano il termine “identitario” - come avviene anche in Francia ed Austria - per definirsi suprematisti bianchi. Germania e Gran Bretagna condividono tale allarme e stanno valutando l’adozione di adeguate contromisure. A Berlino la polizia afferma che le violenze di estrema destra sono aumentate del 50 per cento negli ultimi due anni. A Londra quattro attentati neonazisti sono stati sventati dal 2017 ed il “Joint Terrorist Analysis Center” ha ricevuto dal controspionaggio il compito di redigere una strategia di difesa ad hoc. “Ci troviamo davanti ad una trasformazione delle attività di estrema destra - spiega Sajid Javid, ministro dell’Interno britannico - perché se prima erano piccoli gruppi impegnati a diffondere idee anti-migranti e suprematiste ora svolgono attività terroristiche, ponendo minacce alla sicurezza nazionale”. A tale riguardo, il caso americano è esemplare perché si è passati nell’arco di meno di due anni dagli slogan antisemiti gridati durante la fiaccolata suprematista a Charlottesville, in Virginia, agli attentati neonazisti contro le sinagoghe di Pittsburgh e San Diego, causando rispettivamente 11 e una vittima. Tale svolta, osserva l’analista militare norvegese Jacob Aasland Ravndal, “avviene nella cornice della sovrapposizione fra aumento dei migranti, terrorismo islamico, crescita del sostegno pubblico all’estrema destra e boom della disoccupazione giovanile”. Ovvero, l’odio jihadista e l’odio neonazista si alimentano a vicenda anche grazie all’uso del web che innesca reazioni a catena sugli opposti fronti. A documentarlo, dati alla mano, è l’Università del Maryland in un recente studio nel quale spiega come il terrorismo separatista bianco in Europa, Nord America ed Oceania “era in stallo a metà degli anni 2000” ma poi si è impennato a seguito dell’”aumento di popolarità” nei rispettivi Paesi. Migranti. Le norme anti-ong di Salvini arrivano in aula alla Camera di Leo Lancari Il Manifesto, 21 luglio 2019 C’è chi è pronto a giurare che si tratti dell’ultimo atto di Matteo Salvini prima di chiudere con i 5 Stelle dando così il via alla crisi di governo. Vero o falso che sia di certo il ministro dell’Interno non vede l’ora di portare a casa il decreto sicurezza bis che domani, superato indenne l’esame delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia, approda in aula a Montecitorio. Al punto che - nonostante i numeri garantiscano alla maggioranza la massima tranquillità - non è escluso che il governo possa decidere di procedere con il voto di fiducia mettendo il provvedimento al riparo da possibili colpi bassi da parte dei grillini e assicurando così un passaggio veloce al Senato dove dovrebbe essere licenziato prima della scadenza prevista per il 13 agosto. Come il primo decreto sicurezza anche il secondo prevede misure volte a colpire l’immigrazione e in particolare le ong che lavorano nel Mediterraneo per salvare quanti fuggono dalla Libia con i barconi. Nel passaggio nelle due commissioni, le misure previste sono state ulteriormente inasprite. Così le multe per le navi che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane - previste inizialmente tra i 10 e i 50 mila euro - possono variare adesso tra i 250 mila euro e il milione mente il capitano che no rispetta l’ordine di fermarsi imposto dalla Guardia costiera o dalla Guardia di finanza può essere arrestato. Previsto inoltre anche i sequestro immediato delle navi - e non più, come stabilito nella prima versione, in caso di reiterazione del reato da parte della stessa imbarcazione - che potranno essere assegnate “dal prefetto in custodia agli organi di polizia, alle Capitaneria di porto o alla Marina militare, ovvero ad altre amministrazioni dello Stato che ne facciano richiesta per l’impiego in attività istituzionali”. Le spese per la loro gestione sono a carico dell’ente che le ha in uso. Una misura voluta fortemente dal M5S, e in particolare da Luigi Di Maio, che in questo modo