Donne incinte in carcere. Antigone: “la proposta leghista è un obbrobrio giuridico” pressenza.com, 19 luglio 2019 “La proposta di emendamento al decreto sicurezza bis, presentato dalla Lega, è un vero e proprio obbrobrio giuridico”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, in riferimento alla proposta di abrogare la parte dell’articolo 146 del codice penale che include le donne incinte e le madri di bambini di età inferiore a un anno tra i soggetti per i quali è previsto il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. “Le leggi si basano su principi che non si possono andare a modificare per puro spirito propagandistico, ancor di più quando riguardano solo una specifica fetta di popolazione, in questo caso le donne Rom - prosegue Gonnella. Posto che i leghisti non possono (almeno fino a quando resiste lo stato costituzionale di diritto) scrivere che solo le donne rom, qualora incinte, devono restare in galera, mentre le altre possono uscire, allora hanno proposto che tutte stiano dentro. Alla faccia della cultura della famiglia, del rispetto dei bimbi che nasceranno, dei rischi per la salute. Permettere il differimento della pena alle donne incinte non è un favore, ma il riconoscimento di un diritto: quello alla maternità e quello alla salute, della donna incinta e del futuro nascituro. La gestione della sanità in carcere è complessa e in molti casi presenta gravi criticità anche dinanzi a problemi di salute che all’esterno sono trattati in maniera routinaria. Come si può pensare che si possa garantire una maternità sicura all’interno di un istituto di pena?”. “Questo emendamento inoltre - prosegue il Presidente di Antigone - sottolinea come al decreto sicurezza bis manchino quei caratteri di necessità e urgenza che la Costituzione determina per l’adozione di questi provvedimenti. È il momento che tutti si oppongano in Parlamento. L’emendamento è palesemente in contrasto agli articoli 27 e 32 della Costituzione. È obbrobrioso - conclude Gonnella - e ci fa andare indietro rispetto ai regolamenti del regime fascista”. Le idee di Sciascia e la giustizia ancora tradita di Carlo Nordio Il Mattino, 19 luglio 2019 La città di Racalmuto onora oggi Leonardo Sciascia nel trentennale della morte, con un dibattito sulla Giustizia presso la Fondazione che reca il suo nome. Sappiamo quante energie fisiche e intellettuali l’illustre scrittore abbia dedicato a questo problema. Come ricordo riverente, vorremmo immaginare cosa ne penserebbe oggi, dopo la caduta della prima repubblica e il succedersi di tante riforme. Crediamo che ne resterebbe sconfortato, anche se la sua desolazione sarebbe mitigata dalla sia ironia e dal suo scetticismo. Sciascia conosceva troppo bene la natura umana per illudersi che potesse rapidamente evolversi da uno stato di supina subordinazione ai luoghi comuni a quello di una mente critica autonoma e consapevole. E comunque, da autentico libertario e riformatore, manterrebbe intatto il vigore polemico per denunciare la deriva civile verso la quale stiamo scivolando. Resta il fatto che, sempre in suo onore, un piccolo bilancio va fatto dell’evoluzione giudiziaria di questi ultimi anni. Non tutto è stato negativo, e almeno una battaglia del Maestro è stata vinta a metà. Per merito suo, e degli amici radicali che in questi decenni hanno lottato per realizzarne i sogni, quantomeno il sistema carcerario è parzialmente migliorato. È migliorato nella legislazione, che pur nel consueto bustrofedico andirivieni tra provvedimenti indulgenziali e inasprimenti di pene ha mitigato il rigore della prigione con un sistema di pene alternative volte alla rieducazione e al recupero del condannato, evitando di esporlo ai trattamenti degradanti dei decenni passati. Ed è migliorato nelle strutture, perché malgrado l’ esiguità delle risorse grandi progressi sono stati ottenuti nell’igiene, negli spazi usufruibili e più in generale nella gestione e nell’assistenza dei detenuti. Non è molto, ma non è neanche poco. Detto questo, il resto è silenzio. O meglio, è deplorevole regressione incivile. Quando Sciascia morì, il mondo giudiziario auspicava che, con l’introduzione del nuovo codice Vassalli, (cosiddetto alla Perry Mason) i processi sarebbero stati più rapidi, le pene più equilibrate e più certe, la carcerazione preventiva più ridotta, le garanzie difensive aumentate, e i magistrati più responsabilizzati. Invece le cose sono peggiorate. Non è stata introdotta nessuna delle caratteristiche tipiche che fanno funzionare il codice accusatorio in tutti i paesi di cultura anglosassone dove è stato adottato: non la discrezionalità dell’azione penale, surrogata oggi dall’insindacabile arbitrio dei singoli procuratori; non la separazione delle carriere, che consente ancora ai pubblici ministeri di decidere sulla sorte professionale dei giudici e viceversa; non la differenza tra la giuria (che valuta il fatto) e il giudice (che regola il dibattimento), con la conseguenza che verdetto e sentenza sono affidati spesso a una singola toga, le cui opinioni politiche costituiscono la prima curiosità e la principale preoccupazione dell’imputato; non la riforma del pubblico ministero, unico esempio al mondo di enorme potere senza alcuna responsabilità; non la depenalizzazione e l’accelerazione dei processi, aggravata da una sciagurata riforma sulla prescrizione che ne prolungherà a dismisura la durata; e infine nemmeno la riforma del Csm, che in questi giorni, soccombendo sotto l’incalzare delle intercettazioni, sta perdendo i suoi componenti come i dieci piccoli indiani dell’omonimo giallo di Agatha Christie, guarda caso uccisi da un giudice. Ed è questa forse la circostanza che addolorerebbe di più il nostro Maestro. Assistere alla vergognosa devastazione dei più elementari diritti civili attraverso la captazione invasiva delle conversazioni altrui, che dopo una sapiente selezione e un’ arbitraria mutilazione vengono cedute a giornali amici, in totale dispregio dell’art 15 della Costituzione. Questa intraprendente strategia non ha vulnerato - e sta vulnerando - solo i politici. Sta aggredendo la stessa magistratura minandone la credibilità con effetti funesti per la democrazia, perché il cittadino può esautorare il politico di cui perda la fiducia, ma non può estromettere un magistrato che domani potrà sbatterlo in galera. Ma questo Leonardo Sciascia lo aveva previsto, anche se non se ne era rassegnato. Ed è per tale ragione che la sua battaglia, anche se fosse perduta in partenza, o forse proprio questo, è sempre attuale ed ancora più nobile. Csm, la riforma demagogica di Armando Spataro La Repubblica, 19 luglio 2019 Il ministro Bonafede ha presentato come salvifico il disegno di legge sulla riforma del processo civile e penale, nonché dell’ordinamento giudiziario, del Csm e di altro ancora. Nel marzo del 2011, il ministro della Giustizia Alfano ed il premier Berlusconi presentarono alla stampa la “riforma epocale” della parte della Costituzione dedicata alla magistratura e, per spiegarne gli effetti previsti, utilizzarono un paio di vignette raffiguranti la bilancia simbolo della Giustizia rispettivamente prima e dopo la “cura”, cioè con piatti prima disallineati e poi perfettamente simmetrici. Quel progetto di riforma finì fortunatamente su un binario morto. Oggi il ministro Bonafede non utilizza vignette, ma ha egualmente presentato come salvifico il disegno di legge sulla riforma del processo civile e penale, nonché dell’ordinamento giudiziario, del Csm e di altro ancora. Il testo contiene certamente alcune scelte condivisibili, ma anche previsioni che - se approvate - potrebbero non solo aggravare i problemi che si intendono risolvere, ma anche scardinare il nostro sistema giudiziario. Difficile immaginarne di peggiori come, ad esempio, quelle in tema di riforma del Csm. Rispetto al quale, anziché valutare modifiche del sistema elettorale già oggetto di precedenti e autorevoli proposte, si prevede un complicato meccanismo per la scelta dei suoi componenti, che peraltro tornano ad essere 30 (20 togati e 10 laici) ossia sei in più di quelli attuali. Infatti, aggirando quanto previsto dall’articolo 104 della Costituzione - secondo cui i togati sono eletti da tutti i magistrati ordinari - si prevede la costituzione nel territorio nazionale di venti collegi, in cui ciascun magistrato in possesso dei requisiti può candidarsi con il sostegno di dieci colleghi presentatori, mentre ogni elettore potrà esprimere una sola preferenza. Dopo lo scrutinio vengono dichiarati “eletti” i primi cinque candidati che abbiano ottenuto il maggiore numero di voti in ciascun collegio con almeno il cinque per cento di quelli validi espressi. Ma come fa il disegno di legge a definire ‘eletti’ 100 candidati se i togati membri del Csm sono venti? Semplice, anzi comico: tra questi cento se ne sorteggiano - appunto - venti, uno per collegio. Dunque il sorteggio vietato dalla Carta rientra dalla finestra. Altra domanda: ma poiché i togati devono essere rappresentativi di tutte le categorie con almeno 2 addetti a funzioni di legittimità presso la Cassazione, 4 pubblici ministeri e 10 giudici di merito per un totale di 16 (più altri 4 secondo la sorte), cosa accade se la dea bendata e un po’ distratta, deposta la bilancia, pesca male e non tira fuori i numeri sufficienti per una delle quote di categoria? Semplice, anzi contraddittorio e difficile da spiegare: si ritorna ai voti e viene designato componente del Csm il magistrato appartenente alla categoria esclusa che abbia ricevuto la percentuale più alta di consensi nel collegio di appartenenza, il quale subentra a quello sorteggiato che ha ottenuto la più bassa percentuale di voti nel proprio collegio. Insomma, si prevede un vero e proprio “ircocervo” (efficace definizione di Nello Rossi) attraverso la irragionevole successione dei metodi di “voto - sorteggio - voto percentualizzato”, dimenticando che la rappresentatività dell’intera magistratura che la Costituzione prevede per i componenti del Csm non può in alcun modo essere salvaguardata con l’artificio di definire `eletti’ coloro che costituirebbero solo una platea da cui estrarre a sorte i membri del Csm, i quali potrebbero essere persino i meno votati. Appare meritevole di riflessione anche la previsione secondo cui i componenti laici del Csm non potranno essere coloro che svolgano o nei 5 anni precedenti abbiano svolto ruoli politici o amministrativi di fonte elettiva: forse sarebbe stato sufficiente stabilire l’incompatibilità per chi sia o sia stato membro del Governo nazionale. Eccessivamente penalizzante è invece la prevista impossibilità, pur condivisa da molti magistrati, di chi abbia fatto parte del Csm di proporre domanda per un ufficio direttivo, ad esempio procuratore o presidente di tribunale, nei 4 anni successivi alla cessazione del suo mandato: essere stato componente del Csm, insomma, diventa disonorevole e produce una presunzione di contagio quadriennale. Così vuole il populismo dominante nell’ottica di depotenziare le tanto vituperate correnti dell’Anm, ritenute origine dei gravi vizi che affliggono la magistratura. Queste sono soltanto alcune delle tremende conseguenze del caso Palamara-Lotti-Ferri e i principali contenuti di un disegno di legge che presenta finalità mortificanti e punitive nei confronti dei magistrati. Al via il fondo per liberare le donne prigioniere degli uomini violenti di Liana Milella La Repubblica, 19 luglio 2019 La ministra leghista Bongiorno: soldi perché non siano ostaggi, contro i maschi aggressivi le leggi non bastano. Il sottosegretario 5S Spadafora: 10 milioni in più a centri e case rifugio. La Finanza vigilerà su come vengono spesi. Trentasette milioni di euro contro la violenza degli uomini a danno delle donne. Non solo per potenziare i centri e le case rifugio, 338 in Italia, ma anche per garantire task forze di polizia specifiche e sensibilizzate sul tema, quindi indagini più rapide per spedire in carcere gli autori delle discriminazioni prima, e della furia omicida poi. Giulia Bongiorno e Vincenzo Spadafora - ministra della Pubblica amministrazione la prima e sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alle Pari opportunità il secondo - siedono l’una accanto all’altro per presentare a Palazzo Chigi il “Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne” fino al 2020. Un appuntamento anticipato da Repubblica il 9 luglio, e saltato in quei giorni proprio per le polemiche leghiste contro l’intervista di Spadafora, colpevole di aver criticato il comportamento del vicepremier Matteo Salvini verso le donne, a partire dalle sue dichiarazioni contro la comandante Carola. Ma stavolta Bongiorno e Spadafora - leghista la prima, grillino il secondo - bloccano possibili domande politiche imbarazzanti. Si parla solo del piano e savoir faire vuole che inizi Bongiorno. Che mette in rapporto il piano antiviolenza con il voto definitivo di 24 ore prima al Senato sulle norme per punire, in modo molto più severo e con l’introduzione di nuovi reati, stupri, stalking e pubblicazioni oscene. “Il Codice rosso è un mattone fondamentale, ma non basta - dice Bongiorno - perché la violenza non si combatte solo con le leggi”. E fa l’esempio dei fondi ribattezzati “anti ostaggio” messi a disposizione da Spadafora “per gli sportelli di ascolto sulla discriminazione”. Spiega la ministra - alle spalle la lunga esperienza del centro Doppia difesa con Michelle Hunziker - che “molte donne vittime della violenza dei mariti sono costrette a restare a casa perché sono senza lavoro, quindi restano ostaggio dei mariti e dei loro comportamenti. I fondi consentiranno loro di allontanarsi senza andare nelle case rifugio”. Spadafora annuisce e illustra il suo piano sfogliando le slide. Parte dai fondi in più, che considera il punto di forza. Trentasette milioni di euro per il 2019 rispetto ai 31 milioni dell’anno precedente. Il sottosegretario parla di “un’azione concreta a tutela delle donne perché fondata su risorse certe”, disegna “un piano flessibile che verrà aggiornato nei prossimi mesi dalla cabina di regia”. Previene la possibile critica sul controllo dei fondi e annuncia la nascita, in collaborazione con la Finanza, di “una task force per assicurare la trasparenza e il corretto impiego dei finanziamenti”. Spadafora entra nei dettagli, parla dei “10 milioni in più” per i centri e le case rifugio. Ma anche dei fondi per “le campagne comunicative e informative rivolte soprattutto ai più giovani, per evitare l’odio che spesso in rete viene fomentato proprio sugli stereotipi di genere”. Il piano prevede anche un milione di euro distribuito tra le forze di polizia per la formazione. E Spadafora insiste che “non sono fondi una tantum”, ma destinati a diventare stabili. Dalle Pari opportunità partiranno anche 1,7 milioni per gli altri ministeri: 430mila euro andranno al Viminale per dar vita a un sistema informativo integrato sulla violenza, mentre la Giustizia si occuperà di aggiornare le toghe sui reati contro le donne per accelerare inchieste e processi. Un modo per liberare le donne prima possibile, e definitivamente. “Botte e insulti, rabbia e sofferenza. La giustizia s’è mangiata la mia vita” di Luca Rocca Il Tempo, 19 luglio 2019 Delitto Borsellino. Il racconto choc di Murana, 18 anni dietro le sbarre da innocente. La sua vita è stata polverizzata dalle bugie di Vincenzo Scarantino, il falso pentito della strage di via D’Amelio a cui pm e giudici diedero incredibilmente credito per anni. È stata annientata da quei 18 anni trascorsi in carcere ingiustamente, e solo perché il “picciotto” della Guadagna di Palermo venne ben istruito, ipotizzano oggi i magistrati, per accusare degli innocenti. E così oggi Gaetano Murana, che nonostante le sofferenze, i pestaggi e le angherie subìte non prova rabbia per Scarantino, ma se mai per chi lo ha obbligato a mentire, non può non dire che la sua vita “se l’è mangiata la giustizia”. A 27 anni dalla mattanza che ci portò via Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta, quella bomba in via D’Amelio, infatti, costò cara anche a lui, che si è visto riconoscere la sua innocenza solo dopo