Arrivano i buoni di Mattia Feltri La Stampa, 20 luglio 2019 Al grido di tolleranza zero si marcia verso l’approvazione del decreto sicurezza bis. Pene più severe di qui, meno benefici di là, chiavi buttate, gente da far marcire dietro le sbarre: anche questo provvedimento è animato dalla particolare tendenza della filosofia del diritto così di successo non soltanto in questo governo ma in molti dei precedenti. La conseguenza è una spettacolare serie di paradossi. Come sappiamo i reati calano ogni anno da almeno un paio di decenni, l’ultimo dato dice meno 12 per cento. Dal 2008 al 2017, per esempio, gli omicidi sono diminuiti del 43 per cento, eppure nello stesso periodo gli ergastolani sono aumentati di quasi il 25 per cento. Come è possibile? Beh, è possibile per quella filosofia del diritto là, del marcire dietro le sbarre. Quindi scendono i furti, le estorsioni, le rapine, e salgono i detenuti. Quattro anni fa erano circa 52 mila e adesso siamo oltre i sessantamila, almeno diecimila di troppo rispetto alla capienza delle nostre galere. Celle sovraffollate, una ogni quattordici senza riscaldamento, una ogni tre senza acqua calda (sono tutti dati di Antigone), tremila morti in vent’anni di cui un terzo per suicidio. Lo so, questa rubrica risulterà sommamente noiosa, piagnona e velleitaria, perché la galera è un mondo a sé, e noi abbiamo già di che preoccuparci del nostro. Se n’era accorto anche Solzenycin, quando si chiedeva che fine avesse fatto quella bella tradizione popolare di portare pacchi ai detenuti nei giorni di festa. Era una tradizione morta con la rivoluzione bolscevica, e si sa, quando arrivano i buoni, di che cattiverie sono capaci. Pene alternativa al carcere, tabù in Italia ma non in Ue di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2019 I ministri della giustizia dell’Unione europea si incontrano a Helsinki. Ieri, ad Helsinki, c’è stata una riunione informale dei ministri della giustizia degli Stati membri dell’Unione Europea. Uno dei temi di discussione è stato quello che, soprattutto nel nostro Paese, è un tabù: il ricorso alle pene alternative al carcere. Ad aprire i lavori è Vera Jourová, il commissario europeo per la giustizia, la tutela dei consumatori e l’uguaglianza di genere. Un tema tutto concentrato sul rafforzamento dello Stato di Diritto: la detenzione e l’alternativa ad essa è considerata una parte importante della politica della giustizia europea. Il documento redatto in occasione dell’incontro è di estrema importanza. Viene precisato che sicuramente i reati gravi richiedono risposte adeguate e che la detenzione è uno strumento necessario in un sistema di sanzioni penali. Ma nel contempo la detenzione dovrebbe, tuttavia, essere utilizzata come ultima risorsa e le sanzioni penali utilizzate dovrebbero essere entrambe efficaci e proporzionate. Viene sottolineato che la detenzione e le sue alternative sono già state riconosciute come un importante settore della politica di giustizia dell’UE nel programma dell’Aia del 2004 e il programma di Stoccolma del 2009. Nel 2011 la Commissione ha presentato un libro verde su “L’applicazione della legislazione dell’UE in materia di giustizia penale nel settore della detenzione”, dove viene riconosciuto che potrebbe essere difficile sviluppare una vera e propria cooperazione tra gli Stati membri in tema di giustizia, a meno che non vengano compiuti ulteriori sforzi per migliorare le condizioni di detenzione e di promuovere alternative ad essa. Inevitabilmente hanno affrontato anche il tema del sovraffollamento e ricordato la risoluzione del parlamento europeo nel 2017: costruire nuove carceri non può essere la soluzione, mentre invece si dovrebbe ridurre il ricorso alla detenzione. Hanno affrontato anche il discorso delle condizioni, in alcuni casi pessime, del sistema penitenziario. E lo hanno collegato al rischio della cosiddetta radicalizzazione. Non a caso hanno ricordato le conclusioni del 20 novembre 2015 del Consiglio dell’Unione europea sulla prevenzione alla radicalizzazione nelle carceri che porta al terrorismo e all’estremismo violento. Anche in quel caso, oltre al rafforzamento della qualità detentiva, sono state citate le misure alternative come possibile azione di prevenzione. Ieri hanno quindi discusso delle soluzioni sostenibili. È stato ribadito che nonostante il riconoscimento comune del ruolo che possono svolgere le sanzioni alternative, i possibili vantaggi di un maggiore uso di alternative alla detenzione richiede ulteriori analisi e attenzione. Hanno illustrato che oltre ad offrire una soluzione parziale al problema del sovraffollamento carcerario, l’uso di alternative alla detenzione può avere vari altri benefici. Ma quali sono? Nel documento redatto ieri viene sottolineato che secondo una ricerca, si evince che le alternative alla detenzione, come ad esempio le sanzioni della comunità, l’uso di prigioni aperte o la giustizia riparativa, hanno una serie di benefici: ad esempio minori costi per il mantenimento delle carceri, migliori prospettive per la riabilitazione e, di conseguenza, meno recidiva. Quindi, sempre ieri, hanno proposto il rafforzamento di una maggiore collaborazione tra stati membri e invitato i ministri della giustizia a presentare i loro sforzi relativi al miglioramento della qualità della detenzione e, in particolare, il ricorso alle misure alternative. Anche il nostro Paese, quindi, è invitato a farlo. Pensioni tolte ai detenuti, la legge va alla Consulta di Errico Novi Il Dubbio, 20 luglio 2019 Sollevati dubbi sulla revoca retroattiva ai condannati per mafia. La questione, posta dal difensore di un “pentito” ora ai domiciliari e invalido, accolta da un giudice di Fermo. Contestata l’applicazione a processi chiusi prima che entrasse in vigore la “Fornero”. Certo, si tratta di una tipologia di detenuti, e di condannati, del tutto particolare: persone giudicate colpevoli di mafia, terrorismo, eversione e strage. Quando nel 2012 un emendamento, presentato dall’allora senatore leghista Massimiliano Fedriga - oggi governatore del Friuli - rivolse la scure della legge Fornero anche su pensionati e disoccupati che avessero maturato i benefici in virtù di attività “illecite” o “di copertura”, la misura parve incontestabile. Negli anni però, dopo che il ministero della Giustizia ha messo a disposizione dell’Inps l’elenco dei condannati in via definitiva per quei gravi reati, l’applicazione ha finito per generare più di un paradosso. I provvedimenti di revoca e sospensione dei trattamenti previdenziali e assistenziali, incluse le pensioni di invalidità, sono stati sospesi e poi revocati a molti detenuti la cui condanna era passata in giudicato ben prima che la riforma Fornero venisse approvata. Si è generato un effetto retroattivo assai più pesante e giuridicamente incisivo di quello che pure la legge del 2012 ha testualmente previsto di escludere. Al comma 61 dell’articolo 2, infatti, si era stabilito che la revoca non avrebbe avuto “effetto retroattivo”. Principio evidentemente riferito solo agli assegni ricevuti prima della revoca o sospensione, ma senza alcun rilievo riguardo all’epoca in cui i reati erano stati commessi. Pur se si tratta di persone condannate per reati gravi, si è creata dunque un’oggettiva di incertezza del diritto, dovuta anche alla sovrapposizione dei contributi versati nell’ambito di attività illecite o fittizie a quelli maturati in virtù dell’attività svolta proprio all’interno degli istituti di pena (e retribuita con compensi bassissimi). Da qui è venuta la decisione di una giudice del lavoro del Tribunale di Fermo, Elena Saviano, che ha rimesso alla Corte costituzionale la norma della Fornero relativa ai detenuti per mafia e terrorismo. La giudice ha ritenuto rilevante nel giudizio e non manifestamente infondata la questione di legittimità del ricordato articolo 2 comma 61 della legge 92 del 2012. A sollevarla è stato un avvocato del Foro dell’Aquila, Fabio Cassisa, nel ricorso proposto in difesa di un detenuto che si trova in condizioni ancora più particolari: sconta la pena per reati di mafia ma è ai domiciliari, è collaboratore di giustizia, e oltretutto percettore di pensione d’invalidità civile. Circostanze che chiamano in causa un contrasto non solo con l’articolo 25 della Costituzione, ossia con il principio di irretroattività, ma anche con l’articolo 38, che garantisce a tutti i lavoratori i trattamenti previdenziali, e con il principio di uguaglianza sancito all’articolo 3, considerata l’assimilazione nella stessa logica sanzionatoria di detenuti che si trovano comunque in una condizione specifica qual è quella dei collaboratori di giustizia. Pesa in particolare la contestazione relativa agli effetti retroattivi della revoca dei trattamenti. Come sostenuto nel suo ricorso da Cassisa, “la revoca delle prestazioni di soggetti già condannati con sentenza definitiva al momento dell’entrata in vigore della legge violerebbe il principio di irretroattività della legge penale, dovendo essere riconosciuta a tale sanzione amministrativa natura sostanzialmente penale ed essendo indubbio che il divieto di retroattività previsto dalla Costituzione si applichi anche alle sanzioni amministrative accessorie alla sanzione penale principale”. Un vulnus difficilmente contro-deducibile. Sul quale sarà la Consulta a pronunciarsi. Normalità e riscatto. Le domande dei detenuti e le risposte degli scrittori di Anna Gaudenzi valoreresponsabile.startupitalia.eu, 20 luglio 2019 Che cosa si chiedono le persone da dentro il carcere? Grazie all’iniziativa “I detenuti domandano perché” di Mediobanca, scrittori e volontari sono entrati in alcuni istituti per ascoltare e dare risposta agli interrogativi di chi vive in prigione. “In carcere ho incontrato tanta normalità e soprattutto persone desiderose di riscatto. Non era la prima volta che mi trovavo a svolgere attività con i detenuti e ogni volta mi sono reso conto che l’emotività supera la razionalità e che queste persone suscitano sensazioni che vanno al di là delle barriere”. Giuseppe Lupo scrittore e professore universitario (ha scritto tra gli altri libri “L’ultima sposa di Palmira”, con cui ha vinto il Premio Selezione Campiello e Premio Vittorini 2011 e Gli anni del nostro incanto con cui ha vinto il Premio Viareggio-Repaci 2018) è appena tornato dal carcere di Piacenza dove si è trovato a fare una lezione speciale davanti a uomini che stanno scontando la loro pena. L’occasione è stata la seconda edizione di “I detenuti domandano perché” iniziativa fortemente voluta da Mediobanca e organizzata insieme all’associazione “L’Arte del Vivere con Lentezza” e Kasa dei Libri. Obiettivo dell’iniziativa è creare un ponte tra dentro e fuori il carcere e stimolare le domande più profonde e sincere che si pongono i detenuti. Queste stesse domande vengono poi proposte a scrittori come Giuseppe Lupo che provano a trovare risposte ai loro interrogativi. Un percorso di crescita interessante per chi sta dentro il carcere ma anche per i volontari che si confrontano con una realtà nuova lasciandosi alle spalle tutti i pregiudizi, dimenticandosi i propri problemi e mettendosi in ascolto di chi ha più bisogno. “Ovviamente le domande che ci vengono poste non hanno risposte univoche perché sono questioni che vanno a indagare le sfere più profonde della coscienza, dell’intimità. Quello che provo a trasmettere in queste occasioni è la mia esperienza, il mio personale punto di vista”. Ma è proprio questo che i detenuti cercano: un contatto con il mondo esterno, un confronto sincero con persone che vivono la quotidianità in un modo diverso dal loro. Le domande che i detenuti trascrivono sono frutto di un lavoro preliminare fatto con i volontari di Mediobanca. L’iniziativa infatti prevede due fasi: nella prima i volontari visitano i detenuti e dialogano con loro in piccoli gruppi aiutandoli a far emergere dubbi e domande, successivamente incontrano gli scrittori e pongono loro questi interrogativi. In tutto sono stati coinvolti circa 200 detenuti provenienti da 5 istituti penitenziari e 25 dipendenti di Mediobanca. Gli scrittori coinvolti sono stati sette: Isabella Bossi Fedrigotti, Gianni Biondillo, Marco Balzano, Umberto Galimberti, Gian Felice Facchetti, Giuseppe Lupo, Pier Luigi Vercesi e lo Andrea Kerbaker. Ma quali sono le domande che si pongono i detenuti? Il tempo per pensare all’interno di un carcere non manca ed è forse anche la solitudine che può portare a riflettere su temi importanti. “Le domande che mi pongono queste persone non sono mai banali e toccano problemi etici. Ci si domanda per esempio “perché si sbaglia? Perché nella vita ci sono due strade, quella buona e quella cattiva e si sceglie sempre quella sbagliata?”