si allinea alla guerra intrapresa da Salvini alle ong. Unica norma attenuata rispetto al testo iniziale è quella che stabilisce chi deve decidere il divieto di transito o di ingresso in acque territoriali. Sarà sempre il titolare del Viminale ma non più da solo, come avrebbe voluto la Lega, bensì in accordo con i ministri della Difesa e dei Trasporti e “informandone il presidente del consiglio dei ministri”. Ma il decreto prevede anche misure che non riguardano i contrasto all’immigrazione. Una seconda parte è infatti relativa all’ordine pubblico e prevede misure più rigorose per tutelare gli operatori delle forze dell’ordine. L’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo che renda difficile il riconoscimento della persona in caso di manifestazioni viene punito con l’arresto da due a 3 anni e con l’ammenda da 2.000 a 6.000 euro. Chiunque nel corso di manifestazioni “lancia o utilizza illegittimamente razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere, è punito con la reclusione da uno a 4 anni”. Infine la Lega ha ottenuto il via libera al cosiddetto “pacchetto polizia”, ovvero una serie di norme a favore della polizia di Stato e dei vigili del fuoco. Tra queste l’aumento degli straordinari, risorse per il miglioramento e il ricambio del vestiario e aumento dei buoni pasto da 4 a 7 euro. Libia. In tv contro Haftar, rapita 4 ore dopo dagli squadristi agli ordini del figlio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 21 luglio 2019 L’attivista Sergewa, deputata al Parlamento di Tobruk, è stata prelevata nella sua abitazione da uomini armati che hanno picchiato il marito e il figlio. Rapita alle tre di mattina mercoledì scorso a Bengasi, il marito intervenuto per difenderla ridotto in fin di vita, la loro casa bruciata. L’ennesimo crimine in Libia ha questa volta come vittima una donna deputata al parlamento di Tobruk: la psicologa sessantenne Siham Sergewa. Di lei non si sa più nulla, tanti la danno già per morta o sotto tortura. E il nome del suo principale persecutore è scritto sui muri di tutto il Paese, anche se in Cirenaica la dittatura militare perseguita chi lo pronuncia: il maresciallo Khalifa Haftar, comandante dell’auto proclamato Esercito Nazionale Libico deciso in queste ore a lanciare “l’offensiva finale” contro le milizie legate al governo di Salvezza Nazionale guidato da Fayez Serraj a Tripoli. Così un amico intimo della famiglia della deputata ci racconta per telefono dalla Cirenaica le fasi del rapimento. “Non scrivete il mio nome - chiede però - le squadracce di Haftar mi eliminerebbero subito”. “Ben prima dell’alba una cinquantina di uomini armati ha fatto irruzione nell’abitazione della Sergewa a Bengasi. Lei era appena atterrata dal Cairo assieme al marito, il chirurgo settantenne Alì Rabia, dopo aver partecipato a un incontro assieme ad altri parlamentari libici con alcuni senatori e politici egiziani. Negli ultimi tempi era stata minacciata di morte a causa delle sue critiche contro le operazioni militari di Haftar, perciò in genere preferiva dormire nella loro casa di Derna. Ma era tardi. Sono rimasti. Ed è stata la loro tragedia”. Gli assalitori facevano parte della Brigata 106, un’unità di pretoriani ben addestrati comandata dal 35enne Saddam, figlio maggiore di Haftar. Al Cairo lei era stata durissima nel condannare la guerra. “Un conflitto che non conduce a nulla, va bloccato subito. L’Egitto deve interrompere gli aiuti militari a Haftar, fanno solo il male della Libia”, aveva dichiarato. E a Bengasi solo poche ora prima del rapimento una sua intervista alla televisione locale era stata interrotta bruscamente mentre si scagliava contro la “stupidità dei combattimenti”. Continua il testimone: “Mentre la stavano portando via è arrivato il marito, gridando che voleva stare con lei. Gli hanno sparato alle gambe, quindi è stato picchiato alla testa, al torace. È svenuto. Un vicino l’ha salvato dalla casa in fiamme. Ora è