Decreto sicurezza bis. “In cella anche se incinte”, è scontro tra Lega e 5S Il Dubbio, 18 luglio 2019 Ancora scintille sulle modifiche al Decreto sicurezza bis. i leghisti contro “le donne rom che fanno figli per evitare il carcere”. ma i 5stelle non ci stanno. Il dl sicurezza bis divide ancora i due soci di maggioranza. Secondo l’Adnkronos, i 5Stelle sarebbero molto “nervosi” per un emendamento targato Lega che esclude il differimento dell’esecuzione della pena per le donne incinte. La proposta di modifica in questione - che il Carroccio preme per inserire ma, viene sottolineato, non sarebbe stata ancora presentata - prevede l’abrogazione di quella parte dell’articolo 146 del codice penale che include le donne incinte e le madri di bambini di età inferiore a un anno tra i soggetti per i quali è previsto il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena. Una misura che, in ambienti leghisti, viene giustificata come il tentativo di “mettere un freno” al “fenomeno delle donne rom che fanno figli apposta per non andare in galera”, come ha detto, ancora all’Adnkronos, il deputato leghista Igor Iezzi, tra i firmatari dell’emendamento del Carroccio. Ad ogni modo, sottolinea il parlamentare del Carroccio membro della Commissione Affari Costituzionali, “c’è una valutazione in corso” con il Movimento 5 Stelle sul contenuto di questo emendamento. E infatti proprio dal M5S si levano critiche dure nei confronti di un provvedimento che - rimarcano fonti parlamentari pentastellate - “potrebbe aprire a scenari inquietanti”. Proprio il mese scorso ha fatto molto discutere un post pubblicato su Facebook dal vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini a commento di un articolo dedicato alla vicenda di una donna rom, dal titolo: “Viene liberata perché è incinta: “madame furto” deruba un’invalida”. “Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto”, aveva scritto sui social il segretario della Lega. Del resto dalle parti del Carroccio non negano che l’emendamento ssia necessario per “mettere un freno” al “fenomeno delle donne rom fanno figli apposta per non andare in galera”. Violenza di genere, il “Codice Rosso” è legge. Ok del Senato con 197 sì di Antonella De Gregorio Corriere della Sera, 18 luglio 2019 Via libera definitivo al ddl per tutelare le vittime di violenza di genere. Inseriti nuovi reati: revenge porn e sfregio al volto. Tempi più rapidi e pene più severe. Il ministro Bonafede: “Ora lo Stato dice che le donne non si toccano”. Via libera definitivo al “Codice Rosso”, il dibattuto disegno di legge che dispone le misure per tutelare le vittime di violenza domestica e di genere. Il testo varato dal Senato - identico a quello approvato alla Camera - ha ottenuto 197 voti a favore, 47 astensioni e nessun voto contrario. A favore hanno votato M5S, Lega, Fi, Fdi e Gruppo delle Autonomie. Pd e Leu si sono astenuti. Tempi più rapidi e pene più severe - Il ddl si compone di 21 articoli che prevedono procedimenti penali più veloci per prevenire e combattere la violenza di genere. Il “fattore tempo”, oltre all’inasprimento delle pene è il perno su cui il governo punta per combattere il dilagare di violenze, maltrattamenti e femminicidi. Una legge che “rappresenta il massimo che si può attualmente fare sul piano legislativo per combattere la violenza sulle donne”, ha affermato esultante Giulia Bongiorno, ministro della Pubblica Amministrazione. Che ha aggiunto: “Dopo questa svolta, sono consapevole che l’impegno per combattere la violenza sulle donne non può finire qui: per esempio, sarà essenziale operare sul piano della riduzione dei tempi dei processi penali”. Comunque - ha detto - “oggi abbiamo aggiunto un mattone determinante nella costruzione di un’efficace lotta alla violenza”. Mentre Alfonso Bonafede, il pentastellato ministro per la Giustizia, ricordando che in Italia ogni 72 ore muore una donna per femminicidio (“una vera e propria emergenza sociale”, l’ha definita), dopo l’approvazione del ddl ha dichiarato: “Ora lo Stato dice ad alta voce che le donne in Italia non si toccano”. “Più sicurezza e protezione per le donne vittime di violenza”, ha scritto su Twitter in ministro dell’interno, Matteo Salvini. “Non è la soluzione definitiva, e ne siamo consapevoli. Ma è un primo importante passo, che mi rende orgoglioso, nella direzione della rivoluzione culturale di cui il nostro Paese ha fortemente bisogno”, ha commentato su Facebook il premier, Giuseppe Conte. “Legge insufficiente” - Ma se la maggioranza sbandiera il risultato raggiunto, l’opposizione ne contesta gli effetti positivi annunciati, perché è una legge a costo zero e non stanzia risorse. “Abbiamo perso l’occasione di fare del Codice Rosso uno strumento davvero utile a contrastare il drammatico fenomeno della violenza sulle donne - commenta la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione sul femminicidio -. La maggioranza non ha nemmeno voluto prendere in considerazione uno solo degli emendamenti che abbiamo proposto: li hanno bocciati tutti in maniera burocratica e arrogante”. “Questa legge - prosegue Valente - affronta temi importanti, ma anche secondo gli operatori lo fa in maniera insufficiente. Purtroppo ancora una volta è prevalsa la logica della propaganda su quella del buon governo”. Dello stesso parere Paola Binetti, che definisce il ddl “un bel manifesto”. E sottolinea: “Bene il codice rosso in Pronto soccorso, bene la denuncia e l’intervento del magistrato entro tre giorni, ma senza le necessarie risorse aggiuntive sono diritti non esigibili”, sostiene. Revenge porn - Varato dal Consiglio dei ministri a fine novembre del 2018, fortemente sostenuto dalla leghista Giulia Bongiorno e dal Guardasigilli, il testo del provvedimento che prevede una “corsia preferenziale” e un iter velocizzato per le denunce, è stato poi profondamente cambiato con l’aggiunta di numerosi articoli durante l’iter in commissione Giustizia di Montecitorio. Ma è in occasione