. Il problema della scelta ricorre frequentemente così come quello del futuro”. Uno degli interrogativi più importanti riguarda il rapporto con gli affetti, i figli, le mogli: “I detenuti temono molto il rientro in società: hanno paura del giudizio. Temono per esempio di non essere all’altezza del mondo che gli aspetta fuori per questo una delle domande più frequenti è: Quando usciamo dal carcere come possiamo continuare a vivere? E a dimenticare?” Il dubbio per molti è di non riuscire a integrarsi in una società che corre a tutta velocità e che troppo spesso lascia indietro chi è più fragile: “Il rischio è che uscite dal carcere queste persone si sentano escluse, non integrate e per questo è importante portare iniziative come queste negli istituti”. Se da una parte i detenuti hanno la possibilità di avere una finestra sul mondo grazie ad attività come questa, dall’altra entrare in un carcere per un volontario è sicuramente un’esperienza che lascia il segno: “Io non so quanto sono riuscito a dare ai ragazzi che ho incontrato ma so che ho ricevuto in cambio moltissimo. Entrando nel carcere ho compreso che queste persone che hanno commesso errori non vanno giudicate piuttosto bisogna sforzarsi di capire il percorso che stanno compiendo e il desiderio di riscatto che si portano dentro”. Il progetto “I detenuti domandano perché” è una delle iniziative che Mediobanca sta portando avanti per promuovere l’inclusione sociale in carcere. A questa si affianca anche il percorso portato avanti con i giovani del Beccaria di Milano che da tre anni hanno la possibilità di fare una settimana di sport con l’iniziativa Sport Camp. A proposito di “I detenuti domandano perché” Francesco Saverio Vinci - Direttore Generale di Mediobanca ha dichiarato: “La promozione dell’inclusione sociale è un tema sul quale abbiamo deciso di impegnarci concretamente, a partire dal territorio a noi più prossimo: quello della città di Milano e della Lombardia. Da sempre mettiamo al centro il capitale umano sia nella nostra attività professionale che in ambito sociale con maggiore attenzione alle persone disagiate. Con questa iniziativa vorremo aiutare le persone che sono detenute negli Istituti penali coinvolti dal progetto a mantenere aperto un dialogo con il mondo esterno attraverso i volti e le parole degli autori e dei volontari che incontreranno”. “La scelta di continuare anche questa seconda edizione de I detenuti domandano perché è particolarmente apprezzabile perché i progetti che hanno un valore umano e sociale non si devono far cadere, mai” ha commentato Andrea Kerbaker, fondatore della Kasa dei Libri. “Non dovremmo mai smettere di porci delle domande, molti di noi forse hanno smesso troppo presto. Questo progetto invita al confronto, alla riflessione, alla ricerca del proprio scopo nella vita, un esercizio utile a tutti, non solo tra le mura di un carcere” ha dichiarato Bruno Contigiani de “L’Arte del Vivere con Lentezza”. Le domande dei detenuti - Sono tante le domande che si sono posti i detenuti del carcere di Piacenza e che sono state raccolte dai quattro volontari Fabrizio, Ornella, Daniela e Lorenza. Leggendone una dopo l’altra emerge quanto gli interrogativi siano davvero ad ampio raggio e vanno dalla riflessione su problemi pratici come la promozione di attività da svolgere dentro e fuori dal carcere, alle curiosità che colpiscono sul mondo esterno che magari si conosce solo attraverso la televisione e ancora domande profonde che implicano riflessioni etiche. Domande e interrogativi “normali” come dice Lupo e fragili e sulle quali chiunque si trova a riflettere. Ve ne proponiamo alcune proprio per capire più nel dettaglio quali sono gli interrogativi più rilevanti per chi vive la sua quotidianità privato della libertà. Perché non si pensa di individuare e utilizzare alcune attitudini eccellenti di molti detenuti? La scarsa capacità di comunicare con gli altri può essere la causa che porta a commettere reati? Perché nella vita ci sono due strade, quella buona e quella cattiva e si sceglie sempre quella sbagliata? Perché oggi nella società c’è meno dialogo tra le persone e si passa troppo tempo sui social? Visto come è cambiato il modo di vivere e la società in generale, come possiamo educare i nostri figli e in che modo possiamo rapportarci con loro in determinate circostanze per far capire loro cosa è sbagliato e cosa è giusto? La prigione fa più bene o più male, è più distruttiva o un periodo di recupero? Come mai gli assistenti sociali non aiutano i bambini che hanno genitori in carcere? Perché ci si ferma alle apparenze, senza in questo modo avere l’opportunità di andare oltre? Molti esprimono un giudizio basato solo sulle apparenze. Perché nelle scuole non si usano più i grembiuli per i bambini? Perché non si promuovono più occasioni per far conoscere la realtà carceraria all’esterno, coinvolgendo studenti, associazioni? Codice Rosso, due passi avanti e tre indietro di Lella Palladino e Antonella Veltri* Il Manifesto, 20 luglio 2019 Il Senato approva a spron battuto il Codice Rosso ma per i centri antiviolenza della rete D.i.Re c’è poco da festeggiare. Molte e diverse erano state le critiche e le proposte fatte nel corso delle audizioni in Senato, ma queste sono state l’ennesima farsa, perché il testo è arrivato in aula blindato e identico a come era stato ricevuto dalla Camera. Tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni sono stati respinti senza nemmeno motivare il perché. La maggioranza non ha neanche tenuto in conto i rilievi mossi dal Consiglio superiore della magistratura. Alla Camera alcuni emendamenti proposti e alcuni suggerimenti erano stati accolti, al Senato nulla, tutto blindato. Proviamo allora a guardare il Codice Rosso dal punto di vista delle donne accolte nei centri antiviolenza, donne che hanno scelto di dire basta a una relazione violenta e provare a ricostruire la propria vita. Il punto più critico dal nostro punto di vista riguarda quei 3 giorni che sono il limite entro il quale il magistrato è tenuto a sentire la donna. Apparentemente - e così viene raccontato dalla maggioranza e dai media - un passo avanti. Sembra una accelerazione di quei processi che tutti sanno essere troppo lunghi e troppo poco tutelanti per le donne. D.i.Re aveva proposto di sentire la donna entro 3 giorni solo nel caso in cui si richiedesse l’applicazione della misura di protezione e nel caso in cui l’audizione fosse richiesta dalla donna o dal/la suo/a avvocato/a, per evitare la continua ripetizione del racconto che si configura come rivittimizzazione secondaria. In secondo luogo nulla fa il Codice Rosso per il problema principale, la durata spropositata dei procedimenti giudiziari: oggi ci vogliono in media 6/8 anni per arrivare a una sentenza. E nulla fa per ovviare al problema di sentenze apertamente sessiste, in cui il linguaggio giuridico fa propri tutti gli stereotipi discriminanti nei confronti delle donne, come messo in evidenza nelle due giornate di formazione organizzate da D.i.Re a Firenze e Cosenza in collaborazione con Magistratura Democratica e incentrate proprio sulla formulazione delle motivazioni delle sentenze che scagionano gli uomini maltrattanti. Per ovviare a tutto questo occorrono risorse per aumentare gli organici della magistratura che si occupa di violenza contro le donne, e per la loro formazione. Troppo spesso le donne non sono credute, nelle aule dei tribunali vengono sottoposte a interrogatori denigranti (modellati su “Processo per stupro”, 1979), la vita privata passata al setaccio per dimostrare una loro corresponsabilità nella violenza subita. E peggio va in sede civile, nelle cause di separazione quando in ballo c’è l’affido dei figli, dove i magistrati si appoggiano su Ctu che - in evidenza ieri nel convegno organizzato da D.i.Re con Dire Donne - nel migliore dei casi eludono proprio il tema della violenza, nel peggiore trasformano la violenza subita dalle donne in conflitto familiare con pari responsabilità tra l’uomo maltrattante e la donna che subisce violenza, per arrivare a giudicare negativamente la capacità genitoriale delle madri e costringere i figli, pena il collocamento presso i servizi sociali, a incontri con i padri da cui sono terrorizzati. Ma risorse nel Codice Rosso non ce ne sono. La formula asettica e criptica è “invarianza finanziaria”. Tutto va fatto con le risorse che ci sono, anche la formazione, che pure avevamo chiesto a gran voce e ora è prevista dal Codice Rosso, anche i percorsi di recupero per i maltrattanti, che almeno accendono una luce su un’interpretazione della pena orientata al recupero come vuole la Costituzione. Dunque: chi paga la formazione? Chi svolge la formazione? A cosa si tolgono risorse per pagare la formazione prevista dal Codice Rosso? Restano allora solo i nuovi reati - il revenge porn, gli attacchi con l’acido, i matrimoni forzati - e l’innalzamento delle pene. Senza pensare che alle donne vittime di violenza non interessa quasi mai vendicarsi dei maltrattanti facendoli “marcire in galera”, per usare un linguaggio caro al vicepremier e segretario della Lega. Alle donne interessano processi celeri, il riconoscimento del reato subito, il rispetto della propria parola, e la riconquista della propria vita. Tuttavia segnaliamo le due cose positive: la comunicazione immediata della notizia di reato alla Procura, che permette una interlocuzione importante con il Pm se necessario, e l’introduzione del reato di violazione della misura dell’ordine di allontanamento o divieto di avvicinamento, che offre finalmente effettività a quelle misure. Il revenge porn è una norma che mancava, ma che per una svista rischia di non essere efficace per i casi di sexting, i più diffusi. Con minimo sforzo trasversale si sarebbero potute adeguare alcune norme in modo meno demagogico e più efficace. È inutile fare il terzo grado alla donna dopo 3 giorni dalla denuncia se il personale che la accoglie e la ascolta non è formato e non è in grado di riconoscere la violenza. *Presidente e vicepresidente Centri antiviolenza D.i.Re Bongiorno: “Castrazione chimica? Sarebbe una misura civile” di Fausto Carioti Libero, 20 luglio 2019 Il ministro: “È utile, ma deve essere volontaria e reversibile”. La Lega lavora a un disegno di legge da presentare a settembre. Pare che stavolta facciano sul serio. Tra quelli che ci stanno lavorando c’è Giulia Bongiorno, persona credibile e competente, una delle poche in questo governo. Meglio così, perché la storia della castrazione chimica in Italia è diventata ridicola. Se ne parla a intervalli regolari, di regola dopo qualche episodio clamoroso di stupro o pedofilia; la proposta suscita le solite reazioni pavloviane e muore