Carceri superaffollate con 61mila detenuti: torna l’emergenza di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2019 Nuove carceri nelle ex-caserme. Il ministero della Giustizia ha cominciato ad acquisire i primi immobili da trasformare. Negli istituti quasi 10mila presenze in più rispetto alla capienza regolamentare. Il sovraffollamento delle carceri torna a essere un’emergenza: il numero dei detenuti sta per raggiungere quota 61mila e il divario rispetto alla capienza regolamentare è di quasi io mila posti. Dal 2015 il ritmo di crescita delle presenze in cella è stato continuo con un aumento di circa 2mila reclusi l’anno. Un problema che il Governo vuol contrastare puntando sull’edilizia penitenziaria, anche attraverso la riconversione di ex caserme inutilizzate. È cominciata l’acquisizione di un primo gruppo di quattro strutture fra cui la caserma Bixio di Casale Monferrato e la Battisti di Napoli-Bagnoli. Ma ci vorrà tempo perché si tratta di immobili abbandonati da anni, che vanno completamente ripensati. Cresce a un ritmo di 2mila l’anno il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane che sta per raggiungere quota 61mila, con un divario di 10mila posti rispetto alla capienza attuale degli istituti. Non è un problema nuovo ma questa volta per contrastare il sovraffollamento il Governo gialloverde, più che sulla possibilità di scontare la pena al di fuori delle mura carcerarie, ha deciso di puntare sull’ampliamento degli istituti esistenti o sulla realizzazione di nuovi. Anche attraverso la trasformazione di ex caserme dismesse. Sulla base della strategia disegnata alla fine dello scorso anno dal Dl semplificazioni (il 135/2018) e incentrata sul coinvolgimento del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) il ministero della Giustizia ha quindi cominciato a individuare e acquisire i primi immobili. Ma i tempi non saranno brevi: in alcuni casi si tratta infatti di fabbricati abbandonati da tempo che vanno ripuliti e comunque “ripensati” per rispondere alle caratteristiche e ai requisiti di sicurezza richiesti dagli edifici penitenziari. La progettazione va ancora avviata o è in fase preliminare, dopodiché andranno affidati gli appalti e realizzati i lavori. L’emergenza - Da dicembre 2015 il numero dei detenuti è continuamente cresciuto, passando da 52,164 a 60.476 (8.312 in più), mentre la capienza degli istituti è aumentata solo di 936 posti (da 49.592 a 50. 528). “Ma nella realtà, a causa degli ordinari lavori di manutenzione, ci sono circa 3mila posti in meno rispetto a quelli rilevati”, dice il garante dei detenuti, Mauro Palma. Nel 2013, il sovraffollamento (con picchi più elevati degli attuali) costò all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per contrastarlo, furono varati provvedimenti (fra cui il Dl 146/2013, cosiddetto “svuota carceri”) che riducevano le presenze facendo leva sull’ampliamento delle misure alternative e dei benefici penitenziari. Gli interventi - Per evitare la lunghezza dei tempi di realizzazione che in passato ha caratterizzato l’edilizia penitenziaria, il Dl semplificazioni ha quindi assegnato al Dap, per il biennio 2019-2020, funzioni di progettazione e affidamento dei lavori (ferma restando la competenza del ministero delle Infrastrutture) oltre al compito di individuare gli immobili pubblici da convertire. Il primo pacchetto comprende: la ex caserma Bixio di Casale Monferrato (già consegnata) la Cesare Battisti di Napoli-Bagnoli (consegna a luglio e probabile utilizzo per custodia attenuata), la Barbetti di Grosseto (protocollo da siglare). Ci sono poi due strutture a Bari di cui una sarà probabilmente destinata a palazzo di giustizia e l’altra ad istituto di pena. “La riconversione è utile se saranno utilizzate per detenzioni minori, custodia attenuata e semilibertà - continua Palma - mentre farne dei veri e propri carceri è molto più difficile e laborioso”. “Va però ricostruita la cultura delle pene alternative- aggiunge -, oggi c’è un clima troppo negativo. In carcere ci sono 1.800 persone condannate a pene inferiori all’anno e altrettante fra 1 e 2 anni”. “Non servono altre carceri ma una riforma dell’esecuzione penale: i detenuti non pericolosi devono scontare la pena sul territorio - sottolinea anche Donato Capece, segretario generale del Sappe (sindacato autonomi della polizia penitenziaria). Ristrutturare ex caserme rischia inoltre di essere più costoso e lungo che realizzare nuove carceri”. Più favorevole alla riconversione l’associazione Antigone: “La localizzazione nei centri urbani aiuta i rapporti familiari - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizione di detenzione - ma c’è la questione fondi. Secondo il nostro ultimo Rapporto sono meno di 3o milioni. Il vecchio piano carceri ne prevedeva 460”. Le strutture che verranno riconvertite Caserma Bixio di Casale Monferrato: stanziati i fondi per pulire l’area dalla vegetazione. La progettazione preliminare partirà dopo la valutazione sismica e rilievi architettonici. Caserma Battisti di Napoli Bagnoli: per sistemare l’area e recuperare gli edifici monumentali sono stati programmati 5 milioni. Per realizzare circa 200 posti è previsto un investimento di io milioni. È in corso la progettazione preliminare. Caserma Barbetti di Grosseto: dovrebbe ospitare 384 posti in 6 fabbricati a due piani. Previsti investimenti per 25 milioni di euro. Detenuti magazzinieri. È la prima partnership nell’e-commerce di Marzia Paolucci Italia Oggi, 1 luglio 2019 Protocollo tra amministrazione penitenziaria e piattaforma e-PRICE. Al 31 dicembre 2018, 15.228 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 2.386 alle dipendenze di aziende esterne per un totale di 17.646. Il 30% dei circa 60.500 detenuti nelle nostre carceri; numeri a cui si aggiungeranno presto anche quelli della prima partnership nel segno del lavoro penitenziario firmata dal Ministero con una realtà dell’e-commerce. L’azienda con la quale il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della Giustizia ha sottoscritto il protocollo di intesa è e-PRICE Operation srl con la sua piattaforma di vendita on line tutta Italiana e all’attivo un catalogo di 600 mila prodotti tra audio, video, elettronica, elettrodomestici, giochi, e libri. L’accordo è stato siglato il 30 maggio scorso a Roma, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal capo del Dap Francesco Basentini, dall’amministratore delegato di e-PRICE Operations Raul Stella e dai direttori dei due istituti penitenziari di Roma e Torino. Previsti la formazione e il successivo inserimento lavorativo come magazzinieri di detenuti scelti per lavorare alle dipendenze dell’azienda nei locali interni agli istituti penitenziari di Roma Rebibbia e di Torino adibiti a magazzini con aree destinate a vendita diretta, stoccaggio e riparazione dei resi. “Si tratta di vasti locali inutilizzati dove è già in corso prima a Roma e poi a Torino, la formazione di quattro detenuti destinati a diventare venti per ciascun istituto. Se i tempi saranno questi, entro l’autunno seguirà anche il loro successivo inserimento lavorativo”, riporta a Italia Oggi Francesco Basentini a capo del Dap da meno di un anno. L’obiettivo perseguito dal Ministero è quello di “trasferire competenze e conoscenze che contribuiscano a costruire un futuro migliore per i detenuti, persone scelte in base a criteri coerenti con il loro percorso di pena: in regime di media sicurezza, con un fi ne pena abbastanza lungo ma con un profilo di affidabilità che dia garanzie di riuscita”. Il protocollo di intesa delinea i termini dell’accordo: formazione e inserimento lavorativo in capo all’azienda e monitoraggio e realizzazione del progetto in capo al Dipartimento amministrazione penitenziaria chiamato anche alla manutenzione ordinaria e straordinaria dei locali prestati in comodato gratuito all’azienda e-PRICE e a ogni intervento ritenuto strutturale per l’avvio dell’iniziativa. Quattro le finalità: “Sviluppare sinergie di interventi utili a favorire l’inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale attraverso il lavoro nella filiera commerciale consentendo la crescita del senso di responsabilità e autonomia dei soggetti coinvolti verso la collettività; la motivazione e l’interesse da parte dei soggetti selezionati per le professionalità da acquisire nell’ambito del presente accordo utile a possibili impieghi futuri; lo sviluppo della cultura della restituzione intesa come riparazione indiretta dei danni provocati dai reati per ricostituire il patto sociale infranto e la riduzione dei rischi di recidiva”. Messi nero su bianco anche gli obiettivi specifici del progetto: “L’impiego degli spazi in disuso all’interno delle mura carcerarie come magazzini, aree di stoccaggio merci e di riparazione del reso, coniugando l’evidente possibilità di risparmio in termini economici con l’intento di contribuire ad arginare il problema della carenza di inserimenti lavorativi professionalizzanti per chi è in esecuzione penale, offrendo formazione individuale altamente qualificata e opportunità di assunzione nelle attività logistiche connesse all’e-commerce”. Le pallottole verbali dell’odio quotidiano di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 1 luglio 2019 Nei talk show squadracce di professionisti dell’urlo rauco, tra ospiti e conduttori, vengono reclutate per degradare ogni argomento a cazzotto non regolamentare. Il nemico va umiliato, annichilito, caricaturizzato, disumanizzato. Ma attenzione, così finisce male. Attenzione, perché così finisce male. Strano che fra tutte le analogie storiche, alcune decisamente stiracchiate, adoperate per comprendere meglio il nostro presente, non venga in mente a nessuno la suggestione delle guerre civili: la politica ridotta a guerra totale tra connazionali che sparano all’impazzata da trincee contrapposte, la degradazione dell’avversario a nemico da abbattere, anche fisicamente, l’odio assoluto e feroce come carburante per alimentare le armi di offesa. Finora siamo ancora, da ambo i fronti (vorrei ribadire: da ambo i fronti) ai plotoni di esecuzione puramente verbale. Finora: ma