un processo di revisione a cui si è giunti grazie alla tenacia del suo legale, Rosalba Di Gregorio. Ed è stato Murana, ieri, a sfogarsi ripercorrendo il suo calvario causato, questa è la tesi dei magistrati, da un depistaggio per il quale oggi sono sotto processo tre dei poliziotti che gestirono il falso pentito, e sotto indagine due dei pm nisseni dell’epoca che ebbero in mano l’inchiesta. L’inizio delle fine data 18 luglio 1994. Murana quella mattina si stava recando al lavoro come ogni giorno, quando all’improvviso una Giulietta lo bloccò. “Capii che erano agenti, pensavo mi volessero multare perché avevo preso un controsenso”, afferma, ma mai avrebbe potuto immaginare che il fermo era collegato al pentimento di Scarantino, di cui aveva sentito parlare in tv proprio la sera prima. I poliziotti “mi invitarono a salire sulla loro auto per portarmi in questura”, racconta Murana, “ero convinto si trattasse di una questione di pochi minuti, ma poi accesero la sirena, fecero un testacoda e indossarono i passamontagna. Non capii più niente. Arrivati in questura, iniziò lo “spettacolo”. Iniziarono a picchiarmi e a darmele di santa ragione tino a farmi svenire. Mi hanno massacrato di botte. Io chiedevo loro il perché, ma arrivavano solo sputi e calci. E c’era anche una donna tra loro. Mi diede un calcio alla schiena che mi stese e mi sputò addosso. Io ero a terra, rantolavo. Poi mi sbatterono in camera di sicurezza”. Un barlume di speranza si fece strada nella testa di Murana solo quando la sera seppe che lo accusavano di aver preso parte alla strage di via D’Amelio. Consapevole di non saperne nulla, pensò a uno scambio di persona, e dunque a un’imminente liberazione. E invece no, perché Scarantino, lui ne venne informato solo il giorno dopo, lo aveva accusato di aver preso parte al piano per ammazzare Borsellino, “bonificando” e tenendo sotto controllo via D’Amelio. Eppure Murana non ce l’ha col falso pentito: “È una vittima come me - afferma - non voleva accusarmi. Dice di essere stato costretto da magistrati e poliziotti”. Ma certe cose non potrà mai cancellarle dalla mente: “Mi portarono nel carcere di Pianosa, e lì subii torture di ogni genere, minacce, violenze. Nel cibo c’erano vermi, scarafaggi e persino preservativi usati. Davano legnate senza motivo”. Una vita annullata. “Non odio nessuno, non provo rancore, mi sono molto avvicinato alla fede, per fortuna, ma niente e nessuno potrà ripagarmi questi 18 anni trascorsi in carcere, da innocente. Non ho visto crescere mio figlio, l’ho potuto vedere solo attraverso un vetro. Mia moglie è sulla sedia a rotelle per un ictus cerebrale. E sono senza un lavoro. Questa è una non-vita”, confessa, per poi aggiungere: “Quando, durante il processo, guardo in faccia i tre poliziotti sotto accusa, loro abbassano gli occhi. Non capisco il perché”. Quanto ai due pm indagati, Murana ha poche parole: “Se hanno qualcosa da dire, lo facciano”. Infine conclude: “A me dispiace molto per quello che è successo al dottor Borsellino. Provo grande stima per i suoi figli, e ringrazio Fiammetta per le parole che in più occasioni ha avuto nei nostri confronti”. Figli piccoli, con la revoca misura alternativa no allo stop triennale per i domiciliari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2019 Corte costituzionale - Sentenze 18 luglio 2019 n. 187 e 188. In nome del “superiore interesse del minore”, la Corte costituzionale, sentenza n. 187di ieri, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater (co. 1, 2 e 3) dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 354/1975) nella parte in cui vieta per la durata di tre anni la “detenzione domiciliare speciale” per il condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una delle misure alternative. Prevista dall’art. 47-quinquies della stessa legge, la “detenzione domiciliare speciale” è rivolta alle madri (e padri, in caso di mancata disponibilità delle prime) di bambini di età inferiore ai dieci anni e consente di espiare la pena a casa (o in altro luogo), anche nei casi di condanne dai quattro anni in su, a patto però che almeno un terzo della pena (o 15 anni per l’ergastolo) sia stato già scontato. La Consulta, “in via consequenziale”, ha poi dichiarato incostituzionale anche il divieto - pure stabilito dal combinato disposto delle disposizioni censurate - di concessione della detenzione domiciliare “ordinaria” (prevista per madri e padri di prole inferiore a dieci anni condannati a pene detentive non superiori a quattro anni, anche se costituenti residuo di maggior pena) nel triennio successivo alla revoca di una delle misure alternative. Tale detenzione infatti, rileva la Corte, “non potrebbe essere assoggettata a una disciplina deteriore rispetto a quella applicabile per condannati a pene superiori ai quattro anni, cui si rivolge la disciplina della detenzione domiciliare speciale”. Sempre che, e questo in entrambi le ipotesi, “non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti”. La prima sezione penale della Cassazione aveva rimesso la questione al Giudice delle leggi dopo essere stata investita del ricorso contro un decreto del Presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano che aveva pronunciato l’inammissibilità dell’istanza di accedere alla misura della detenzione domiciliare speciale avanzata da un detenuto, condannato a 21 anni, padre di un bambino sotto i dieci anni (la cui madre era nell’impossibilità di prendersene cura). Il ricorrente, infatti, aveva subito la revoca della misura alternativa della semilibertà, e l’istanza da questi formulata - un anno e otto mesi più tardi - era stata dichiarata inammissibile “esclusivamente sulla scorta del mancato decorso del termine triennale”. La Consulta nel dichiarare fondata la questione ricorda che alla base dell’intera giurisprudenza costituzionale relativa, da un lato, alla detenzione domiciliare “ordinaria” per esigenza di cura dei minori e, dall’altro, alla detenzione domiciliare speciale, sta il principio per cui “affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata in concreto e non già collegata ad indici presuntivi”. Tale principio, dunque, prosegue la decisione, “non può che condurre a ritenere costituzionalmente illegittimo anche l’automatismo preclusivo derivante dal combinato disposto delle disposizioni censurate”. L’assoluta impossibilità per il condannato, madre o padre, di accedere al beneficio della detenzione domiciliare speciale prima che sia decorso un triennio dalla revoca di una precedente misura alternativa, infatti, “sacrifica a priori - e per l’arco temporale di un intero triennio, che come osserva giustamente il rimettente è un periodo di tempo lunghissimo nella vita di un bambino - l’interesse di quest’ultimo a vivere un rapporto quotidiano con almeno uno dei genitori, precludendo al giudice ogni bilanciamento tra tale basilare interesse e le esigenze di tutela della società rispetto alla concreta pericolosità del condannato”. Del resto, conclude la Corte, “il venir meno dell’automatismo censurato non esclude che le esigenze di tutela della società possano e debbano trovare adeguata considerazione in sede di valutazione, da parte del tribunale di sorveglianza, dei presupposti della concessione della misura”. La detenzione domiciliare speciale deve infatti essere negata in presenza di “un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti” da parte del condannato. Per cui laddove il tribunale giunga alla conclusione che un tale pericolo sussista, “l’interesse del minore dovrà essere necessariamente salvaguardato con strumenti alternativi rispetto al ristabilimento della convivenza con il genitore, quale - ad esempio - l’affidamento ad altro nucleo familiare idoneo”. La Consulta (sentenza 188 sempre di ieri) ha invece ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata sempre dalla Cassazione, dell’art. 4-bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, che limita per determinati reati giudicati molto gravi la concessione dei benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, nella parte in cui non esclude dai delitti “ostativi” il sequestro di persona a scopo di estorsione, “ove per lo stesso sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità”. Per la Corte infatti “lieve entità del fatto, da una parte, e valutazione legislativa di gravità direttamente connessa al titolo di reato per il quale è condanna, dall’altra, sono aspetti che non è congruo porre in comparazione, ai fini perseguiti dal rimettente”. “I corrotti non vanno trattati come i mafiosi”. Lo dice la Cassazione di Errico Novi Il Dubbio, 19 luglio 2019 La Suprema Corte contro lo stop alle misure alternative. Si può con una certa soddisfazione notare come il circuito fra dottrina e Corti superiori funzioni bene. E cioè come vi sia un dibattito giuridico molto dinamico attorno a temi di diritto che la politica tratta a volte con una certa sbrigatività. Lo si può dire a proposito di un’ordinanza, la numero 1992 del 2019, emessa lo scorso 18 giugno dalla Cassazione e che ieri è stata depositata. Si tratta della decisione che ha rimesso d’ufficio alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge “spazza corrotti” per la parte in cui la riforma preclude l’accesso alle misure alternative persino per il peculato. Da ieri sappiamo che le ragioni della scelta compiuta dalla Cassazione sono ancora più sorprendenti, e incoraggianti, di quanto si fosse inteso. Prima di tutto perché hanno a che vedere con la violazione non del principio di irretroattività ma del principio di ragionevolezza, e silurano dunque le nuove norme in assoluto, non solo rispetto alla loro applicabilità ai reati commessi prima che la riforma entrasse in vigore. Inoltre le motivazioni dell’ordinanza si agganciano addirittura alle tesi affermate dall’accademia negli Stati generali dell’esecuzione penale. L’irragionevolezza - Certo, a essere presa di mira è l’ostatività ex articolo 4 bis estesa a una fattispecie specifica qual è il peculato. Ma la Cassazione afferma la generale necessità di un “fondamento logico e criminologico” delle “scelte legislative” che riguardano la sanzione dei comportamenti illeciti. In sostanza, assimilare i “corrotti” a mafiosi e terroristi è, per la Suprema corte, irragionevole. Vi è quanto meno il sospetto che la “spazza corrotti” violi il principio costituzionale di ragionevolezza (come aveva già segnalato, con ordinanza analoga, la Corte d’appello di Palermo), ed è per questo che il giudice di legittimità ha deciso di rimettere la questione alla Consulta. Dopo l’udienza con cui proprio un mese fa, la prima sezione, presieduta da Giuseppe Santalucia e con Raffaello Magi relatore, aveva assunto la decisione depositata ieri, si era dato per scontato che l’avesse voluto affermare il principio di irretroattività. L’ordinanza infatti riguarda il caso di un condannato in via definitiva per peculato, Alberto Pascali, che si è visto negare la possibilità di chiedere la messa alla prova ed è stato costretto a valicare la soglia del carcere di Bollate. In particolare, la Cassazione è intervenuta sulla successiva scarcerazione di Pascali, ordinata l’ 8 marzo dalla gip di Como Luisa Lo Gatto, convinta della inapplicabilità della norma che estende l’articolo 4 bis ai reati di corruzione, peculato compreso, anche per le condotte precedenti l’entrata in vigore della “spazza corrotti”. A chiamare in causa la Suprema corte è stata la Procura di Como, che ha impugnato l’ordinanza della gip. Nella decisione depositata ieri dalla Cassazione ci sono aspetti di straordinario interesse. Senz’altro quello della probabile irragionevolezza della “spazza corrotti” nella parte in cui estende il 4 bis a reati come il peculato, e assimila così i “corrotti” a mafiosi e terroristi. Vizio energicamente denunciato nella memoria difensiva predisposta, per Pascali, dal professor Vittorio Manes e dall’avvocato Paolo Camporini. “In particolare la condotta di peculato”, afferma la Cassazione, “non appare contenere - fermo restando il suo comune disvalore - alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta realizzata senza uso di violenza o minaccia e difficilmente inquadrabile - sul piano della frequenza statistica - in contesti di criminalità organizzata”. In altre parole, non si può trattare il peculato come la mafia. Il carcere e la riforma - Non è finita qui. Perché nel ritenere irragionevole precludere l’accesso immediato, per i corrotti, a misure alternative come la messa alla prova, la Cassazione “resuscita”, per così dire, la riforma del carcere in realtà mai venuta alla luce. Lo fa con un omaggio ai principi di quella rivoluzione incompiuta, pure contenuti, sotto forma di delega, in una legge entrata in vigore: “Va segnalato come nella scorsa legislatura”, ricorda la Cassazione, “siano stati approvati in Parlamento più punti di legge delega - la n. 103 del 2017 (la riforma penale dell’ex ministro Orlando, ndr) - tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative, con ri-affidamento al giudice del compito di valutare la sussistenza delle condizioni di ammissione”. E, aggiunge la prima sezione persino con un certo “coraggio politico”, “il mancato esercizio, su tali aspetti, della delega, non ridimensiona la valenza obiettiva di una ampia convergenza di opinioni circa la necessaria riconsiderazione organica del sistema delle presunzioni, tradottasi”, appunto, “in legge nel 2017”. Nel sospettare l’incostituzionalità dell’estensione al peculato del regime ostativo ex articolo 4 bis, la Cassazione insomma si riconnette alla lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. Quanto meno rispetto alla necessità di affidare al giudice la valutazione dell’effettiva, persistente pericolosità del soggetto. Una rivoluzione nella rivoluzione. Che non potrà certo far vivere una riforma penitenziaria lasciata morire, ma che almeno può eliminare le parti più irragionevoli della spazza corrotti. “Spazza-corrotti”, alla Consulta il peculato tra i reati ostativi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2019 Corte di cassazione - Sentenza 18 luglio 2019 n. 31853. La Cassazione (sentenza n. 31853) deposita le motivazioni del rinvio (nel giugno scorso) dello “Spazza-corrotti” alla Consulta. A finire sotto la lente della Corte costituzionale, questa volta, non è l’irretroattività in sé della legge n. 3 del 2019 (questione posta dalla Corte d’Appello di Lecce e dal Gup di Napoli), quanto piuttosto l’inserimento del “peculato” tra i reati “ostativi”. Quelli per i quali vige una presunzione di particolare pericolosità sociale che inibisce la concessione delle misure alternative alla detenzione, in assenza di collaborazione con la giustizia. La I Sezione penale redige una sentenza “manifesto” contro il costante ampliamento, negli anni, delle fattispecie di reato a cui sono state ricollegate “presunzioni legali di pericolosità”, con la conseguente progressiva riduzione dei “margini di apprezzamento” del giudice, ed il conseguente rischio di pregiudicare sia il “principio di individualizzazione” della pena che il “finalismo rieducativo” previsto dalla Costituzione. Il Gip di Como (in funzione di giudice dell’esecuzione) aveva accolto la domanda di sospensione della carcerazione disposta, nel febbraio del 2019, nei confronti di un amministratore definitivamente condannato per peculato. E ciò, nonostante il 31 gennaio fosse entrato in vigore lo Spazza-corrotti che bloccava le misure alternative alla detenzione. Per il Gip infatti si trattava di una innovazione normativa di natura sostanziale per cui andava applicato il principio di irretroattività della norma penale peggiorativa. Contro questa decisione ha proposto ricorso la Procura. Investita della questione, la Cassazione si è concentrata però su una diversa questione, e cioè: se l’inserimento del peculato tra i reati ostativi integri o meno una possibile lesione dei diritti costituzionali. E siccome le scelte relative al “bisogno di pena”, argomenta la Corte, sono per loro natura politiche, esse possono essere censurate solo se “trasmodino nella irragionevolezza o arbitrio”. Una valutazione, chiosa la decisione, che va fatta secondo “i dati di comune esperienza”. In questo senso, prosegue la Cassazione, “appare lecito dubitare del fondamento logico e criminologico di simile approdo nel caso del peculato”. Tale condotta, infatti, “per come configurata dal legislatore, non appare contenere - fermo restando il suo comune disvalore - alcuno dei connotati idonei a sostenere una accentuata e generalizzata considerazione di elevata pericolosità del suo autore, trattandosi di condotta di approfittamento, a fini di arricchimento personale, di una particolare condizione di fatto (il possesso di beni altrui per ragioni correlate al servizio) preesistente, realizzata ontologicamente senza uso di violenza o minaccia verso terzi e difficilmente inquadrabile - sul piano della frequenza statistica - in contesti di criminalità organizzata o evocativi di manifestazione condizionamenti omertosi”. E ancora più chiaramente: “la connotazione di pericolosità di “ogni” autore di simile condotta - che ben potrebbe risolversi in un’unica occasione di consumazione, isolata e marcatamente episodica - espressa dalla legge n. 3 del 2019 pare dunque contrastare con la mera osservazione delle caratteristiche obiettive del tipo legale, in chiave di dubbio circa il rispetto del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.”