lì, pronta per essere riesumata col nuovo caso di violenza sessuale. Ora, assicurano alla Lega, le cose sono diverse. Stanno preparando un disegno di legge che presenteranno a settembre, alla riapertura dei lavori parlamentari, sempre ammesso che riapertura ci sia. Certo, poi bisognerà trovare una maggioranza disposta a votarlo, perché pure in questo caso i Cinque Stelle si rivelano una costola della sinistra e sono determinati a dire no. Male che vada, il testo sarà ripresentato nella prossima legislatura, che comunque non pare lontana e promette di avere numeri assai diversi da quelli di oggi. La Bongiorno è avvocato e giurista di cultura garantista, lontanissima dalla macchietta del politico truculento con l’elmo chiodato in testa. Ieri ha detto che la castrazione chimica “è una misura civile” che può essere utile nella lotta alla violenza sessuale e alla pedofilia, a patto che il trattamento sia “volontario e reversibile”. Ed è così, ha ragione lei. Se si guarda alla questione senza isterie (impossibile, in Italia) non c’è un singolo motivo per cui non si debba fare qui ciò che già viene fatto in Germania, Francia, Regno Unito, Belgio, Svezia e altri otto civilissimi Paesi europei. Quale sarebbe la ragione? Che lo Stato non può mutilare un condannato? Ovvio che non può farlo, ma qui si parla di un’altra cosa. La castrazione chimica di granguignolesco ha solo il nome: all’atto pratico consiste nella somministrazione di un ormone antiandrogeno che frena la libido. È il caso dell’Androcur, compressa da prendere dopo i pasti, uno dei prodotti più diffusi per la cura del carcinoma. Tra i suoi effetti, avverte il foglietto, c’è “la riduzione delle deviazioni dell’istinto sessuale negli uomini”. Cessata la somministrazione del farmaco, il desiderio torna. Nemmeno ha senso dire che si tratta di un sopruso da parte dello Stato, giacché la cosa avverrebbe solo su base volontaria e sotto controllo medico. Il condannato che l’accetta avrebbe il vantaggio di una riduzione della pena e la possibilità, inibite le sue voglie, di avere relazioni normali e reinserirsi nella società, o quantomeno di provarci. Si parla sempre di funzione rieducativa della pena: bene, cosa c’è di più rieducativo che cambiare e avere una seconda opportunità? Altrettanto stupida è l’obiezione che l’integrità del corpo dell’individuo sia sacra al punto che nemmeno lui stesso può disporne. Chi la sostiene cita l’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale la salute è un “fondamentale diritto dell’individuo”, come tale irrinunciabile. Suona molto nobile, ma è una panzana. La legge italiana già oggi consente a chiunque di mutilarsi, anzi provvede esso stesso a farlo nei propri ospedali. Dal 1967 il nostro ordinamento ammette la donazione del rene da parte di un vivente, dal 1999 quella di una porzione del fegato e dal 2012 è prevista la possibilità di rinunciare a un pezzo di polmone, pancreas e intestino. Se per aiutare un’altra persona posso privarmi di un rene, che non mi ricrescerà, perché non posso rinunciare alla libido con una terapia reversibile, per aiutare me stesso? Altri, ed è il caso dei Cinque Stelle, nascondono dietro a un distintivo da sceriffo la loro intesa con la sinistra su questo argomento. A partire dal guardasigilli Alfonso Bonafede, il quale sostiene: “A me non interessa che il colpevole di una violenza sia fuori dal carcere con il testosterone più basso, mi interessa solo che sia in carcere”. È quello che quando parla davanti agli avvocati si traveste da fine liberale e declama che “la pena deve avere quella funzione rieducativa che la Costituzione italiana le attribuisce”. Se continua a fare il ministro sarà il caso che si metta d’accordo con se stesso (ma speriamo che non accada). Aziende confiscate alla mafia, solo una su cinque sopravvive di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2019 L’agenzia nazionale. Ai minimi il tasso di attività delle imprese sottratte alla criminalità. Si punta su riorganizzazione, cultura manageriale e sinergia con i privati per risollevarlo. Un’azienda sana può salvare un’impresa sottratta alla mafia. È una sfida nella sfida. Lanciata dal prefetto Bruno Frattasi, direttore da febbraio dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Qualche giorno fa, in audizione alla commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra (M5S), Frattasi ha spiegato tutte le criticità dei due settori d’azione: beni immobili e aziende. Forte di un’esperienza quasi quarantennale di prefetto, il direttore dell’Agenzia ha in capo la scommessa stessa di una struttura appena riformata e, dunque, attesa a risultati diversi dai problemi annosi trascinatisi negli anni. Come prevede il nuovo Codice antimafia, le aziende “in sequestro e confisca possono avvalersi, oltre che del sostegno qualificato del mondo imprenditoriale, anche dell’ausilio tecnico delle Camere di commercio”. Frattasi poi rivela un’altra mossa: “L’Agenzia intende valorizzare forme di collaborazione con associazioni di qualificati professionisti che possano portare all’interno di queste aziende una cultura manageriale fortemente orientata al rispetto delle regole”. Il prefetto non si nasconde difficoltà e rischi. Ma sottolinea la necessità della “inversione di una narrativa screditante, tendente a identificare l’impresa confiscata come una sorta di bad company”. Se è fondato, il processo virtuoso “deve passare attraverso un’attenta opera di ripulitura interna e la sistematica osservanza dei modelli organizzativi di compliance previsti dalla normativa sulla responsabilità societaria”. I numeri attuali, del resto, sono sconfortanti. Le aziende ex mafiose che hanno già una destinazione sono 1.003; quelle in gestione all’Agenzia 2.982. Frattasi fa notare in Antimafia come “il numero delle aziende confiscate portate in liquidazione si attesta a una soglia elevatissima, supera il 90% dell’intero plateau”. Il prefetto ha svolto in questi mesi una verifica sulle aziende in gestione. Con esiti drammatici: “Solo il 34%, tra quelle sottoposte a sequestro, è ancora effettivamente attivo”. Con la confisca di primo grado le aziende ancora attive sono “poco oltre il 27%”. E a confisca definitiva si precipita “a circa il 19%”, una su cinque. La musica cambia poco con gli immobili ex mafiosi. Destinati in 15.868, in gestione all’Agenzia 16.864. La tragedia sta in una procedura dove, dopo la destinazione, di solito a un ente locale, il bene resta abbandonato. “La percentuale di riuso in una rilevazione su circa 6mila immobili è di poco oltre il 60%”. Contro queste assurdità indegne la sfida ricomincia. Campania: dati allarmanti dalle carceri, il Garante “ci vogliono più psicologi” di Roberta De Maddi comunicareilsociale.com, 20 luglio 2019 In Campania l’anno scorso sono stati 11 i suicidi nelle carceri, quest’anno da gennaio a luglio ne sono stati già cinque. L’ultimo è avvenuto nel carcere di Secondigliano qualche giorno fa. Una situazione di estrema importanza che non può essere ignorata e sulla quale non ci si può non porre degli interrogativi. Esiste un protocollo di prevenzione del rischio suicidario, ma per mancanza di personale e per un basso numero di ore che si svolge effettivamente con i detenuti, questo protocollo viene davvero applicato come dovrebbe? “Quando si tratta di suicidi i picchi più alti sono in ingresso e in uscita dal carcere”, spiega Daniela de Robert, membro del collegio del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale, la cui relazione annuale dovrebbe a breve essere resa pubblica. L’allarme che viene lanciato è chiaro. “Il welfare in Italia non esiste più, più ci si sente soli più si viene emarginati. Il carcere è fuori dalle agende della politica, all’apertura dell’anno giudiziario il carcere non è stato neanche nominato. Sono necessarie piccole cose quotidiane che però per chi è in carcere rappresentano tantissimo. Attività, psicologi e psichiatri, visite e telefonate ai familiari ad esempio. In alcuni casi c’è un solo telefono, dieci minuti di telefonata a rotazione tra i detenuti, ma così finisce che non tutti riescono a sentire i propri familiari. Perché non utilizzare sistemi di videochiamata che sono invece autorizzati per la media sicurezza? A Novara lo si fa, nel carcere femminile di Venezia c’era una mamma che poteva fare i compiti a telefono con la figlia via Skype. La Campania è un territorio difficile da gestire, ma ci vorrebbe più attenzione, più personale e soprattutto ben distribuito”. Il Garante in Campania per le persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha fatto visita ai detenuti dei reparti Ionio e Ligure del carcere di Secondigliano: “Siamo dispiaciuti, era un uomo semplice, introverso”, così alcuni detenuti hanno ricordato il loro compagno che si è suicidato quattro giorni fa. Samuele Ciambriello pone l’attenzione sulla carenza di personale come psicologi e psichiatri che sono troppo pochi e hanno troppo poco tempo a disposizione: “In alcuni reparti i detenuti anche per quattro mesi non vedono psicologi. Facendo una stima numeri alla mano, i detenuti in Campania hanno a disposizione 10 minuti al mese per parlare con loro. Bisogna aumentarne il numero e aumentare le ore. Le attività che vengono svolte inoltre sono poche. A Secondigliano fino alle 13:30 le celle sono aperte, dopo fino alle 17:30 ci sono delle aree di socialità dove possono stare. Questa però è un’eccezione. A Poggioreale dopo le ore 16 qualunque attività è ferma, il carcere è come fosse congelato. Tutte le notizie ad esempio vengono date nel pomeriggio quando i detenuti non possono parlare con nessuno. Tutte le attività sono ferme. Inoltre a Secondigliano in alcuni reparti non ci sono neanche le docce in cella, ci sono docce collettive peraltro arrugginite”. Ciambriello sottolinea infine quanto sarebbero importanti le pene alternative per chi deve scontare ad esempio fino a due anni di carcere: “Si potrebbero destinare queste persone ai lavori socialmente utili invece di sovraffollare le carceri. Ricordo sempre che l’anagramma di carcere è cercare. Cerchiamo di dare a queste persone una giustizia riparativa, un presente dignitoso in carcere, ed un futuro quando hanno finito di scontare la pena”. Benevento: detenuto di 55 anni stroncato in cella da un infarto cronachedellacampania.it, 20 luglio 2019 Un altro detenuto è morto in carcere colpito da un malore improvviso. È accaduto nel carcere di Benevento. la vittima si chiamava Antonio D. 55 anni di Napoli. Era in cella per reato comuni ma aveva problemi di cuore. Era un soggetto cardiopatico. Nella mattinata di ieri, forse per il caldo eccessivo della cella, l’uomo è stato colto da un infarto che lo ha stroncato subito. I compagni hanno avvertite gli agenti penitenziari che sono accorsi insieme con il personale medico ma non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Ancora una vittima quindi tra i detenuti in questa che sembra un’estate nera per le carceri italiani. Napoli: detenuti con dipendenze, aumentano le possibilità di recupero tuttosanita.com, 20 luglio 2019 La Asl Napoli 1 Centro e la Uiepe (Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna) insieme per implementare programmi socio-riabilitativi per i detenuti tossicodipendenti. Sottoscritto un protocollo che mira a potenziare l’attuazione delle misure alternative alla detenzione per i tossicodipendenti sottoposti a provvedimenti penali. Un protocollo voluto dal Commissario Straordinario dell’Asl Napoli 1 Centro Ciro Verdoliva quanto dal Direttore dell’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna er la Campania Maria Bove, e che vede la determinante collaborazione del Direttore del Dipartimento Dipendenze Stefano Vecchio e della Responsabile