attenzione, perché così finisce male, e se non si vuole andare troppo indietro nel tempo, basta chiedere a chi ha vissuto i cupi, terribili, lugubri, cruenti, anni Settanta, una guerra civile a bassa intensità, ma con il suo carico drammatico di morti e dolori. Non solo sui tanto vituperati social, ma anche nel novero di chi si considera gente perbene il dibattito pubblico sta diventando un’arena di odiatori senza freni. Si contano a decine non solo gli insulti sanguinosi e le invettive atroci, ma anche i proclami minacciosi, l’augurio della morte per il nemico: fare un elenco dei frammenti di odio prenderebbe lo spazio di quattro “Particelle elementari”, ma ho annotato tutto e in privato potrei enumerare le pallottole verbali sparate da ambo i fronti (ribadisco: da ambo i fronti). Lo spazio per il conflitto aspro che dovrebbe arricchire le democrazie liberali si sta desertificando. Anche la vis polemica, la veemenza, la passione incandescente delle idee e delle opinioni si sta deformando in una rissa tra guappi che emettono bagliori di lame tra vicoli malfamati. Nei talk show squadracce di professionisti dell’urlo rauco, tra ospiti e conduttori, vengono reclutate per degradare ogni argomento a cazzotto non regolamentare. Il nemico va umiliato, annichilito, caricaturizzato, disumanizzato. Ma attenzione, così finisce male. E a costo di beccarmi come al solito di “terzista” e “cerchiobottista”, vorrei sottrarmi a questi conati di guerra civile, perché nelle democrazie non c’è spazio per l’annientamento del nemico, ma per la sconfitta dell’avversario. Non è una questione di stile e di etichetta (chi se ne importa) ma di sostanza democratica. Occhio, se non si capisce questo, davvero finisce male. Per tutti. Il silenzio dei liberali sui diritti di Alessandro De Nicola La Stampa, 1 luglio 2019 Ogni generazione ha la tendenza a pensare di vivere in un’epoca decisiva. Pensando agli ultimi 5 decenni, negli anni 70 molti vagheggiavano o temevano la rivoluzione, negli anni 80 l’olocausto nucleare, negli anni 90 la storia era finita e tutto il mondo si avviava verso la pax democratica salvo negli anni 2000 scoprire il terrorismo islamico e nel 2008 la fine del capitalismo. Pertanto, la preoccupazione verso il dilagare in Occidente del nazional- populismo, in versione sinistra, destra o farsesca (in Italia non ci facciamo mancare nulla e le abbiamo tutte) può darsi sia un po’ esagerata. Però non si può rimanere insensibili al grido di dolore che Mattia Feltri ha lanciato dalle colonne di questo giornale quando ha parlato di “bancarotta dei liberali”. Secondo Feltri, mentre i liberali sono attivissimi nel denunciare e sistematicamente smantellare tutte le castronerie economiche (anche scientifiche, aggiungo io) che vengono propinate dalla maggioranza gialloverde, essi sono (non tutti) zitti e storditi quando invece si tratta di prender posizione verso gli attacchi allo Stato di diritto: dileggio della presunzione di innocenza, moltiplicazione dei reati e delle pene, spionaggio di Stato, dispregio delle convenzioni e dei trattati internazionali come nel caso della Sea Watch, che contrappone vocianti difensori della sovranità a scapito dell’umanità alle anime belle dell’accoglimento senza se e senza ma. C’è del vero? Senza dubbio. Proverò a dare alcune spiegazioni. Primo: i liberali sono seriamente preoccupati dell’incipiente collasso economico, evento che quando si avvera può portare alla Presa del Palazzo d’Inverno o all’Incendio del Reichstag. Bisogna concentrare dunque le forze sul “real and present danger”. Secondo: inutile cercare di contrastare i populisti su questi temi: la propaganda che mira alla pancia e che contrappone l’Italia Proletaria (e piccolo borghese) al corrotto, al nero stupratore, al rumeno che deve essere impallinato se si aggira vicino al giardino di casa tua, ai banchieri ed imprenditori famelici, è difficile da battere: si rischia di fare il gioco dei mestatori. Terzo: il “buonismo” aveva stufato i liberali, che si battono per i diritti individuali, ma non per indefiniti diritti collettivi all’accoglienza di massa o per l’incertezza della pena. Il momento presente viene visto come un’inevitabile oscillazione del pendolo non destinata a durare. Infine i liberali son pochi, sottotraccia (si agitano sui social, su alcuni giornali e in qualche trasmissione Tv, ma chi ha 1/10 della visibilità dei due vicepremier? Nessuno) e quindi si notano poco. Spiegare però non vuol dire appisolarsi. I tempi son diversi e io non credo che si sia all’alba di un nuovo fascismo, ma l’atteggiamento di molti liberali negli anni 20 - troncare, sopire il fascismo che tanto lo addomestichiamo noi - costrinse Benedetto Croce a ricorrere alla poco scientifica categoria della “malattia morale” per spiegare il Ventennio. Forse più vicini al vero erano i liberal-radicali e repubblicani come Salvemini e Gobetti che lo definirono “autobiografia di una nazione”, intendendo con ciò l’emergere di tratti tipici della cultura e storia italiana adattati ad un’epoca di secolarizzazione (preoccupazione degli storici cattolici come Del Noce) e della società di massa. Se questi germi persistono e le condizioni della società attuale sono ancora più disgreganti di un secolo fa, non c’è tuttavia dubbio che i liberali devono far sentire forte e chiaro il loro dissenso e i loro distinguo (nessuno, d’altronde, confondeva Don Sturzo con Gramsci o Einaudi con Bordiga). Abbiamo sempre creduto che Stato di diritto, economia di mercato e diritti individuali fossero fratelli gemelli: non c’è motivo di separarli. La Corte di giustizia europea argine ai populisti di Andrea Bonanni Affari e Finanza, 1 luglio 2019 L’avvocato generale della Corte europea di giustizia nel suo rapporto su un esposto presentato da alcuni magistrati polacchi ha chiaramente bocciato un aspetto fondamentale della riforma del sistema giudiziario voluta dal governo populista e sovranista di Varsavia. “La camera disciplinare della Corte suprema polacca, appena creata, non soddisfa i requisiti di indipendenza giudiziaria stabiliti dalle nonne della Ue” ha scritto il magistrato europeo. Un giudizio, quello dell’avvocato generale, che pur non essendo vincolante viene di solito confermato dalle sentenze della massima istanza giudiziale europea. Dopo essere stata messa sotto procedura dalla Commissione europea per violazione dei valori fondamentali della Ue, la Polonia finisce così anche sotto scacco della Corte di Giustizia, che sta pure esaminando ricorsi contro la decisione del governo polacco di prepensionare i giudici. La Camera disciplinare della Corte suprema, istituita dal governo polacco, è nominata dal Consiglio nazionale della magistratura, che evidentemente, secondo l’avvocato generale della Corte di giustizia europea, non dà sufficienti garanzie di indipendenza dalla politica. Se la Corte europea confermerà il giudizio del suo avvocato generale, il governo polacco si troverà in una situazione molto difficile. Infatti la procedura per violazione dei principi fondamentali lanciata dalla Commissione comporta sanzioni che possono essere bloccate se non c’è l’unanimità dei governi. E gli ungheresi, come gli italiani, sono pronti a impedire ogni decisione contro la Polonia. Ma una sentenza della Corte di Giustizia diventa immediatamente esecutiva. E dunque il governo polacco dovrà ottemperarvi. Se non lo facesse, si esporrebbe a multe salatissime per ogni giorno di inadempienza. E se si ostinasse nel rifiuto si metterebbe di fatto fuori dalla Ue: una scelta che sarebbe molto impopolare tra gli stessi polacchi. Forse proprio per questo, il governo ungherese del populista Viktor Orban ha sospeso l’applicazione di una analoga riforma giudiziaria per riportare la magistratura sotto il controllo della politica. Ma è evidente che l’attacco sistematico dei governi populisti contro i poteri di garanzia, essenza stessa delle democrazie liberali, è destinato a continuare. Certo, ogni populista ha i suoi nemici preferiti: da noi, per esempio, prima della magistratura sembra essere l’indipendenza della Banca d’Italia a trovarsi nel mirino di questa maggioranza. Ma per fortuna anche in questo caso l’autonomia dell’istituto di Via Nazionale è garantita, oltre che dalle leggi italiane, anche dalle norme europee. E la Corte di giustizia fa buona guardia. “Dopo la bufera il Csm va riformato grazie ai membri laici e al Quirinale” di Giovanni Mari Il Secolo XIX, 1 luglio 2019 Intervista a Alberto Maria Benedetti, docente e consigliere in quota M5S: i valori vanno preservati. L’indipendenza della magistratura è una garanzia, chi ne ha abusato ne risponderà. La bufera che ha sconvolto il Consiglio superiore della magistratura si è apparentemente placata dopo una serie di clamorose dimissioni e uno strascico di sospetti e polemiche. Il Quirinale ha posto un argine, ma la vicenda nata con l’indagine per corruzione sul magistrato Luca Palamara e la scoperta di una fitta rete di trattative tra toghe e politici per la scelta di incarichi di alta responsabilità, spinge il Csm in una fase molto delicata. Alberto Maria Benedetti, ordinario di Diritto privato al Dipartimento di Giurisprudenza di Genova, primo in Italia nella votazione sulla piattaforma Rousseau per la nomina degli esponenti nel Csm di area Cinque Stelle, smarca i componenti laici dalla questione e invita il Parlamento a una radicale riforma dell’organismo. Professor Benedetti, il Csm è riuscito a conservare la sua credibilità? “Sicuro: basti pensare che nessuno dei componenti laici, eletti dal Parlamento, è stato coinvolto”. Non dirà che la politica non c’entra… “No. Ma se c’era davvero un gruppo di potere “collaterale” al consiglio, allora era ben consapevole che i laici del Csm, quasi tutti professori o avvocati, non potevano costituire una “sponda” per manovre o pianificazioni fuori dalla legalità. Mi auguro che il Parlamento ne sia consapevole”. Immaginare che la componente laica sia estranea a giochi alleanze appare irreale… “In verità fin dal settembre 2018 i laici avevano evidenziato gli eccessi del correntismo, lavorando silenziosamente, pratica su