. Ma la decisione va oltre ricordando le recenti novelle, tutte in senso “accrescitivo”, subite da una norma nata per combattere la “pervasività di fenomeni criminali di stampo mafioso o terroristico” e che poi si è via via tramutata in una “norma contenitore” di fattispecie che di volta in volta si ritenevano particolarmente pericolose. “Se questo, argomenta la sentenza, non può comportare - di per sé solo - un dubbio di ragionevolezza, ci si deve comunque interrogare di volta in volta sui criteri adottati dal legislatore”. Non solo, la Cassazione ricorda che nella scorsa legislatura sono stati approvati dal Parlamento “più punti di legge delega (n. 103 del 23 giugno 2017) tendenti alla riconsiderazione complessiva delle preclusioni legali di pericolosità in sede di accesso alle misure alternative”. Un modello, quest’ultimo, già criticato a più riprese dalla Corte costituzionale che “nel percorso di ragionata diffidenza verso l’utilizzo di presunzioni legali di pericolosità, correlate alla commissione di uno specifico fatto di reato”, anche di recente (n. 149 del 2018), ha ribadito che la finalità rieducativa della pena è “ineliminabile” ed esige “valutazioni individualizzate”, rese impossibili da rigidi automatismi legali da ritenersi contrastanti con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena. Per tutte queste ragioni la Suprema corte ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 6, lett. B della legge n. 3 del 9 gennaio 2019, nella parte in cui inserisce all’art. 4-bis, comma della legge 26 luglio 1975 n. 354 il riferimento al delitto di peculato di cui all’art. 314, primo co, cod. pen. Revoca delle prestazioni assistenziali e previdenziali ai detenuti, gli atti alla Consulta viverefermo.it, 19 luglio 2019 La Corte costituzionale entrerà nel merito dell’art. 2 comma 58/63 della legge Fornero che revoca le prestazioni assistenziali e previdenziali nei confronti dei detenuti e condannati per reati gravi. La legge Fornero, tra le altre cose, dispone la revoca di alcune tipologie di prestazioni di cui siano titolari soggetti condannati per taluni reati di particolare allarme sociale. Con ordinanza del 16 Luglio u.s. il Giudice del Lavoro di Fermo, Dr.ssa Elena Saviano, ha accolto l’istanza di rimessione degli atti alla Consulta avanzata dall’Avv. Fabio Cassisa, del Foro di L’Aquila, in ordine alla normativa punitiva contenuta nella c.d. L. Fornero all’art. all’art. 2, comma 61. L’Avv. Fabio Cassisa, del Foro di L’Aquila, legale del ricorrente G.T., ha promosso un ricorso in materia previdenziale, contestando la legittimità costituzionale della normativa in questione, in forza della quale l’INPS nel Marzo del 2017 aveva prima sospeso e poi revocato la pensione di invalidità civile al proprio assistito, soggetto invalido al 100% e collaboratore di giustizia che attualmente sta scontando la pena in regime di detenzione domiciliare. Nello specifico, l’Avv. Cassisa ha sollevato ben 3 distinte questioni di legittimità costituzionale avverso la normativa inserita nella c.d. L. Fornero ed in particolare al comma 61 dell’art. 2, introdotto nell’ampia legge di riordino del regime pensionistico per via di un disegno di legge presentato dall’allora Deputato della Lega Nord Massimiliano Fedriga, attualmente Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia. Sotto un primo profilo la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Legale Cassisa con riferimento all’art. 25 Cost., in quanto la predetta normativa stabilendo la revoca delle prestazioni anche nei confronti di soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato al momento dell’entrata in vigore della legge, violerebbe il principio di irretroattività della legge penale, dovendo essere riconosciuta a tale sanzione amministrativa natura sostanzialmente penale ed essendo indubbio che il divieto di retroattività previsto dalla Costituzione si applichi anche alle sanzioni amministrative accessorie alla sanzione penale principale. Sotto altro profilo la questione di costituzionalità è stata posta con riferimento all’art. 38 Cost., in quanto nell’applicarsi indistintamente a tutti i condannati, senza distinguere tra detenuti e soggetti ammessi a scontare la pena in regime alternativo (detenzione domiciliare o affidamento in prova al servizio sociale), o addirittura in regime di sospensione della pena per grave infermità, inciderebbe sul diritto costituzionalmente garantito e tutelato al mantenimento ad all’assistenza sociale, riconosciuto dalla Costituzione in favore di tutti i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere (siano essi incensurati o pregiudicati). Sotto ulteriore profilo la questione è stata posta con riferimento all’art. 3 Cost., in quanto la norma prevede indistintamente la sua applicazione nei confronti sia dei detenuti e condannati comuni, che dei collaboratori di giustizia, così da risultare irragionevole nel trattare in maniera uniforme ipotesi differenti, in aperto contrasto con il consolidato principio del c.d. “doppio binario” previsto da tutta la normativa repressiva in materia di criminalità organizzata. In particolare, il Giudice del Lavoro di Fermo nelle motivazioni della propria ordinanza ha dato ampio risalto alla questione di incostituzionalità sollevata dall’Avv. Fabio Cassisa nel suo ricorso con riferimento alla dedotta violazione della normativa in questione con l’art. 38 Cost., assumendo come la normativa in parola finisce col privare il soggetto già ammesso al regime di detenzione domiciliare ed inabile al lavoro dell’unico mezzo di sussistenza ed assistenza riconosciutogli dall’ordinamento, senza nemmeno concedergli la possibilità di ripresentare apposita domanda all’Inps se non dopo aver interamente scontato la pena inflittagli. Per tali motivi, il Giudice del Lavoro di Fermo, ritenendo rilevante nel giudizio e non manifestamente infondata le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, L. n. 92/2012, sollevate nel ricorso introduttivo dall’Avv. Fabio Cassisa, difensore del ricorrente G.T., in relazione agli artt. 25, 38 e 3 Cost., ha disposto con ordinanza la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Spetterà ora alla Consulta stabilire se la normativa che prevede la revoca delle prestazioni assistenziali e previdenziali nei confronti di soggetti condannati per taluni gravi reati, che stanno scontando la pena in carcere, in misura alternativa alla detenzione, o addirittura che versino in differimento della pena per grave infermità, sia conforme o meno con i principi della Carta costituzionale previsti dagli artt. 25, 38 e 3 Cost. Al momento, grande soddisfazione viene manifestata dal Legale Cassisa per l’ottenimento del risultato fortemente voluto con la proposizione del ricorso, in quanto se è vero che il Legislatore ha il diritto di esercitare autonomamente il proprio potere di legiferare, è anche vero che detto potere non può essere mai esercitato in palese violazione della normativa sovraordinata rispetto a quella ordinaria, vale a dire quella di rango costituzionale ed internazionale. Tema - questo - di enorme attualità, la cui risoluzione è demandata alla Corte Costituzionale attraverso lo strumento della rimessione degli atti processuali da parte della Magistratura, laddove la questione sollevata venga ritenuta rilevante nel giudizio e non manifestamente infondata. Ma è altrettanto evidente - aggiunge l’Avv. Fabio Cassisa, del Foro di L’Aquila - come gli Avvocati giochino un ruolo assai importante nel caso di specie, dovendo essi stimolare la Magistratura all’esercizio del predetto strumento, che l’ordinamento prevede e mette a disposizione per evitare la vigenza di norme giuridiche create in palese contrasto con i principi fondamentali della Costituzione e della normativa sovranazionale, a loro volta posti a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e previsti dagli ordinamenti per garantire una convivenza pacifica, civile, equa e solidale. Credo - chiosa l’Avv. Cassisa - sia venuto il momento per l’Avvocatura di scrollarsi di dosso ogni remora nell’arginare con gli strumenti giuridici che l’ordinamento mette a disposizione degli operatori del diritto e della giustizia norme di stampo marcatamente “criminogene” tanto in voga negli ultimi anni, quale quella in questione e - tanto per un altro esempio - come quella che esclude dal diritto di richiedere una misura di stampo chiaramente assistenziale quale il reddito di cittadinanza per i soggetti condannati per taluni reati ed addirittura per soggetti semplicemente indagati, che versino in misura cautelare personale (anche non detentiva), il tutto in spregio al principio di innocenza, anch’esso previsto e tutelato dalla Carta Costituzionale. Mantenimento. Obbligo anche per il carcerato decaduto dalla responsabilità genitoriale di Rosalia Ruggieri avvocatirandogurrieri.it, 19 luglio 2019 Con la sentenza n. 31561 dello scorso 17 luglio, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di assoluzione pronunciata verso un uomo che, decaduto dalla responsabilità genitoriale per aver compiuto atti di pedofilia nei confronti dei figli, non aveva versato l’assegno di mantenimento nel periodo durante il quale era detenuto in carcere per quel grave reato, sul presupposto che il dovere di assicurare ai figli minorenni i mezzi di sussistenza non viene meno con la decadenza dalla responsabilità genitoriale, né è escluso automaticamente dalla condizione di detenzione. Il caso sottoposto dall’attenzione della Corte prende avvio dall’esercizio dell’azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di cui all’articolo 570, comma 2 n. 2 c.p., per avere fatto mancare - dall’anno 2006 e con condotta perdurante - alla moglie e ai figli minorenni, affidati in sede di separazione alla madre, la somma mensile fissata dal Giudice civile quale contributo per il loro mantenimento. Per tali fatti, il Tribunale di Castrovillari condannava l’uomo alla pena ritenuta di giustizia. La Corte di Appello di Catanzaro riformava la decisione assunta dal giudice di primo grado e, per l’effetto, assolveva l’imputato. Alla base di tale assoluzione, la Corte evidenziava che, poiché l’imputato era stato detenuto dal 2006 al 2010 per gravi reati di pedofilia commessi proprio nei confronti dei figli, era da ritenersi scriminata la sua condotta, in quanto in costanza di detenzione era stato privato del diritto di vedere i figli; la sentenza di assoluzione osservava altresì come la condotta contestata si collocasse in un quadro di rapporti familiari di tale gravità da cancellare la rilevanza del reato ascrittogli, che restava necessariamente assorbito dal più grave reato di pedofilia. La parte civile proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge penale e dell’art. 570 c.p.. La ricorrente evidenziava come il reato ascritto all’imputato, trattandosi di reato permanente, esigeva una valutazione della condotta anche a partire dal momento in cui era cessata la detenzione: a far data dal 2010, infatti, il padre, dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale e ottenuto il divorzio, non aveva più avuto, per sua scelta, rapporti con i figli, né aveva mai provveduto al loro mantenimento, pur percependo, quale disoccupato, una indennità di mobilità. La Cassazione condivide le tesi difensive della persona offesa. In punto di diritto gli Ermellini rilevano come il dovere di procurare i mezzi di sussistenza ai figli minorenni, ex art. 30, comma 1, della Costituzione, sussiste e rileva per la configurabilità del reato ex art. 570, comma 2, c.p. indipendentemente dalla formale attribuzione della responsabilità genitoriale e permane anche nel caso di decadenza dalla responsabilità genitoriale. Sul punto, la giurisprudenza ha specificato che i provvedimenti adottati ex art. 330 c.c. hanno la funzione di impedire che i figli subiscano pregiudizi, ma non valgono a liberare i genitori dai loro obblighi; ne deriva che lo stato di prolungata detenzione dell’obbligato non può considerarsi una causa giustificativa del suo inadempimento all’obbligo di prestare i mezzi di sussistenza. In relazione allo stato di detenzione dell’obbligato, gli Ermellini precisano che lo stesso può configurarsi quale scriminante a condizione che il periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti e l’obbligato non abbia percepito comunque dei redditi. Conspecifico riferimento al caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata si è discostata dai principi di diritto sopra richiamati perché ha escluso la sussistenza dell’obbligo di mantenimento dei figli in considerazione dell’intervenuta decadenza dalla responsabilità genitoriale (che, di contro, non elide l’obbligo di assicurare ai figli i mezzi di sussistenza) e per lo stato di detenzione dell’imputato, trascurando altresì che la detenzione era cessata nel 2010 e che l’inadempimento dell’imputato si era protratto anche dopo la cessazione della detenzione. In virtù di tanto, la Cassazione accoglie il ricorso dell’uomo, annulla la sentenza di impugnata e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello. Bancarotta fraudolenta: distruzione dei libri solo se è ravvisato il dolo specifico di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2019 Per contestare la bancarotta fraudolenta documentale e in particolare quella in cui l’imputato abbia distrutto la documentazione occorre che il dolo specifico venga dimostrato dal giudice. Nel caso contrario cade il capo d’imputazione. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 32001/19. La vicenda - Nel caso concreto la Corte di appello di Palermo aveva confermato la condanna a carico di un cittadino per il reato di bancarotta fraudolenta documentale a lui ascritto nella qualità di amministratore di una srl, società dichiarata fallita il 6 ottobre 2008. Contro la sentenza il privato ha proposto ricorso, eccependo che la notifica era avvenuta nelle mani del difensore e che la bancarotta documentale a lui ascritta non potesse essere dolosa. Iniziando a esaminare quest’ultimo aspetto la Cassazione ha chiarito che la bancarotta fraudolenta documentale ex articolo 216, comma 1, n. 2 della legge fallimentare prevede due fattispecie alternative: quella di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili che richiede il dolo specifico; quella di tenuta della contabilità in modo da rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari e del patrimonio della fallita che richiede il dolo generico. Nel caso esaminato dalla Cassazione è stata contestata e ritenuta dai giudici di merito la prima ipotesi, vale a dire quella relativa alla sottrazione, distruzione od omessa tenuta dei libri e delle altre scritture contabili che richiede il dolo specifico consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori. Sull’elemento soggettivo così configurato nulla è stato detto nella sentenza di appello che addirittura in un passaggio della motivazione ha richiamato l’articolo 217 della legge fallimentare ma ha fatto un generico riferimento all’impossibilità di ricostruzione del patrimonio, elemento oggettivo estraneo alla fattispecie in esame che invece entra nel range del dolo generico della seconda ipotesi. Conclusioni - I giudici della Suprema corte, invece, hanno rigettato la richiesta del ricorrente della nullità della citazione dell’imputato in quanto hanno specificato che nel caso in cui l’imputato non comunichi la variazione del domicilio, nel processo penale fa fede la consegna nelle mani del difensore. In definitiva è stata annullata parzialmente la sentenza con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo. Vigevano (Pv): muore il killer ergastolano, suicidi a quota 26 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2019 Il sistema penitenziario miete un’altra vittima. Non si arrestano i suicidi nelle patrie galere e questa volta riguarda il carcere di Vigevano dove un detenuto, tentando di suicidarsi una decina di giorni fa, era stato trasportato d’urgenza in ospedale. Dopo giorni di agonia, alla fine mercoledì è morto. Parliamo di Antonino Benfante, detto “Palermo”, il killer dei fratelli Emanuele e Pasquale Tatone e di Paolo Simone, autista tuttofare di Emanuele, uccisi a ottobre del 2013 con due esecuzioni a distanza di 72 ore. Benfante, 55 anni, di origini siciliane, era stato condannato all’ergastolo con isolamento diurno per tre anni, pena resa definitiva dalla Cassazione ad aprile dello scorso anno. Da allora, più volte aveva manifestato segni di insofferenza dietro le sbarre del carcere di Vigevano dove si trovava rinchiuso, e più volte avrebbe tentato il suicidio. In un’occasione avrebbe cercato di incendiare una cella e, in un’altra, di aggredire un detenuto. Fatti culminati una decina di giorni fa nell’ennesimo tentativo di togliersi la vita stringendosi attorno al collo la maglia che indossava per impiccarsi. È caduto battendo violentemente la testa. Alla fine in ospedale non c’era stato nulla da fare. Ma si sarebbe potuto evitare? Secondo il suo avvocato difensore Ermanno Gorpia, sì. Era in isolamento, aveva tentato più volte il suicidio e quindi necessitava di un costante piantonamento. Inoltre, malato di Parkinson, era reduce da un’operazione non andata a buon fine: gli era stato installato un microchip nel tentativo di migliorare le sue condizioni, ma aveva contratto un’infezione. E gli era stata negata la scarcerazione chiesta in virtù del suo stato di salute. Siamo giunti quindi al 26esimo suicidio. Ma poteva aggiungersi un altro ancora. Sempre nella giornata di mercoledì, questa volta nel carcere napoletano di Poggioreale, un 30enne calabrese ha usanto i lacci delle scarpe per costruirsi un cappio con il quale ha tentato il suicidio appendendosi per il collo alle inferriate della finestra della cella. L’intervento, in extremis, degli agenti della Polizia penitenziaria ha evitato il peggio. A rendere noto l’episodio è stato il segretario provinciale Osapp Napoli Luigi Castaldo. Il detenuto, un 30enne calabrese, prima di compiere l’insano gesto ha atteso che i suoi compagni di cella uscissero per andare al passeggio. “In molti definiscono Poggioreale un ‘ inferno, un mostro di cemento, - sottolinea il segretario provinciale Osapp - nel quale però lavorano tanti angeli in uniforme che, con tanta umanità, coordinati dal commissario capo Diglio operano in un contesto di disgrazie e sofferenze, dove spesso gesti estremi come quello di oggi vengono risolti in maniera encomiabile”. Però nel carcere di Poggioreale troppi sono i suicidi e alcuni decessi sono tuttora da chiarire. Come il caso di Claudio Volpe, morto nel carcere di Poggioreale all’età di 34 anni lo scorso 10 febbraio. È avvenuto dopo tre giorni di febbre alta e non ha mai convinto i parenti che da subito decisero di approfondire la vicenda. Nessuna indicazione però, sarebbe venuta dall’inchiesta dalla Procura di Napoli e dai risultati dell’autopsia. Cinque mesi di silenzio in cui ai dubbi si alterna lo sconforto. Vigevano (Pv): si uccide in cella il killer dei Tatone di Ilaria Carra La Repubblica, 19 luglio 2019 L’ultimo noir milanese si chiude in una cella del carcere di Vigevano. L’insofferenza al posto, la malattia, una t-shirt come cappio al collo, l’ennesimo tentativo di farla finita che stavolta è senza ritorno. È morto in galera Tonino Benfante, 55 anni, nome di battaglia “Palermo” dalla sua città natale: era il killer dei fratelli Tatone e dell’autista di uno dei due che nulla c’entrava ma era nel posto sbagliato e andava eliminato. Tre omicidi in quattro giorni nell’ottobre 2013 per riprendersi il controllo dello spaccio a Quarto Oggiaro e per regolare vecchi conti che sembravano chiusi e invece no. “Palermo” era stato arrestato il 1° dicembre 2013, a poco più di un mese dagli omicidi commessi a fine ottobre dello stesso anno. Cinque settimane di piombo, terrore, omertà. Benfante, con quella famiglia che all’inizio dei Novanta spacciava coi nemici, coi Batti-Flachi poi vinti col piombo, ce l’aveva da tempo. Lui stava con i fratelli Crisafulli, e l’eroina a Quarto Oggiaro era cosa loro. A incancrenire i rapporti, un ricordo che “Palermo” si portava dietro dal 1992, da quella detenzione comune a San Vittore “quando Emanuele - è la compagna di Benfante che racconta, nel verbale chiave di questa vicenda - gli aveva messo lamette da barba nel cuscino per ferirlo”. Vecchie storie, pensavano i Tatone. E lo riteneva anche la madre Rosa, “Nonna eroina”, che dall’estate 2013 l’antico nemico lo aveva riaccettato in casa, in via Sabatino Lopez 8. E invece “Palermo”, appena uscito dopo anni di carcere e in affidamento in prova ai servizi sociali, non aveva dimenticato. E soprattutto voleva prendersi la piazza di Quarto Oggiaro, labirinto di casermoni nella periferia Nord, bande cresciute tra i binari delle ferrovie e balconi a un metro dall’asfalto dove in quegli anni si sparava facile. Così il 27 ottobre dà appuntamento al bar della piazzetta a Emanuele, che arriva con l’amico che gli fa da autista, Paolo Simone, li attira poi agli orti di via Vialba e spara. Un’esecuzione in piena regola. Tre giorni dopo, il 30, alla sera tocca all’altro fratello, Pasquale, crivellato di colpi per la strada in via Pascarella. “Li ho fatti venire all’orto. Ho sparato prima ad Emanuele, di quell’altro mi dispiace”. Tre giorni dopo: “L’ aveva capito lui, che ero stato io ad ammazzare Emanuele”. Le sue parole, pronunciate in casa e raccontate alla polizia dalla terrorizzata compagna, lo inchioderanno. Assieme alle immagini delle telecamere, ai tabulati telefonici e alle intercettazioni della gente del quartiere che sapeva ma con gli investigatori non verbalizzava. Benfante, malato di Parkinson, aveva già provato ad ammazzarsi in cella. “Ha tentato di suicidarsi quattro volte in tre giorni. Ha provato a bruciare la cella e ha accoltellato un detenuto. Evidentemente qualcosa non ha funzionato nel regime di controlli del carcere che non ne ha disposto il piantonamento” denuncia il suo legale, Ermanno Gorpia. L’ultima volta la maglia si è spezzata, “Palermo” ha picchiato violentemente la testa. E undici giorni dopo, ieri, è morto. Avellino: emergenza carcere, penalisti in campo “servono più garanzie” Quotidiano del Sud, 19 luglio 2019 La Camera Penale irpina in campo su quella che viene definita “emergenza carcere”. Una nota, quella per ribadire non solo le doglianze, ma anche l’impegno messo in campo con l’Osservatorio. Quella firmata dal presidente della Camera Penale Luigi Petrillo e dal responsabile regiomnalew dell’Osservatorio Carceri dell’Unione Camere Penali, Giovanna Perna: “In questi giorni, le doglianze segnalate da alcuni detenuti ristretti negli Istituti della Provincia di Avellino (Bellizzi Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi e Ariano irpino) hanno fatto accendere i riflettori sull’annoso problema sanitario, più volte oggetto di dibattito e da ultimo di decisione da parte dei Magistrati di Sorveglianza di trasmettere, all’esito dell’ennesimo incontro con i vertici dell’Asl di Avellino, gli atti alla Procura della Repubblica competente sul territorio, al fine di valutare eventuali omissioni da parte di chi ha il dovere di provvedere e non lo sta facendo. I detenuti chiedono di riappropriarsi dei loro diritti giusti e necessari, uno tra tutti quello alla salute; puntualmente disatteso in tutte le strutture penitenziarie presenti sul territorio della provincia di Avellino.Manca, infatti, lo psichiatra in tutti gli Istituti penitenziari, compreso quello di Sant’Angelo dei Lombardi nel quale è presente la sezione “articolazione”. Ci sono detenuti con gravi problemi respiratori che hanno bisogno della ventilazione notturna per apnea, ci sono ritardi nelle visite, nella somministrazione di farmaci; ci sono disagi per le famiglie nel raggiungere Sant’Angelo dei Lombardi (dove non vi è neppure una fermata del bus) ed Ariano Irpino che ospita molti detenuti dell’ hinterland Napoletano che spesso per problemi di natura economica da parte dei familiari non effettuano colloqui da mesi/anni. Mancano gli operatori che dovrebbero aiutare nei corsi di formazione e di laboratorio del reparto dinamico trattamentale. Ci sono detenuti per i quali è chiara l’ incompatibilità del loro stato di salute psichico con il regime carcerario che attendono da tempo immemore una relazione psichiatrica e conseguentemente una decisione da parte del Magistrato di Sorveglianza di Avellino”. Rispetto a tutto ciò, viene rimarcato il ruolo da parte della Camera Penale e dell’Osservatorio: “Il responsabile regionale dell’ Osservatorio Carcere dell’ Unione, nella persona dell’ avvocato irpino Giovanna Perna, ogni settimana effettua visite nei penitenziari della provincia, raccogliendo le istanze dei detenuti, cercando di veicolarle con tempestività al Dipartimento dell’ Amministrazione penitenziaria. La scelta del Direttivo della Camera Penale Irpina di individuare un referente (avv. Ornella Trerotola) dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi e un responsabile (avv. Maria Marinelli) dello sportello carcere, in un momento di “straordinaria” emergenza, nella quale i diritti, il trattamento e l’umanità risultano sempre più a rischio, è un segnale per offrire più e concrete garanzie a chi purtroppo ne ha sempre di meno, in un momento in cui le decisioni della Magistratura e della Consulta, fanno ben sperare! Ci auguriamo che anche il resto della società civile faccia la sua parte, tenendosi ben lontana dalle logiche dell’emarginazione e del diritto penale del nemico che certa mala politica va spargendo a piene mani”. Firenze: carceri, nuovi interventi per Sollicciano e il Mario Gozzini di Chiara Bini fionline.it, 19 luglio 2019 In arrivo nuovi interventi per le carceri di Sollicciano e Mario Gozzini: saranno illustrati nell’ambito di una conferenza stampa che si svolgerà lunedì 22 luglio, alle ore 13.30, in sala stampa Cutuli, Palazzo Strozzi Sacrati, Piazza Duomo 10. Saranno presenti la vicepresidente e assessore alla cultura, Monica Barni, gli assessori ad ambiente, Federica Fratoni, formazione e lavoro, Cristina Grieco, e di diritto alla salute, Stefania Saccardi. Insieme a loro il direttore della Casa circondariale di Sollicciano, Fabio Prestopino, il direttore del “Mario Gozzini”, Antonella Tuoni, il provveditore interregionale alle opere pubbliche di Toscana Marche Umbria, Marco Guardabassi, il provveditore Antonio Fullone, del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, e il garante dei detenuti del Comune di Firenze, Eros Cruccolini. Torino. Trasferito e manganellato il detenuto che ha denunciato gli abusi nel Cpr di Davide Falcioni fanpage.it, 19 luglio 2019 Un detenuto nel Centro di Permanenza e Rimpatrio di Torino - da dove documentava le infernali condizioni di vita della struttura realizzando foto e video - è stato trasferito nel CPR di Ponte Galeria (Roma), dove non è consentito il possesso del cellulare. Durante il viaggio avrebbe ricevuto due manganellate da un agente di polizia. Nella capitale è arrivato coperto di sangue. Secondo la Campagna LasciateCientrare non ci sarebbero dubbi: “Si è trattato di un trasferimento punitivo per le denunce che il migrante faceva quotidianamente”. Uno dei detenuti del CPR di Torino che nelle ultime settimane ha denunciato con più forza le drammatiche condizioni di vita all’interno della struttura e i presunti abusi da parte della polizia è stato trasferito martedì notte dal capoluogo piemontese al Centro di Permanenza e Rimpatrio di Ponte Galeria, a Roma. Durante il viaggio, Mohamed (nome di fantasia) sarebbe stato picchiato dagli agenti a bordo di un mezzo della polizia, circostanza riferita dall’uomo nel corso di una visita al Pronto Soccorso del Presidio Ospedaliero Giovan Battista Grassi di Ostia Lido. Gli attivisti della Campagna LasciateCientrare ritengono che si sia trattato di un trasferimento punitivo dal momento che l’uomo è stato tra i più attivi nel documentare, anche con video e fotografie, le condizioni all’interno del CPR di Torino, struttura che ospita 158 persone in attesa di essere espulse dall’Italia. “Picchiato dalla polizia durante il trasferimento da Torino a Roma” - Mohamed è stato prelevato martedì pomeriggio dal CPR di Torino. La polizia gli ha sequestrato il cellulare e messo le manette ai polsi per poi caricarlo su un proprio mezzo e condurlo a Roma, destinazione CPR di Ponte Galeria. Secondo la testimonianza da lui fornita agli attivisti di LasciteCientrare e del Lab! Puzzle di Roma e agli avvocati del Legal Team Italia - che domani presenteranno un esposto in Procura - a bordo di un mezzo della polizia Mohamed avrebbe fatto notare agli agenti che quel trattamento “può essere riservato a chi è recluso in carcere, non a chi è sottoposto a detenzione amministrativa per non avere i documenti in regola”. Durante il viaggio da Torino a Roma avrebbe quindi chiesto la restituzione del cellulare, ma in tutta risposta avrebbe ricevuto due manganellate. “Una alla schiena e l’altra alla parte superiore del cranio”, ha raccontato Mohamed, che a Ponte Galeria è arrivato con il volto insanguinato, tanto che non è stato accolto nel CPR ma subito trasferito al Pronto Soccorso dell’ospedale Grossi di Ostia Lido. Ai medici ha lamentato forte emicrania e nausea. I dottori hanno effettivamente riscontrato la presenza di un trauma cranico dovuto alle manganellate, come testimonia il referto che Fanpage.it è riuscito ad ottenere. LasciateCientrare: “Mohamed trasferito a Roma per punizione: denunciava gli abusi nel CPR di Torino” - Secondo gli attivisti della Campagna LasciateCientrare il trasferimento di Mohamed sarebbe stato esclusivamente punitivo. “Era per noi un’importante fonte di informazioni dal CPR di Torino, da dove riusciva a farci arrivare video e fotografie non solo delle condizioni della struttura e dei detenuti. L’hanno trasferito a Ponte Galeria perché lì - a differenza di Torino - non è consentito l’uso del cellulare e i detenuti possono comunicare con l’esterno solo con telefoni pubblici. Ci sembra evidente che quella nei confronti di Mohamed è stata una punizione”. In una nota, gli attivisti hanno fatto sapere inoltre che il “certificato di idoneità” alla detenzione in un CPR di Mohamed è scaduto da 15 giorni, motivo per cui l’uomo è stato temporaneamente trasferito in una struttura sanitaria di Fregene. Il sospetto - spiegano gli attivisti di LasciateCientrare - è che Mohamed sia stato trasferito a Ponte Galeria per la sua costante attività di documentazione nella struttura torinese. A Roma, infatti, è vietato il possesso del cellulare e l’uomo potrà comunicare con l’esterno solo da una cabina telefonica: “Qualsiasi cosa accada lì Mohamed non può raccontarlo”. L’avvocato Gianluca Vitale, del Legal Team Italia, ha delegato i colleghi Stefano Greco e Gianluca Dicandia a seguire il suo caso. “Come Campagna LasciateCientrare abbiamo inviato segnalazione al Garante Nazionale dei Detenuti perché attenzioni il caso. Benché Mohamed si senta senza tutela, ciò