ricoverato all’ospedale in prognosi riservata”. A Bengasi i portavoce di Haftar sostengono di “non sapere nulla”. I media locali censurano la notizia. Per contro, a Tripoli non hanno dubbi sulla responsabilità politica del maresciallo e così neppure i circoli diplomatici stranieri. “Saddam Haftar risponde in tutto e per tutto al padre”, affermano. Una delle spiegazioni che va per la maggiore è che in Cirenaica sia in corso una sorta di epurazione ispirata dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi contro la dissidenza e i massimi responsabili militari, anche per le recenti sconfitte sul campo contro le milizie pro-Serraj e la perdita della città di Gharian. Ma la vicenda della Sergewa racconta soprattutto del fallimento della società libica nella battaglia per le libertà a otto anni dal rovesciamento di Gheddafi. Grande sostenitrice dei diritti individuali per un Paese laico e democratico, lei era stata la prima a fare uno studio sulle violenze contro le donne da parte delle milizie di Gheddafi nel 2011. Eletta parlamentare nel 2014, aveva denunciato gli abusi dei gruppi islamici anche in Tripolitania ai danni delle donne e le ipocrisie di chi sventola i valori religiosi praticando però abusi sessuali nel privato. Le sue condanne contro la corruzione le erano già costate fermi e minacce. Stati Uniti. Innocente dopo 22 anni di carcere, la madre della vittima trova da sola il vero assassino di Giuseppe Gaetano Corriere della Sera, 21 luglio 2019 Il ragazzo, psicologicamente manipolato dalla polizia, è passato da testimone a incriminato: un giallo risolto solo dal “fiuto” da detective della donna. È entrato in carcere a 20 anni, sapendo di essere innocente, con un’accusa ignominiosa: stupro e omicidio di una amica. Ne è uscito a 42. E a farlo liberare non è stato l’avvocato o una battaglia dei familiari, ma la madre della vittima. Che non si è accontentata di un orco immaginario dato in pasto a giornali e opinione pubblica, per placare la loro sete di giustizia. La sua sete di verità è stata più forte e, da sola e contro tutti, ha scoperto il vero assassino della figlia. Un’indagine privata - È il 13 giugno 1996 e Angie Dodge viene trovata morta accoltellata in casa a Falls, un piccolo paesino dello stato americano dell’Idaho: sul corpo i segni inequivocabili della violenza sessuale. Le indagini si risolvono in un buco nell’acqua fin quando nel 1997 viene arrestato uno stupratore armato di coltello, per un delitto simile, che si rivela essere nel giro di conoscenze di Angie. Gli agenti pensano possa essere responsabile anche di quello consumato un anno prima, rimasto insoluto, e convocano quindi Christopher Tapp in qualità di amico della vittima per capire se, anche secondo lui, può essere la pista giusta. Tapp, sorpreso e confuso, riferisce di non saperne nulla, di non conoscere l’arrestato. Qui comincia l’incubo: dopo un lungo terzo grado il giovane passa, in maniera kafkiana, da possibile teste a unico sospetto proprio della morte della sua amica. Viene subito arrestato e, nonostante la prova del Dna lo scagioni, condannato all’ergastolo (l’accusa chiede la pena capitale). Il caso, che ha turbato cittadini e media, è ufficialmente e finalmente chiuso per tutti. Tranne che per la madre di Angie, Carol, che alla colpevolezza di quel ragazzo non crede un istante. Istinto di madre? Può darsi, fatto sta che continua da sola le indagini frettolosamente chiuse dagli investigatori, ingaggiando una serie di detective privati e riascoltando per ore, giorni, settimane, i nastri della presunta confessione di Tapp, da cui in realtà non emerge niente: le appare estorta, condizionata dalla pressione psicologica degli inquirenti. Una vittoria amara - Solo nel 2014 la donna riesce a far valere quella prova del Dna incredibilmente trascurata dal tribunale in virtù della confessione, ma non basterà ancora: Tapp, in un’altra sentenza iperbolica, è prosciolto dall’accusa di