pratica. C’è stata quella dialettica prevista in Costituzione in un organo che vede presenti componenti eletti dai magistrati e dal Parlamento. Gli atteggiamenti sclerotizzati erano stati notati”. Poi la questione è esplosa, tra accuse e polemiche… “Il Csm ha reagito prontamente. E se i 4 componenti coinvolti si sono dimessi è perché tutti gli altri hanno subito chiesto un passo indietro: non c’era spazio per mediazioni o soluzioni sproporzionate alla gravità dei fatti”. Per la prima volta, anche per la debolezza della politica, il Csm ha rischiato di impantanarsi… “E invece la sostituzione dei membri e le elezioni suppletive testimoniano la continuità dell’organo di autogoverno e la sua capacità di reagire in tempi rapidi: il Presidente della Repubblica si è fatto promotore di un nuovo inizio, svolgendo il suo ruolo di garante”. Lei era stato sul punto di poter essere eletto vicepresidente del Csm. Poi prevalse David Ermini. Nessuno tra i membri che si sono dimessi aveva votato per lei… “Non credo sia una questione dirimente, ma è vero che all’elezione del vicepresidente hanno contribuito, in modo determinante, i quattro componenti che oggi non fanno più parte del consiglio (oltre che un quinto, ancora autosospeso)”. Lo dica... “Guardi, il fatto non mi induce a rivendicare nulla: il vicepresidente, dopo un’elezione sofferta, si è comportato come tutti ci aspettavamo, in piena intesa con il Capo dello Stato e con alto senso istituzionale. Ne sono convinto. E questo conta”. Non crede che quel che conta sia la tenuta del sistema Giustizia, la credibilità dei suoi stessi uomini? “L’indipendenza della magistratura è garanzia di libertà per tutti i cittadini; chi ha provato ad abusarne indebitamente se la vedrà con... la giustizia stessa, penale e disciplinare”. Resteranno scorie. “Il valore di fondo deve essere preservato in ogni modo, io lotterò per questo. Troppi magistrati hanno pagato con la vita per non aver accettato ingerenze esterne”. Forse è il caso di procedere a un riordino? “È urgente. Vanno rese parenti tutti le nomine, introducendo criteri matematici di valutazione dei titoli; la struttura va aperta a personale assunto per concorso, e non di provenienza dai ruoli della magistratura; va rivisto, nel rispetto dei principi costituzionali, il sistema di elezione dei componenti togati”. Un antico libro dei sogni... “Non dobbiamo rassegnarci. Questa brutta faccenda può essere l’occasione per buone riforme. Non improvvisate sull’onda degli eventi”. Lei si riaffaccerebbe su questo mondo? “Non sono pentito, ora viene il bello. Si tratta di lavorare per un nuovo modo di governare la magistratura: saremo pronti ad affrontare una sfida storica”. Paolo Adinolfi, l’oscura fine di un giudice scomodo di Fabrizio Peronaci Corriere della Sera, 1 luglio 2019 Il magistrato romano sparì 25 anni fa, al tempo di Tangentopoli. Il figlio: “Papà dava fastidio, voleva portare pulizia nella Sezione fallimentare. Mi appello a chi sa, l’inchiesta va riaperta”. Gli tocca fermarsi per strada e rispondere ai tanti che lo apostrofano in modo cordiale, con una battuta o una pacca sulle spalle, scambiandolo per un popolare conduttore de “La 7” al quale somiglia moltissimo, quando lui per indole, educazione familiare e dolorose esperienze di vita ha un carattere riservato, propenso al basso profilo. Però alla fine ha imparato a sorriderne, seppure con amarezza: “Avrei preferito essere riconosciuto come il figlio di un magistrato integerrimo, rigoroso e sottoposto soltanto alla legge, caduto durante il servizio”. E invece? “Invece sono costretto a prendere atto che in un quarto di secolo né il Csm né l’Anm, l’associazione nazionale magistrati, hanno mai speso una parola per papà. Nessuno ha preso posizione a favore di un giudice che ha svolto fino in fondo il suo mestiere, senza scendere a compromessi, battendosi contro malaffare e collusioni, anche tra i suoi colleghi. Una pulizia morale pagata con la vita”. Le parole sono pietre. Lorenzo Adinolfi, avvocato quarantenne, figlio del giudice Paolo Adinolfi, alla vigilia della ricorrenza numero 25 del giorno più mesto dell’anno ha deciso di dirle con franchezza: il reiterato “no” degli organi della magistratura a onorare suo padre, che perse quand’era in terzo liceo, gli brucia e lo vuole gridare forte e chiaro. Uno dei gialli più inquietanti lasciati in eredità dal secolo scorso, così, esce dalla condizione di cold case, “caso freddo”, inchiesta messa in freezer, dove l’avevano ibernata le archiviazioni del 1996 e del 2003, e diventa materia di sdegno civile. Paolo Adinolfi sparì a Roma a 52 anni il 2 luglio 1994, esattamente un quarto di secolo fa. Era un sabato e aveva da fare alcune commissioni. Da un mese prestava servizio alla Corte d’appello, dopo aver lavorato 10 anni alla Sezione fallimentare, dove si era occupato di procedimenti importanti. Quella mattina il giudice uscì poco prima delle 9 dall’appartamento in zona Farnesina, diretto, sulla sua “Bmw 316”, in viale Giulio Cesare e piazzale Clodio. Pareva tranquillo: un bacio alla moglie Nicoletta e la promessa di tornare per pranzo. Di certo passò all’ufficio postale del tribunale, per pagare alcune bollette, alla banca interna (all’epoca aperta di sabato) per trasferire un conto corrente, e ancora - prima stranezza - in archivio per ritirare una sentenza, dove uno dei bibliotecari notò che era accompagnato da “un giovane di 30-35 anni”. Chi era questo misterioso personaggio? In tarda mattinata, Adinolfi raggiunse il Villaggio Olimpico dove, in un secondo ufficio postale (in via Nedo Nadi), spedì un vaglia di 500 mila lire alla moglie. Gesto inspiegabile. Specie se collegato con un altro mistero: nella buca delle lettere dell’anziana madre, in via Scipio Slataper, ai Parioli, la sera del giorno seguente furono trovate le chiavi di casa e dell’auto. Collocate lì dallo stesso Adinolfi o da qualcuno che ne coartò la volontà, allestendo una sorta di rituale d’addio ai propri cari? Famiglia borghese, formazione cattolica - “Mio marito era un idealista, un cattolico osservante, legatissimo ai nostri figli e a me. Non aveva intenti suicidi né desideri di fuga. Piuttosto, mi aveva confidato seri problemi sul lavoro”. La signora Adinolfi non ha creduto mai, neanche per un minuto, all’allontanamento volontario. Il movente andava cercato negli affari scottanti che aveva gestito, questioni “talmente gravi da far crollare il tribunale di Roma”, come confidò a un amico. A cominciare dal fallimento della finanziaria Fiscom, che conduceva a personaggi legati alla banda della Magliana, da lui decretato nel giugno 1992 e revocato a sua insaputa un mese dopo, mentre era in ferie, con una decisione che lo mandò su tutte le furie e gli fece maturare una definitiva estraneità al “clima romano”, inducendolo a lasciare la Fallimentare. Non solo. Carlo Nocerino, pm che collaborava con Mani Pulite, nei mesi successivi, nell’ambito dello stesso filone, si occupò del crack dell’Ambra assicurazioni e fu proprio a lui che Adinolfi si rivolse, poco prima di sparire, per confidargli che era in possesso di notizie “interessanti” dal sicuro profilo penale. Nonostante i numerosi spunti da approfondire, però, all’inizio prevalse la pista privata. “L’allontanamento volontario è ipotesi più probabile delle altre”, scrissero i titolari dell’inchiesta, nel chiedere l’archiviazione. Ma lo stop durò poco. Nell’estate del 1996 le indagini furono riaperte e i familiari s’illusero che fosse giunta la svolta, per quanto tragica. Un faccendiere siciliano, tal Francesco Elmo, arrestato per riciclaggio in Campania, aveva infatti chiesto di “liberarsi da un peso” e messo a verbale che la banda della Magliana aveva ucciso Adinolfi, per evitare che affiorassero i legami tra servizi segreti deviati, società-fantasma nel settore immobiliare e grande “mala”. Trapelò anche un’indiscrezione significativa: ogni lunedì i rappresentanti di famiglie mafiose si riunivano vicino Formia, in una fabbrica di acque minerali, per decidere quali fascicoli “romani” tenere d’occhio e quali magistrati della Fallimentare “sollecitare”. Ore 9, un bacio alla moglie: “Torno per pranzo” - Verità più vicina? Il pm perugino Alessandro Cannevale ordinò di scavare a Villa Osio, residenza del presunto cassiere della Magliana, Enrico Nicoletti (poi requisita e diventata Casa del jazz), in cerca del cadavere (non trovato), e continuò a lavorare sullo scenario di connessioni losche e insospettabili. Sforzi vani; nel 2003 dovette arrendersi. Ma nella richiesta di archiviazione testualmente scrisse: “Le nuove indagini inducono a rivedere il giudizio riguardo all’origine volontaria della scomparsa del dr. Adinolfi e a escludere la morte per cause naturali o incidente, o la perdita di memoria...” Quasi certa “l’azione delittuosa”, insomma. Soprattutto se si considerano “l’estrema delicatezza di alcuni affari trattati”, la “notevole rilevanza degli interessi economici coinvolti”, la “capacità criminale dei soggetti che subivano le procedure” e i “contrasti insorti con taluni colleghi”. Più chiaro di così... “Confido nell’apertura di una nuova inchiesta. Mi appello alla coscienza di chi sa e può dare impulso a una delle tante piste seguite, sfruttando anche le tecnologie. I successivi e recenti scandali alla Sezione fallimentare, d’altronde, consentono di delineare il movente meglio che in passato”, incalza oggi Adinolfi junior, al fianco di sua mamma Nicoletta, nel salotto della bella casa che racconta ancora tutto di lui, i libri di diritto, la collezione completa della rivista Civiltà Cattolica, i quadri a soggetto sacro, i manuali di giardinaggio e i presepi che amava costruire, con l’infinita cura e pazienza di un uomo d’altri tempi, la cui unica colpa, forse, è stata aver creduto troppo nella giustizia. Accesso dei collaboratori di giustizia ai benefici penitenziari. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2019 Collaboratori di giustizia - Benefici penitenziari - Misura della detenzione domiciliare - Istanza - Valutazione - Giudizio prognostico. Ai fini dell’applicazione della misura della detenzione domiciliare al collaboratore di giustizia, pur in presenza dell’apporto collaborativo con l’autorità giudiziaria le irregolarità comportamentali caratterizzate anche dal persistere di frequentazioni con determinati soggetti non consentono la formulazione di un giudizio prognostico positivo in ordine al definitivo distacco da logiche criminali ed alla conformità dei futuri comportamenti. [Nel caso in esame il Tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza avanzata dal collaboratore di giustizia nonostante il parere favorevole espresso dalla Direzione distrettuale antimafia]. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 19 giugno 2019 n. 27332. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Benefici penitenziari - Collaboratori di giustizia - Ravvedimento - Presenza di elementi positivi di prova - Necessità - Fattispecie. Ai fini della concessione dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, il requisito del “ravvedimento” previsto dall’art. 16-nonies, comma 3, del d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991, n. 82, non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di ulteriori e specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza. (In applicazione di tale principio, la Corte ha rigettato il ricorso avverso l’ordinanza di diniego del beneficio della detenzione domiciliare con cui il tribunale di sorveglianza aveva rilevato che il pesante passato criminale del ricorrente, le pregresse violazioni del regime degli arresti domiciliari, nonché i comportamenti intimidatori in costanza di detenzione, anche successivamente all’intrapresa collaborazione, non consentivano di valutare il recente miglioramento della condotta intramuraria quale indice di pieno ed irreversibile ravvedimento). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 1° ottobre 2018 n. 43256. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Liberazione anticipata speciale - Presupposti - Status di collaboratore di giustizia - Presunzione automatica del “ravvedimento” - Esclusione. Ai fini della concessione della liberazione anticipata speciale, introdotta dall’art. 4, D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, così come modificato dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10, la condizione di collaboratore di giustizia non comporta alcun automatismo favorevole al condannato, in presenza o meno dei reati ostativi previsti dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, essendo sempre necessario l’accertamento, da parte del Tribunale di sorveglianza, del requisito del “ravvedimento”, che presuppone una convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e la formulazione, quanto meno in termini di elevata e qualificata probabilità, di un giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita alle regole dettate dall’ordinamento. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 20 luglio 2015 n. 31421. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Benefici penitenziari - Collaboratori di giustizia - Ravvedimento - Presenza di elementi positivi di prova - Necessità - Fattispecie. In tema di concessione dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, la condizione del “ravvedimento” ex articolo 16-nonies, comma terzo, D.L. n. 8/1991, conv. in L. n. 82/1991, non può dirsi realizzata sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e della mancanza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma postula la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza. (Fattispecie in cui era stata respinta la richiesta di detenzione domiciliare, ritenendo dimostrativa della mancanza di un autentico ravvedimento la condotta del condannato “collaboratore di giustizia”, cui era stata poco tempo prima revocata la medesima misura, per essersi allontanato ingiustificatamente dalla propria abitazione rendendosi di fatto irrintracciabile). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 5 dicembre 2013 n. 48891. Provvedimenti sul controllo giudiziario delle aziende non ricorribili in Cassazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2019 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 14 giugno 2019 n. 26349. I provvedimenti in materia di misura di prevenzione patrimoniale del controllo giudiziario di cui all’articolo 34-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, non rientrano tra quelli suscettibili di essere impugnati secondo il vigente sistema delle impugnazioni del codice antimafia, stante la tassatività dei mezzi di impugnazione desumibile dal disposto dell’articolo 27 dello stesso decreto legislativo, ma anche desumibile dal disposto dell’articolo 34, comma 6, dello stesso decreto, che circoscrive i casi di impugnabilità dell’amministrazione giudiziaria, che pure è misura di prevenzione di maggiore portata e con effetti più invasivi del controllo giudiziario. Questo il principio della Cassazione espresso con la sentenza 14 giugno 2019 n. 26349. Secondo i giudici penali, in senso contrario, non potrebbe evocarsi il richiamo contenuto nell’articolo 34-bis alle forme del procedimento in camera di consiglio di cui all’articolo 127 del codice di procedura penale, perché tale richiamo non implica, di per sé, la ricezione completa del modello procedimentale descritto in questa norma, ivi compreso il ricorso in sede di legittimità previsto nel comma 7. La mancanza di mezzi di impugnazione peraltro appare coerente con la natura provvisoria del provvedimento, che, laddove adottato, come l’amministrazione giudiziaria, può evolvere per decisione dello stesso giudice che l’ha emesso, nel senso della revoca o dell’aggravamento. In senso conforme, sezione VI, 4 aprile 2019, Consorzio Go Service Scarl in liquidazione, secondo cui, appunto, il provvedimento adottato dal tribunale ai sensi dell’articolo 34-bis del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159 non è ricorribile per cassazione. In realtà, la prevalente giurisprudenza di legittimità si è espressa per la ricorribilità in cassazione del provvedimento ex articolo 34-bis citato (sezione II, 14 febbraio 2019, Fradel Costruzioni Soc. coop.; sezione II, 13 febbraio 2019, Consorzio sociale Coin; nonché, sezione V, 2 luglio 2018, Eurostrade srl, laddove, in particolare, si è affermato che avverso il provvedimento adottato dal tribunale ai sensi dell’articolo 34-bis, comma 6, del decreto legislativo n. 159 del 2011, sia esso di accoglimento ovvero di diniego della richiesta applicazione del controllo giudiziario, i soggetti interessati possono proporre soltanto ricorso per cassazione, giusta la previsione dell’articolo 127, comma 7, del codice di procedura penale). Per l’effetto, sul punto dell’impugnabilità del provvedimento ex articolo 34-bis, proprio a fronte del rilevato contrasto interpretativo, è emersa la necessità di un intervento chiarificatore delle Sezioni unite. Così, l’ordinanza della sezione VI, 15 maggio 2019-3 giugno 2019 n. 24661, Ricchiuto, proprio apprezzando la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza, ha rimesso alle Sezioni unite la questione se contro il provvedimento con cui il tribunale, competente per le misure di prevenzione, neghi l’applicazione del controllo giudiziario richiesto, ex articolo 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, dall’impresa destinataria di una interdittiva antimafia, sia o no proponibile il ricorso per cassazione. La Corte, infatti, ha considerato la presenza dell’orientamento maggioritario che ammette la ricorribilità in cassazione, secondo il procedimento di carattere generale previsto dall’articolo 127, comma 7, del codice di procedura penale, ma ha anche considerato diversa presa di posizione (di cui è espressione la sentenza massimata), di segno diametralmente opposto, che nega l’impugnabilità del provvedimento argomentandolo dal carattere di non definitività del provvedimento stesso e sostenendo, in proposito, che non potrebbe invocarsi il rinvio alle forme di cui all’articolo 127 del codice di procedura penale contenuto nell’articolo 34-bis, comma 6, sul rilievo che tale rinvio non implica, di per sé, la ricezione completa del modello procedimentale descritto in questa norma, ivi compreso il ricorso in sede di legittimità previsto nel comma 7. Distruzione documenti contabili: patteggiamento subordinato a estinzione del debito di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 aprile 2019 n. 14600. Per il reato di cui all’articolo 10 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (occultamento o sottrazione di documenti contabili), la possibilità di richiedere il patteggiamento, giusta la disciplina dettata dall’articolo 13-bis, comma 2, dello stesso decreto, è necessariamente subordinata, laddove possibile, al ravvedimento operoso (nella specie, consistente nell’esibizione, sia pure tardiva, delle scritture contabili e dei documenti eventualmente occultati e tuttavia non distrutti) e, in ogni caso, all’integrale estinzione del debito per imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto, compresi interessi e sanzioni amministrative, riferito alle annualità oggetto di accertamento e in relazione alle quali la condotta illecita è stata tenuta. Così la sezione III penale della Cassazione con la sentenza n. 14600 del 2019. Sulla questione, cfr., peraltro, Sezione III, Proc. gen. App. Perugia in proc. Bianconi, laddove si è affermato che, relativamente ai delitti di cui agli articoli 10-bis, 10-ter, 10-quater, comma 1, 4 e 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000, l’estinzione del debito tributario mediante pagamento ovvero il ravvedimento operoso non possono configurare una condizione per accedere al patteggiamento giacché tali evenienze integrano una causa di non punibilità del reato, come tale concettualmente incompatibile con la definibilità con il rito alternativo. Da ciò consegue che l’ammissibilità al rito speciale non presuppone affatto la preventiva verifica dell’essersi realizzate le anzidette condizioni: non a caso l’articolo 13-bis, comma 2, del decreto legislativo n. 74 del 2000, che pone tale regola di verifica per gli altri delitti tributari, fa salvi i casi di cui ai