che davvero lo garantisce è il suo coraggio e l’onesta intellettuale, un esempio per tutti noi”. Garante dei Detenuti: “Nei CPR situazione preoccupante, il Governo intervenga” - Il Garante dei Detenuti - organismo statale indipendente che monitora i luoghi di privazione della libertà - è stato informato del caso di Mohamed: “Il trasferimento punitivo - ha dichiarato a Fanpage.it lo staff del presidente Mauro Palma - non è ammesso neanche in campo penale, dall’Ordinamento penitenziario. Qui parliamo di detenzione amministrativa, quindi se si trattasse davvero di un trasferimento punitivo noi agiremmo presso le autorità competenti per impedire che riaccada in futuro e lo faremmo presente pubblicamente, magari attraverso un rapporto di monitoraggio da rendere pubblico”. Quanto alle manganellate, invece, verranno avviati approfondimenti. Le condizioni dei detenuti dei sei CPR italiani sono molto preoccupanti. Ai fatti di cronaca degli ultimi giorni, con la morte di un uomo a Torino e la fuga di 13 migranti da Ponte Galeria dopo una rivolta, si sono aggiunte le denunce di parlamentari (determinati a costituire un’apposita commissione d’inchiesta) e dello stesso Garante dei Detenuti. Quest’ultimo, in una nota del 21 giugno scorso, spiegava: “La situazione degli ospiti rimane molto dura e preoccupante, sia dal punto di vista della vita quotidiana, che scorre senza nessuna attività, con evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica delle persone ristrette (fino a sei mesi o anche più), sia per quanto riguarda le condizioni materiali degli ambienti, spesso danneggiati o incendiati da precedenti ospiti ma mantenuti in tali condizioni di deterioramento e di assenza di igiene”. E ancora: “Alcune criticità appaiono persino più gravi che in passato, in primo luogo perché la possibile prolungata permanenza rende ancora più inaccettabili talune condizioni, in secondo luogo perché nuove criticità si sono prodotte nel tempo: per esempio il guasto, riscontrato in un Centro, di tutti i telefoni pubblici che, unito alla mancata disponibilità di telefoni cellulari da destinare agli ospiti, rischia di comprimere il diritto alla difesa e quello all’unità familiare. In alcuni Cpr non esistono ambienti forniti di tavoli e gli ospiti si trovano costretti a consumare i pasti sul proprio letto. Una privazione della libertà disposta perlopiù non in conseguenza di reati ma per irregolarità amministrative non può essere simile o peggiore a quella di chi sconta una pena. Tantomeno può prevedere minori garanzie di tutela dei propri diritti: per questo il diritto al reclamo e il potere di vigilanza dell’autorità giurisdizionale devono essere introdotti per le situazioni di privazione della libertà delle persone migranti, come il Garante nazionale ha da tempo raccomandato”. Massa: Shakespeare in carcere, per la prima volta spettacolo aperto al pubblico voceapuana.com, 19 luglio 2019 Gli attori saranno i detenuti della casa circondariale di Massa che da febbraio sono impegnati nelle prove teatrali. Mercoledì 24 luglio alle ore 21, presso la Casa di Reclusione di Massa, la rappresentazione dello spettacolo “Il teatro oltre la tempesta”, che per la prima volta sarà aperto alla cittadinanza. Lo spettacolo, come detto, si svolgerà alle ore 21. L’appuntamento, che rientra nel calendario di “Con-vivere prima (e) dopo”, e nel progetto di questa edizione “il festival delle scuole” è un progetto di Teatro in carcere realizzato da Cpia 1 Massa-Carrara e Compagnia Teatrale Emphatheatre, compagnia di teatro sociale nata nel 2008 con attore professionisti, ma anche psicologi, educatori e altri operatori per contrastare il disagio e l’esclusione sociale. “È un progetto di crescita personale attraverso il teatro - spiega Alessandro J Bianchi attore professionista e tra i fondatori della compagnia - Col testo la Tempesta di Shakespeare, si mette in scena la capacità che ha l’arte di innalzare l’essere umano. In un luogo dove spazio e tempo sono ridotti e regolati da altri, il lavoro di gruppo nel teatro risveglia la creatività di ognuno che è la caratteristica più importante e salutare che possediamo.” Gli attori sono i detenuti della casa circondariale di Massa, circa una ventina, che hanno curato anche lo spazio e le scene della pièce e da febbraio sono impegnati nelle prove dello spettacolo che li vedrà protagonisti. Larino (Cb): il teatro che fa sognare, tutti in piedi ad applaudire i detenuti-attori primonumero.it, 19 luglio 2019 Pinocchio, un classico della narrativa italiana, un po’ la storia di tutti, di come la vita presenti ostacoli, incontri sbagliati, occasioni di riscatto da saper cogliere e sogni che possono diventare realtà. Ognuno ha fatto proprio il suo personaggio e ha dato il meglio di sé sul palco, la sera di mercoledì 17 luglio, nella prima dello spettacolo all’interno del penitenziario di Larino, frutto del laboratorio teatrale promosso dalla casa circondariale in collaborazione con Frentania Teatri e l’Ipseoa “Federico di Svevia” e diretto da Giandomenico Sale e Gisela Fantacuzzi. I detenuti-attori, studenti della sede carceraria dell’Istituto Alberghiero, ce l’hanno messa tutta, dando prova di un talento spiccato nella recitazione e nella gestualità in ogni singola scena dello spettacolo “Pinocchio scugnizzo”, con un’ironia che ha trascinato il pubblico. La platea, numerosissima - circa 150 gli spettatori - ha applaudito in piedi ammirata i protagonisti. Giovedì e sabato 18 e 20 luglio i due nuovi appuntamenti: alle ore 20.30 l’inizio dello spettacolo, costo del biglietto 10 euro. Per info e prenotazioni è possibile contattare il numero 3470603551. Oltre il muro che separa i tribunali dalla società di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 19 luglio 2019 “Magistratura e società nell’Italia repubblicana” di Edmondo Bruti Liberati, per Laterza. Di fronte allo “scandalo Csm” e al connesso riaprirsi della vexata questio dei rapporti fra giustizia e politica è istruttivo cimentarsi con il recente volume di Edmondo Bruti Liberati Magistratura e società nell’Italia repubblicana (Laterza, pp. 350, euro 28). L’autore conosce assai bene la materia essendo stato, fino al pensionamento pochi anni fa, parte attiva di quel mondo delle toghe di cui analizza, con acume e ricca documentazione, le vicende dalla fine del fascismo allo scorso decennio. Giudice dal 1970, vari incarichi di rilievo successivi sino alla guida della procura di Milano, Bruti Liberati è fra i membri più autorevoli di Magistratura democratica, gruppo la cui filosofia anima il senso profondo del libro: rompere il muro che separa il terzo potere da ciò che vive fuori dalle aule di tribunale. Una storia “interna”, quindi, che si fa - e viene analizzata - nel suo intrecciarsi con “l’esterno” delle dinamiche politiche e sociali, mostrando come l’organizzazione della funzione giurisdizionale non sia mai un terreno neutrale, né per soli addetti ai lavori. Qui sta il pregio maggiore di un libro che dovrebbero leggere (e capire) quelli che si trastullano con la figura del giudice “apolitico” e “neutrale” da ingabbiare in una carriera determinabile dall’unico, supremo, valore della “meritocrazia”. Fu invece l’impegno di un numero crescente di magistrati “militanti”, che dagli anni 60 ruppero il conformismo castale e burocratico, a far entrare la Costituzione nei palazzi di giustizia. Pienamente coscienti che la neutralità pretesa dai vertici era pura adesione al sistema di interessi e valori delle classi dominanti, le toghe progressiste ingaggiarono conflitti duri, spesso attorno a norme procedurali o a processi-simbolo (Braibanti, “la Zanzara”, le schedature Fiat, l’elenco è lungo), relazionandosi con ciò che in quegli anni si muoveva nell’opinione pubblica, nelle fabbriche, nelle scuole. Il corpo giudiziario perse il suo carattere verticistico non per un’impossibile concessione dall’alto, ma democratizzandosi attraverso una contesa ideale e pratica, rendendo così possibile una giurisprudenza più avanzata in materia di tutela dei lavoratori, ambiente, diritti civili. Crollò la turris eburnea del suo organo di autogoverno, il Csm, che dal 1976 venne eletto con il metodo proporzionale, rispecchiando finalmente una magistratura socialmente e culturalmente più composita che nel passato. Un sistema elettorale che sarà poi modificato più volte sino al ritorno al maggioritario, voluto da Berlusconi, nel nome della “lotta alle correnti”. Quei cambiamenti in senso democratico preoccuparono, dentro e fuori la magistratura. Il segretario del Msi Almirante fu tra i più impegnati nel criticare la politicizzazione del Csm, proponendo che a comporlo fossero “magistrati di nomina non elettiva”, scelti cioè attraverso il sorteggio. Parola d’ordine tornata in voga. Il tentativo di conservare i vecchi assetti di potere si diede in varie forme, che Bruti Liberati opportunamente ricostruisce con precisione: dai trasferimenti (e successivi insabbiamenti) delle indagini più delicate sulle trame nere alle inchieste-pirata fatte con intenzioni intimidatorie, fino alle aggressioni politico-giudiziarie a magistrati o addirittura a interi Csm troppo scomodi - emblematica l’offensiva condotta dalla procura di Roma nel biennio 1982-83 resa inefficace grazie all’intransigenza del presidente Pertini. Erano gli anni in cui il Csm faceva i conti con la P2, uno scandalo non privo di analogie con la triste attualità che abbiamo sotto gli occhi. La società e le praterie dell’odio di Pino Casamassima Corriere della Sera, 19 luglio 2019 “Nessuno nasce odiando a causa della razza, della religione o della classe d’appartenenza. Gli uomini imparano a odiare. E se possono imparare a odiare, possono imparare anche ad amare, perché l’amore è più naturale dell’odio”. Questa frase, Nelson Mandela - uno che se ne intendeva di odio - la pronunciò dopo 27 anni di carcere. Tempo fa, armato di fucile, un uomo di Padenghe ha dato prima fuoco a una roulotte di Sinti italiani, poi ha sparato al capofamiglia che cercava di mettere in salvo figli e genitori, colpendolo a una spalla. Il movente? Un odio viscerale contro “gli zingari” per un furto subito. Come da tradizione primitiva. Come se secoli di leggi e di progresso umano non fossero valsi a niente. Come se gli uomini non si fossero scaldati al focolare della convivenza civile, della collaborazione, la solidarietà, ma alle fiamme dell’odio. Ho sufficienti capelli bianchi per affermare che questi ultimi anni hanno imbarbarito la nostra società perfino rispetto ai famigerati anni di piombo. In quel periodo, le barricate avevano coagulato attorno ad esse zone grigie pressoché invisibili e comunque ininfluenti in una società che non era segnata da quell’odio diffuso che oggi si estende dalle città alle campagne, da nord a sud. L’odio non si nutriva di sé stesso attraverso lo scontro quotidiano come oggi. Un odio che però non è causa, ma effetto di un sentimento cresciuto nello smarrimento del senso comune, contestuale all’appiattimento sui singoli egoismi divenuti infine una marea. In Napoli milionaria di Edoardo de Filippo, la moglie del protagonista, accorgendosi di come la loro vita sia cambiata in peggio nonostante i soldi, si chiede cosa mai sia successo. “È successo - osserva - che hai perso di vista quello che conta di più”. Ecco, è come se la nostra società avesse perduto la bussola della ragione: l’unica che può indirizzarci verso l’amore. A una interpretazione superficiale, questa unione parrebbe contraddire Pascal, e invece solo unendoli possiamo davvero dirci umani. “Noi non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino, ma perché siamo umani”. Questa frase de “L’attimo fuggente” sembra sperduta nelle galassie di storie lontane dopo l’episodio di Lonato. Nei giorni in cui ai sindaci si impone il censimento dei campi nomadi, sembra di un’altra orbita umana. È l’ individualismo a creare “bande” sociali e culturali che presidiano il territorio dei “migliori” in nicchie di odio che diventano praterie. Rita Bernardini e le storie dolorose della cannabis ad uso terapeutico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2019 Chi coltiva la marjuana per necessità finisce in carcere. La vicenda del fermo da parte dei carabinieri e relativa denuncia a carico dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, riporta di nuovo all’attenzione il problema dell’utilizzo della cannabis terapeutica. Un problema che fa anche ingolfare le nostre patrie galere già in emergenza sovraffollamento. Ci sono infatti varie storie, finite nel dramma, che coinvolgono numerosi cittadini che soffrono di malattie devastanti e soprattutto dolorose. Accade che, nonostante la legalizzazione dei farmaci cannabinoidi per affievolire i dolori cronici, non è assolutamente facile trovarli e sono soprattutto costosi. In piazza, invece, abbonda a buon mercato e nel web fioccano i manuali per l’autoproduzione. Però coltivarsi da sé le piantine di marjuana è illegale. Rischiare la galera per curarsi, è una consuetudine. Fabio Valcanover, avvocato di Trento, aveva chiesto invano la grazia al Quirinale per un suo assistito. Un passato da eroinomane negli Anni 80, sieropositivo e malato di epatite, il 63enne riceve un sussidio per invalidità al 100%. Per lenire i dolori coltivava tre piantine di marijuana in casa. In primo grado, il giudice lo ha assolto per via dell’uso medico. In appello, la sentenza è 5 mesi e 10 giorni di reclusione. C’è la storia emblematica di Fabrizio Pellegrini, sostenuto all’epoca dal Partito Radicale. Affetto da fibromialgia - malattia che provoca problemi del sonno, mal di testa, mal di schiena e una serie di altri disturbi debilitanti si è visto certificare nero su bianco dai medici la possibilità di lenire i forti dolori derivanti dalla sua malattia usando derivati della cannabis, i quali riescono a farlo stare meglio. Tuttavia, la cura a base di cannabis terapeutica ha un costo di 500 euro mensili che l’uomo non poteva sostenere. Il calvario dell’uomo è iniziato nel 2008 quando si è visto denunciare per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, nonostante il suo legale avesse dimostrato le precarie condizioni di salute dell’uomo e la buona volontà, visto che aveva acquistato di tasca sua la prima confezione del costoso farmaco a base di cannabis, che l’Asl avrebbe dovuto fornirgli gratuitamente. Ad aggravare la situazione, il fatto che l’uomo è allergico ai farmaci cortisonici e ai classici antidolorifici. Come se non bastasse, era ritornato in carcere dall’11 giugno del 2016 su ordine del giudice. Per Pellegrini c’è stata una vasta mobilitazione fino all’annuncio di verifiche da parte dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. Riuscì ad ottenere almeno i domiciliari. Ma di storie come queste, ce ne sono tante. Una in particolare è quella del dottor Fabrizio Cinquini, meglio conosciuto come dottor Cannabis. A febbraio scorso ha ricevuto una condanna definitiva a 2 anni e 8 mesi di carcere. Un procedimento giudiziario cominciato dall’autodenuncia dello stesso medico, che, dopo aver invitato diversi giornalisti per mostrare la sua coltivazione di cannabis a scopo medico e di studio scientifico, fu arrestato dai Carabinieri nel 2013. In primo grado fu condannato a 6 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre a pagare una multa di 30mila euro, sulla base della Fini-Giovanardi, che fu dichiarata incostituzionale di lì a poco. E per questo motivo la corte d’Appello, nel 2015, revocò l’interdizione e ridusse la pena a 2 anni e 8 mesi, come confermato dalla Cassazione. Fabrizio Cinquini da anni si batte per affermare le doti terapeutiche della cannabis. Lui che le ha scoperte direttamente su di sé, quando lo aiutò a guarire dall’epatite C contratta nel 1997 mentre prestava servizio su un’autoambulanza, da allora non hai mai nascosto le sue intenzioni di coltivare diversi ceppi di cannabis medicale, da lui stesso selezionati per il trattamento di diverse patologie. La vicenda ha del paradossale soprattutto se si pensa che il dottore vive e lavora in Toscana, una delle Regioni italiane all’avanguardia per quanto riguarda la legislazione in fatto di