della Unità Operativa Dipartimentale (Uosd) Strutture Intermedie Marinella Scala. La normativa del settore, sulla scorta del percorso tracciato dalla storica legge del Sen. M. Gozzini e dall’impegno istituzionale multiforme di Alessandro Margara, prevede che i tossicodipendenti possano fruire di misure alternative alle pene per i reati commessi, in quanto prevalentemente collegati alla loro relazione con le droghe, seguendo programmi socio-riabilitativi all’interno di uno o più dei servizi per le dipendenze (Serd, Centri Diurni, Comunità Terapeutiche). “Si inaugura una nuova stagione di attività congiunte con Uiepe - commenta Ciro Verdoliva. Il protocollo e il progetto Deeply rappresentano un nuovo tassello nella realizzazione del modello territoriale diffuso e articolato di servizi afferenti al Dipartimento delle Dipendenze che rappresentano uno dei nodi strategici e innovativi della attuale Direzione strategica della Asl Napoli 1 Centro”. In questo quadro si inserisce la sottoscrizione del protocollo tra la Asl Napoli 1 Centro e la Uiepe, che prevede un finanziamento per la realizzazione del progetto Deeply con la prima attivazione di quattro tirocini formativi che prenderanno vita nei due orti sociali gestiti dal Centro Diurno Lilliput (nel quartiere Ponticelli) e dal Centro Diurno Palomar (realizzato in via Manzoni). Progetti che vanno a potenziare e rinforzare i programmi socio-riabilitativi orientati al lavoro già in corso nelle due strutture. Il Dipartimento delle Dipendenze della Asl Napoli 1 Centro ha infatti una lunga storia di progetti per l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, in particolare all’interno dei quattro Centri Diurni (Centro Aleph, Centro Arteteca, Centro Lilliput, Centro Palomar), afferenti alla Uosd Strutture Intermedie, con programmi socio-riabilitativi personalizzati e originali, implementati nel tempo anche con progetti finanziati dalla Regione Campania finalizzati più specificamente alla formazione professionale. In questa logica è stato istituito uno sportello di orientamento per le misure alternative, nell’ambito del “Progetto IV Piano”, che integra l’attività della UO SerD Area Penale ed è stato attivato un circuito regionale e nazionale di Comunità Terapeutiche che consente di personalizzare e velocizzare l’esecuzione delle misure alternative. “Questo protocollo - dice il Direttore della Uiepe - conferma e rafforza la collaborazione con l’Asl Napoli 1 Centro, in particolare con il Dipartimento Dipendenze e la Uosd Strutture Intermedie. Si compie un ulteriore passo in avanti nella collaborazione istituzionale grazie a progetti che delineano il passaggio da interventi orientati esclusivamente ai singoli individui, a orizzonti più ampi, nei quali le storie individuali, pur non azzerate, vengono tuttavia ricomprese nella ricerca di efficaci politiche di servizio, che tendono a conferire alle misure alternative contenuti trattamentali di chiara evidenza”. Udine: nuovo Sos dal carcere “il doppio dei detenuti rispetto alla capienza” Messaggero Veneto, 20 luglio 2019 La denuncia, dopo una visita, dall’associazione “Antigone” “Spazi angusti e assenza di mediatori linguistici e culturali”. Ancora un Sos dal carcere, stavolta lanciato dai rappresentanti dell’associazione “Antigone”. Mercoledì scorso, nella casa circondariale cittadina, si è svolta una visita degli esponenti del sodalizio, attivo da 30 anni nel campo della tutela dei diritti delle persone detenute e, da quest’anno, con una propria sezione regionale anche in Fvg. I due osservatori che hanno svolto la visita, membri del direttivo della sezione regionale, Francesco Santin e Valentina Pizzolitto, hanno riportato una situazione critica per quanto riguarda gli spazi detentivi, che necessitano di importanti lavori di ristrutturazione. È stata rilevata una capienza regolamentare di 38 posti letto, con 71 detenuti presenti, quasi il doppio del lecito. Particolarmente critica la situazione delle aree comuni e dedicate alla socialità, con spazi molto ridotti. Rilevante la totale assenza di mediatori linguistici e culturali. A giorni sul sito dell’associazione (antigone.it) sarà possibile visionare la scheda completa e per avere maggiori dettagli sulla situazione nazionale degli istituti di pena è possibile consultare “Il carcere secondo la costituzione”, il 15º rapporto di “Antigone” sulle condizioni di detenzione in Italia. La situazione intollerabile, a Pordenone, era stata già denunciata, alla fine del mese scorso, dai sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. Quando fuori le temperature superano i 30 gradi il Castello, struttura antica col tetto in legno, diventa una fornace. Tredici le celle, con una media di più di 5 occupanti. In ognuna un solo bagno. Le docce, tutte nello stesso locale, sono quattro, nonostante dal 2001 una legge dello stato ne prescriva una per camera detentiva. Dalle 8 alle 18, in regime di cosiddetta “sorveglianza dinamica”, i detenuti circolano in spazi comuni, ognuno al suo piano, sorvegliati dagli agenti di custodia, sempre meno. Dalle 18 alle 8 si torna dietro le sbarre. E ogni giorno si ricomincia. Sperando che qualcuno prenda in mano e risolva una volta per tutte questa situazione di mancato rispetto dei diritti umani. Foggia: i detenuti diventano operatori della ristorazione restoalsud.it, 20 luglio 2019 Sono 13 i detenuti del carcere di Foggia che stanno partecipando al corso per “Operatore della Ristorazione”. Il corso è tenuto da Smile Puglia, in partenariato con il Consorzio Aranea e il progetto - finanziato dalla Regione Puglia - rilancia la collaborazione istituzionale tra Istituti penitenziari, Enti di formazione e terzo settore fondamentale per l’efficacia dei percorsi di crescita personale e di reinserimento lavorativo e sociale della persona detenuta. Le lezioni - Il corso di formazione è stato promosso in stretta collaborazione con la Direzione del penitenziario. Oltre alle attività formative, si stanno realizzando un servizio di mediazione culturale e l’organizzazione di un laboratorio teatrale. La parte teorica del corso è incentrata su diverse tematiche: lezioni di sicurezza sui luoghi di lavoro, informatica, inglese turistico, elementi di chimica e merceologia per arrivare poi ad approfondire l’arte culinaria, attraverso la fase di simulazione in contesto operativo. La cucina a km 0 - Gli allievi sono stati chiamati a confrontarsi con un tema, quello della cucina tipica a chilometro zero: un momento esperienziale mirato alla ricerca e alla contestualizzazione storica della realtà di Capitanata, attraverso la descrizione delle eccellenze locali, la loro valorizzazione nella quotidianità e la sperimentazione innovativa della cucina. È stata applicata una didattica basata sull’esperienza, sul fare, sull’assaggiare, vedere, sentire e partecipare. Gli allievi detenuti hanno simulato una co-progettazione insieme ai docenti, proponendo di giorno in giorno nuove ricette. La formazione può costituire un allentamento della tensione, un impegno mentale che favorisce la non fissazione nel qui e ora della cella, un’occasione d’incontro con persone che, provenendo dall’esterno, favoriscono una sensazione di minore abbandono. L’opportunità - La formazione per il detenuto non è solo un’occupazione del tempo ma è anche la soddisfazione di un bisogno, un’opportunità a livello personale per rimettersi in gioco e per riscoprire risorse, abilità e potenzialità che molto spesso non sapeva nemmeno di possedere e che, all’interno di un sistema relazionale, gli consentono di riacquistare fiducia in sé stesso. I detenuti che hanno deciso di partecipare al percorso si sono mostrati motivati ed entusiasti. Hanno messo grande impegno nella preparazione di primi e secondi piatti e nella realizzazione di dolci e prodotti da forno. L’impegno e l’entusiasmo - “Sono davvero ammirevoli - ha sottolineato il presidente di Smile Puglia, Antonio De Maso -, come dimostra l’entusiasmo e l’impegno che i corsisti, Federico, Anacleto, Luigi, Giuseppe, Vincenzo, Giuseppe, Islam, Michele, Fabio, Christian, Alessio, Luigi e Domenico, hanno profuso nel seguire tale iniziativa. Alcuni evidenziano naturali propensioni e talento per le attività di pasticceria e di cucina. Molti di loro potranno sicuramente impiegarsi in entrambi i settori”. Roma: Antigone presenta il rapporto di metà anno sulle carceri italiane di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2019 Il prossimo 25 luglio a Roma, a partire dalle ore 10.00, presso la Sala Azzurra della Fnsi in Corso Vittorio Emanuele II, 349 (primo piano), Antigone presenterà il proprio rapporto di metà anno sulle carceri italiane. Attraverso numeri, dati e storie, sarà presentata una fotografia del sistema penitenziario così come emerso dalle visite effettuate finora dall’osservatorio dell’associazione. Durante la conferenza stampa sarà inoltre presentata la proposta di legge rientrante nella campagna “Il carcere è un pezzo di città” che Antigone ha promosso nel mese di maggio è che punta ad includere i Sindaci tra le autorità cui la legge riconosce il diritto a visitare gli istituti di pena. Nell’ambito della campagna, osservatori di Antigone sono stati in visita nelle carceri di Livorno, Torino, Bologna e Palermo insieme ai rispettivi primi cittadini. Alla conferenza stampa parteciperà anche Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale. Per accedere non è necessario l’accredito ma, per ragioni organizzative, è gradita la conferma della presenza. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Voghera: genitorialità in carcere, volontari insieme alle famiglie dei detenuti vogheranews.it, 20 luglio 2019 Sabato 13 luglio nella Casa circondariale di Voghera si è svolta un’iniziativa tesa a favorire l’esercizio della genitorialità durante la detenzione e a sostenere le relazioni affettive tra alcuni detenuti ed i rispettivi figli. In adesione alla campagna nazionale di sensibilizzazione su tale tema, dal titolo “Non un mio crimine, ma una mia condanna”, la Direzione del carcere ha potuto sperimentare la collaborazione con l’Associazione “Scegli Gesù”. Nella Sala Teatro dell’istituto di via Prati Nuovi, alla presenza di circa 10 famiglie, hanno donato il loro apporto 11 volontari, consentendo al pubblico di vivere un momento di serenità in allegria. “Alcune persone ristrette hanno espresso pensieri sulla giornata trascorsa, mostrandosi particolarmente contenti e molto grati all’associazione per il tempo dedicato”, spiegano gli organizzatori. Ne programma della giornata: due sketch divertenti ma al contempo capaci di lasciare un messaggio sul valore dell’amicizia, numeri di giocoleria e artisti di strada, sbandieratori che a ritmo di musica hanno fatto volteggiare, intorno agli sguardi stupiti dei piccoli, tutti i colori dell’arcobaleno. A seguire il pranzo insieme, in una sala colloqui dedicata, a ricordare una quotidianità familiare di condivisione, animato da due mascotte e rallegrato dai palloncini dalle mille forme e da trucchi da principesse e pirati. “Anche rispetto a questo secondo momento, i ristretti hanno espresso forte gradimento in quanto a loro è sembrato di recuperare un senso di familiarità, potendo accorciare le distanze che, a causa della detenzione, si sono create con i figli - spiegano ancora i volontari. Qualunque sia, infatti, la responsabilità dei padri, è molto importante che i bambini possano recuperare quel rapporto, molto compromesso dall’assenza, in cui si declina il loro diritto di vivere da figli”. Il personale della Polizia Penitenziaria e gli operatori del trattamento hanno presenziato e condiviso l’organizzazione della giornata. Milano: nel carcere di Bollate teatro-terapia per i detenuti