commi 1 e 2 del precedente articolo 13, proprio relativi ai reati suddetti. Ad analoga conclusione, secondo tale decisione, diversamente da quella qui massimata, deve pervenirsi anche relativamente al reato di cui all’articolo 10 del decreto legislativo citato, sia pure per ragioni diverse. Infatti, si è sostenuto, l’occultamento o la distruzione delle scritture contabili ivi sanzionati non sono correlati all’esistenza di un profitto o di un danno erariale quantificabili, per cui rispetto a tale fattispecie il preventivo accertamento dell’estinzione integrale del debito o del ravvedimento operoso risulta inesigibile, a meno che non si verifichi - e sia oggetto di contestazione - che nei confronti dell’imputato, in relazione alla peculiare condotta illecita descritta dal predetto articolo 10, sia eventualmente maturato uno specifico debito erariale che avrebbe potuto essere estinto dal contribuente con gli istituti all’uopo previsti dal sistema tributario. Milano: i segreti della birra Malnatt, speranza e stipendi tra le carceri e la cascina di Jens Berthelsen* La Repubblica, 1 luglio 2019 Birra Malnatt è nata dalla volontà di dare un’occasione concreta di reinserimento lavorativo e sociale ad alcuni detenuti delle carceri milanesi. Cercheremo di fare acquisire loro delle professionalità che saranno utili anche al termine della detenzione. Di lavoro datare per Malnatt ce n’è: sono birre agricole, “a cm zero”, tutti gli ingredienti sono coltivati in cascina, vicino Abbiategrasso. Ci sono i campi di orzo e frumento, anche il luppolo è una varietà selvatica coltivata e raccolta in cascina. E, visto che per fare una birra di qualità ci vogliono ingredienti di qualità, sin dall’inizio il lavoro dei detenuti sarà determinante. Saranno infatti inseriti nella filiera di produzione, all’inizio nelle attività più “semplici” come la coltivazione dei campi o la movimentazione dei materiali, poi, via via, saranno formati in modo da essere inseriti nel lavoro del birrificio. Abbiamo realizzato tre referenze di Birra Malnatt, come omaggio alle tre carceri di Milano. Sono ad alta fermentazione, non pastorizzate, non filtrate e rifermentate in bottiglia. Appaganti, ma non troppo complesse le ricette: c’è la Malnatt di San Vittore, chiara, di facile bevuta ma non banale, dove le note amaricanti del luppolo ben bilanciano il sapore del malto; Malnatt di Bollate è una weiss, birra di frumento, con aroma erbaceo e un gusto rinfrescante e morbido, per le occasioni speciali. Mentre Malnatt di Opera, massima sicurezza, è una birra rossa, più strong, con aroma di frutti di sottobosco dal gusto rotondo, dove è ben percettibile il malto caramello e la liquirizia, ideale in un momento di riflessione. *Danese, si è trasferito nel Parco del Ticino, mastro birraio Alba (Cn): i detenuti-attori possono “evadere” dal carcere, ma solo col teatro di Isotta Carosso La Stampa, 1 luglio 2019 Fra le tante attività i reclusi impegnati in vigna, pet therapy e presto nella coltivazione di un noccioleto. “Evasioni carcerarie” è il nome scelto per l’evento con cui ieri la casa di reclusione “Montalto” di Alba ha aperto i cancelli per far entrare ospiti e famigliari dei reclusi a cui raccontare le attività dei suoi 49 detenuti che oggi occupano l’unica ala del carcere riaperta dopo la chiusura per legionella oltre tre anni fa. In un teatro allestito fra gli alberi del giardino, con la regista Fulvia Roggero e alcuni volontari, i detenuti-attori hanno messo in scena lo spettacolo “La vita è sogno...il sogno è vita?”. Presenti anche i garanti regionale e comunale dei detenuti, Bruno Mellano e Alessandro Prandi, e la direttrice del carcere Giusy Piscioneri. “Il teatro è un percorso di crescita al di là di dove lo si fa - ha spiegato la regista. Significa imparare a mettersi in gioco e a portare a termine lo spettacolo nonostante le difficoltà”. Con le insegnanti del Cpia, invece, hanno potuto partecipare al corso di italiano e a quello di inglese - uno dei più gettonati - entrambi con esame e attestato finale. Il corso di arte è stato dedicato alla ceramica. “Non sono pochi gli ostacoli per poter realizzare queste attività in carcere - hanno raccontato le docenti -. I protocolli da seguire, gli oggetti che non si possono portare, gli utenti che cambiano continuamente, ma i risultati ci sono. Molti di loro hanno superato gli esami e potuto vivere esperienze importanti”. Ad esempio cinque ragazzi del corso di arte hanno ottenuto un permesso speciale per visitare la mostra della Fondazione Ferrero “Dal nulla al sogno”. Fra le novità, “Il manuale dei giovani ristretti”, con le ricette messe a punto in carcere dove quotidianamente preparano i loro pasti e i consigli dello chef stellato Davide Palluda. I corsi di pet therapy si fanno dal 2014 con l’associazione “Recuperamiamoli” e il supporto del Csv, un percorso culminato con le visite ad anziani e ai malati psichici. A raccontare l’esperienza è stato uno dei detenuti, Alex, con Penelope, uno dei sei cani tutti vittime di maltrattamenti e ora esperti “terapisti”: “Qui pensiamo sempre a ciò che ci manca, ma quelle visite ci hanno mostrato che basta poco per essere felici. La fiducia che ci è stata accordata e la sensazione di aver dato qualcosa anche noi è impagabile”. L’agronomo Giovanni Bertello e il professor Bruno Morcaldi hanno raccontato di come l’agricoltura in Langhe e Roero la fa da padrona anche in carcere, proprio con l’obiettivo di insegnare un mestiere ai detenuti: lungo tutto il perimetro interno della casa di reclusione corrono i filari di viti coltivati in collaborazione con la scuola Enologica dove viene vinificato il “Valelapena”; quest’anno entreranno in produzione i noccioli, sono stati piantati i primi alberi da frutta e l’orto è coltivato in ogni spazio verde. A portare avanti i progetti nelle scuole, ma non solo, sono i volontari dell’associazione Arcobaleno. Due allieve del liceo “Da Vinci”, presenti ieri, ad esempio hanno deciso di fare in carcere l’alternanza scuola/lavoro: “Le nostre famiglie - hanno raccontato Clara Riverditi e Giulia Leone - erano spaventatissime. Siamo entrare piene di pregiudizi, invece questa esperienza ci ha cambiate completamente in meglio. Abbiamo ascoltato tante storie e incontrato quelli che oggi consideriamo amici”. Padova: il canto è libero, la musica dei carcerati si leva dal Castello Il Mattino di Padova, 1 luglio 2019 Un concerto speciale, domani alle 21.15 nell’ambito del Castello Festival, al Castello Carrarese. Si esibiscono il coro Canto Libero della Casa di reclusione Due Palazzi e la band Suoni Dentro, sempre nata all’interno del carcere. Il concerto è a cura dell’associazione Coristi per Caso, che sei anni fa ha fondato il coro ora diretto da Giulia Prete, e da quest’anno con l’appoggio di Comune, fondazione Cariparo e in collaborazione con la direzione della Casa di reclusione, ha messo in piedi un laboratorio musicale gestito da Daniele Pinato, Elena Fasoli e Vilson Luari della cooperativa Universi musicali. Sia il coro che la band sono composti da detenuti e volontari dell’associazione padovana Coristi per caso. È iniziato nel 2011 il progetto corale Canto Libero in carcere allo scopo di coinvolgere le persone detenute in un’esperienza artistica a supporto del percorso riabilitativo. Negli anni, passo dopo passo, condividendo voci, tempo, emozioni, fatiche e traguardi questo gruppo di persone, detenuti e volontari, si è trasformato in un vero coro dove ognuno ha la possibilità di offrire il proprio contributo creativo e insostituibile. Migranti. Il muro che fa tornare i fantasmi del passato di Claudio Magris Corriere della Sera, 1 luglio 2019 Sembra che una parte del Governo voglia ledere l’esistenza di noi triestini. È una piccola tessera dello sdrucito mosaico della politica verso i migranti. C’è chi ha nostalgia della Cortina di Ferro e magari pure del Muro di Berlino; chi ha concretamente vissuto all’ombra di quei muri ne ha un po’ meno e considera ad esempio una carnevalesca e cupa regressione ai fantasmi del passato l’idea di sbarrare di nuovo la frontiera, a Trieste, tra Italia e Slovenia. Quando ero un ragazzino la frontiera, vicinissima, non era una frontiera qualsiasi, bensì una frontiera che divideva in due il mondo - la Cortina di Ferro. Io vedevo quella frontiera sul Carso, quando andavo a passeggiare e a giocare. Dietro quella frontiera c’era un mondo sconosciuto, immenso, minaccioso; il mondo dell’Est sotto il dominio di Stalin, un mondo in cui non si poteva andare, perché la frontiera, in quegli anni, era invalicabile, almeno fino al 1948, sino alla rottura tra Tito e Stalin e sino alla successiva normalizzazione dei rapporti tra Italia e Jugoslavia. Era l’Est - l’Est così spesso ignorato, rifiutato, temuto, disprezzato. Ogni Paese ha il suo Est da respingere. Ma quel mondo dietro la frontiera era anche un mondo che conoscevo bene, perché si trattava di terre che avevano fatto parte dell’Italia e che la Jugoslavia aveva occupato alla fine della seconda guerra mondiale; terre in cui ero stato da bambino, quindi un mondo familiare, noto. In qualche modo sentivo che dietro la frontiera c’era un qualche cosa di noto e di ignoto e credo che la vita sia sempre, consapevolmente o no un viaggio dal noto all’ignoto e viceversa, partenze e ritorni a luoghi materiali e del cuore ogni volta nuovi. Quella chiusura divideva allora anche italiani da italiani e sloveni da sloveni; amputava l’esistenza come una cicatrice sempre fresca. Ora sembra che una parte del Governo italiano voglia rialzare le sbarre e ledere la nostra esistenza, l’esistenza di noi che viviamo a Trieste. È una piccola tessera del grande, sdrucito e sporco mosaico della politica nei confronti del problema dei migranti. A parte le considerazioni generali d’ordine anzitutto umano e certo anche politico nei confronti del grande problema dei migranti, si tratta di una tessera assurda, un cerotto che non fermerebbe nulla e solo irriterebbe la pelle di chi se lo trovasse appiccicato addosso. La realtà, la nostra vita quotidiana a Trieste è una realtà transfrontaliera, un’esistenza che pressoché ignora