dell’esame da parte dell’Aula della Camera che sono state inserite novità rilevanti, come il reato di revenge porn. Norma, questa, inizialmente al centro di un duro scontro tra maggioranza e opposizioni, schierate compatte a favore dell’inserimento dello specifico reato di diffusione di video e immagini intime e private nel ddl sulla violenza di genere. La maggioranza, M5s in testa, in un primo momento si è opposta alla modifica, spingendo invece per il ddl ad hoc sul revenge porn all’esame del Senato, per poi aprire alle richieste delle forze di minoranza e votare all’unanimità a favore dell’inserimento del reato già in questo provvedimento. Sfregio del volto - Altra novità rilevante, il reato di sfregio del volto (“deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso”, recita il testo), che viene inserito nel codice penale. Chiunque provochi lesioni che hanno come conseguenza la deformazione o lo sfregio permanente del viso è punito con la reclusione da otto a quattordici anni. Se lo sfregio causa anche la morte della vittima la pena è l’ergastolo. Nuovi reati e procedure accelerate contro i casi di violenza domestica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2019 Legge di modifica del codice penale, di procedura penale e altre disposizioni in tema di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Nessun voto contrario. L’Aula del Senato ha approvato definitivamente il “Codice rosso”, la legge che interviene, in parte innovando in parte modificando, sulla disciplina penale della violenza domestica; 197 i sì, 47 le astensioni. Dal Governo, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sottolinea come con l’approvazione della legge “lo Stato dà una risposta molto forte: dice ad alta voce che le donne non si toccano”, mentre Giulia Bongiorno, ministro per la Pubblica amministrazione, ricorda che “la legge rappresenta il massimo che attualmente si può fare per combattere la violenza sulle donne. Troppe donne presentano denuncia e poi vengono abbandonate. Adesso imponiamo che vengano sentite entro tre giorni; e per il premier Giuseppe Conte si tratta “di un primo passo verso quella rivoluzione culturale di cui il Paese ha fortemente bisogno”. Il testo è assai composito e affianca misure di diritto penale ad altre di natura procedurale. Tra queste ultime, l’accelerazione dell’avvio del procedimento penale per una serie di reati che comprende per esempio i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e la violenza sessuale; più rapida, di conseguenza, anche l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione delle vittime. Così, la legge prevede: - che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisce immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; - che il pm, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato; - che gli atti d’indagine delegati dal pm alla polizia giudiziaria avvengano senza ritardo. Sul piano sostanziale, quattro sono i reati introdotti nel Codice: il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (revenge porn), punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15mila euro; la pena si applica anche a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li diffonde a sua volta per provocare un danno agli interessati. La fattispecie è aggravata se i fatti sono commessi nell’ambito di una relazione affettiva, anche cessata, o con l’impiego di strumenti informatici. Previsto poi il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, sanzionato con la reclusione da otto a 14 anni. Quando, per effetto del delitto, si provoca la morte della vittima allora la pena è l’ergastolo. Inedito anche il reato di costrizione o induzione al matrimonio, punito con la reclusione da uno a cinque anni. La fattispecie è aggravata quando il reato è commesso a danno di minori e si procede anche quando il fatto è commesso all’estero da o in danno di un cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia. Infine, il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, colpito con la detenzione da sei mesi a tre anni. Tra gli altri interventi, l’aumento delle sanzioni per lo stalking e la violenza sessuale, estendendo quanto a quest’ultima il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela (dagli attuali sei mesi a 12 mesi). Il provvedimento, inoltre, ridefinisce e inasprisce le aggravanti quando la violenza sessuale è commessa in danno di minore. Il delitto di atti sessuali con minorenne vede inserita un’aggravante (pena aumentata fino a un terzo) quando gli atti sono commessi con minori di 14 anni in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessi. Nell’omicidio, si allarga il campo di applicazione delle aggravanti comprendendo anche le relazioni personali. Rita Bernardini denunciata per autoproduzione di cannabis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2019 La leader radicale contesta: “dovevano arrestarmi, la legge è uguale per tutti”. Alla fine è riuscita nel suo intento, ma non fino in fondo perché avrebbe voluto farsi arrestare come succede agli altri cittadini. Dopo anni di disobbedienza civile, sponsorizzando pubblicamente la sua iniziativa sull’auto coltivazione di marijuana sul terrazzo di casa per sollecitare il pieno utilizzo a fini terapeutici, ieri Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, ha subito un fermo dai carabinieri. Lo ha preannunciato lei stessa tramite un post su Facebook con tanto di foto delle sue rigogliose piantine di marjuana, spiegando che la mattina presto è stata raggiunta da una telefonata dei carabinieri mentre si trovava su un treno in direzione di Parma, dove avrebbe dovuto partecipare al laboratorio Spes contra Spem, nel carcere della città emiliana. Alla domanda “lei è in casa?”, l’esponente del Partito Radicale ha risposto semplicemente “no, veramente sono sul treno in direzione Parma e sto fuori due giorni”. I carabinieri però le hanno ordinato di andarli a raggiungere subito. Il tempo di scendere