sex-offender di Nicola Maselli fuoridalcomune.it, 20 luglio 2019 Il laboratorio inizierà a settembre 2019. I teatro-terapeuti condurranno i detenuti del settimo reparto. È stato siglato l’accordo tra il carcere di Bollate e l’associazione TeatroInBolla. Dal prossimo settembre (2019) fino a dicembre i teatro-terapeuti Salvatore Ladiana e Marsil Yakoub, supportati da Aurora Zibaldi, antropologa e non attrice, e Marika Pepe, sociologa e pedagogista, condurranno un laboratorio di teatro-terapia con i detenuti del Settimo reparto, dove sono recluse persone condannate per reati sessuali. Non è la prima volta che TeatroInBolla affronta questa sfida. Già nel 2015, infatti, l’associazione aveva svolto un laboratorio analogo, sempre a Bollate e sempre con i detenuti del settimo. A parlarne alla redazione di fuoridalcomune.it era stato lo stesso Salvatore Ladiana pochi mesi fa. “Lavorare con il corpo insieme a chi ha violato il corpo - aveva detto - non è facile. Nel momento in cui entravo in carcere - aveva aggiunto - cercavo di resettare completamente (Ndr… la storia dei detenuti)”. Teatroinbolla è un’associazione di teatro-terapia (ne abbiamo parlato qui), disciplina che consente di esprimere il proprio potenziale creativo attraverso training che si svolgono in un ambiente protetto, così da consentire di esprimersi liberamente, senza paura del giudizio, degli altri e, soprattutto, del proprio. Spoleto (Pg): scacchi, 5 detenuti partecipano a torneo internazionale online di Marco Belli gnewsonline.it, 20 luglio 2019, 20 luglio 2019 Cinque postazioni con accesso ad internet sono state attivate nella casa di reclusione di Spoleto e saranno presto a disposizione, per la prima volta, di utenti-detenuti che usufruiranno di un accesso limitato. L’occasione del loro utilizzo sarà infatti il torneo internazionale online di scacchi che si svolgerà nei giorni 5 e 6 agosto prossimi, sotto l’egida della Fédération Internationale des Echecs (Fide), e che vedrà la partecipazione di giocatori detenuti in Italia, Usa, Russia, Bielorussia, Argentina, Brasile e Cile e la presenza dell’ex campione del mondo Anatoly Karpov. A realizzare l’infrastruttura di rete necessaria ad abilitare i 5 detenuti che parteciperanno al torneo navigando dalle loro postazioni sul portale www.chess.com, preventivamente autorizzato, è stato il Servizio Informatico Penitenziario che, in collaborazione con la Direzione Generale per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della Giustizia e la Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dap, ha provveduto al collegamento e alla configurazione necessaria. Le postazioni sono state realizzate ai sensi della circolare del Capo Dap del novembre 2015, che consente l’accesso a internet ai detenuti per motivi di studio e lavoro. Gli utenti-detenuti non avranno la possibilità di modificare o alterare la configurazione della postazione di lavoro loro assegnata e, inoltre, personale di Polizia Penitenziaria del Servizio Informatico sorveglierà su eventuali tentativi di violazione della sicurezza. L’iniziativa rappresenta un evento unico nel panorama delle attività trattamentali offerte da un istituto penitenziario italiano. A Spoleto, infatti, è stato avviato da ben quattro anni il progetto “Scacchi in carcere”, inserito nell’ambito di un protocollo sottoscritto con il Coni e finalizzato a promuovere l’attività sportiva dei detenuti. Il corso di scacchi, che ha ad oggetto lo studio delle tecniche di gioco e si è avvalso di incontri con giocatori professionisti esterni, è gestito da un tecnico Coni ed è destinato ai reclusi appartenenti al circuito di alta sicurezza. Gli stessi che fra pochi giorni sfideranno online i giocatori detenuti di altri sei nazioni. Vercelli: detenuti-calciatori, la squadra del carcere rischia di lasciare il Csi di Filippo Simonetti La Stampa, 20 luglio 2019 Rischia di non iscriversi al prossimo campionato Csi il Forrest, la squadra di calcio del carcere di Vercelli. Motivo? Visto l’elevato numero di detenuti-calciatori, sarebbe necessario creare e iscrivere più di un team per poterli accontentare tutti. Problemi organizzatori, a questo punto potrebbero - il condizionale è d’obbligo, il quadro è in fase di definizione - costringere la direzione a non presentare più ai nastri di partenza del torneo amatoriale la squadra che prende il nome dal celebre film con Tom Hanks. Nelle ultime stagioni il team multietnico - guidato dalla coppia Maurizio Del Pero e Mauro Sattin - era stato coinvolto dal Comitato di Novara nel suo progetto. Prima nel calcio a 11 tradizionale, poi nell’ultima stagione nel calcio a 7. Il penitenziario diretto da Antonella Giordano (insediatasi da alcuni mesi al posto di Tullia Ardito che invece è andata a Biella) a breve deciderà il da farsi con l’auspicio di trovare una soluzione ottimale e soprattutto in grado di andare incontro al fabbisogno sportivo dei detenuti. Al momento non sono stati ancora intavolati contatti ufficiali con il Comitato di Novara per cui la situazione potrebbe mutare nelle prossime settimane. Durante le ultime stagioni il Forrest aveva sempre ospitato nel proprio impianto diversi sodalizi del Novarese e del Verbano. Arriva un appello dall’area educativa del penitenziario di Billiemme: “Lo sport praticato in carcere ha una valenza altissima e in questi ultimi anni abbiamo dimostrato di credere davvero in progetti che vanno in questa direzione - spiegano -. Da qui a settembre lo scenario potrebbe cambiare ancora, nel frattempo invitiamo i comitati Csi dei territori limitrofi a farsi avanti per instaurare con noi una proficua collaborazione. Sarebbe davvero un bellissimo regalo per i detenuti”. Poi un’ultima precisazione: “Se non dovessimo iscriverci ad alcun campionato amatoriale Csi, daremo senz’altro la possibilità - come abbiamo peraltro sempre fatto - ai nostri detenuti di praticare attività sportive all’aria aperta tra cui il calcio nel nostro campo interno. Sempre seguiti dal duo Del Pero-Sattin”. Roma: concerti nelle carceri con Enrico Ruggeri e Dolcenera di Martina Dessì iltempo.it, 20 luglio 2019 I concerti nelle carceri prendono il via il 23 luglio e l’idea è quella di Franco Califano. Non a caso, il progetto di prossimo avvio s’intitola La mia libertà. Note in carcere ed è promosso dal vicepresidente del Consiglio Regionale Giuseppe Cangemi con la collaborazione dell’agenzia Joe&Joe. L’obiettivo del progetto è quello di portare la musica all’interno dei penitenziari e di utilizzarla a scopo rieducativo, con la collaborazione degli artisti che saranno protagonisti delle date scelte per il calendario. Tra i nomi già annunciati compare quello di Enrico Ruggeri, ma anche quello di Dolcenera, Paolo Vallesi e il duo Marcello Cirillo-Mario Zamma. Spiega il vicepresidente Cangemi: “Il progetto è intitolato come la canzone di Franco Califano e nasce proprio da un’idea del cantautore romano. Lui era molto sensibile al tema della detenzione, e aveva espresso più volte il desiderio, prima di lasciarci, di lavorare a un progetto che portasse la musica nelle carceri del Lazio. Un’idea che spero possa essere replicata anche nelle strutture penitenziarie delle altre province”. Si inizia con la prima data del 23 luglio alla sezione femminile del carcere di Rebibbia, con inizio previsto per le ore 19, per continuare in quello di Velletri il 25 luglio alle ore 14 e Regina Coeli il 29 luglio alle 10. La chiusura è affidata a Dolcenera che si esibirà sul palco di Rebibbia Nuovo Complesso, il 4 settembre alle ore 17, e a Enrico Ruggeri, che canterà invece a Civitavecchia. Un’occasione, questa, per chi sta scontando una pena ma anche per gli artisti coinvolti nel progetto che potranno così mettere la loro musica al servizio di qualcuno che ha un assoluto bisogno di rimettere ordine nella loro vita. Conclude Cangemi: “La musica, come il teatro e lo sport possono infatti contribuire al processo di rieducazione dei detenuti, e per questo sono grato agli artisti che, con grande sensibilità, hanno accettato di partecipare”. “Di Cucchi racconto dolore e solitudine”. Cremonini parla ai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 20 luglio 2019 “Sulla mia pelle”, il film con cui il regista Alessio Cremonini racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi (il 31enne romano morto il nell’ottobre del 2009 mentre era in custodia cautelare dopo l’arresto per detenzione di droga), ha ottenuto grande successo di pubblico e di critica, con diversi passaggi in festival e rassegne in tutta Italia. Tuttavia, quella che si è tenuta nei giorni scorsi nella casa circondariale di Trieste, è stata una sorta di nuova “prima”, per la tipologia del pubblico composto da detenuti di varie età e con diverse storie di vita, alcuni dei quali con esperienze di tossicodipendenza, di fermi, arresti e soste in caserma. Il film è stato visto però in un contesto “formativo”, una masterclass tenuta da Alessio Cremonini per i detenuti componenti della giuria del Festival ShorTs organizzata dallo Shorts International, un progetto all’interno di cui ogni anno si organizza un corso di formazione sulle tecniche audiovisive. Cremonini ha spiegato di aver voluto utilizzare nel suo film delle tecniche per accentuare l’aspetto della cronaca e perché il racconto rispondesse più possibile alla realtà. Per questo ha fatto ricorso all’uso di ambienti autentici, alla lettura e alla selezione scrupolosa di diecimila pagine di atti, necessarie per ricostruire l’odissea di Stefano dall’arresto alla morte. Un approccio rigoroso in quanto, ha ribadito il regista, “volevo farne un film utile, per le persone che non sono state in carcere. Non sono pochi quelli che pensano che un carcerato non sia un cittadino. Ma non ho voluto fare un film giudicante che divide il mondo in buoni e cattivi”. Il film ha suscitato tra gli spettatori-allievi seduti in platea ricordi, emozioni e indignazione per le 140 persone che hanno incontrato Cucchi negli ultimi giorni di vita e che sono rimaste indifferenti e silenziose. Alcuni spunti di discussione hanno poi indotto Cremonini a definire il senso ultimo di Sulla mia pelle, “come credente e come cittadino”. “Da cattolico - ha detto il regista - ho realizzato un film sul dolore, sulla solitudine e sull’approssimarsi della morte. Da cittadino un film sulla sconfitta di un paese democratico che non è riuscito salvare un ragazzo per poi eventualmente fargli scontare in carcere le sue colpe”. L’alibi della paura di un nemico “straniero” di Guido Viale Il Manifesto, 20 luglio 2019 Bisogna spazzare via un alibi. Chi ha paura degli immigrati? Forse qualcuno degli abitanti di quartieri che si trovano ai margini della società e che riversano sulla presenza degli immigrati una insicurezza che caratterizza comunque la loro condizione anche nei confronti di chi immigrato non è, perché quella che provano è in realtà la paura di un ambiente che è loro sempre più estraneo ed ostico. Poi la paura del migrante, o addirittura dell’invasione - ma non certo da parte di un esercito nemico, bensì di un presunto nemico, “lo straniero”, presentato come se fosse un esercito - viene quotidianamente insufflata attraverso i mezzi di comunicazione di massa e soprattutto i social, fino a suscitare non la paura, ma l’idea di dover avere paura. Ma i migranti che incontriamo tutti i giorni per strada, o su un tram o un bus, o a chiedere la carità, o a fare i facchini, o a pedalare per portare la pappa a chi non si alza neppure più dal divano (e non sono certo quelli del reddito di cittadinanza!), o anche solo ad affacciarsi dalla grata di un centro di accoglienza trasformato in prigione, quelli non fanno paura a nessuno. La paura del migrante è in realtà paura di un fantasma