quel confine di Stato e lo valica di continuo come si valica il limite di un rione per andare a fare acquisti, a tuffarsi in mare in un’altra spiaggia, andare a cena, passeggiare in un bosco o in un altro adiacente. Tutto ciò non cancella la dolorosa, colpevole e intricata Storia che ha creato quel confine - la violenza nazionalista, fascista e non solo fascista, italiana nei confronti degli slavi, la vendetta di questi ultimi indiscriminata e ingiusta come è spesso la vendetta, gli esodi come quello istriano, il confine invisibile fra italiani e sloveni nella stessa città. Tutto ciò soffocava la vita di Trieste, spingeva molte delle sue forze migliori ad abbandonare la città. Una delle mie fortune è stata quella di essere - in quegli anni ciechi, come li definisce Quarantotti Gambini - ancora un ragazzo che l’età proteggeva dal senso pesante di chiusura e di un grigio futuro. Da tanti decenni la situazione è migliorata; l’atmosfera è divenuta più aperta e più libera e non solo nei rapporti tra italiani e sloveni, oggi tanto più vivi e sereni, ma in generale nell’esistenza della città, nella qualità della sua vita. Rialzare sbarre significherebbe ottundere questa vitalità, questo piacere di vivere e non si vedono orde immani in arrivo tali da giustificare la trasformazione di una città in una caserma, in cui giustamente è vietato l’ingresso a chi non è un soldato. La città, oggi, non è una città invasa; il riciclaggio del denaro sporco, di cui mi diceva un funzionario della Questura, che vede nascere e sparire di continuo ristoranti e ritrovi, è più pericoloso dei neri che cercano di vendere occhiali o, nei giorni di pioggia, ombrelli. Non è solo in nome dell’accoglienza e della fraternità umana che è insensato rialzare quelle sbarre; in questo caso le sbarre rialzate colpirebbero non solo i disperati in cammino, ma anche la stessa qualità di vita. Migranti. Duello sul “muro” con la Slovenia: la Lega per le barriere, no del premier di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 1 luglio 2019 Fedriga: se non si fermano i migranti, necessario chiudere i punti critici. Il M5S: mai. Il governatore del Friuli-Venezia Giulia: Schengen deve funzionare. In settimana parlerò del piano con Salvini. Giuseppe Conte è radicalmente contrario. Per il presidente del Consiglio il muro in stile Trump e Orbán, vagheggiato dalla Lega per fermare i migranti al confine tra Italia e Slovenia, semplicemente “non si può fare”. Allo stesso modo la pensa il capo politico dei 5 Stelle Luigi Di Maio, che ha affidato al deputato giornalista Emilio Carelli il compito di stoppare i piani degli alleati. “Non è alzando i muri che si governano i problemi delle migrazioni”, è l’altolà dell’ex direttore di Sky Tg24, che invita il Carroccio a smetterla di inseguire i titoli dei giornali per mettersi a lavorare “seriamente alla soluzione di questo dramma epocale, con umanità e serietà”. L’idea lanciata dal presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, disegna l’ennesima crepa nella maggioranza di governo, Lega a favore e Movimento contro. Per il Carroccio i migranti bisogna fermarli fisicamente, prima che entrino nel territorio italiano. I 5 Stelle, che pure sulla Sea Watch si sono allineati alle scelte di Salvini, spronano a lavorare nei Paesi di origine dei flussi migratori, per combattere le cause che spingono milioni di persone a fuggire dalle guerre e dalla fame. Per dire quale sia l’umore nel M5S nei confronti dell’ultima trovata leghista basta la battuta del presidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia: “Una coglionata pazzesca, la derubrico subito così”. Il problema, per la tenuta dell’alleanza gialloverde, è che Salvini sta seriamente pensando di andare avanti. “Per adesso è soltanto un’ipotesi”, ha spiegato ai dirigenti del partito. Ma un’ipotesi assai concreta, visto che in settimana ne parlerà con Fedriga al Viminale. Intervistato dal Fatto quotidiano di ieri, il “governatore” aveva confermato l’ipotesi trumpiana parlando di “un muro o altro” per “fermare l’ondata migratoria che avanza attraverso altri Paesi dell’Ue”, se l’Europa non tutelerà i nostri confini. Indignata la reazione delle opposizioni, con il verde Angelo Bonelli che boccia la suggestione di un “muro della vergogna”. Per la dem Debora Serracchiani, già presidente del Friuli-Venezia Giulia, si tratta di “una follia”. L’ex premier Paolo Gentiloni accusa Salvini di “giocare con il muro in Slovenia” ed Enrico Letta, altro predecessore di Conte a Palazzo Chigi, pensa si tratti della “bischerata di giornata per non parlare della crescita zero, delle crisi industriali, della Capitale al tracollo o dei giovani italiani che vanno via”. All’ora di pranzo, intervistato da Lucia Annunziata, Fedriga corregge il tiro senza però smentire il progetto. “Sulla stampa si sono presi una grande licenza poetica”, precisa a In 1/2 ora in più il presidente del Friuli-Venezia Giulia, sottolineando come i 243 chilometri di cui si parla nell’intervista al Fatto “non sono nemmeno il confine tra Italia e Slovenia” (che è di 232 chilometri). Poi però Fedriga conferma le intenzioni di Salvini di realizzare una barriera per fermare i migranti all’altezza dei boschi carsici del confine triestino, che sono facilmente attraversabili: “Che ci sia allo studio la possibilità di barriere nei punti più critici lo valuteremo”. Insomma, la Lega chiede all’Europa di rispettare gli accordi di Schengen e presidiare i confini, altrimenti il piano scatterà. “Noi non vogliamo fare muri - avverte Fedriga su Rai3 - Ma se non si rispettano le regole, allora si alzano i muri, delle barriere nelle tratte più frequentate”. Migranti. Di Maio propone a Salvini la confisca delle navi umanitarie di Francesco Grignetti La Stampa, 1 luglio 2019 In questa prima settimana di luglio, Matteo Salvini ha due obiettivi: chiudere definitivamente la partita con la capitana Carola, e allo stesso tempo approfittare dell’occasione per rimettere mano al decreto Sicurezza bis e tornare alle versioni originarie, quelle che furono poi ritoccate dopo una certa discussione con Palazzo Chigi. Nel frattempo, però, i M5S hanno preso la batosta delle elezioni europee e Luigi Di Maio non s’oppone più di tanto alle idee brutali dell’altro vicepremier. Così arriveranno un raddoppio delle multe e soprattutto il sequestro delle imbarcazioni umanitarie già a una prima infrazione e non più in caso di reiterazione del reato. Di Carola, è presto detto: la linea del Viminale è mettere in discussione il preteso “allarme sanitario” a bordo. Un’operazione che è politica e giudiziaria. Se infatti il comandante della Sea Watch 3 ha invocato le cause di forza maggiore a motivo della sua decisione di entrare in porto, Salvini è categorico: “Nessuno dei 41 immigrati scesi dalla Sea Watch presenta malattie o problemi particolari come scabbia o disidratazione: sono stati rifocillati, hanno passato una notte serena e per nessuno di loro è stato disposto il trasferimento in elisoccorso verso l’ospedale di Palermo. Resta quindi da capire a quale “stato di necessità” si riferisse la Ong per giustificare l’attracco non autorizzato con speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza”. La sua strategia è chiara: se si dimostrasse che non c’era alcuna emergenza, la nave umanitaria non potrebbe essere più considerata una “ambulanza del mare” (copyright del capogruppo dem Graziano Delrio). Resterebbe solo l’irruzione in porto. A questo proposito, domani per la giovane tedesca, che al momento si trova agli arresti domiciliari, ci sarà l’esame di garanzia davanti al gip di Agrigento. Al Viminale, è noto, se gli arresti non venissero confermati, è pronto un ordine di espulsione come “persona non gradita”. Questa ormai è la posizione dell’intero governo italiano, non soltanto del vicepremier Salvini. Dice infatti di Carola il premier Giuseppe Conte: “Qualcuno la descrive come un’eroina, alcuni la stanno insultando; ritengo scorretto aggredirla verbalmente. Non evocherei concetti così forti come disobbedienza civile, perché ci vedo un ricatto politico compiuto scientemente con l’utilizzo strumentale di quaranta persone”. Oppure la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta: “Quanto fatto da Carola Rackete, è stato gravissimo. Non solo perché ha disobbedito all’alt della Guardia di Finanza, violando le leggi dello Stato italiano, ma soprattutto perché lo ha fatto rischiando di arrecare danni irreparabili ai nostri uomini e donne in uniforme”. L’azione di forza da parte della nave umanitaria, però, sembra avere segnato un punto di non ritorno nelle posizioni del governo verso le Ong. Luigi Di Maio stesso invoca ora una “soluzione affinché quelle imbarcazioni che se ne fregano delle nostre leggi non tornino più in mare già alla prima infrazione. Non si deve aspettare oltre”. Sembra quasi, a questo punto, che ci sia una rincorsa tra gli esperti legislativi della Lega e quelli del M5S ad definire l’inasprimento definitivo del decreto Sicurezza bis, che proprio nei prossimi giorni sarà in discussione in Parlamento. Dice ancora Di Maio: “Non si può andare avanti sequestrando e poi dissequestrando la stessa imbarcazione, e sta per accadere di nuovo con la “Sea Watch 3”. Se quella nave torna in mare con un nuovo comandante, cosa cambia?”