cannabis terapeutica, che sta attualmente ospitando, presso lo Stabilimento chimico farmaceutico militare, l’unica coltivazione a scopo terapeutico attualmente autorizzata in Italia. La particolarità della sua vicenda è che, in un altro processo a suo carico in cui fu scoperto a bagnare 24 piantine di cannabis, fu invece assolto perché venne riconosciuto l’utilizzo medico e di ricerca. Un caso che avrebbe potuto creare un precedente. Ma nulla, il problema rimane. E le persone che coltivano la marjuana per necessità, finisco in carcere. Il silenzio degli scienziati sul problema della cannabis di Rosario Sorrentino Corriere della Sera, 19 luglio 2019 Non si tratta di una questione politica: riguarda la salute e l’interesse di tutta la collettività. Legalizzare la cannabis, regolamentarla. Ma perché? Ci risiamo, il tema torna politicamente alla ribalta, più caldo e appassionato che mai. Neurologi, psichiatri, psicologi e chiunque abbia a cuore la questione: se ci siete battete due colpi, anzi tre. Si può, si deve fare di più uscendo allo scoperto, tutti insieme, dicendo chiaramente quello che la maggior parte di noi pensa, ma che non ha il coraggio di dire. E cioè, che siamo contrari! Quella sulla cannabis, “light” o meno, non è una battaglia ideologica, né politica, ma tutta scientifica e si gioca ancora una volta sul terreno della prevenzione, nell’interesse della collettività, mettendo al centro la salute, il futuro equilibrio mentale dei giovani. E non è poco. Non è più ammissibile, il nostro silenzio, oppure le tiepide prese di posizione, qua e là, verso un tema così cruciale. Molti di noi, forse un po’ intimiditi dal clima politico che si è creato nel Paese, temendo di andare controcorrente, non si esprimono o lo fanno con qualche mugugno, e solo in separata sede. Usciamo dalla nostra “torre d’avorio”, e interveniamo pubblicamente, partecipando al dibattito in corso perché, come è già accaduto più recentemente coi vaccini, qualcuno non ha tenuto conto dei dati in possesso del mondo scientifico. Due realtà, quella politica e quella scientifica, che continuano a parlarsi poco e male, con la Scienza divenuta ormai la convitata di pietra, sacrificata ai calcoli politici del momento, pur di catturare nuovi consensi. Le più recenti ricerche, hanno confermato che la cannabis ad uso ricreativo-socializzante è nociva per il cervello e la salute dei giovani. Altra cosa è la “cannabis terapeutica”, ma quella va prescritta dal medico e in casi ben selezionati. Facciamo un po’ di autocritica, molti uomini di scienza sono affetti da “individualismo cronico”, ed evitano di farsi coinvolgere nelle discussioni e nei confronti più accesi, da chi intende ignorare i risultati della ricerca. È necessario entrare nelle scuole, organizzare dibattiti con la gente, affinché cresca la consapevolezza sulla pericolosità della cannabis, troppo spesso presentata come “leggera” e perciò innocua. E invece, è una droga a tutti gli effetti, capace soprattutto negli adolescenti, di spalancare le porte a disturbi neurologici e psichiatrici, spesso di difficile gestione terapeutica. Perché, si sa, a quell’età il cervello è particolarmente vulnerabile alle sostanze psicotrope, come alcol, tabacco e a qualunque altro tipo droga. Migranti. Dal vertice di Helsinki stop all’Italia, ma è stretta sulle Ong di Cristiana Mangani Il Messaggero, 19 luglio 2019 Non passa la proposta di abolire il principio del “porto più vicino”. Europa sempre più divisa sui migranti, ma soprattutto incapace di trovare una vera soluzione alle migliaia di persone che fuggono da guerre e da miseria. Il vertice informale dei ministri dell’Interno che si è tenuto a Helsinki non supera l’impasse di questi mesi. A parole si mostrano tutti d’accordo a mostrare maggiore solidarietà nell’affrontare la questione, ma nei fatti ognuno va per la sua strada. “Non possiamo continuare così in futuro affrontando la situazione caso per caso nel Mediterraneo - ammette il commissario uscente alle migrazioni Dimitri Avramopoulos - Serve una scelta condivisa”. Ma al di là di questo, le posizioni dei rappresentanti dei 28 paesi membri della Ue restano lontane. Divisioni sono emerse già nella cena ufficiale di due sere fa quando l’asse Parigi-Berlino ha provato a mettere sul tavolo un documento che non è proprio piaciuto al fronte italo-maltese, e cioè che i migranti salvati nel Mediterraneo devono sbarcare nel porto sicuro più vicino. Quindi in Italia e a Malta. E che dopo lo sbarco e l’identificazione si procederebbe a una redistribuzione, ma solo di coloro che hanno diritto all’asilo, mentre tutti gli altri resterebbero nei centri in attesa di essere rimpatriati. Una proposta che Matteo Salvini ha respinto al mittente giudicandola “inammissibile”. Il perché è chiaro: il rischio - spiegano dal Viminale, è che in questo modo Italia e Malta debbano non soltanto sobbarcarsi il peso degli arrivi ma anche la gestione di tutti gli altri migranti ai quali verrà respinta la domanda d’asilo. La controproposta italo-maltese punta invece su hotspot in tutti i paesi, redistribuzione obbligatoria dei migranti, rimpatri gestiti a livello europeo o ripartiti tra i 28, più espulsioni attraverso la creazione di una lista di “paesi sicuri” (tipo Tunisia o Albania), in modo che chi proviene da lì possa essere rimpatriato automaticamente, un’ulteriore stretta sulle Ong. “Le priorità sono le espulsioni e la protezione delle frontiere esterne”, ha ribadito il vicepremier, che proprio su quest’aspetto ha concordato con Slovenia e Croazia di dare vita a una cooperazione che consenta un maggior controllo della rotta balcanica. Il documento italiano è stato recepito in quello finale, dove si chiede una “complessiva revisione” delle politiche migratorie, a partire proprio dalle regole sul salvataggio in mare. “Fatta salva la necessità di proteggere la vita umana e fornire assistenza a qualsiasi persona in difficoltà”. Posizioni inconciliabili, almeno per il momento, ha sottolineato Christophe Castaner, ammettendo che “l’accordo non c’è”. Per tentare di superare il blocco, i tecnici di Italia, Germania, Francia e Malta si vedranno nelle prossime settimane. in vista di un mini vertice a quattro convocato a settembre a La Valletta. Tutto questo mentre Ursula von der Leyen, neo commissario europeo concorda con Roma almeno su un punto: “Ciò che l’Italia vuole è una riforma del sistema disfunzionale di Dublino – afferma. E devo ammettere che mi chiedo come possa essere stato firmato un accordo così sbagliato. Posso comprendere che i paesi del confine esterno non vogliano essere lasciati soli nella gestione della sfida migratoria. Meritano la nostra solidarietà”. Sul tavolo delle discussioni c’è poi il nodo delle Ong, che Salvini ha chiarito non possono sostituirsi agli Stati. E su questo punto, mentre a Helsinki si dibatte su come limitarne gli interventi in mare, davanti alle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera viene dato il via libera agli emendamenti al Decreto sicurezza bis in una votazione che ha scatenato mille polemiche. Approvato l’emendamento che prevede l’arresto obbligatorio per il comandante di una nave, nel caso di resistenza o violenza a una nave da guerra. Così come le multe per chi trasgredisce sul diritto di ingresso: sono state elevate fino a 1 milione di euro. Mentre i 5s hanno avuto l’ok all’emendamento in base al quale le navi sequestrate in via cautelare potranno subito passare sotto il controllo della polizia, della Capitaneria di porto o della Marina militare. Migranti. Rackete risponde ai pm di Agrigento: “ho agito nel rispetto delle regole” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 19 luglio 2019 Dopo tre ore e mezza d’interrogatorio nel palazzo di giustizia di Agrigento, gli avvocati di Carola Rackete, accusata di favoreggiamento all’immigrazione clandestina e disobbedienza a nave da guerra nel secondo filone d’inchiesta sul caso Sea Watch, sono convinti di avere dimostrato alla Procura che la capitana della nave battente bandiera olandese salvando i 42 migranti, poi condotti a Lampedusa, agì nel pieno rispetto delle regole. Carola è entrata nella stanza dei pm intorno alle 10.30 ed è uscita poco prima delle 14. Fuori dal palazzo un gruppo di attivisti e liberi cittadini ha effettuato un presidio mostrando cartelli e striscioni con la scritta “Salvare vite in mare non è reato”. “Rackete, adesso, non è più capitano della Sea Watch 3” perché “c’è stato un cambio di equipaggio, del resto fa anche altro nella vita”, spiega l’avvocato Alessandro Gamberini, che la difende assieme al collega Leonardo Marino. Il legale è poi entrato nel merito dell’indagine. “Sono state semplici le cose da dire: questo è un salvataggio in mare fatto con tutti i crismi della regolarità e delle esigenze drammatiche che si erano realizzate. Tutto era documentato nel diario di bordo - spiega Gamberini - Noi avvocati abbiamo prodotto tutto. I pm hanno chiesto i chiarimenti del caso e l’interrogatorio è durato quel tanto che doveva durare”. Per i legali “è una vicenda chiara: è giusto che ci sia un’indagine ma, su questo, montare strane idee sui salvataggi di Sea Watch è fuori dal mondo”. “Si è parlato del soccorso, di alcune ore successive e del passaggio della nave alle acque territoriali italiane perché questo era l’oggetto dell’attenzione della Procura in questo momento - riferisce - Abbiamo ribadito lo stato di necessità. Tutti dicono che la Libia non è in grado di offrire porti sicuri, allora questo esigerebbe, se ci fosse coerenza, che i Paesi europei si decidessero a presidiare le acque Sar libiche. Chi lo deve fare? Le organizzazioni dei volontari? La Sea Watch è una di queste organizzazioni e criminalizzarla per una cosa che dovrebbero fare gli stati Europei è incoerente. È inutile rimandare alle responsabilità dei libici”. E Carola lasciando il tribunale ha lanciato un appello: “Ci sono migliaia di profughi che vanno evacuati da un paese in guerra. Mi aspetto dalla commissione europea che trovi al più presto un accordo per dividere i profughi”. Mentre l’avvocato Gamberini va giù duro nei confronti del ministro dell’Interno: “Che il clima di odio ci sia e venga alimentato da dichiarazioni aggressive, irresponsabili e false, come quelle che il ministro Salvini ha presentato nei suoi profili social è pacifico”. Per il legale “un conto che lo fa uno al bar, un altro è se arrivano da un uomo che ha responsabilità istituzionali”. “In questo senso noi crediamo - sostiene il penalista - che questo abbia una valenza istigatoria. Crea come un grande macigno buttato nello stagno, grandi ripercussioni”. E ricorda che “il ministro degli Esteri dice espressamente che la Libia non è un porto sicuro”, dunque, “questo esigerebbe, se fossimo in una situazione coerente, che i Paesi europei si obbligassero a presidiare le acque Sar libiche”. Perché “criminalizzare le associazioni umanitarie per quello che dovrebbero fare i Paesi europei è una cosa incoerente, una vergogna”. D’altronde durante il salvataggio, rivela il legale, “la motovedetta libica che si è avvicinata esibiva un’insegna del comandante di una milizia ed è una cosa documentata”. Intanto, il consiglio comunale di Palermo per un solo voto ha bocciato il blitz dei consiglieri della Lega che con un ordine del giorno avevano proposto la concessione della cittadinanza onoraria ai finanzieri “speronati” a Lampedusa dalla della Sea Watch durante le concitate fasi dell’approdo a Lampedusa: 9 voti favorevoli, 4 contrari e 10 astenuti. Del resto, nell’ordinanza con la quale il gip di Agrigento non ha convalidato l’arresto di Carola Rackete, tornata libera, il giudice ha scritto che non ci fu alcuna intenzione da parte della Sea Watch di speronare la motovedetta della finanza che su ordine del Viminale voleva impedire l’accesso al molo e che lo sbarco dei migranti fu necessario per le condizioni in cui si erano ridotti dopo due settimane in mare. Medio Oriente. Le carceri, nuove università del jihad di Laura Cianciarelli it.insideover.com, 19 luglio 2019 Dal crollo del califfato in Siria e Iraq, la questione del rimpatrio dei foreign fighters, detenuti nei centri curdi nel nord della Siria, è all’ordine del giorno. Non così quella sul loro destino, una volta tornati in patria. Verosimilmente, gli ex-combattenti dovranno scontare una pena detentiva per i reati commessi: solo un inizio, nel loro caso, di un percorso lungo e accidentato, che dovrebbe portarli a rivedere in maniera critica quel bagaglio ideologico grazie al quale possono fare nuovi adepti proprio all’interno delle carceri. Già in passato - come nel caso del famigerato Camp Bucca, in Iraq - le carceri si sono rivelate terreno fertile per il reclutamento di jihadisti. Ed è oggi opinione condivisa che la reclusione acceleri il processo di radicalizzazione dei prigionieri, esponendoli più facilmente al contatto con teorie ideologiche e rendendoli facili prede di reclutatori pro-jihad. L’attività dei reclutatori - Per i soggetti reclutatori - secondo un’analisi condotta da Anne Speckhard e Ardian Shajkovci - le carceri rappresentano un’occasione unica da sfruttare, non dovendo nemmeno faticare per trovare nuove reclute, già tutte presenti nello stesso luogo. Il loro ruolo consiste “solo” nel diffondere le proprie idee e nel fomentare una “violenza per procura”, ovvero indottrinando altre persone affinché, una volta uscite, conducano azioni terroristiche in nome del gruppo. Le potenziali reclute non sono necessariamente detenute per reati connessi al terrorismo, anzi hanno spesso pene brevi da scontare. Ma proprio per questo possono essere avvicinate e istruite, senza suscitare particolari sospetti, perché commettano attacchi una volta fuori dal carcere. Anche per i soggetti finiti in carcere perché già terroristi o fiancheggiatori di organizzazioni terroristiche la detenzione può essere un’esperienza deleteria. Li può rafforzare nella loro dedizione alla causa jihadista, attraverso il contatto con individui ancora più estremisti, e può ampliare il loro “network” di conoscenze nella rete del terrore. Secondo i dati elaborati dall’International Center for the Study of Radicalisation (Icsr), il 27 per cento dei sostenitori dell’Isis sarebbe stato radicalizzato in carcere: una percentuale alta, che fa riflettere sulla necessità di misure effettive di recupero degli ex-combattenti. I soggetti reclutati - Coloro che entrano in carcere per la prima volta sono individui particolarmente vulnerabili e possono trovarsi ad affrontare numerose minacce, di fronte alle quali sono costretti a elaborare dei modi per difendersi. Uno di questi consiste proprio nell’affiliarsi ai prigionieri musulmani, i quali formano già un gruppo compatto che organizza momenti di preghiera e di studio. Gli individui che si avvicinano a questi gruppi o si convertono in carcere per diventarne parte sono elementi potenzialmente sensibili a una successiva radicalizzazione. I neo-convertiti, in particolare, essendo più ingenui e quasi sprovveduti nei confronti dei reali dettami dell’islam, sono facile preda di reclutatori islamisti, incitanti alla violenza. La conversione e radicalizzazione delle persone in carcere costituisce una minaccia per la sicurezza proprio per la sua imprevedibilità. Gli stessi operatori del carcere sono portati a sottovalutare il fatto che persone condannate per crimini non legati in alcun modo al terrorismo possano diventare in poco tempo dei jihadisti. Molto dipende anche dalla capacità dei reclutatori, che di solito presentano tratti comuni: hanno cioè buone capacità comunicative, sono dotati di una grande intelligenza emotiva e scusano il passato criminale dei loro seguaci, arrivando persino ad apprezzarlo. Nella propaganda jihadista, infatti, i crimini commessi contro gli infedeli non sono qualcosa di cui vergognarsi, bensì azioni legittime, che devono essere fatte nel nome di Allah. I programmi di de-radicalizzazione. Che il carcere possa favorire la radicalizzazione jihadista non è una novità. Nel 2006, ad esempio, se ne era già occupato il Dipartimento di Stato americano, che aveva sottolineato la necessità di realizzare un