che nessuno vede: una favola. Ciò che troviamo al suo posto, se solo proviamo a grattare sotto quel luogo comune (ma da tempo non c’è nemmeno più bisogno di grattare tanto) è un sentimento del tutto diverso e anzi opposto: il disprezzo per un essere umano che si vuole considerare altro e diverso da sé. E, ovviamente, inferiore; cosa che viene ribadita con allusioni, parole, gesti e fatti compiuti per averne conferma. Quel disprezzo è un fattore di compensazione per i torti che si subiscono quotidianamente da parte di chi sta sopra di noi o per l’insuccesso in contesti dove lo considera una colpa. Al posto di una prospettiva di miglioramento o di ascesa sociale ci si accontenta di spingere più in basso chi è meno di noi in grado di difendersi. È il meccanismo tipico del razzismo, che si rafforza trasformando il disprezzo in odio: un sentimento che fa da barriera contro ogni forma di comprensione o di compassione. L’odio rende il disprezzo irrevocabile perché impedisce l’ascolto. L’aggressione sia verbale che fisica (inizialmente solo verbale, ma per “allenarsi” a quella fisica, a cui non tutti riescono ad arrivare; i più preferiscono delegare questo passaggio ad altri, siano essi squadracce o forze dell’ordine) è innanzitutto, agli occhi di chi la pratica, una manifestazione di protagonismo: qualcosa che ti fa uscire dall’anonimato, ti fa sentire che “conti” qualcosa. Ma da cui è molto difficile tornare indietro. Disprezzo e odio creano “identità” lungo una spirale che li trasforma facilmente in abitudine: “Prima gli italiani” non significa certo quello che dice: in quello slogan gli italiani sono solo loro, quelli che odiano o che disprezzano lo straniero; non certo quelli solidali. E per uscire da quella contraddizione - quel “prima” non spetta a tutti gli italiani - riversano lo stesso odio e disprezzo sulla solidarietà, sulle sue manifestazioni, su coloro che la praticano: persone che “non hanno il coraggio dell’odio”, non hanno la capacità di praticarlo, non hanno l’orgoglio del proprio esclusivo diritto, Untermenschen, sotto-uomini, femminucce. O sotto-donne, “troie”: la qualifica più usata. Sessismo e maschilismo si saldano al razzismo anche se vengono ipocritamente negati: Salvini porta su un palco una bambola gonfiabile a scopo sessuale per simulare un’avversaria e chiama delinquenti profughi e solidali, ma si indigna se lo chiamano razzista o maschilista. Dovrebbe essere chiaro perché il femminismo e le sue più recenti manifestazioni rappresentano una minaccia mortale per l’onda nera di razzismo che sta attraversando il mondo cosiddetto sviluppato, mascherando l’odio con la paura. Il razzismo si radica nel machismo (praticato dai maschi ma subìto anche, in varia misura, da molte donne) e questo prende forma dalla più antica e profonda struttura di dominio, il patriarcato, che è possesso: innanzitutto delle donne da parte dei maschi e poi, sul modello di questo, di tutte le altre forme di proprietà: di terre, animali, schiavi, rango, mezzi di produzione, denaro, ma anche patria, cultura, tradizioni, geni, saperi. È la paura di perdere tutte queste cose - a partire dalla “propria” donna - o anche solo alcune di esse, e persino quelle che si desiderano ma non si hanno, e non quella del migrante, ad aprire la strada all’odio; e a trascinare alla violenza, allo spirito di sopraffazione, allo stupro, al femminicidio, alla richiesta di far “piazza pulita” di tutti gli stranieri. Quella paura del migrante, che non è paura se non in modo riflesso, si supera solo promuovendo una socialità che in molti ambiti del nostro vivere quotidiano è da tempo venuta meno; una socialità, che è sempre anche solidarietà, non solo nei confronti dello straniero, ma innanzitutto di chi ci è vicino (il nostro prossimo); chiunque esso sia. Migranti. Ok in Commissione alla Camera al Decreto sicurezza bis di Francesco Cerisano Italia Oggi, 20 luglio 2019 Multe salate alle Ong. Fino a 1 mln per il capitano e l’armatore delle navi. Fino a 1 milione di euro di multa al comandante della nave che violi il divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane. E arresto obbligatorio in flagranza qualora il comandante commetta il delitto di resistenza o violenza contro una nave da guerra, previsto dall’art. 1100 del Codice della navigazione. La vicenda della nave Sea Watch 3 e della capitana Carola Rackete (finita sotto processo per aver deciso di attraccare a Lampedusa nonostante il divieto imposto dalle autorità italiane) sembra aver ispirato il giro di vite contenuto negli emendamenti al decreto sicurezza bis (dl n. 53/2019) approvati dalle commissioni affari costituzionali e giustizia della camera. Oltre alla previsione esplicita dell’arresto in flagranza (nell’articolo 380, comma 2 del codice di procedura penale viene introdotta una fattispecie ad hoc) a carico del comandante della nave, il vero colpo alle Organizzazioni non governative che svolgono attività di ricerca e salvataggio di migranti nel Mediterraneo è rappresentato dal giro di vite sulle sanzioni pecuniarie. Nel testo originario del decreto legge le multe andavano da un minimo di 10 mila euro a un massimo di 50 mila euro e potevano essere comminate, oltre che nei confronti del comandante della nave, anche nei confronti dell’armatore e del proprietario, ove possibile. Gli emendamenti approvati dalle commissioni della camera (che hanno chiuso i lavori giovedì conferendo ai due relatori leghisti Simona Bordonali e Roberto Turri il mandato a riferire in aula a partire dal 22 luglio) ampliano il ventaglio delle sanzioni amministrative a carico del comandante, portandole da un minimo di 150 mila euro a un massimo di un milione di euro. Con un’altra sostanziale novità: la responsabilità solidale dell’armatore della nave che dunque potrà essere chiamato a rispondere della multa per l’intero. Si prevede inoltre che la confisca delle navi scatti subito, anche in caso di prima violazione del divieto di ingresso e non, come previsto inizialmente, in caso di reiterazione della condotta. Le navi sequestrate potranno essere affidate dal prefetto in custodia agli organi di polizia, alle capitanerie di porto, alla marina militare o ad altre amministrazioni che ne facciano richiesta per l’impiego in attività istituzionali. Quando la confisca diventerà definitiva (in quanto il provvedimento che la dispone non può più essere impugnato) la nave sequestrata sarà acquisita al patrimonio dello Stato. Manifestazioni in luogo pubblico - Ma gli emendamenti approvati da Montecitorio non si limitano al solo inasprimento delle norme di contrasto all’immigrazione clandestina. Vengono rimodulate le sanzioni penali a carico di chi nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lanci o utilizzi illegittimamente razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile (o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti), ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere. Se la condotta è volta a creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone la pena della reclusione andrà da un minimo di un anno a un massimo di quattro anni. Viceversa, (ed è una novità contenuta negli emendamenti della Camera) quando il fatto è volto a creare un concreto pericolo per l’integrità delle cose, la pena sarà più lieve: da sei mesi a due anni di reclusione. Vestiario, buoni pasto per le forze di Polizia e straordinario Vigili del fuoco - Le modifiche approvate in commissione stanziano inoltre due milioni di euro per il 2019 e 4,5 milioni l’anno dal 2020 al 2026 per il miglioramento e il ricambio del vestiario della Polizia di stato. Viene inoltre estesa a tutto il personale del comparto sicurezza e difesa la possibilità di fruire di buoni pasto (del valore nominale di 7 euro cadauno) in occasione di servizi di ordine pubblico svolti fuori sede in località prive del servizio mensa o di esercizi privati di ristorazione convenzionati. Infine, viene incrementato il monte ore di straordinario per il personale operativo dei Vigili del fuoco, che per il 2019 è aumentato di 259.890 ore l’anno, mentre saranno 340 mila a decorrere dal 2020. Stati Uniti. Abolire il carcere, un’idea anarcoide e mainstream di Mattia Ferraresi Il Foglio, 20 luglio 2019 Nell’America dell’incarcerazione di massa, gli abolizionisti attaccano i pilastri filosofici che reggono il sistema. Un dibattito fra Kant e Darwin. Il pensiero dominante è un tentativo minuscolo che si prefigge uno scopo eccessivo: scavare nel provvisorio alla ricerca del definitivo. O almeno di qualche suo vago indizio. Ogni martedì si darà spazio a un tema di inattualità tentando di stanare le idee che se ne stanno quatte quatte sotto la superficie mobile dei fenomeni. Si tratterà di politica, cultura, filosofia, storia, scienze umane, letteratura, ma anche di parole, sentimenti, concetti, astrazioni, polemiche e cazzeggi, sempre orientati alla ricerca di una qualche universalitatem in rebus. Seguendo le indicazioni del direttore irresponsabile della testata, Giacomo Leopardi, si svolazzerà fra “la terrena stanza” e “l’alte vie dell’universo intero”. Possibilmente senza farsi male. Lo sforzo sarà alimentato da quell’oncia di pregiudizio che sorregge ogni ragionevole ricerca. Il pensiero che domina questo esordio è l’abolizione del carcere, idea anarcoide e impraticabile che ha preso piede nelle stanze meglio arredate della politica e dell’accademia americana. È un dibattito fra teorie competitive della giustizia, collegato - in modo quasi invisibile - a una disputa secolare sulla natura del male e sulla liceità morale e necessità sociale di punire chi lo commette con la reclusione. Rendere visibile questo collegamento è il proposito dell’articolo che trovate qui sotto. Per aggiungere un elemento di riflessione pubblichiamo anche il dialogo fra il diavolo e un prete che Fëdor Dostoevskij ha scritto sul muro della cella in cui era rinchiuso nel 1849, sospeso fra le immagini di un inferno nell’aldilà e l’inferno già in atto nell’aldiquà. Il dibattito sull’abolizione delle carceri è uscito dalla clandestinità ed è affiorato nel mainstream. Fino a pochi anni fa nessuno era contrario allo strumento della carcerazione in sé, fatta eccezione per una carboneria della sinistra radicale, qualche filosofo vetero-marxista e un manipolo di reduci anarchici che ancora credeva nelle battaglie combattute da Emma Goldman nella prima metà del secolo scorso. Nel 2015 l’attivista e commentatore democratico Van Jones ha lanciato la campagna #cut50 per ridurre la popolazione carceraria americana del 50 per cento. Allora anche i più generosi riformisti in materia di giustizia penale hanno accolto l’idea storcendo il naso. Oggi è considerato un obiettivo troppo prudente e pragmatico, dunque un ostacolo sulla via dell’abolizione, e prova ne è il fatto che Jones è stato ricevuto da Donald Trump e la sua visione è guardata con favore da Jared Kushner, impegnato nel ridurre la popolazione carceraria. Nella tortuosa evoluzione del dibattito, il possibile è diventato nemico dell’ideale. Alexandria Ocasio-Cortez, portavoce presso il palazzo dei democratici d’impronta socialista, ha abbracciato ufficialmente la causa abolizionista. Lo ha fatto lo scorso anno con un saggio pubblicato su America, la rivista dei gesuiti americani, imboccando la via di uno spericolato sincretismo fra il catechismo della chiesa cattolica e la fiorente letteratura neo-marxista che qualifica il sistema carcerario come strumento - o sovrastruttura - delle oppressioni economiche e razziali che caratterizzano strutturalmente il sistema. Nella sua visione, la remissione dei peccati va a braccetto con l’espiazione delle colpe dell’uomo bianco e capitalista, che un tempo schiavizzava