. I grillini la pensano come i leghisti perché, oltre una multa severissima, ci sia anche il sequestro amministrativo e poi la confisca delle navi umanitarie fin dalla prima infrazione di un divieto di ingresso nelle acque territoriali. “Se entri nelle nostre acque violando la legge, perdi definitivamente l’imbarcazione, senza attenuanti e multe che incidono ben poco. Se forze armate, capitaneria o corpi di polizia lo vorranno, daremo a loro le navi confiscate. Solo in questo modo ridurremo il traffico nel Mediterraneo verso l’Italia”. Droghe. Cocaina, nuovo record: la produzione aumenta del 25% di Francesco Tortora Corriere della Sera, 1 luglio 2019 Il rapporto delle Nazioni Unite. La produzione di cocaina batte tutti i record. Lo confermano le statistiche presentate nel “World Drug Report 2019”, l’annuale rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). Secondo lo studio il 2017, anno al quale il rapporto fa riferimento, è stato l’anno d’oro della produzione di cocaina che ha registrato un aumento del 25% rispetto all’anno precedente. In totale sono state prodotte 1.976 tonnellate di polvere bianca. Queste cifre confermano un trend già manifestatosi nel 2016 quando la produzione di cocaina aveva registrato un aumento di un quarto rispetto all’anno precedente. La produzione. Uno dei motivi del boom è legato all’estensione delle colture in Colombia. Nel Paese sudamericano infatti si registra il 70% della produzione mondiale di cocaina e i terreni in cui si coltivano piante di coca sono aumentate del 17% nel 2017: è una delle conseguenze dell’accordo di pace concluso nel 2016 tra il governo e le Farc, che ha permesso ai criminali di prosperare anche in territori precedentemente controllati dai guerriglieri. Il boom della domanda in Occidente - Il motivo principale del boom è l’aumento della domanda in Occidente. La cocaina prodotta è assorbita principalmente dai mercati nordamericano ed europeo. È difficile misurare con precisione il livello di consumo, ma il rapporto stima che ci siano circa 18,1 milioni di persone che facciano uso della polvere bianca ovvero lo 0,4% della popolazione mondiale che ha tra i 18 e i 64 anni. I consumatori nel mondo - Un alto consumo di cocaina si registra in Oceania (Australia e Nuova Zelanda, 2,2% della popolazione), America del Nord (2,1%), Europa (1,3%) e Sudamerica (1 %). In tutte queste sotto-regioni - si legge nel rapporto - negli ultimi anni la richiesta e il consumo di cocaina è aumentato sensibilmente. I sequestri - I sequestri di cocaina nel 2017 sono aumentati del 13% rispetto all’anno precedente, anche grazie alla migliore cooperazione internazionale, raggiungendo le 1.276 tonnellate. Il declino dell’oppio - Secondo il rapporto delle Nazione Unite la produzione di oppio è crollata per la prima volta in due decenni, con un calo del 25%. In totale, nell’anno 2018, sono state prodotte 7.790 tonnellate di oppio. Il declino è dovuto in particolare ad un calo del 17% del suolo coltivato a papavero in Afghanistan, che rappresenta oltre l’80% della produzione mondiale. Domanda crescente di oppiacei - Nonostante il calo della produzione, l’uso di oppiacei continua a crescere in tutto il mondo, soprattutto in Nord America. In generale i derivati dell’oppio sono assunti da 53,4 milioni di persone nel mondo e nel 2017 si sono registrate nei soli Stati Uniti 47 mila decessi causati da prodotti sintetici. In particolare l’aumento delle morti negli Usa è dovuto all’uso del fentanyl, un oppiaceo sintetico 50 volte più potente dell’eroina e facilmente reperibile su prescrizione medica. Cannabis, la droga più richiesta - La cannabis resta la droga più richiesta nel mondo con 188 milioni di consumatori. In diversi Paesi è legalizzata o tollerata. In totale - conclude il rapporto - fanno uso di droghe circa 271 milioni di persone, pari al 5,5% della popolazione globale di età compresa tra i 15 e i 64 anni, mentre si stima che 35 milioni di persone soffrano di disturbi legati all’uso di stupefacenti. Libia. Oltre venti persone morte di stenti in un Centro di detenzione per migranti Gazzetta del Mezzogiorno, 1 luglio 2019 I sopravvissuti accusano l’Onu di non aver ascoltato le ripetute richieste d’aiuto ma l’Unhcr nega: “Non avevamo possibilità di accesso”. Rinchiusi per mesi, a centinaia, con un caldo soffocante, dentro hangar nel deserto della Libia occidentale pieni di vermi, spazzatura ed escrementi: abbandonati in queste condizioni, 22 migranti sono morti di malattia, di fame e sete da settembre. Non sono stati neanche sepolti perché mancano cimiteri per cristiani e i loro corpi sono stati ammassati in locali con l’aria condizionata o in frigoriferi. E ora i sopravvissuti e i loro avvocati accusano le agenzie umanitarie dell’Onu di aver “chiuso un occhio” davanti a quanto accadeva o di avere “risposto con troppa lentezza”. L’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, Unhcr, ha negato le accuse, affermando di non aver potuto accedere a certe parti del centro, gestito da una delle molte milizie libiche. Ma le testimonianze riferiscono che i detenuti a Zintan dovevano dividere ogni giorno un paio di secchi d’acqua fra tutti e che sopravvivevano a stento con un pasto a giorno. Il responsabile della struttura ha negato che vi sia stato alcun ostacolo all’accesso. Ma, a quanto risulta dal materiale giunto all’Associated Press, vi sarebbe stato del disaccordo tra l’Unhcr e altre agenzie circa le condizioni del centro. Ma si stima che siano almeno seimila quelli rinchiusi in decine di centri di detenzione gestiti da milizie accusate di ogni genere di abusi. A Zintan i migranti all’interno del centro di detenzione che sono stati contattati hanno accusato l’Unhcr di averli abbandonati. All’interno della struttura sono detenuti 700 africani, in maggioranza eritrei. Fino all’inizio di questo mese erano tenuti in un hangar. Successivamente sarebbero stati trasferiti in strutture più piccole, ma in condizioni altrettanto critiche. Iran. Detenuti curdi senza diritti, discriminati in carcere di Gianni Sartori notiziegeopolitiche.net, 1 luglio 2019 Arrestato e imprigionato nel luglio 2018 nel corso delle manifestazioni anti-regime, Alireza Shir-Moahammd-Ali è stato condannato a otto anni di carcere. Il 10 giugno due detenuti comuni condannati a morte (un assassino e un trafficante di droga, due persone oltremodo ricattabili) lo hanno aggredito e colpito con una quarantina di pugnalate. Alireza, insieme ad un altro detenuto politico (Barzan Mohammadi, a sua volta ferito dai due) era in sciopero della fame per chiedere di essere detenuto in un reparto separato. Anche l’anarchico Soheil Arabi, ugualmente in sciopero della fame e recentemente ricoverato in ospedale, dove si teme venga sottoposto all’alimentazione forzata, era stato ripetutamente percosso da prigionieri comuni. Le aggressioni sarebbero state commissionate - e coperte - dalle autorità carcerarie. Al momento dei fatti nessuna guardia era presente nel reparto e i telefoni risultavano tutti disattivati. Il 24 giugno la condanna a morte per Soghra Khalili (36 anni, madre di due figli) è stata confermata. La donna, curda, si trova rinchiusa nella prigione di Danandaj nel Kurdistan iraniano (Rojhelat). L’inizio della sua detenzione risale al giugno 2012. La colpa, secondo i giudici, aver ucciso l’uomo che voleva violentarla. Il marito, Omid Badri, ha dichiarato: che “La condanna alla pena capitale risale al 2015, ma l’omicidio commesso da mia moglie era per difendere la sua dignità. Quell’uomo l’aveva molestata in continuazione, in maniera assillante, finché lei non ne ha potuto più. Tutti gli abitanti del nostro villaggio sanno bene che quella persona, Ali, aveva ugualmente molestato molte altre donne sposate”. Forse ci sarebbe una possibile via d’uscita, ossia versare quello che viene definito “il prezzo del sangue”, ma la famiglia di Soghra non è in grado di pagare e per questo, ha spiegato suo marito “abbiamo bisogno dell’aiuto di persone generose”. Al momento sono almeno 89 le donne impiccate durante il mandato di Rohani. L’ultima è stata Fatemeh Nassiri, il 19 giugno 2019 nel carcere di Gohardasht. Come in Turchia, anche in Iran i curdi sono sottoposti a discriminazioni e vedono i loro diritti religiosi, culturali ed economici, regolarmente violati. Sono soprattutto le minoranze religiose, principalmente quelle curde, che subiscono misure atte a isolarle ed emarginarle. Inoltre i curdi dell’Iran (circa 12 milioni) vengono discriminati in ambito lavorativo, abitativo e politico Cina. Detenuti della setta Falun Gong uccisi per espiantare gli organi di Alessandra Colarizi Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2019 È la conclusione a cui è giunto il China Tribunal, organo indipendente istituito a Londra lo scorso anno per accertare l’attendibilità delle rassicurazioni con cui dal 2015 Pechino sostiene di aver bandito il prelievo degli organi dai condannati. L’espianto di organi ai detenuti della Falun Gong continua tutt’oggi. È la conclusione a cui è giunto il China Tribunal, organo indipendente istituito a Londra lo scorso anno per accertare l’attendibilità delle rassicurazioni con cui dal 2015 Pechino sostiene di aver bandito il prelievo degli organi dai condannati. Il panel di esperti diretto da Sir Geoffrey Nice QC, ex pubblico ministero del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, ha dichiarato di aver raccolto sufficienti elementi per confermare all’unanimità l’utilizzo sistematico degli espianti sui prigionieri di coscienza negli ultimi venti anni. Stando alle indagini - supportate a titolo gratuito da medici, testimoni e attivisti - non solo “non vi è alcuna prova che la pratica sia stata interrotta”. Il tribunale è persino convinto che le violazioni “stiano continuando su scala significativa”. Letteralmente: “la conclusione delle ricerche mostra che moltissime persone hanno perso la vita in modo indescrivibilmente orribile senza alcuna ragione, che altre potrebbero soffrire allo stesso modo e che tutti noi viviamo su un pianeta in cui estrema malvagità risiede nel potere di coloro che, per il momento, governano un paese con una delle più antiche civiltà a memoria d’uomo”. Citando in maniera esplicita il coinvolgimento di “organizzazioni e individui sostenuti dal governo” cinese, l’inchiesta individua nelle minoranze etniche e religiose la categoria sociale più colpita. Una menzione particolare viene dedicata alla Falun Gong, setta spirituale che unisce i precetti buddhisti alla meditazione e semplici esercizi di qigong, messa al bando da Pechino negli anni 90 a causa delle dirompente popolarità riscossa anche tra l’élite comunista. Secondo il tribunale, i praticanti della disciplina costituiscono la principale fonte di organi sul mercato nero. Meno chiara, invece, l’entità del coinvolgimento delle minoranze uigura, tibetana e cristiana, definite nel rapporto “vulnerabili”. Stando alle testimonianze rilasciate da uiguri e