programma di de-radicalizzazione, destinato ai detenuti delle carceri gestite dalle forze statunitensi in Iraq. Proprio i militari americani si erano resi conto che, nelle carceri di Camp Bucca e di Camp Cropper, i membri di Al-Qaeda avevano iniziato a indottrinare i detenuti, insegnando loro anche a realizzare ordigni esplosivi improvvisati, disegnando le istruzioni sulla sabbia. Inizialmente, le forze americane avevano cercato di isolare i jihadisti, allontanandoli dai prigionieri più vulnerabili; con l’aumento del numero dei prigionieri e lo sviluppo delle capacità di dissimulazione dei terroristi, questo metodo è risultato inadeguato. Da qui la necessità di veri e propri programmi di de-radicalizzazione. Il tema riguarda da vicino anche l’Italia, seppur in misura inferiore rispetto ad altri Paesi europei. Il sistema italiano è al passo nella protezione dalla minaccia costituita dai foreign fighter e dagli homegrown terrorist. Recentemente, l’antiterrorismo italiano è stato elogiato per aver riportato in patria un jihadista dello Stato islamico, per sottoporlo a processo con l’accusa di terrorismo internazionale. Al momento, tuttavia, mancano nel Paese sia centri di de-radicalizzazione appositamente pensati, sia leggi che ne stabiliscano il funzionamento. Eppure servirebbero, per evitare che le carceri diventino l’ultima frontiera del jihad e quasi un’università, dove l’estremismo è l’unica materia insegnata. America Latina. Violenza e populismo, dal Messico al Brasile di Juan Luis Cebrián* La Stampa, 19 luglio 2019 Camminare per le strade di grandi città latinoamericane sta diventando un’attività ad alto rischio. Restarsene a casa, anche”. Sono passati quasi vent’anni da quando lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano ha pronunciato questa frase e da allora la realtà non ha fatto altro che confermarla. Nonostante la sua apparente identità comune, l’America Latina è più simile a un arcipelago che a un continente, e dopo l’indipendenza della Spagna e dal Portogallo ha vissuto una storia di frammentazione e di scontri. Malgrado l’uso dello spagnolo e del portoghese, lingue sorelle, abbia cementato una cultura riconoscibile come identitaria, e allo stesso tempo simile in tutti quei Paesi. Nell’ultimo quarto del secolo scorso un nuovo tratto comune li ha uniti: l’ingombrante debito estero di quasi tutto il territorio. E ora, che la storia torna a frammentare e a contrapporre i suoi vari Stati, un’altra caratteristica comune sembra cancellare le differenze: l’esistenza di una violenza letale che la rende, insieme all’Africa sub-sahariana, la regione con il più grande numero di omicidi nel mondo. Quasi un terzo degli omicidi commessi ogni anno sulla Terra avvengono in America Latina. Le due grandi potenze dell’area, Messico e Brasile, insieme al Venezuela e ai piccoli Paesi centroamericani sono in testa alla lista. Nella regione, data per conquistata alla democrazia alla fine del secolo scorso, l’emergere del chavismo e dei suoi alleati in Bolivia e in Ecuador, insieme alla resilienza del regime cubano, hanno ben presto annunciato la nuova emergenza del populismo che ora ne domina le strutture politiche. In realtà il populismo è una malattia endemica di quei luoghi sin dall’indipendenza dalla corona di Spagna e dall’impero portoghese. A prescindere dal segno ideologico. Dal peronismo al castrismo, da Trujillo a Pinochet, dalle giunte militari alle dittature rivoluzionarie, gli appelli alle masse e il ricorso alle armi da secoli sono una costante nella politica latinoamericana. Guerre civili come quella colombiana o la pressione dei cartelli della droga e delle bande organizzate sono uno scenario costante di sangue e di fuoco contro cui nessun governo è stato in grado di combattere con successo. Questa situazione è stata ed è compatibile con livelli di crescita e di sviluppo a volte considerevoli, anche se si verificano lunghi periodi di stagnazione che vengono in genere coronati da recuperi tanto rapidi quanto instabili. Negli ultimi due decenni diversi milioni di latino-americani sono diventati consumatori e sono entrati a far parte della classe media e alcuni stati come il Perù hanno a lungo mantenuto una crescita del Pil vicina o superiore al 5 per cento annuo, anche se i loro ultimi cinque presidenti consecutivi sono stati in un modo o nell’altro incarcerati con accuse di corruzione non sempre provate. Come in alcuni Paesi sviluppati, l’Italia o la Spagna, ad esempio, l’economia sembra andare avanti per conto proprio, al di fuori o malgrado la politica. Ciononostante, la violenza non ha smesso di crescere e questo evidenzia che la sua origine non si basa solo sulle enormi disuguaglianze sociali e sulla povertà di grandi parti della popolazione. La diffusa corruzione, un’altra caratteristica comune a questi Paesi, e la sua presenza quasi epidemica nelle forze di sicurezza, nella polizia e in non pochi eserciti, contribuisce al fallimento nel mantenimento dell’ordine pubblico e facilita il lavoro della criminalità organizzata. La permanenza di tradizioni e culture ancestrali, poi, conferisce agli atti criminali una straordinaria crudeltà. Brasile e Messico hanno inaugurato quest’anno regimi politici di ideologia praticamente opposta, ma molto simili nei profili demagogici e persino folkloristici incarnati dai loro leader. Entrambi si inseriscono nel filone principale di ciò che potremmo chiamare il nuovo disordine latinoamericano, in cui la ferita aperta del Venezuela, l’instabilità istituzionale in Perù, le difficoltà del piano di pace in Colombia, un Paese che ha ricevuto più di un milione e mezzo di profughi dal regime di Maduro, l’incognita politica e il fallimento economico dell’Argentina e le carovane di migranti centroamericani che in marcia verso gli Stati Uniti, compongono un quadro epico e drammatico del destino delle loro popolazioni. Sia Bolsonaro, un pre-fascista, sia López Obrador (Amlo), rappresentante tardivo dei valori fondanti del Messico rivoluzionario, affrontano situazioni molto difficili che gravano sullo sviluppo politico ed economico dei loro Paesi. Si sono offerti al loro popolo come la soluzione, e magari lo fossero, anche se in realtà sono essi stessi in gran parte il problema. Bolsonaro è il Trump brasiliano, altrettanto rozzo e ignorante, ma molto meno divertente e popolare. Amlo gode di una popolarità senza pari nel suo Paese e, di fronte alla spudorata vergogna degli altri due, ha un pensiero più articolato ed è latore di un messaggio più profondo, anche se polverizzato dalla sua demagogia oratoria e mitizzato grazie ai bagni di folla. Con Trump entrambi hanno in comune il fatto che nello spazio di pochissimo tempo hanno subito defezioni nella propria squadra. Recentemente si è dimesso il ministro delle Finanze messicano, un esperto tecnocrate che per mesi ha dovuto confrontarsi con il capo del gabinetto economico, Alfonso Romo, il miliardario di Monterrey che cerca di combinare il populismo del suo presidente con le aspettative economiche degli imprenditori. In contrasto con l’ortodossia fiscale del primo, questi si sforzano di promuovere politiche espansive che sottraggano il Paese alla minaccia della recessione. Anche se per ora, a parte alcuni incidenti, non si sono verificate gravi catastrofi a Brasilia o nella capitale azteca, lo scetticismo e la paura si diffondono tra gli operatori economici. Il disastro del Venezuela, ormai uno stato fallito, e la stagnazione dell’Argentina, che andrà alle urne alla fine dell’estate, completano un panorama di confusione e scarse aspettative a breve termine. Per continuare a parafrasare Galeano, si potrebbe riassumere che il carattere primordiale di questo problema è che “chi non è prigioniero del bisogno è imprigionato dalla paura”. Il ricorso al populismo, ora così in voga, minaccia di accrescerli entrambi. *Traduzione di Carla Reschia Svizzera. “InOltre”, come dire scuola in carcere d Claudio Lo Russo La Regione, 19 luglio 2019 Con Mauro Broggini siamo entrati nella scuola alla Farera, il suo sogno professionale realizzato nel 2006. Ora, prossimo alla pensione, riavvolge il filo di un’esperienza unica: “Con orgoglio”. Il complimento più bello, in 42 anni di insegnamento, Mauro Broggini lo ha ricevuto da un detenuto: “Maestro, tu non sei un uomo di parole, ma di parola. Mi ha commosso, lui non aveva nessun interesse a dirmelo”. In questa intervista contravveniamo, forse, alla regola della “giusta distanza”. Al Cpt-Spai a Locarno, alla scuola InOltre in penitenziario, il prof. Broggini è semplicemente il Mauro. Il sorriso facile, il modo schietto di fissarti con i suoi occhi azzurri, la sua energia trascinante e contagiosa chiamano un “tu” confidenziale. Mauro Broggini corrisponde al profilo del docente insofferente alle burocrazie e ancora convinto che la regola del “buon maestro”, come dice lui, sia voler bene ai propri allievi. Questo il faro che lo ha guidato in oltre quattro decenni di lavoro come insegnante di cultura generale, come docente mediatore e come ideatore e coordinatore, fino alla fine di agosto, della scuola InOltre in penitenziario: “In perché è fatta dentro, Oltre perché guarda al dopo la detenzione”. Con lui abbiamo varcato la soglia della Farera, dove si trovano donne e minorenni in attesa di giudizio. Qui il regime è duro, 23 ore di cella e una d’aria. La scuola è un raggio di luce in giornate troppo lunghe, l’occasione per sfuggire le proprie ombre e nutrirsi di stimoli positivi. Anzitutto, un momento in cui sentirsi ancora persone in relazione con il mondo oltre la cella. In aula, attorno ai tavoli, ci accolgono quattro storie, altrettanti visi femminili disponibili all’ascolto e all’incontro, nonostante tutto. Qui si legge, si dialoga, si fanno lezioni di cucina o di cucito. Una donna mi mostra con orgoglio il vestito da lei realizzato. È bello, davvero: non immaginava di esserne in grado, non aveva mai cucito prima. Quello della scuola InOltre è per Mauro uno dei due sogni professionali realizzati. Il primo era stato la figura del docente mediatore: “Abbiamo iniziato in tre o quattro nella scuola professionale, adesso sono circa 50, dallo scorso anno anche nei licei”. Qualche settimana fa Mauro ha concluso la sua esperienza di docente a Locarno, ora non gli resta che accompagnare la transizione con chi lo sostituirà in carcere, dove fin dal primo giorno, nel 2006, è stato coordinatore della formazione. Resterà però sempre vivo il ricordo, ci dice, di quei ragazzi che non ce l’hanno fatta, quelli che si sono persi su strade per loro troppo tortuose, fatte di devianza, abbandono, dipendenze e sofferenza. È pensando a loro che molti anni fa ha iniziato a immaginare quella che sarebbe divenuta la scuola InOltre. Negli anni, oltre alle lezioni ha proposto conferenze e concerti, sempre a costo zero, grazie alla generosità dei tanti che si sono messi a disposizione: “Vedere 80 detenuti nella palestra della Stampa che ascoltano e cantano musica è qualcosa che mi fa emozionare”. Scuola e cultura, due strumenti fondamentali per il reinserimento. Ma ancor prima si tratta di “far capire loro che non sono dimenticati”. Mauro cita un dato: “Ci sono donne docenti e mai, mai nessuna è venuta a dirmi che un detenuto le ha mancato di rispetto. Questo è un primo passo: se inizi a rispettare l’altro quando sei dentro, forse lo farai anche fuori”. Stimoli culturali e formativi molto diversi fra loro, portati da persone appassionate, possono aprire finestre su di sé e sul mondo capaci di produrre conseguenze impreviste. È un pensiero ingenuo, ottimista, realista? Io ci credo. Soprattutto alla Stampa i discorsi fra di loro sono sempre gli stessi: l’avvocato, il processo, il procuratore... Il portare la scuola, il portare le conferenze e i concerti, dà l’opportunità di cambiare argomento e di crescere. L’importante è aprire queste finestre, poi sta a loro affacciarsi e vedere che cosa sta attorno. Per altro le persone esterne in questi anni sono sempre state molto motivate, perché entravano in un ambiente di cui si parla sempre ma che non si conosce realmente. Tempo fa mi diceva il professor Romer, uomo di scienza, che raramente ha trovato l’attenzione e il piacere di apprendere visti in penitenziario. L’importante è portare loro la positività. Ritorniamo alle origini? Che cosa ti ha condotto in carcere? Ho cominciato a venirci 40 anni fa per seguire dei ragazzi che frequentavano la Spai e che magari finivano quaggiù. In questo modo ho conosciuto altri giovani, ai quali ho cercato di dare una mano, per un apprendistato o per la scuola, ma più che altro per rendere loro visita. Anche qui si proponeva qualcosa, in modo però non strutturato. Finché un direttore illuminato, Mauro Belotti, mi ha convocato nell’imminenza dell’apertura della Farera. Con lui c’erano Mauro Albisetti, giudice dei provvedimenti coercitivi, e l’allora giudice dei minorenni Silvia Torricelli. Belotti mi ha detto: “È una vita che coltivi l’idea della scuola: adesso mettila in piedi”. Così ho pensato alle materie canoniche da inserire in un carcere - cultura generale, informatica, educazione visiva, ginnastica, un po’ di matematica - aggiungendo educazione alimentare e cura della casa, perché vedevo il degrado igienico in cui erano abituati a vivere alcuni ragazzi, soprattutto tossicodipendenti. L’anno dopo l’inizio alla Stampa, dove si è cominciato a formare anche apprendisti: cucina, stamperia, legatoria e falegnameria. Con quale emozione si chiude questa pagina della tua vita? Chiudo con la consapevolezza di aver fatto un percorso bellissimo, di aver coronato un sogno. Porto nel cuore il sorriso, la riconoscenza di gente che a volte mi capita di incontrare fuori, e magari con un semplice “grazie” ti dice molto di più che con tante parole. È importante, ha un valore, perché io stesso dopo ogni lezione dico sempre loro “grazie” per la cortesia, l’attenzione, la partecipazione, la schiettezza con la quale sono entrati in contatto con me. Il mio orgoglio è sapere che non esiste un altro penitenziario in Svizzera con una struttura formativa come la nostra. La mia esigenza era però quella di poter accompagnare i detenuti anche una volta usciti, quindi 42 anni di scuola professionale mi hanno permesso di conoscere molte persone che possono offrire loro un lavoro: ci sono ex allievi che hanno tre o quattro anni meno di me... Qual è la sensibilità nella nostra regione verso ex detenuti che vorrebbero un’altra occasione anche a livello professionale? Dal mio punto di vista il Ticino si è sempre dimostrato un cantone aperto. In questi anni mai ho avuto la porta sbattuta in faccia, ho sempre trovato ascolto anche in datori di lavoro scottati da una prima esperienza negativa. Credo che il tutto risieda nel fatto di essere chiari fin dall’inizio, pur senza entrare nei dettagli del vissuto della persona che si va a presentare. Molti giovani hanno fatto il loro percorso, altri si sono persi di nuovo, così ho imparato che nessuno può avere la presunzione di possedere la bacchetta magica con cui risolvere il malessere del prossimo. Però ricordo ragazzi e ragazze che sono state delle autentiche scommesse, magari in settori delicati come la sanità, e che sono state vinte. Come gestire le emozioni innescate dal varcare la soglia del carcere: incontrare la sofferenza altrui, sapere di avere di fronte qualcuno che forse ha commesso qualcosa, come dici tu, di inenarrabile? Non c’è una ricetta. Di molti noi non sappiamo perché sono lì. Io sono genitore, marito, insegnante, sono anche stato giudice di pace: l’idea di certi reati mi rivolta dentro. Però si deve fare lo sforzo, con noi stessi e con gli altri, di restare legati al nostro obiettivo: portare lì dentro la scuola, portare quelle due ore di sollievo in persone che spesso sono dimenticate da tutti. Se poi riusciamo a metterci qualcos’altro - una carezza, un abbraccio, un sostegno - meglio ancora. Poi, è chiaro, andare via è sempre un peso, soprattutto con i minori fa male. Resta la consapevolezza che la scuola può essere la chiave di volta. Per chiudere questo cerchio, torniamo al primo giorno di lezione in penitenziario? Il primo non lo