apertamente gli afroamericani e oggi li schiavizza surrettiziamente tramite l’incarcerazione. Attivisti come Angela Davis, membro storico del partito comunista americano, o Ruth Wilson Gilmore, professoressa della City University of New York, parlavano da decenni della necessità di smantellare il sistema carcerario, ma i loro argomenti non hanno avuto finora la forza per accreditarsi nei circoli intellettuali più blasonati e per smuovere la coscienza collettiva in un paese calvinisticamente ossessionato dall’idea della punizione. La svolta è arrivata quando la Harvard Law Review ha dedicato il numero di aprile al dibattito sull’abolizione delle carceri. Il dramma del sistema carcerario americano è noto. Gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale per tasso d’incarcerazione, mantenendosi senza sforzo davanti a paesi come Cuba, Russia, Iran e Arabia Saudita nonostante una diminuzione complessiva delle sentenze detentive del dieci per cento nell’ultimo decennio. La popolazione carceraria americana è di circa 2,3 milioni di persone, cifra che equivale a oltre il venti per cento della popolazione carceraria mondiale (la popolazione americana complessiva è il 4 per cento di quella globale). Per oltre la metà si tratta di afroamericani e ispanici. Le prigioni americane non sono luoghi di riabilitazione e reintegro. Soltanto una piccola percentuale dei detenuti lavora all’interno delle strutture, e quelli che possono farlo guadagnano una cifra compresa fra 70 centesimi e quattro dollari al giorno. Chi esce dopo aver scontato la pena per un crimine violento ha il 70 per cento delle probabilità di essere arrestato nuovamente nel giro di tre anni. La detenzione in America è stata usata come strumento di controllo delle patologie sociali: con preoccupante sistematicità, in carcere finiscono i poveri, le minoranze etniche, chi ha disturbi mentali, i senzatetto, i reietti e gli emarginati di ogni genere. Questi dati sconcertanti hanno generato iniziative bipartisan, una rarità in questi tempi di polarizzazione ideologica. I fratelli Koch, finanziatori del mondo conservatore, lavorano insieme al finanziere liberal George Soros, che alla riforma del sistema carcerario ha dedicato ingenti energie e risorse. Trump si è espresso sulla questione in termini non dissimili da quelli usati dal suo predecessore, Barack Obama. Le uniche proposte di legge sponsorizzate da democratici e repubblicani al Congresso riguardano la riforma della giustizia penale e la riduzione della popolazione carceraria. Ma gli abolizionisti non vogliono riformare il sistema carcerario: vogliono appunto abolirlo. L’approccio gradualista è visto come un tentativo di curare i sintomi senza occuparsi della patologia. L’abolizione, invece, si propone come una dottrina morale che dà fondamento a una teoria della giustizia in radicale contrasto con quella vigente. Si tratta di una postura filosofica, non di una strategia per risanare un sistema corrotto. Allegra MacLeod, giurista di Georgetown in prima linea nella causa, parla di una “etica abolizionista”, una concezione della giustizia che rovescia quella che ispira il sistema in vigore: “Mentre le forme convenzionali della giustizia mettono l’accento sull’amministrazione di giudizi individualizzati e di corrispondenti punizioni, la giustizia abolizionista offre un tentativo più solido di realizzare la giustizia, nel quale la punizione è abbandonata in favore della accountability e della riparazione”. Gli abolizionisti sono convinti che le attuali strutture legali aumentino il grado di ingiustizia nella società invece di diminuirlo. Questa concezione si fonda su una critica all’idea della giustizia retributiva e alla visione antropologica sulla quale si innalza. La giustizia retributiva è imperniata sulla responsabilità dell’individuo di fronte alla legge: è la giustizia stessa a imporre che il criminale patisca, in modo proporzionato, per la colpa che ha commesso. Come ha scritto Kant nella Metafisica dei costumi: “La punizione giudiziaria non può mai essere usata soltanto come mezzo per promuovere qualche altro bene per il criminale stesso o per la società civile, ma deve in tutti i casi essere imposta su di lui soltanto sulla base del fatto che ha commesso un crimine”. Per realizzare la giustizia è dunque imperativo che il criminale, solo responsabile delle proprie azioni, venga punito. Gli abolizionisti rovesciano questo principio, sostenendo che in fondo sono le condizioni socio-economiche nel quale gli individui si trovano a generare i comportamenti criminali, dunque il sistema penale dovrebbe avere come obiettivo principale quello di correggere le circostanze che favoriscono il crimine. Scavando nelle premesse implicite del discorso abolizionista, si scopre che la persona umana consiste principalmente nell’ambiente sociale al quale partecipa. Per questo gli esponenti di questa scuola preferiscono parlare di giustizia riparativa, dove l’accento cade sulla riparazione del danno inflitto agli altri e non sulla colpa morale di chi commette il crimine. Questa distinzione cruciale fa capire perché gli abolizionisti guardano con sospetto, se non con ostilità, gli avvocati di una semplice riforma del sistema carcerario, e viceversa. Il dibattito che oggi è di moda fra giuristi e filosofi del diritto è in realtà il prodotto di almeno un secolo e mezzo di dispute e conflitti. A cavallo fra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo gli Stati Uniti hanno vissuto una stagione di riforme legali tese a smontare una concezione così sintetizzata dal giurista inglese William Blackstone: “Le punizioni sono inflitte soltanto per gli abusi di quel libero arbitrio che Dio ha dato all’uomo”. Il positivismo dilagante e le teorie di Charles Darwin, che si erano affermate nei decenni precedenti, imponevano di considerare l’uomo non come essere dotato di una libertà data da Dio - e della quale poteva abusare - ma come prodotto dei suoi antecedenti biologici, delle condizioni sociali, della lotta per la sopravvivenza, del caso. Le teorie giuridiche dovevano adeguarsi al nuovo paradigma scientifico, e questa convinzione ha fornito la base per quella che alcuni chiamano la “rivoluzione consequenzialista”, un processo che è andato avanti quasi indisturbato per buona parte del Ventesimo secolo. È stata però una rivoluzione incompiuta. La concezione precedente, di stampo kantiano, è sopravvissuta nei gangli del sistema giuridico ed è stata poi riesumata negli ultimi decenni del Ventesimo secolo, quando la stretta in senso law and order promossa per motivi squisitamente politici tanto dai Repubblicani quanto dai Democratici ha avuto la necessità di far leva sulle teorie della giustizia retributiva e sulle premesse a essa sottese. La disputa sull’abolizione non è che un capitolo di un epocale scontro fra mondovisioni. Poiché oggi parlano apertamente di smantellare le prigioni, sembra che gli abolizionisti perseguano un programma eversivo e utopico. In realtà la loro intenzione è ancora più profonda: portare a compimento una rivoluzione filosofica lasciata a metà. Stati Uniti. “Punire anziché proteggere”, ecco il Centro per minori migranti di Homestead di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 luglio 2019 Il centro di “emergenza temporanea” di Homestead, in Florida, è uno degli esempi più crudeli e inumani delle politiche dell’amministrazione Trump in materia d’immigrazione, il cui obiettivo è punire anziché proteggere persone che cercano riparo negli Usa dalla violenza e dalla persecuzione nei paesi di origine. Amnesty International ha visitato Homestead ad aprile e a luglio. Nella prima occasione, vi ha trovato 2100 minori migranti di età compresa tra 13 e 17 anni. Tra la prima e la seconda visita il numero è salito a quasi 2500 per scendere poco sotto 2000 nelle ultime settimane. Poiché secondo il diritto internazionale i minori non dovrebbero essere posti in detenzione se non in circostanze estreme e gli stati sono comunque obbligati a perseguire il migliore interesse del minore, che a Homestead ci siano 2500 o 2000 minori il cui unico “reato” è la loro condizione di migranti privi di documenti poco importa: Homestead è un affronto ai diritti umani. Va sottolineato che la maggior parte dei piccoli detenuti di Homestead proviene dal Centroamerica. Questi ragazzi hanno percorso migliaia di chilometri da soli o a volte accompagnati da parenti o adulti cui erano stati affidati, dai quali sono stati separati alla frontiera. Il regime detentivo è pessimo e feroce: cure mediche inadeguate, regolamenti rigidissimi, obbligo d’indossare un badge con codice a barre da scansionare ogni volta che si passa da un edificio a un altro, “domandine” da compilare per ogni necessità, compresi gli assorbenti. Molti detenuti parlano lingue native e sono tagliati fuori dai pur scarsi servizi educativi. La detenzione in queste condizioni, in attesa dell’accoglimento della richiesta di uno sponsor o del trasferimento in un altro centro, dura oggi in media 53 giorni ma in passato è arrivata anche a 89. C’è chi è riuscito a scappare dall’inferno ed è difficile dargli torto. Amnesty International e altre organizzazioni per i diritti umani chiedono che il centro di Homestead sia chiuso nel più breve tempo possibile. Cina. Le “prigioni intelligenti” di Xi Jinping smascherate da un documento riservato di Massimo Introvigne bitterwinter.org, 20 luglio 2019 Un testo secretato sulla riforma carceraria dispone la rieducazione di “sette” e uiguri tramite lo studio del pensiero di Xi e maggiore sorveglianza elettronica. Bitter Winter ha acquisito un documento burocratico confidenziale, emesso in aprile dall’Ufficio generale della Commissione centrale del Pcc e dall’Ufficio generale del Consiglio di Stato, dal titolo “Proposte per rafforzare e implementare l’operato delle carceri”. Abbiamo deciso di non mettere online la copia in nostro possesso per ragioni di sicurezza (potrebbe infatti fornire informazioni sull’ufficio locale che l’ha diffuso). Sulla base dei siti web ufficiali, liberamente accessibili, gestiti dai dipartimenti competenti delle amministrazioni locali sparsi in tutto il Paese, abbiamo potuto concludere che al momento sono in corso a livello nazionale lo studio e l’applicazione di tale documento. Il testo dichiara che le prigioni “per molto tempo hanno dato un contributo importante nel consolidare la posizione di potere del Partito e nel mantenere l’ordine del Paese sul lungo periodo”. Ma, “poiché i conflitti principali esistenti nella società vanno incontro a cambiamenti, il compito delle carceri non è stato ancora del tutto aggiornato” rispetto al momento attuale e al “Pensiero del presidente Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”. Come deve apparire una prigione conformemente alle indicazioni di Xi Jinping? Il documento raccomanda di “badare sempre a mantenere la sicurezza nazionale e l’ordine sociale, quali priorità supreme del compito delle carceri”. La Cina di Xi vuole “incrementare la vigilanza politica ed evitare in modo puntuale che le forze ostili possano infiltrarsi, distruggere e denigrare il Partito e il governo”. Le prigioni debbono “intensificare l’azione di “de-radicalizzazione”; occuparsi con severità, in base alla legge vigente, dei criminali che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale, che appartengono a uno xie jiao, che sono implicati in bande criminali e malvagie, che hanno una influenza sociale particolare e che hanno delle restrizioni sulla commutazione di una condanna. Quindi dovranno proteggere i risultati acquisiti nella principale battaglia condotta dal Paese, quella contro il terrorismo e per il mantenimento dell’ordine, la punizione della