membri della Falun Gong, i detenuti vengono frequentemente sottoposti a visite mediche ed esami vari per accertarne lo stato di salute, sebbene non vi siano prove evidenti che i check-up siano funzionali agli espianti. Il prelievo degli organi è stato per anni associato al sistema dei laogai, campi di lavoro in cui venivano internati condannati per reati minori e prigionieri di coscienza - secondo varie fonti - sottoposti a tortura e rieducazione politica. Pechino ha formalmente abolito la pratica nel 2013, ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani ne denunciano la sopravvivenza sotto nuove forme. Il caso più eclatante è quello delle “scuole di formazione” introdotte in chiave anti-terrorismo nella regione islamica del Xinjiang, dove stime indipendenti ritengono siano rinchiusi oltre 1 milione di uiguri. Pur non disponendo di prove definitive a riguardo, il China Tribunal conferma il “rischio” che anche i musulmani dello Xinjiang finiscano vittima degli espianti. Quello dei prelievi forzati è un problema di vecchia data oltre la Muraglia. Per motivi di carattere religioso e culturale, nella Repubblica popolare, i donatori sono pochissimi, tanto che gli organi provenienti dai detenuti giustiziati hanno supplito per anni a circa due terzi delle operazioni. Sebbene la pratica sia stata ufficialmente vietata nel 2015, ad oggi non esiste ancora nessuna legge o regolamento che permetta di debellare completamente l’usanza. Secondo stime del tribunale di Londra, ogni anno in Cina avvengono fino a 90.000 trapianti, decisamente più di quanto sostenuto dalle fonti governative, nel 2016 ancora ferme a quota 10.000. Invitato dalla Pontifica Accademia delle Scienze a partecipare al summit contro il traffico di organi, nel febbraio 2017 l’ex ministro della Sanità Huang Jiefu, oggi a capo della Commissione per la Donazione degli Organi cinese, ha ammesso che - nonostante la “tolleranza zero” - la vastità della popolazione cinese è tale da motivare una parziale violazione dei divieti. Ciononostante, negli ultimi anni, gli sforzi messi in atto dalle autorità hanno portato a un incremento delle donazioni volontarie. Un fenomeno velocizzato dalla rivoluzione digitale intrapresa dal gigante asiatico. Stando al Washington Post, oltre 230mila persone risultano iscritte a un’app che attraverso Alipay mette in contatto donatori e destinatari compatibili. Rispondendo alle accuse del China Tribunal, l’ambasciata cinese oltremanica aveva dichiarato ancora in corso d’indagine che “il governo cinese segue sempre i principi guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul trapianto di organi umani e negli ultimi anni ha rafforzato la gestione del sistema. Speriamo che il popolo britannico non si lasci ingannare da voci infondate”. Sri Lanka. Reintrodotta la pena di morte. Per fini elettorali di Luigi Medici agcnews.eu, 1 luglio 2019 Il presidente dello Sri Lanka, Maithripala Sirisena, ha ripristinato la pena di morte; per l’opposizione lo ha fatto per aumentare le sue possibilità di successo nelle prossime elezioni. Un giorno dopo la reintroduzione della pena di morte in Sri Lanka, sono state confermate due esecuzioni che le autorità carcerarie hanno confermato, riporta Telesur. Il governo aveva assunto in precedenza due boia. I due sono stati scelti tra 100 candidati, di età compresa tra i 18 e i 45 anni, che attendevano con impazienza l’esecuzione di quattro prigionieri condannati per reati di droga. “Il processo di reclutamento è concluso e due sono stati selezionati. I due poi devono passare attraverso una formazione finale che durerà circa due settimane”, ha detto il portavoce delle carceri Thushara Upuldeniya. Sono passati più di 40 anni da quando è stata eseguita l’ultima esecuzione autorizzata dallo stato. La scorsa settimana, il presidente Maithripala Sirisena aveva annunciato la fine di una moratoria sulla pena di morte in vigore dal 1976, una mossa che, secondo gli analisti politici, avrebbe dovuto aumentare le sue possibilità di rielezione se si presentasse di nuovo alla fine dell’anno. “Ho firmato il documento per giustiziare i narcotrafficanti non con odio e crudeltà verso nessuno, ma per salvare la nazione e la generazione futura dalla minaccia della droga, che è la nostra peggiore catastrofe sociale”, ha detto Sirisena. Un portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, Unodc, ha detto che le convenzioni internazionali sul controllo della droga non possono essere usate per giustificare l’uso della pena di morte solo per i reati legati alla droga. “L’applicazione della pena di morte può anche ostacolare la cooperazione internazionale nella lotta contro il traffico di droga, poiché ci sono leggi nazionali che impediscono lo scambio di informazioni e l’estradizione con paesi che possono imporre la pena capitale per i reati in questione”, ha detto l’ufficio del portavoce dell’Unodc. I sudanesi sfidano i militari e le pallottole. “Manifesteremo finché non andranno via” di Giordano Stabile La Stampa, 1 luglio 2019 Manca appena mezz’ora al grande appuntamento, alla “marcia del milione” organizzata dall’opposizione sudanese. È mezzogiorno e mezzo e i quartieri centrali di Khartoum sembrano ancora addormentati, mentre sulle grandi vie di scorrimento il traffico si è diradato all’improvviso. Attorno, nelle stradine alberate e polverose, fervono i preparativi. Ragazzini sbucano dai cortili e cominciano ad ammucchiare pietre, tronchi, per bloccare l’accesso alle auto. Nelle moschee la preghiera di mezzogiorno sta per finire. Di colpo si formano colonne di gente, spuntano cartelli, bandiere. I manifestanti si mettono in marcia, coordinati. Tutte le colonne confluiscono verso la grande arteria di Africa Road. Diventano un fiume e gli slogan scanditi battono l’aria rovente, che le nubi rendono ancora più spessa. È l’urlo del Sudan, un tuono di rabbia e indignazione rimasto soffocato da quel maledetto 3 giugno, quando i berretti rossi del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”, hanno massacrato centosette persone al sit-in davanti al quartier generale delle Forze armate. Ora gridano tutti in coro e camminano sempre più veloci, quasi in corsa. “Yasqot Hemeti”, “via Hemeti”, “yasqot taleta”, “via anche il terzo”, dopo il dittatore Omar al-Bashir cacciato lo scorso 9 aprile, e dopo il suo successore Ibn Aoff, durato appena pochi giorni. Ci sono tanti giovani, e donne coi loro veli colorati. Più il fiume si ingrossa, più prende coraggio. La polizia agli incroci resta immobile, i berretti rossi per ora non si vedono. Per raggiungere la testa del corteo bisogna accelerare in macchina attraverso le strade sterrate nei quartieri di Burri e Sahafa. Le signore anziane stanno sedute davanti alle case, fanno segno di vittoria con due dita. Khartoum è una delle città più recenti, in Medio Oriente, con appena due secoli di storia, ma queste strade appaiono battute dal tempo, modellate dalle piene del Nilo che hanno alzato il livello della careggiata fino al livello delle finestre degli edifici più antichi. Quando si sbuca a metà di Africa Road la vista è impressionante. Dritta, con otto corsie in totale, corre per chilometri ed è stracolma. Il fiume ora si muove lento. I fuoristrada delle forze di sicurezza - i berretti rossi, ovvero le Rapid Support Forces, e gli uomini dell’Intelligence, o Niss - se ne stanno appartati ma incutono timore. Sono armati con mitragliatrici, lanciarazzi, persino cannoni da 105 millimetri. “Non ci fanno paura”, dice Mohammed, 28 anni, impiegato in una compagnia telefonica. Era al sit-in quel 3 di giugno, ha visto i suoi amici cadere sotto le pallottole: “Correvo, mi giravo, e non c’erano più: ho vissuto tutta la mia vita sotto una dittatura, non me ne starò chiuso in casa, marceremo finché i militari non se andranno”. Lo slogan è martellante. “Madanìa, madanìa”, cioè governo civile, governo civile. È la richiesta che l’opposizione, riunita nelle Forze per la liberà e il cambiamento, ribadisce dalla deposizione di Al-Bashir. Finora ha sbattuto contro il muro di gomma e di pallottole della giunta che ha sostituito il raiss. L’ultima proposta, mediata dall’Unione africana e dall’Etiopia, è stata bocciata dai militari sabato. Prevedeva un Consiglio presidenziale di 15 membri e un’Assemblea di 300, che sarebbe stata dominata dall’opposizione. È un movimento composito, dagli islamici ai comunisti, coagulato attorno ad gruppi di attivisti della società civile, come la Sudanese professionals association. La giunta ha cercato di tagliarle le gambe con il blocco dei social media, strumento principale di organizzazione, e poi con il bagno di sangue del 3 giugno. Sabato era stato le stesso “Hemeti” a lanciare moniti e minacce. Il generale numero due della giunta, già protagonista della repressione in Darfour con i suoi “Diavoli a cavallo”, poi trasformati nei “berretti rossi”, aveva avvertito che non avrebbe “tollerato nessun atto di vandalismo” e che ogni vittima sarebbe rimasta sulla “coscienza dell’opposizione”. Intimidazioni, per convincere la gente a restare a casa. La marcia del milione ieri le ha spazzate via. Nel primo pomeriggio Africa Road ribolle. Il grosso del corteo si è ammassato davanti alla casa di uno dei “martiri” del 3 giugno. Senza WhatsApp e Messanger, le notizie circolano attraverso chiamate sui telefonini. I morti di ieri sarebbero cinque, tra loro un trentacinquenne colpito al petto nel quartiere di Atbara. I militari diffondono anche fake news, come quella di un cecchino che avrebbe “colpito tre uomini delle Rapid Support Forces”. Un’invenzione per far degenerare la protesta, mentre colonne di fuoristrada bloccano il corteo primi che si avvicini troppo al quartiere generale dell’esercito. Il generale Dagalo, “Hemeti”, non vuole però forzare la mano. Come spiega un fonte locale, “può contare sull’appoggio di Arabia Saudita e degli Emirati arabi, ma non può metterli troppo in imbarazzo”. La sera cala presto, verso le sei e mezza. Le strade si svuotano. I sudanesi hanno dimostrato di credere ancora nella loro rivoluzione. Ora vogliono assaggiare il frutto più dolce, “hurriya”, libertà.