dal treno e prendere un taxi, ha raggiunto immediatamente la sua abitazione. Una volta giunta lì, è stata condotta in caserma, assieme alle buste contenenti le piantine di marjuana sequestrate durante l’ispezione. Bernardini non è stata arrestata, ma solamente denunciata. Per questo l’esponente radicale ha espresso tutto il suo disappunto - facendolo mettere anche nel verbale - per la decisione della Procura di Roma di non procedere al suo arresto, come accade a tutti i cittadini. “Così si usano due pesi e due misure e la legge finisce per non essere uguale per tutti”, commenta amaramente Rita Bernardini. L’avvocato Giuseppe Rossodivita, anch’esso esponente radicale, sottolinea che coglieranno l’occasione di un eventuale processo per mettere sotto accusa una legge secondo loro irragionevole e criminogena. “Sarà una buona occasione per aprire un dibattito al quale la classe dirigente di questo paese si è sempre sottratta e continua a sottrarsi”, dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale. “La legalizzazione della marijuana e la distribuzione controllata di eroina fanno parte di una politica di sicurezza volta al contenimento della criminalità che grazie alle leggi in vigore - agisce sul mercato in regime di monopolio. Con l’alibi di tutelare le persone, si consegnano nelle mani di organizzazioni senza scrupoli che vendono sostanze pericolose, pericolo dovuto alla proibizione”. Non manca la solidarietà da parte di altre forze politiche. “Se oggi si ravvisa questo atto, bisogna spiegarsi come mai ciò non è stato ravvisato negli anni precedenti, visto che sono almeno sei anni che Rita Bernardini compie questa disobbedienza civile”, osserva l’ex senatore del Pd Luigi Manconi. “La battaglia che compie non è una semplice lotta nonviolenta, ma è la politica radicale dell’obiezione di coscienza contro le leggi ingiuste. E quindi non si può che stare dalla parte di Rita Bernardini”. Sono tantissimi a oggi i pazienti che si curano con la marijuana terapeutica, traendone un effettivo giovamento per la propria patologia, soprattutto in presenza di dolori cronici, dovuti a malattie anche gravi. In Italia l’accesso alla cannabis medica è previsto da 12 anni, ma riuscire effettivamente a giovarsi di tali terapie resta un percorso a ostacoli. Per questo motivo Rita Bernardini, assieme all’associazione LapianTiamo, chiede l’opportunità di pensare, per l’Italia, a una legge tesa a consentire l’auto coltivazione per fini terapeutici a tutti i pazienti che ne facciano regolare utilizzo. Un argomento, quest’ultimo, da inserirsi nell’ottica di una legalizzazione più ampia che riguarderebbe l’uso personale, ponendo l’accento sui potenziali vantaggi proprio in termini di colpo da infliggere al business della criminalità organizzata. Vigevano (Pv): ergastolano si impicca in cella, muore in ospedale dopo 11 giorni di Marianna Vazzana Il Giorno, 18 luglio 2019 È morto Antonino Benfante, detto “Palermo”, il killer dei fratelli Emanuele e Pasquale Tatone e di Paolo Simone, autista tuttofare di Emanuele, uccisi a ottobre del 2013 con due esecuzioni a distanza di 72 ore. Benfante, 55 anni, di origini siciliane, era stato condannato all’ergastolo con isolamento diurno per tre anni, pena resa definitiva dalla Cassazione ad aprile dello scorso anno. Da allora, più volte aveva manifestato segni di insofferenza dietro le sbarre del carcere di Vigevano dove si trovava rinchiuso, e più volte secondo quanto risulta al Giorno aveva tentato il suicidio. In un’occasione avrebbe cercato di incendiare una cella e, in un’altra, di aggredire un detenuto. Fatti culminati una decina di giorni fa nell’ennesimo tentativo di togliersi la vita stringendosi attorno al collo la maglia che indossava per impiccarsi. Ma è caduto sbattendo violentemente la testa ed è stato trasportato in gravi condizioni all’ospedale di Vigevano: è deceduto ieri, dopo 11 giorni di agonia. Dure le parole del suo avvocato, Ermanno Gorpia: “Se un detenuto tenta il suicidio più volte ed è in isolamento, occorre piantonarlo. Benfante aveva già tentato più volte il suicidio ed era stato ricoverato in Psichiatria, ma la situazione è stata sottovalutata. È stato fatto uno sbaglio enorme: chi è deputato alla custodia di soggetti, per quanto criminali possano essere, dovrebbe salvaguardarne la vita”. Benfante, malato di Parkinson, era reduce da un’operazione non andata a buon fine: gli era stato installato un microchip nel tentativo di migliorare le sue condizioni, ma aveva contratto un’infezione. E gli era stata negata la scarcerazione chiesta in virtù del suo stato di salute. Benfante era stato arrestato l’1 dicembre 2013, a poco più di un mese dagli omicidi commessi il 27 ottobre, quando con due proiettili calibro 38 freddò Emanuele Tatone (sfrattato quella stessa estate da una casa popolare e malato gravemente) e Paolo Simone (pure lui malato, ucciso perché lo stava accompagnando) e il 30 ottobre, quando toccò a Pasquale, fratello di Emanuele, crivellato fuori da una pizzeria con un fucile calibro 12. Le indagini portarono a Benfante, con precedenti per tentato omicidio e traffico di droga, che allora era appena uscito dal carcere e in affidamento in prova ai servizi sociali. Incastrato da immagini delle telecamere, tabulati telefonici e testimonianze. Il movente? Contrasti con la famiglia Tatone, legati all’egemonia sullo spaccio a Quarto Oggiaro. Napoli: la morte in carcere di Claudio Volte, tra dubbi e incertezze di Oscar De Simone Il Mattino, 18 luglio 2019 I familiari: “Vogliamo giustizia”. Sono ancora in attesa di risposte i familiari di Claudio Volpe, morto nel carcere di Poggioreale all’età di 34 anni. Il decesso lo scorso 10 febbraio, avvenuto dopo tre giorni di febbre alta, non ha mai convinto i parenti che da subito decisero di approfondire la vicenda. Nessuna indicazione però, sarebbe venuta dall’inchiesta dalla Procura di Napoli e dai risultati dell’autopsia. Cinque mesi di silenzio in cui ai dubbi