essere il violentatore ma non l’omicida. La madre di Angie, che ha immolato ormai la sua vita a questa causa, va avanti come nemmeno Jessica Fletcher: entrata in possesso di una traccia di Dna archiviata nel dossier sull’omicidio, assolda un esperto di genealogia riuscito - con un’innovativa tecnica forense, usata per la prima volta negli Usa per scagionare un condannato - a ricostruire la catena genetica e trovare 7 persone legate al Dna del killer. Tra gli identikit c’è Brian Leigh Dripps: un uomo che, all’epoca dei fatti, abitava proprio davanti alla casa di Angie. La polizia, incalzata dalla “signora in giallo”, lo interroga e lui, colpo di scena, confessa immediatamente sia lo stupro che l’omicidio, confermando di non aver mai visto e conosciuto Tapp. “Si erano sbagliati tutti, ma alla fine la verità è arrivata - le sua prime parole da uomo libero - ora voglio urlare la mia innocenza perché tutti lo sappiate”. Carol Dodge ha vinto la battaglia: “I poliziotti l’hanno minacciato con la pena di morte - rivela - dicendogli che se avesse detto quello che loro volevano sentire gli avrebbero dato l’immunità”. Ma non per questo troverà pace: “Questa storia ha distrutto la nostra famiglia come pezzi di vetro, in nessun modo i pezzi torneranno a posto”. Anche Tapp, dal canto suo, ha evitato di passare il resto dell’esistenza dietro le sbarre e vincerà molto probabilmente la causa di risarcimento danni. Ma gli anni trascorsi ingiustamente in cella, forse i migliori, non glieli ridarà più nessuno. Kosovo. Si dimette il premier Haradinaj: è indagato per “crimini di guerra” di Gerry Freda Il Giornale, 21 luglio 2019 L’ex premier del Kosovo andrà all’Aia a difendersi dalle accuse a suo carico in qualità di “semplice cittadino”, mentre la Serbia spera nella sua condanna. Egli, Capo del governo dello Stato balcanico a maggioranza albanese dal 2004 al 2005 e poi nuovamente dal 2017 fino a questi giorni, ha rinunciato alla carica pubblica dopo essere stato formalmente indagato per “crimini di guerra” dal tribunale speciale per le violenze avvenute nella ex Jugoslavia durante il periodo 1998-1999. Tale organo, istituito all’Aia nel 2015 per iniziativa dell’Unione europea, ha appunto ultimamente indiziato Haradinaj, accogliendo le sollecitazioni delle autorità di Belgrado, di gravi reati ai danni della minoranza serba stanziata in territorio kosovaro, perpetrati in qualità di comandante militare nell’arco di tempo considerato. L’ormai ex premier, ad avviso dei magistrati, si sarebbe macchiato, quando era a capo dell’Uck, ossia dell’Esercito di liberazione del Kosovo, di “enormi colpe”, ordinando “massacri” di civili appartenenti alla comunità cristiano-ortodossa, da lui allora bollata come “quinta colonna della Serbia di Slobodan Miloševic”. Quello in corso all’Aia è il terzo processo istruito nel Terzo millennio contro il cinquantunenne Haradinaj da un organo inquirente internazionale. Altre incriminazioni erano state infatti avanzate contro l’ex guerrigliero nel 2008 e nel 2012, per iniziativa del tribunale Onu per i crimini nell’ex Jugoslavia, ma entrambe le volte il leader indipendentista kosovaro era stato scagionato per “insufficienza di prove”, scatenando di conseguenza le ire dell’esecutivo di Belgrado. Proprio grazie all’insistenza della Serbia la Corte istituita dall’Ue nel 2015 avrebbe disposto il terzo rinvio a giudizio nei riguardi dell’ex capo dell’Uck. La nuova inchiesta in cui risulta coinvolto l’ex primo ministro di Pristina ha quindi immediatamente suscitato “l’esultanza” del ministero degli Esteri serbo, che, tramite una nota, ha espresso il proprio auspicio che il nuovo procedimento penale internazionale possa concludersi finalmente “senza connivenze e con il completo accertamento della barbarie perpetrata da Haradinaj contro la comunità serba del Kosovo”. L’ex guerrigliero, nell’annunciare di recente le proprie dimissioni da Capo del governo della nazione balcanica