ricordo, ma ricordo da dove sono partito la prima volta che negli anni 80 sono venuto qui. Era un ragazzo che frequentava la Spai, finito in carcere. È morto un paio di anni fa, purtroppo dopo una vita ai margini, fatta di dipendenze e di malattia. Poco tempo prima l’ho incontrato a Locarno e mi ha ricordato che tanti anni prima ero andato alla Stampa per lui, per andare a trovarlo. A quei tempi non era ancora stata istituita la figura del docente mediatore, ma io avevo già questa visione di un docente che andasse oltre la semplice trasmissione di nozioni. Ripensandoci adesso, finisco felice di quel che ho fatto e altrettanto felice guardo avanti, a quel che farò. Intanto ringrazio già chi porterà avanti l’avventura della scuola InOltre. Turchia. Assolto il rappresentante di Reporters sans frontieres di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 luglio 2019 È stato assolto ieri Erol Onderoglu, il rappresentante di Reporters sans frontieres in Turchia accusato di “propaganda terroristica” a favore del Pkk curdo. Il giornalista rischiava oltre 14 anni di carcere per aver partecipato a una campagna di solidarietà a sostegno del quotidiano filo-curdo Ozgur Gundem, poi chiuso dalle autorità di Ankara. Scagionati, sempre dalle stesse accuse, anche lo scrittore e giornalista Ahmet Nesin e la direttrice della Fondazione turca per i diritti umani Sebnem Korur Fincanci. I tre potranno anche chiedere una compensazione economica per il loro arresto nel giugno 2016, quando trascorsero una decina di giorni in carcerazione preventiva. “L’assoluzione” di oggi (ieri ndr) è una vittoria eccezionale della giustizia e della libertà di stampa in un Paese in cui l’una e l’altra vengono violate ogni giorno”, ha commentato su Twitter il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire. Ma per Onderoglu non è finita qui: l’attivista è imputato in un altro processo per “propaganda terroristica” che si aprirà a novembre per aver sostenuto l’appello per la pace degli accademici turchi contro le operazioni militari di Ankara nel sud-est curdo. “Questo caso non avrebbe mai dovuto essere aperto. Sin da subito è apparso chiaro che le assurde accuse rivolte contro di loro e altri che avevano preso parte alla campagna di solidarietà con Özgür Gündem avevano l’obiettivo di ridurre al silenzio e intimorire i difensori dei diritti umani, i giornalisti e l’intera società civile turca. Purtroppo altre persone che avevano preso le difese di Özgür Gündem sono ancora sotto inchiesta o sono state già condannate. Chiediamo alle autorità turche di annullare tutte le accuse e porre fine all’accanimento giudiziario nei confronti dei difensori dei diritti umani”, ha dichiatato Milena Buyum, campaigner di Amnesty International sulla Turchia. Delle 56 persone che avevano preso parte alla campagna di solidarietà, ne sono state poste sotto inchiesta 49. Trentotto di queste sono state rinviate a processo. I 31 processi portati a termine hanno visto quattro assoluzioni e 27 condanne per un totale di oltre 24 anni di carcere e 10.500 euro di multe. In due casi, le sentenze contro i “direttori per un giorno” non sono state sospese e il difensore dei diritti umani Murat Çelikkan e la scrittrice e giornalista Ayse Düzkan sono stati condannati rispettivamente a due e a cinque mesi. Sono poi stati rimessi in libertà vigilata. Siria. 49.000 bambini nel campo di Al-Hol hanno bisogno di aiuto e protezione La Repubblica, 19 luglio 2019 L’appello di Unicef. Non desiderati, vittime di sfruttamento e abusi: decine di migliaia di minorii nel campo e in diverse aree della Siria nel limbo. In Siria, nel nordest del paese, almeno 70.000 persone vivono nel campo di Al-Hol. L’Unicef stima che più del 90% di loro sono donne e bambini. Tra i bambini, circa 20.000 sono siriani. I restanti 29.000 provengono da 62 paesi diversi, compresi 9.000 dall’Iraq. La maggior parte ha meno di 12 anni. Questi bambini sono altamente vulnerabili, sono sopravvissuti a duri combattimenti e hanno visto inimmaginabili atrocità. Ragazzini di 12 detenuti. I bambini ad Al-Hol affrontano una difficile situazione umanitaria, per molti ulteriormente aggravata dall’aver subito recenti esperienze di abuso o dall’essere stati costretti a combattere o a compiere atti di violenza estrema. Questi sono solo una parte di un più ampio gruppo di bambini presumibilmente associati al conflitto armato, bloccati nei campi, in centri di detenzione e orfanotrofi in Siria, soprattutto nel nordest. Molti, anche di 12 anni, sarebbero stati detenuti. Questi bambini continuano ad essere esposti ad un elevato rischio a causa dell’acuirsi delle violenze. Nella provincia di Idlib nel nordovest del paese, circa 1 milione di bambini sono stati intrappolati per mesi e mesi nel mezzo di pesanti combattimenti. Il loro destino e il loro futuro sono in bilico. I bambini al campo di Al-Hol richiedono cure, protezione e assistenza salvavita, soprattutto con le alte temperature estive. Impossibile l’accesso all’acqua. “Migliaia di ragazzi e ragazze al campo di Al-Hol non hanno mai avuto la possibilità di essere soltanto dei bambini. Questi sono bambini. Meritano di ricevere cure, protezione, attenzione e servizi a i massimi livelli. Dopo anni di violenze, non sono desiderati, sono stigmatizzati dalle loro comunità locali o evitati dai loro Governi,” ha dichiarato Fran Equiza, Rappresentante Unicef in Siria, dopo una missione al campo di Al-Hol la scorsa settimana. Nonostante sia le violenze nell’area sia l’afflusso di persone che arrivano ad Al-Hol stiano diminuendo, i bisogni umanitari restano critici, come l’accesso ad acqua sicura e l’assistenza sanitaria. “Stiamo lavorando con i nostri partner e donatori per garantire ai bambini assistenza salvavita immediata. Una goccia nell’oceano. È necessario fare molto di più per continuare a fornire ai bambini servizi di base e protezione fra cui il reintegro nelle loro comunità locali e un ritorno sicuro nei propri paesi di origine”, ha aggiunto Equiza. Il reintegro nelle comunità. L’Unicef ricorda a tutte le parti coinvolte che questi sono bambini. Hanno il diritto di essere salvaguardati, ricevere documentazione legale e accesso alla riunificazione familiare. Noi chiediamo azioni immediate: A tutti gli Stati Membri coinvolti: in linea con il superiore interesse dei bambini e in pieno accordo con gli standard legislativi internazionali, di assumersi piena responsabilità per il reintegro dei bambini nelle comunità locali e un rimpatrio sicuro dei bambini nei propri paesi. A tutte le parti in conflitto in Siria e coloro che possono esercitare un’influenza: di facilitare un accesso umanitario incondizionato, all’interno di Al-Hol e ovunque in Sira, per raggiungere ogni bambino che abbia bisogno di aiuto, ovunque esso sia. Il lavoro di Unicef. Con i suoi partner, l’Unicef continua a rispondere ai bisogni dei bambini ad Al-Hol: Negli ultimi mesi, almeno 520 bambini separati o non accompagnati sono stati identificati, 214 di questi sono stati riunificati con membri delle loro famiglie, mentre 74 sono ospitati in centri di assistenza temporanei; L’Unicef sta supportando spazi per l’apprendimento presso il campo utili per 3.000 studenti, oltre a spazi a misura di bambini e squadre mobili per la protezione dell’infanzia. Sono stati raggiunti 12.000 bambini con attività ricreative, supporto psicosociale, case management e cure speciali per i bambini separati e non accompagnati. La costruzione di strutture fisse. Dall’inizio dell’anno le squadre mobili per la salute e la nutrizione supportate da Unicef e Oms hanno fornito vaccini e servizi per la nutrizione ai bambini nel campo attraverso strutture fisse e team mobili. Ogni giorno, l’Unicef e i suoi partner forniscono circa 1,7 milioni di litri di acqua potabile e 750.000 litri di acqua per uso domestico. Dato che il consumo di acqua durante l’estate cresce, sarà una sfida continuare a garantire quantità sufficienti di acqua. Sono state installate più di 1.280 latrine. Brasile. Sono 812mila i detenuti, il 41,5% in attesa di giudizio agenzianova.com, 19 luglio 2019 Il Consiglio nazionale di giustizia (Cnj) del Brasile ha reso noto che la popolazione carceraria del paese ha raggiunto quota 812.564 detenuti, alla data di mercoledì 17 luglio 2018. Secondo i dati pubblicati oggi, 18 luglio, dal Cnj, il 41,5 della popolazione totale, 337.126 detenuti, è costituita da carcerati in attesa di giudizio. A questa platea va aggiunto il numero potenziale di 366.500 persone che sono state colpite da mandati di arresto, non eseguiti, in tutto il paese. Attualmente, il Brasile ha la terza più grande popolazione carceraria del mondo, dietro solo agli Stati Uniti e alla Cina. A giugno del 2016 la popolazione carceraria era di 726.700 detenuti. I dati Cnj indicano che la popolazione carceraria brasiliana cresce a un tasso del 8,3 per cento annuo. Se non si porrà rimedio alla crescita, il Cnj calcola che il numero dei prigionieri potrebbe raggiungere 1,5 milioni nel 2025. Il Cnj conta i prigionieri già condannati e quelli in attesa di processo, compresi i detenuti che scontano la pena in regime semi-aperto, aperto, affidamento in casa famiglia e affidamento in prova. Il monitoraggio esclude i detenuti con cavigliera elettronica e quelli agli arresti domiciliari. Il Cnj, che aggiorna quotidianamente la propria banca dati con le informazioni provenienti dai tribunali di tutti gli stati, informa che il numero di detenuti potrebbe essere persino più alto perché alcuni stati hanno fornito informazioni ancora parziali. Il sovraffollamento e il numero dei detenuti in attesa di giudizio sono stati due punti criticati dalla Corte suprema (Stf) nel settembre 2015 quando, nell’analizzare la situazione, la Corte affermò che il sistema viola maniera generalizzata i diritti dei prigionieri nei confronti della dignità e dell’integrità psico-fisica, sottolineando che e la violazione dei diritti fondamentali dei prigionieri produrrebbe ancora più violenza contro la società stessa. Ecuador. Continua lo stato di emergenza nelle carceri di Italo Cosentino sicurezzainternazionale.luiss.it, 19 luglio 2019 Le prigioni ecuadoriane sono fuori controllo. Lo riconoscono le stesse autorità del paese andino che il 15 luglio hanno ampliato per altri 30 giorni lo stato di emergenza nelle carceri del paese, in vigore già da due mesi. Tre rivolte avvenute nelle ultime settimane dimostrano che la situazione è grave. Tra metà maggio e fine giugno dieci detenuti sono morti, due di loro sono stati inceneriti e un altro decapitato di fronte all’impotenza delle forze di sicurezza del paese sudamericano. Il presidente dell’Ecuador, Lenín Moreno, ha decretato il 16 maggio scorso lo stato di emergenza nel sistema carcerario di fronte alla chiara mancanza di infrastrutture e risorse, al sovraffollamento soffocante e alla tensione all’interno dei centri. Ma quel passo non ha fermato l’ondata di violenza: una settimana dopo due prigionieri che condividevano una cella sono morti, uno sparato e l’altro pugnalato; dieci giorni dopo, uno scontro tra bande ha posto fine alla vita di altre sei persone e, di nuovo, dopo altre due settimane, un alterco ha provocato due morti e 19 feriti, con numerosi detenuti portati in isolamento dopo un intervento della polizia. A fine giugno il ministro dell’Interno ecuadoriano, María Paula Romo, avrebbe dovuto comparire davanti all’Assemblea nazionale per rendere conto della situazione critica delle prigioni, ma ha invece inviato il suo vice ministro, Patricio Pazmiño. Il numero due di Romo ha esposto le cifre e le ragioni dello stato “caotico” delle 11 carceri nel paese: in appena mezzo anno sono morti 49 prigionieri, dieci in meno rispetto al 2018. 19 sono stati uccisi, nove si sono suicidati e l’ultimo di loro è stato vittima di un omicidio colposo. La maggior parte del problema si concentra nei due centri di riabilitazione sociale della città di Guayaquil, la principale città del paese, sulla costa del Pacifico, dove fino a maggio 14 detenuti sono stati assassinati, 12 in più rispetto a tutto l’anno scorso. L’altro carcere problematico è quello della provincia di Cotopaxi (centro-nord del paese), che per anni ha mantenuto statistiche tra tre e quattro morti violente e quest’anno ha già superato i record precedenti. Romo è intervenuta in parlamento il 15 luglio. L’esecutivo attribuisce l’alta conflittualità carceraria a uno scontro tra bande organizzate che lottano per il controllo dei padiglioni maschili, approfittando di un alto livello di sovraffollamento, oltre il 40% della capacità massima, e che i numeri delle forze di sicurezza sono insufficienti, sebbene durante i due mesi di stato di emergenza la polizia sia stata autorizzata a mantenere il controllo all’interno delle prigioni e l’esercito è stato inviato all’esterno per evitare tensioni con familiari e visitatori. “Non abbiamo trascurato la sicurezza dei cittadini, ma a causa dell’attuale situazione è stato necessario assegnare 2.600 agenti di polizia per pacificare le prigioni” - ha giustificato il dipartimento di polizia in una dichiarazione resa pubblica all’inizio di giugno. Gli 11 centri carcerari ecuadoriani hanno la capacità di ospitare 28.500 detenuti, ma ad oggi ospitano 40.006 detenuti, che non hanno sale da pranzo e lamentano le frequenti interruzioni del servizio idrico. Con la dichiarazione dello stato di emergenza, il governo di Quito ha sbloccato 27 milioni di dollari e ha disposto altre tre misure: richiedere il sostegno ai giudici in modo che non contraddicano le azioni disciplinari che vengono intraprese all’interno del sistema penitenziario, migliorare l’alimentazione di detenuti e tecnologie per prevenire atti di violenza e, infine, riclassificare i detenuti “in base alla loro pericolosità, comportamento e causa per cui sono privati della loro libertà” per ridistribuirli tra le diverse carceri del paese. Madagascar. L’Onlus “Insieme si può” dona un nuovo carcere ai detenuti di Marovoay Il Gazzettino, 19 luglio 2019 “Insieme si può” inaugura un nuovo penitenziario in Madagascar, dove violenze, promiscuità, condizioni igieniche pessime e cibo scarso sono all’ordine del giorno. Oggi una quarantina di detenuti della struttura di Marovoay hanno riacquistato dignità. Sì, perché hanno realizzato mattone su mattone con le loro mani il carcere dove si trovano, con la guida e l’aiuto economico di Insieme si Può supportato, in questo progetto, dalla Parrocchia di Cortina, dalla ditta IF Informatica di Valenza, dalla Fondazione Umano Progresso di Milano oltre che da altri gruppi e da singoli benefattori. Tutto è nato lo scorso anno, da una visita in Madagascar dell’Associazione. Da qui l’idea di dare una mano e il percorso, molto veloce, per arrivare a realizzare un edificio praticamente nuovo. Era il 2018, infatti, quando un gruppo di volontari della Onlus ha varcato l’ingresso del penitenziario di Marovoay, una cittadina di 15 mila abitanti, restando orribilmente impressionato dalle condizioni di vita degli ospiti. I circa 40 carcerati, per lo più accusati di furto, vivevano in una struttura fatiscente e a rischio crollo. Niente letti, niente materassi, un unico gabinetto all’aperto, una rientranza nel muro usata per lavarsi. Cibo scarso al punto che Maurizio Crespi, missionario in Madagascar da trent’anni, a più riprese è stato costretto a rifornirne la mensa con riso e fagioli. Condizioni disumane che hanno portato a formulare il progetto prima della ristrutturazione e poi della costruzione di un nuovo edificio. Verificato il fatto che da parte dell’autorità carceraria non c’era nessuna intenzione di intervenire Insieme si può si è rimboccata le maniche. È così iniziata la costruzione di una nuova struttura, situata su due piani, dotata di camerate, servizi igienici e cucina. Alla costruzione hanno partecipato gli stessi carcerati e il risultato è una casa che, oggi, è la più bella di tutto il Paese. L’inaugurazione è avvenuta alla presenza del Ministro della Giustizia e delle massime autorità carcerarie e politiche della regione. Da Belluno sono arrivati Piergiorgio Da Rold, Antonio De Riz, Teresa Vedana e Giusy Casagrande.