si alterna lo sconforto. “Non sappiamo che fare e a chi rivolgerci”, dichiara la sorella di Claudio, Santina. “Ogni volta che il nostro avvocato va in tribunale gli vengono date risposte differenti rispetto ai risultati degli esami. A questo punto vogliamo vederci chiaro perché è assurdo morire con la febbre alta. Solo grazie ai suoi compagni di cella sappiamo qualcosa e cosa sia successo poco prima della morte”. Proprio in quelle ultime ore di vita - secondo il racconto di chi era con lui in cella - Claudio avrebbe accusato una forte stanchezza. Un affaticamento che non gli avrebbe consentito neanche di lavarsi. “Per questo motivo - continua Santina - mio fratello si sarebbe messo in branda chiedendo di essere svegliato dopo poco. Ma così non è stato. È stato trovato direttamente morto e nessuno sa cosa sia accaduto. Adesso siamo disperati e insieme al nostro legale stiamo cercando tutte le risposte. Non ci fermeremo perché abbiamo ancora tanti dubbi e vogliamo essere certi di quello che è successo”. Cosenza: detenuti in sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2019 Protesta per avere i documenti necessari ad accedere ai benefici. Dal 25 giugno alcuni detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Cosenza hanno iniziato lo sciopero della fame perché ci sarebbe stata la mancata chiusura della relazione di sintesi da parte dell’area rieducativa, documenti che dovevano essere redatte già da diversi mesi, e in assenza delle quali è impossibile poter accedere ai benefici penitenziari. A renderlo noto è l’associazione calabrese Yairaiha Onlus, la quale ha ricevuto la lettera da parte di un detenuto in sciopero della fame. “Da oggi, 25 giugno siamo in sciopero della fame per la chiusura della sintesi da parte dell’area educativa. Io sono ammissibile ai permessi già da febbraio 2019 - ha sottolineato - e siamo in 10 con reati comuni, tutti nella stessa situazione, e non ci viene chiusa la sintesi né ci vengono riconosciuti i permessi”. Il detenuto ha annunciato che porteranno avanti lo sciopero della fame fino a che non gli verrà fatta la sintesi. “Siamo persone non animali - scrive ancora nella lettera rivolta a Yairaiha Onlus. Non chiediamo delle grazie ma una seconda possibilità per una vita normale. Qui non abbiamo nessuna possibilità di essere reinseriti. Io ho solo una madre di 74 anni che vive con la pensione e ne spende metà per venire fino a qua”. Queste, in realtà, sono problematiche già emerse durante l’ispezione che fece lo scorso aprile l’on. Anna Laura Orrico del Movimento 5 Stelle con un esponente dell’associazione Yairaiha Onlus, ed erano state segnalate nell’interrogazione del 29 maggio scorso che la stessa ha presentato al ministro della Giustizia e che, ad oggi, non ha ricevuto ancora alcuna risposta. Oltre al mancato accesso ai benefici e ai ritardi delle risposte da parte della magistratura di sorveglianza, la parlamentare ha evidenziato numerose criticità strutturali e gestionali che, ad avviso dell’interrogante, “non possono che rendere pressoché solo afflittiva, e non rieducativa, la funzione della pena, nonché estremamente difficoltoso il lavoro del personale in servizio che segnala, fra l’altro, un sottodimensionamento dell’organico”. Al momento della visita, secondo l’onorevole Orrico, il carcere “versava in una grave condizione di sovraffollamento, considerata la presenza di 262 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti letto suddivisi nel modo seguente: 102 in AS3, 117 in media sicurezza, 3 semiliberi e 37 al padiglione ex femminile”. Poi c’è il discorso dell’area sanitaria dell’istituto di pena, che sempre secondo l’interrogante “presenterebbe notevoli carenze quanto all’assistenza dei detenuti in merito a numerose patologie, anche gravi; l’acqua corrente sarebbe disponibile solo in alcune fasce orarie, mentre per quanto concerne i generi alimentari ammessi e il prezzo del sopravvitto, sono state segnalate notevoli difformità”. Alcune strutture riservate alla socialità, alle attività ricreative e lavorative, secondo la parlamentare “non sono agibili, in tal modo determinando una permanenza dei detenuti in cella per 22 ore giornaliere”. Inoltre risulterebbero “scarse le possibilità di reinserimento effettivo dei detenuti, soprattutto quanto all’inserimento lavorativo, ad eccezione del lavoro intramurario turnato”. Avellino: “in carcere il tema della salute è centrale, l’Asl se ne faccia carico” finok.eu, 18 luglio 2019 L’appello del Garante per i diritti dei detenuti. Le questioni messe in luce nella lettera dei detenuti all’interno della Casa Circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi erano note al Garante Provinciale per i Diritti, Carlo Mele, che le ha più volte segnalate. Da due anni il Tribunale di Sorveglianza convoca in maniera costante un tavolo specifico con i dirigenti dell’Asl e i direttori sanitari dei quattro istituti in provincia di Avellino (Ariano - Sant’Angelo - Bellizzi e Lauro che ospita detenute madri) e la direzione delle Case Circondariali, sul tema della salute in carcere che risulta essere una assoluta priorità. Prima di tutto comprendere le condizioni di chi vive la pena detentiva e poi cercare di valutare in che modo può essere assicurato un servizio, purtroppo sia ben lontani dall’applicare questo metodo. Ce lo conferma Carlo Mele che è stato a Bellizzi qualche giorno fa per svolgere il suo ruolo di Garante: “I Magistrati sono interessati a passare la pratica in Procura. Capisco che la necessità dell’Asl sia assicurare i servizi ai detenuti con lo stesso criterio che assegna i servizi ai cittadini, però c’è una differenza sostanziale: i cittadini possono anche andare a curarsi altrove, i detenuti no. Ci sono ritardi nelle visite, nella somministrazione dei farmaci, non c’è uno psichiatra per il carcere che garantisca una continuità. A questo si aggiungono i disagi delle famiglie nel raggiungere Sant’Angelo o Ariano, visto che la maggior parte dei