dichiaratasi indipendente nel 2008, ha affermato di volere affrontare “da semplice cittadino” i magistrati dell’Aia che lo accusano di crimini di guerra. Egli ha poi precisato: “Dopo avere ricevuto la comunicazione di essere stato indiziato dalla Corte speciale dell’Aia, ho scelto di andare lì a difendermi senza avvalermi di alcuna prerogativa connessa alla carica di primo ministro. Mi presenterò di conseguenza davanti ai giudici quale umile, ma patriottico, cittadino kosovaro”. Haradinaj ha infine sollecitato il presidente della repubblica di Pristina, Hashim Thaçi, a indire “al più presto” nuove elezioni parlamentari nello Stato balcanico a maggioranza albanese. Filippine. Dialogo interreligioso tra i detenuti L’Osservatore Romano, 21 luglio 2019 Promosso dal movimento Silsilah a Zamboanga. Anche l’universo carcerario può diventare una piattaforma di dialogo tra le religioni e di sviluppo delle relazioni umani: ne sono convinti i membri del movimento islamo-cristiano “Silsilah” - che in arabo significa catena - nato 35 anni fa sull’isola di Mindanao, nelle Filippine, dalla volontà di un sacerdote del Pontificio istituto missioni estere (Pime), padre Sebastiano D’Ambra. L’impegno di Silsilah negli istituti penitenziari è iniziato diversi anni fa nel carcere della città di Zamboanga, situata a sud della penisola omonima, dove il gruppo ha potuto rafforzare sempre di più la sua attività di sensibilizzazione culturale, di formazione e di condivisione, il cui obiettivo è far incontrare cristiani e musulmani. Dopo alcuni anni, il movimento è stato invitato a condurre i propri progetti di formazione anche nella colonia penale di San Ramon, una delle più antiche delle Filippine, situata al di fuori della città di Zamboanga, lungo la costa. La cura di questa struttura è stata affidata da padre D’Ambra - che è anche segretario esecutivo della commissione per il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale filippina - a un gruppo di volontari dell’Emmaus dialogue movement, un gruppo cattolico affiliato al Silsilah, e a un imam, che insegna presso la madrasah di Silsilah. Gli operatori di Emmaus si occupano dei detenuti cristiani, mentre l’imam di quelli musulmani. Proprio in questi ultimi giorni si è concluso un ciclo di formazione di sei mesi, al quale hanno partecipato decine di detenuti, con la tradizionale cerimonia di consegna dei diplomi. Padre D’Ambra ha celebrato anche la messa, esprimendosi in cebuano, la lingua locale, parlata dalla maggioranza dei carcerati di San Ramon. L’omelia del missionario era dedicata al tema della speranza, presente - ha precisato - anche in un luogo come la colonia penale. Per una maggiore diffusione del contenuto e dei risultati della formazione proposta da Silsilah a San Ramon, il sacerdote ha usato la piattaforma Internet del suo movimento: sul sito si può leggere la testimonianza commovente di uno dei detenuti, con un ringraziamento caloroso agli operatori. “Ci hanno fatto sentire parte della società, anche se viviamo in carcere, un luogo che consideriamo una comunità differente - confida - sono arrivati e hanno aperto di nuovo le nostre menti, ricordandoci di dare valore alla nostra vita; che tutte le cose hanno senso e valore; che un giorno Dio ci permetterà di essere liberi e potremo finalmente tornare alle nostre amate famiglie”. Da più di quarant’anni nelle Filippine, Sebastiano D’Ambra ha pubblicato recentemente un libro, “Interreligious dialogue. The mission of dialogue and peace in the light of the beatitudes”, una sorta di vademecum in un mondo globalizzato e di violenza crescente. Edito in inglese dalla Claretian Communications Foundation, “vuole essere uno strumento di formazione al dialogo e di avvicinamento tra le religioni”. Il testo aiuta a valutare le spiritualità di altre fedi e allo stesso tempo a capire e a rispettare le differenze tra cristianesimo e islam in generale, in particolare nel contesto filippino.