corruzione, l’eliminazione delle bande criminali e lo sradicamento del male”. È di fondamentale importanza “rafforzare il supporto della politica per le prigioni nella regione dello Xinjiang e porre in atto ulteriori misure politiche correlate”. Ma come avverrà la rieducazione degli uiguri nello Xinjiang, dei fedeli dei movimenti religiosi vietati, etichettati come xie jiao, e di altri “criminali”? Il Pcc ha la risposta pronta. Le amministrazioni della prigione dovrebbero “organizzare scrupolosamente lo studio del “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era”, che trasformerà i detenuti in “cittadini che si identificano dal punto di vista ideologico ed emotivo con la leadership del Partito, si identificano con la loro grande madre, si identificano con la nazione cinese, con la cultura cinese, con la via del socialismo con caratteristiche cinesi”. Le prigioni dovranno “mettere in evidenza l’istruzione ideologica; guidare i criminali nell’acquisire in modo corretto la visione del mondo, la prospettiva verso la vita e il sistema dei valori. Incrementare la capacità di ammettere la propria colpa e mostrare pentimento […]. Implementare la correzione psicologica. […] e riplasmare i criminali fino ad acquisire un carattere sano”. Fra i “criminali speciali” da “trasformare con decisione”, il documento elenca coloro “che appartengono a uno xie jiao”. Per loro le prigioni opereranno per “aumentare la percentuale di trasformazioni di successo e consolidare i risultati di trasformazione positivi”. La tecnologia, afferma il documento, è qui per fornire il suo aiuto. Le amministrazioni carcerarie dovrebbero “velocizzare la realizzazione della “smart prison”. Sfruttare i big data, l’Internet delle Cose, l’intelligenza artificiale e altre tecnologie moderne significa rendere più rapida la costruzione di “prigioni intelligenti” standardizzate, scientifiche e unificate, che detengano dati e informazioni completi e accurati, che siano dotate di applicazioni aziendali flessibili e note e che usino un sistema intelligente ed efficiente per l’analisi, la ricerca e l’allerta fin dall’insorgere dei problemi”. Libia. Rapita a Bengasi la deputata per i diritti umani ostile ad Haftar di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 20 luglio 2019 La guerra a Tripoli sfiora i 1.100 morti, di cui 56 civili, e i 100 mila sfollati. Le milizie fedeli a Serraj temono un affondo delle truppe del generale cirenaico nel fine settimana. Non sono molte le donne nella scena politica libica, e Sehan Sergewa - di cui si sono perse le tracce da mercoledì notte - è senza dubbio la più nota. Deputata del Parlamento di Tobruk, eletto nel 2014 e riconosciuto dalla comunità internazionale ma basato nell’Est del Paese sotto il controllo del generale Haftar, e leader di un piccolo partito da lei appena fondato - il Moderate Libyan Movement - per sostenere i diritti umani in Libia, anche quelli dei migranti rinchiusi nelle prigioni spesso simili a lager, e la partecipazione delle donne - che rappresentano il 60% della popolazione libica, ricordava - alla sfera pubblica, Sehan Sergewa era anche un volto noto, popolare, perché partecipava spesso, anche nella veste di psicologa infantile, a dibattiti in tv e interviste da opinionista. E proprio la sua ultima apparizione sugli schermi della Alhadath tv channel, vicina al governo della Cirenaica, martedì, potrebbe esserle costata cara, avendo attaccato la retorica dei sostenitori del generale, quali il presidente del Parlamento Aguila Saleh. Un gruppo di uomini armati - a quanto si apprende dai media locali - ha preso d’assalto la sua casa nella parte orientale di Bengasi, prima provocando un incendio e poi entrando armi alla mano. Dopo aver sparato e lasciato a terra il marito, poi medicato in ospedale, gli assalitori hanno rapito Sehan Sergewa e la figlia e si sono dileguati. Il governo di Tripoli ha subito accusato Haftar di essere responsabile del rapimento, “risultato dell’assenza del dominio della legge e delle garanzie di libertà” nel territorio controllato dalle forze del generale cirenaico. Un’accusa abbastanza generica alla quale ha risposto il dipartimento di polizia di Bengasi con un post sulla pagina ufficiale di Fb a dir poco laconico: non risulta la presenza di Sehan Sergewa in nessuna delle nostre stazioni. L’immediato rilascio della deputata viene chiesto dalla missione Onu in Libia (Unsmil), che pretende l’immediata apertura di un’indagine per capire chi l’abbia sequestrata e ottenerne la liberazione. Anche l’ambasciata italiana a Tripoli - Sergewa amava l’Italia, aveva partecipato alla Conferenza di Palermo e sperava in un accordo tra le due parti ora in conflitto per arrivare a nuove elezioni e alla stabilizzazione del Paese - così come la delegazione Ue, si associano nell’esprime “preoccupazione” per la sua sorte. “Silenziare le voci di donne in posizioni decisionali non sarà tollerato”, è la frase, molto dura, con cui si chiude il comunicato dell’Unsmil, missione diretta da Stephanie Williams e presieduta da Ghassam Salamé. Sergewa era appena tornata dal Cairo, dove aveva partecipato, come parte di una delegazione di parlamentari libici, a una tre giorni di incontri con funzionari dell’intelligence e della diplomazia egiziana per cercare una soluzione alla attuale crisi in Libia. Erano note le sue posizioni fortemente critiche sull’offensiva su Tripoli lanciata dal generale Haftar lo scorso 4 aprile e già arrivata alla cifra di 1.100 morti (di cui 56 civili) e 100 mila sfollati. Nel 2011 aveva sostenuto, con un dossier presentato al tribunale dell’Aja, le denunce per stupro di centinaia di donne libiche ad opera delle guardie e dei soldati di Gheddafi e in particolare aveva appoggiato quella di cinque “amazzoni” che avevano dichiarato di essere state ripetutamente violentate dal Colonnello e dai suoi figli. Nei sobborghi meridionali di Tripoli i combattimenti continuano anche con armi pesanti a Wadi Rabie, Ein Zara, intorno all’aeroporto di Mitiga, che ormai funziona a singhiozzo. I Mig e i droni dell’Lna si spingono con incursioni verso il centro della capitale e i miliziani che insieme alle forze di Misurata difendono le posizioni per conto del premier Serraj temono - a leggere il Libyan Express - un affondo definitivo durante il fine settimana. Settimana iniziata con una dichiarazione a sei (Egitto, Francia, Italia, Emirati, Regno Unito e Usa) che chiede il cessate il fuoco e il ritorno al dialogo. Ma la maggior parte di questi Paesi hanno più parti in commedia. Bosnia. “Soldati olandesi colpevoli al 10% del massacro di Srebrenica” di Mauro Manzin La Stampa, 20 luglio 2019 La Corte suprema olandese ha sentenziato che il governo dei Paesi Bassi è in parte responsabile per il massacro di Srebrenica nel 1995, ma che si tratta di una responsabilità “molto limitata”. Tanto da quantificarla in termini percentuali: il massacro di 350 musulmani nel luglio del 1995 è attribuibile ai soldati olandesi solo per il “10 per cento”. In primo grado tale percentuale era stata valutata nel 30% (sentenza del 2017). In sostanza, la Corte ha ridotto la responsabilità dello Stato al pagamento di una compensazione per 350 musulmani che vennero uccisi dopo che i caschi blu olandesi, armati in modo molto leggero, erano stati travolti dalle forze serbo-bosniache. Le compagnie di Caschi Blu olandesi “Dutchbat” erano trincerate nella loro base dove accolsero cinquemila profughi musulmani. Poi però li costrinsero ad andarsene, consentendo ai serbi di evacuarli. Gli uomini e i ragazzi furono separati e fatti salire su dei pullman. L’inizio della mattanza avvenne per mano dei soldati del generale Ratko Mladic e di Radovan Karadzie. Nel massacro di Srebrenica furono uccise ottomila persone. La Corte suprema ieri ha ritenuto che i soldati olandesi non hanno lasciato ai 350 musulmani “la scelta di restare dove si trovavano, mentre questo sarebbe stato possibile”. I giudici hanno comunque riconosciuto che i musulmani che avevano cercato rifugio presso i caschi blu olandesi correvano un elevato rischio di essere uccisi odi rimanere vittima di abusi, e nonostante ciò i soldati dei Paesi Bassi avevano abbandonato il campo. In sintesi: ciò non avrebbe per forza salvato loro la vita, ma “le loro possibilità di sfuggire ai serbi di Bosnia se avessero avuto la possibilità di restare erano piccole, eppure non trascurabili”, si legge ancora nella sentenza. La presidente delle Madri di Srebrenica e Zepa, Munira Suba§ie, ha dichiarato che si aspettava un giudizio corretto e leale. “Ogni individuo ha diritto alla giustizia che anche noi attendiamo - ha affermato - e se non la otterremo accoglieremo tutto ciò come l’avviso che questo ci succede perché siamo musulmani; così come abbiamo patito il genocidio a Srebrenica perché siamo musulmani”. Le Madri ora pensano di proseguire la battaglia legale alla Corte Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo La Commissione Ue si è limitata a “prendere atto” della sentenza. Ucraina. Il premier Zelensky tratta con il Cremlino per uno scambio di prigionieri di Giuseppe Agliastro La Stampa, 20 luglio 2019 Mosca e Kiev tastano il terreno per un possibile scambio di prigionieri. Il neo presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è detto pronto a liberare il giornalista Kirill Vyshinsky in cambio della scarcerazione del regista ucraino Oleg Sentsov da parte del Cremlino. Si tratta di due detenuti d’eccellenza. Sentsov è ormai un simbolo delle persecuzioni di Mosca contro chi si oppone all’annessione russa della Crimea. Mentre Vyshinsky è considerato dalla Russia un detenuto politico. Ma le trattative di questi giorni hanno riguardato anche i 24 marinai ucraini catturati l’anno scorso dai russi dopo uno scontro nello Stretto di Kerch, nonché centinaia di prigionieri catturati nella guerra del Donbass, dove la Russia appoggia militarmente i separatisti. Vyshinsky in cambio di Sentsov - Si tratta di colloqui difficili, ma che segnano la ripresa di un dialogo che mancava da tempo. L’11 luglio Putin e Zelensky hanno parlato per la prima volta al telefono e lunedì le responsabili dei diritti umani di Russia e Ucraina si sono incontrate a Kiev alla ricerca di un compromesso. Resta da vedere quali saranno i risultati di queste discussioni. Per il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, scarcerare Vyshinsky sarebbe “un eccellente primo passo”. Ma Mosca chiede che il giornalista sia liberato a prescindere, e sostiene che lui stesso non voglia assolutamente essere incluso in uno scambio. In ogni caso, si dovrà ancora aspettare e trattare. Ieri il tribunale di Kiev ha infatti prolungato di altri due mesi la custodia in carcere del reporter. Vyshinsky è il capo della sede ucraina dell’agenzia di stampa russa Ria Novosti. È stato arrestato a Kiev l’anno scorso per “alto tradimento” e rischia fino a 15 anni per aver preso parte - questa è l’accusa che gli viene rivolta - alla “guerra di disinformazione” condotta da Mosca. Il regista ucraino Oleg Sentsov è finito invece in manette nel 2014. Nel 2015 un tribunale militare russo lo ha condannato a 20 anni di reclusione, e ora è dietro le sbarre in un carcere di massima sicurezza oltre il Circolo Polare Artico. Secondo gli inquirenti, avrebbe tentato di “organizzare atti terroristici” in Crimea. Lui però si dice innocente e denuncia che la confessione gli è stata estorta a suon di percosse. D’altronde sono in molti a pensare che Sentsov in realtà sia stato arrestato solo perché fortemente contrario all’annessione russa della Crimea, la terra in cui è nato. L’anno scorso ha protestato con uno sciopero della fame durato ben cinque mesi: ha perso 20 chili e ha fatto temere seriamente per la sua vita.