detenuti non è residente in provincia, sono giovani e spesso si ritrovano da soli. In più parte degli istituti ha dei problemi strutturali, alcune sezioni sono molto vecchie, fatiscenti. C’è ancora la questione del sovraffollamento, Bellizzi ha cento detenuti in più di quelli che potrebbe mantenere, il personale è sotto organico e poi la mancanza di acqua, sottolineata all’Alto Calore, perché non si tratta semplicemente di assicurare che ci sia, ma occuparsi delle cisterne che sono obsolete. Ad Ariano ad esempio non arriva l’acqua in infermeria e si va avanti con le bottiglie, le cisterne erano state costruite per strutture che all’inizio avrebbero dovuto ospitare 150 e 300 detenuti, oggi sono raddoppiati, serve una manutenzione per evitare che l’acqua si disperda”. Le mancanze segnalate dai detenuti sono anche altre, riguardano i percorsi educativi e sociali, nonché l’assenza degli operatori che dovrebbero aiutare nei corsi di formazione e nei laboratori del reparto dinamico trattamentale: “Anche su questo punto siamo intervenuti, l’educatore è spesso soltanto uno, sempre diverso, ce ne vorrebbero almeno cinque. La questione trattamentale deve essere seguita con attenzione, ci sono detenuti definiti incompatibili con il regime carcerario ma sono ancora in carcere. E qui decide la giustizia ed entriamo ancora in un altro problema, quello dell’assenza di difesa. Gli avvocati d’ufficio la maggior parte delle volte non si vedono, appongono una firma senza nemmeno conoscere il detenuto e sono io come Garante con i miei collaboratori a fare consulenza legale, a spiegare come uscire dai meandri della giustizia e dalle lungaggini della burocrazia. Queste persone sono in carcere e non c’è chi ne ha cura su molti livelli, se parliamo di un luogo in cui è necessario fare trattamento, recupero e riabilitazione, bisogna svolgere queste attività per evitare che sia solo un luogo di segregazione, lo impongono le leggi che noi non siamo in grado di rispettare, perciò l’Europa bastona continuamente l’Italia”. Complessità molteplici, fratture nel sistema che sembrano insanabili: “In carcere bisogna andare e starci un po’ di tempo per riuscire a rendersi conto di cosa significhi. Quando si invoca il carcere a vita non si ha idea di quello che si afferma, il carcere quello che ha lo restituisce. La pena finisce ad un certo punto, se non è stato fatto un percorso di reinserimento allora il carcere non è servito”. Da dove si parte dunque per garantire i diritti e migliorare in maniera sostanziale lo stato delle cose nelle carceri della nostra provincia? Carlo Mele non ha dubbi: “È il tema della salute ad essere centrale, quello dell’Asl è un presidio, il dipartimento locale deve considerare il carcere nella sua programmazione. Questa bagarre tra l’Asl e le direzioni delle strutture non aiuta, genera il malcontento degli uni rispetto agli altri. Per dire, lo psichiatra deve sapere che un intero giorno della sua settimana lavorativa sarà dedicato ai detenuti, a Bellizzi sono garantite soltanto 18 ore a settimana per 600 detenuti, perché la carcerazione in sé procura malattia mentale, causa sconforto. I detenuti hanno necessità di parlare, piangono appena hanno la possibilità di sfogarsi con qualcuno. Abbiamo pensato alle cartelle cliniche informatizzate per far si che la farmacia fosse fornita rispetto alle necessità dei detenuti. C’è bisogno di più educatori e assistenti sociali, stiamo pensando - come ufficio del Garante - di proporre quest’attività di consulenza legale insieme alla Camera Penale e all’Ordine degli Avvocati, di implementare il sostegno ai detenuti col supporto di psicologi. Oggi purtroppo è tutto considerato in maniera superficiale, per questo c’è tanta rabbia da parte dei detenuti che si rivalgono sul personale penitenziario con cui, per forza di cose, non si riesce ad instaurare una buona relazione, un rapporto di comunicazione e collaborazione”. Bergamo: la direttrice del carcere “una palazzina per i detenuti in semilibertà” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 18 luglio 2019 Non fosse abbastanza chiara la strada imboccata in via Gleno, ci sono i rinforzi a evidenziarla una volta di più. Undici agenti di Polizia penitenziaria sono stati destinati al carcere di Bergamo, notizia attesa e ufficializzata ieri, con la direttrice Teresa Mazzotta senza nemmeno un dubbio sugli obiettivi di questo potenziamento: “Dopo il primo periodo di inserimento - dichiara - i nuovi agenti verranno impiegati subito nell’ambito delle attività formative e di avviamento al lavoro dei detenuti”. La parola d’ordine è: misure alternative. Adesso e in futuro. “Vorremmo destinare una palazzina attualmente vuota, che si trova nell’intercinta ma fuori dal muro perimetrale, a chi accede alle misure alternative, detenuti in semi libertà o ammessi al lavoro esterno”. I primi, oggi, sono una ventina, 13 gli altri. “Ci siamo detti: perché non utilizzare un edificio che già esiste? È stato eseguito un primo sopralluogo da parte dei tecnici, che ora dovranno stendere un progetto, io spero realizzabile nel 2020 - spiega Mazzotta. Potrebbe accogliere fino a 40 detenuti, che in questo modo lascerebbero liberi altri spazi”. Ha un senso, per almeno due ragioni. Da una parte per il cronico problema del sovraffollamento: 550 persone (ma il numero oscilla) su 321 posti disponibili. E poi per i 380 detenuti in esecuzione pena. Tanti, soprattutto per una casa circondariale che dovrebbe accogliere solo chi è in attesa di sentenza definitiva. “Intendiamo puntare sulle misure alternative e sul reinserimento sociale anche per questo”, puntualizza Mazzotta, arrivata da Milano a giugno 2018, nel pieno dello scandalo che ha travolto il suo predecessore Antonino Porcino, e nominata a tutti gli effetti a febbraio. Gli undici agenti - dieci uomini e una donna - giureranno a fine mese e saranno operativi a partire da agosto. Rientrano nel piano di mobilità predisposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in base alle esigenze evidenziate dalle carceri di tutta Italia e hanno appena terminato il 175esimo corso. Quantitativamente vanno a rimpiazzare gli undici colleghi che il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria regionale ha distaccato per motivi di incompatibilità ambientale dopo le perquisizioni di inizio aprile: sono sotto indagine per spaccio e corruzione, ultimo filone dell’inchiesta partita dagli ex vertici. “Siamo estremamente contenti di questi nuovi arrivi - riprende la direttrice - perché speriamo vadano in continuità con gli obiettivi che ci siamo posti anche attraverso la serie di relazioni con il territorio che stiamo rinsaldando. Sono ragazzi appena formati, che hanno bene chiaro che oltre a sicurezza e ordine, bisogna prevedere un intervento trattamentale”. A proposito di fare rete con il territorio, la direttrice prevede l’attivazione, in autunno, di altri corsi dopo l’ultimo per parrucchiere e “nail art”, esperte in manicure. “Abbiamo preso contatti con imprenditori del settore della lavorazione della gomma, del caseario e delle pulizie”. Con la palazzina per le misure alternative potrebbero arrivare altre forze. “L’ideale sarebbe arrivare a una ventina di agenti in tutto - calcola la direttrice -. Undici ci sono stati assegnati ora ed è un grande risultato, contiamo di ottenerne altri sette, otto con i futuri corsi. Lavoreremo perché ci possa essere una valutazione ulteriore delle assegnazioni”. Napoli: la direttrice di Poggioreale “servono più agenti, educatori e personale medico” cronachedellacampania.it, 18 luglio 2019 Stamane davanti alla Casa circondariale di Poggioreale a Napoli, il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo, dopo aver visitato l’istituto penitenziario, terrà una conferenza stampa per illustrare la grave situazione del carcere di Poggioreale e per illustrare tutte le iniziative che verranno messe in campo per la salvaguardia del personale e dei detenuti. Intanto sempre stamane Maria Luisa Palma, direttrice del carcere di Poggioreale intervenendo in diretta su radio Crc ha spiegato: “Se mancano gli agenti al mattino, figuriamoci il pomeriggio. I poliziotti devono garantire situazioni di sicurezza per tenere al sicuro detenuti e addetti, ma questo non è solo una problematica di Poggioreale, ma di tutti gli istituti penitenziari italiani. A settembre, quando inizieranno anche i corsi di formazione professionale finanziati dalla Regione, si determinerà la necessità di avere delle finestre di dialogo pomeridiane”. E a proposito della mancanza di personale e di figure di assistenza sanitaria e psicologica per i detenuti ha affermato: “Gli educatori sono funzionari dello Stato ed hanno un orario di servizio ben ferrato. Per quanto riguarda gli psicologi, sono figure di aiuto che devono essere inserite nella cura del detenuto e delle famiglie. Se riuscissero, l’Asl e la Regione, ad avere questa competenza è probabile che, assieme alle figure convenzionali, potrebbe esserci una copertura di cure e tutela più lunga durante la giornata”. Foggia: 13 detenuti diventano “Operatori della ristorazione” con Smile Puglia foggiatoday.it, 18 luglio 2019 Sono i corsisti del carcere di Foggia che stanno partecipando al corso organizzato da Smile Puglia in partenariato con il Consorzio Aranea. Una volta scontato il loro debito con la giustizia, avranno una possibilità di riscatto. Sono 13 i detenuti del carcere di Foggia che stanno partecipando al corso per “Operatore della Ristorazione”. Il corso è tenuto da Smile Puglia, in partenariato con il Consorzio Aranea, nell’ambito dell’Avviso1/2017-Linea 1 Inclusione “Iniziativa sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione penale”. Il Progetto finanziato dalla Regione Puglia - P.O.R. Puglia - Fesr - F.S.E. 2014 - 2020 - rilancia la collaborazione istituzionale tra Istituti penitenziari, Enti di formazione e terzo settore fondamentale per l’efficacia dei percorsi di crescita personale e di reinserimento lavorativo e sociale della persona detenuta. Il corso di formazione è stato promosso in stretta collaborazione con la Direzione del penitenziario. Oltre alle attività formative, si stanno realizzando un servizio di mediazione culturale e l’organizzazione di un laboratorio teatrale. La parte teorica del corso è incentrata su diverse tematiche: lezioni di sicurezza sui luoghi di lavoro, informatica, inglese turistico, elementi di chimica e merceologia per arrivare poi ad approfondire l’arte culinaria, attraverso la fase di simulazione in contesto operativo. Gli allievi sono stati chiamati a confrontarsi con un tema, quello della cucina tipica a chilometro zero: un momento esperienziale mirato alla ricerca e alla contestualizzazione storica della realtà di Capitanata, attraverso la descrizione delle eccellenze locali, la loro valorizzazione nella quotidianità e la sperimentazione innovativa della cucina. È stata applicata una didattica basata sull’esperienza, sul fare, sull’assaggiare, vedere, sentire e partecipare. Gli allievi detenuti hanno simulato una co-progettazione insieme ai docenti, proponendo di giorno in giorno nuove ricette. La formazione può costituire un allentamento della tensione, un impegno mentale che favorisce la non fissazione nel qui e ora della cella, un’occasione d’incontro con persone che, provenendo dall’esterno, favoriscono una sensazione di minore abbandono. La formazione per il detenuto non è solo un’occupazione del tempo ma è anche la soddisfazione di un bisogno, un’opportunità a livello personale per rimettersi in gioco e per riscoprire risorse, abilità e potenzialità che molto spesso non sapeva nemmeno di possedere e che, all’interno di un sistema relazionale, gli consentono di riacquistare fiducia in sé stesso. I detenuti che hanno deciso di partecipare al percorso si sono mostrati motivati ed entusiasti. Hanno messo grande impegno nella preparazione di primi e secondi piatti e nella realizzazione di dolci e prodotti da forno. “Sono davvero ammirevoli - ha sottolineato il presidente di Smile Puglia- Antonio De Maso - l’entusiasmo e l’impegno che i corsisti, Federico, Anacleto, Luigi, Giuseppe, Vincenzo, Giuseppe, Islam, Michele, Fabio, Christian, Alessio, Luigi e Domenico, hanno profuso nel seguire tale iniziativa. Alcuni evidenziano naturali propensioni e talento per le attività di pasticceria e di cucina. Molti di loro potranno sicuramente impiegarsi in entrambi i settori”. “Ci teniamo a ringraziare tutto lo staff dei nostri docenti e dei nostri tutor: Pina Di Cesare, Massimo D’Amico, Giuseppe De Cato, Marzia Salsapariglia, Franco Foglio, Pietro Perrino, Lucy Serena, Luigi Talienti, Giorgio Cicerale, Pietro Del Gaudio, Lucia Di Domenico, Umberto Mastroluca, Mario Ognissanti, Giuseppe Scarlato, Vincenzo Romano, Rocco Serena, Luigia Cristiani e Carmela Longo. Hanno seguito quotidianamente gli allievi, in modo professionale e appassionato, trasmettendo conoscenze e competenze non solo squisitamente culinarie, ma soprattutto aprendo dialoghi e confronti di profonda umanità. Inoltre, a fine corso si prevedono momenti dedicati all’approfondimento degli strumenti di ricerca attiva del lavoro”, ha sottolineato e concluso la coordinatrice del percorso formativo Grazia Francavilla. Civitavecchia (Rm): non lasciarsi inghiottire dal carcere di Mauro Gatti riforma.it, 18 luglio 2019 Dal 2018 un progetto pilota finanziato dall’Otto per mille battista per sostenere gli agenti di Polizia penitenziaria e prevenire il rischio di “burnout”. Le persone che operano nel Corpo di Polizia Penitenziaria sono esposte quotidianamente a un così forte ed evidente disagio psicologico tanto che l’opinione pubblica ne è informata costantemente. Infatti spesso si hanno notizie di eventi drammatici che coinvolgono queste persone che operano a contatto con situazioni di sicurezza sociale e di controllo della devianza. Prima del 15 dicembre 1990 questo organismo deputato alla sicurezza, aveva la denominazione di Corpo degli Agenti di Custodia. Da questa data il Corpo venne smilitarizzato assumendo la odierna denominazione di Corpo di Polizia Penitenziaria. La custodia ha tuttavia radici di fondazione già nel lontano 1817, ma si strutturò definitivamente nel 1873. Forse non è azzardato dire che, nella storia, l’uomo deve sempre aver vigilato su un altro uomo ritenuto dannoso per altri uomini affinché pagasse per il suo comportamento in un regime di controllo. Chi controlla altri uomini è soggetto a tensioni, stress, pensieri, in grado, nel tempo, di incidere sul suo tono dell’umore come sulla condizione psichica più ampia che comprenda dunque l’emozione e il comportamento vero e proprio come risultato del substrato emotivo. Nella interpretazione psicologica della totalità dell’uomo, ogni comportamento è la conseguenza della emozione. Le persone dedicate alla sicurezza sociale, dunque, sono esposte più di altre a situazioni psicologiche difficili da gestire, in quanto essere vicino costantemente ad individui con un disagio sociale, che porta alla violenza e alla mancanza di rispetto delle regole, determina una sorta di onda emotiva di tale intensità e profondità, capace, nel tempo, di investire e disorientare la personalità dell’operatore al punto da fargli perdere significato esistenziale e lucidità. È chiamata sindrome di burnout. Le conseguenze di stare vicino al disagio degli altri provoca, dunque, uno stress talmente forte da creare nel tempo nella persona un tale disorientamento che può produrre conseguenze drammatiche. In base alla triste realtà sociale dei suicidi degli Agenti di Polizia Penitenziaria conseguenti alla sindrome di burnout, nel 2018 e nel 2019 la Chiesa battista di Civitavecchia ha voluto proporre e realizzare, con un finanziamento dell’otto per mille battista, un Progetto Pilota di sostegno psicologico specialistico per gli Agenti di Polizia Penitenziaria che operano nelle carceri. Finalità del progetto è stata operare nella prevenzione e nella anticipazione delle dinamiche di disagio, andando nella direzione di un aiuto concreto per gli agenti attraverso un professionista che conoscesse già le complesse dinamiche psicologiche della carcerazione per avvicinare e sostenere, con deontologia professionale e una competenza psicoterapeutica diretta e specifica, il complesso lavoro trattamentale dell’agente. Metodologia del progetto sono stati i colloqui e le tecniche di autocontrollo con tempo di durata di sei mesi. In alcune specifiche circostanze, si è ravvisata l’opportunità che dei colloqui con gli agenti venissero svolti insieme a direttori e commissari, per favorire quanto più possibile e con la massima sinergia di competenze, il senso di appartenenza al Corpo. Riguardo la necessità di incoraggiare negli agenti questo senso di appartenenza, non può non essere ricordato che già nel 2014 era stata prevista dal Ministero della Giustizia in ogni Istituto di Pena la figura del facilitatore, una figura autorevole e con spiccate abilità relazionali, individuata in un dipendente ministeriale dell’Istituto, che, resosi disponibile e volontario, avrebbe dovuto facilitare i rapporti tra personale e istituzioni. Purtroppo, la figura del facilitatore non ha avuto seguito e continuità. Per una attività di dedizione così significativa e specialistica alla persona-agente, è consigliabile una presenza dedicata, meglio con una professionalità specifica e con competenze psicoterapeutiche, in quanto, le problematiche di chi svolge attività lavorativa nelle carceri sono profonde, spesso subdole e latenti, in grado di cambiare e modificare il tono dell’umore curvandolo verso il nervosismo, la perdita di lucidità, la demotivazione come la depressione. In questi sei mesi di attività professionale dedicata esclusivamente al Corpo di Polizia penitenziaria, sono emerse alcune considerazioni riguardo un modello di intervento specifico. È opportuno svolgere un preciso e attento lavoro di squadra in cui partecipino, oltre gli agenti, anche i commissari e gli ispettori al fine di realizzare una attività capillare che consenta di mettere l’agente al centro di un processo di coinvolgimento e che quindi favorisca il terapeutico senso di appartenenza. Infatti, è proprio il senso di appartenenza che consente di arginare la perdita di senso, quella triste condizione psichica che spesso attanaglia chi svolge lavori di difesa sociale a stretto e continuo contatto con la popolazione detenuta assorbendone le relative complesse e insidiose dinamiche di adattamento al regime carcerario. È altresì necessario precisare che la finalità del progetto pilota, non era rivolto solo agli agenti, ma, dove richiesto e necessario e previa necessaria autorizzazione del Commissario, anche per i loro familiari allo scopo di svolgere un servizio psicologico che proponesse linee guida comportamentali. Spesso i familiari subiscono - più o meno consciamente - le dinamiche e i disagi che gli agenti assorbono nel loro lavoro. In conclusione, il tipo di lavoro realizzato in questo progetto ha avuto la caratteristica di andare verso la persona con una modalità che ha previsto, tuttavia, un necessario accordo con le varie competenze di Polizia Penitenziaria che operano nel carcere. Tale modalità sinergica ha permesso di individuare gli agenti più a rischio di burnout, quindi incontrarli per spiegare il significato dell’aiuto e successivamente sostenerli con specifiche tecniche psicoterapeutiche previste dal professionista, fuori dall’orario lavorativo. Una sinergia di lavoro di squadra si considera fondamentale per un sostegno completo ed efficace. Senza un metodo così strutturato, il progetto non avrebbe avuto gli stessi apprezzati riconoscimenti dalle figure che ne hanno usufruito, pur nella sua breve durata e che ha prodotto un benessere sufficiente da migliorare il contatto comunicativo con i detenuti a vantaggio di una gestione più adeguata e professionale delle dinamiche relazionali detentive. Palermo: Apprendi (Antigone Sicilia) “il carcere è un pezzo di città” ilsicilia.it, 18 luglio 2019 Antigone ha lanciato una campagna per far sì che l’articolo 67 del regolamento dell’Amministrazione Penitenziaria, che stabilisce le autorità che possono avere libero accesso nelle carceri, possa prevedere anche i sindaci delle città dove sorgono queste strutture. “È una esigenza che impegna i sindaci a collaborare, dove possibile e per le proprie competenze, con le strutture carcerarie per servizi ai detenuti o alle loro famiglie. A volte basta un bus o una pensilina all’ingresso di un carcere per alleviare le sofferenze anche fisiche dei familiari che visitano i ristretti - ha detto Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando ha accettato di partecipare ad una prima visita all’Ucciardone, autorizzata dal ministero della Giustizia, mercoledì 17 alle ore 15, insieme ad una delegazione dell’Osservatorio Nazionale per le carceri di Antigone, guidata da Pino Apprendi presidente di Antigone Sicilia. “Peraltro il sindaco Orlando non ha mai negato la sua presenza all’Ucciardone essendo stato lui stesso promotore di diversi progetti”, conclude Apprendi. Andria (Bat): nella masseria “San Vittore” il museo di Senza Sbarre andriaviva.it, 18 luglio 2019 Sarà donata sabato la prima opera. Si tratta di uno scatto di Dobici, il fotografo di Baglioni. La prima opera esposta sarà questa del fotografo di fama internazionale Alessandro Dobici che ha interpretato il progetto di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli con uno scatto che rappresenta la visione della condizione umana del detenuto. Un museo dedicato all’arte contemporanea nascerà nel carcere Senza Sbarre, la masseria nelle campagne di Andria dove i detenuti imparano un lavoro per reinserirsi nella società. Il sogno dei due sacerdoti andriesi coltivato per anni si è concretizzato il 4 maggio scorso con l’inaugurazione della masseria e del pastificio a mani libere in cui lavorano i detenuti che diventa un ponte tra il carcere e il mondo. Il curatore del progetto, prodotto da “Wit Media Comunicazione”, è Stefano Del Bravo che ha coinvolto nella sua idea grandi maestri per “lasciare una testimonianza concreta e tangibile che superi il tempo e resti per sempre a memoria delle continue battaglie di un sacerdote di frontiera che ha dimostrato più volte in tutti questi anni di saper resistere ai venti contrari che non hanno mai fermato la sua corsa”, spiega Del Bravo. Dopo l’esposizione di 20 anni del suo lavoro a Cuba e la mostra nel Chiostro del Bramante a Roma, Dobici, appassionato anche di musica, decide nel 1996 di mettersi in contatto con Claudio Baglioni. Diventa così il suo fotografo ufficiale, sabato sarà a San Vittore per donare personalmente la sua opera, la prima del Museo di Senza Sbarre. Carinola (Ce): spettacolo teatrale dei detenuti della Casa di Reclusione “G. B. Novelli” Ristretti Orizzonti, 18 luglio 2019 Previsto per le ore 15.00 del 19 luglio 2019. Dodici giurati, un giovane ragazzo accusato di parricidio, certezze e dubbi di colpevolezza sono gli ingredienti dello spettacolo teatrale che verrà portato in scena dai detenuti della Casa di Reclusione “G. B. Novelli” di Carinola, presso la sala teatro dell’istituto penitenziario, il 19 luglio 2019 alle ore 15:00. Lo spettacolo “La parola ai giurati”, tratto dall’omonimo film del 1957 è un’occasione per condividere il messaggio rieducativo, che cerca attraverso la forza del volontariato, di arricchire il tempo detentivo, attraverso l’arte, la creatività e messaggi positivi. Sono stati invitati alla rappresentazione il Vescovo di Sessa aurunca, i Magistrati del Tribunale di Sorveglianza dell’Ufficio di Santa Maria Capua Vetere, i Sindaci dei Comuni che condividono, con la Casa Reclusione di Carinola, progetti di reinserimento sociale dei detenuti. Presenzieranno anche i volontari che operano nell’istituto penitenziario ed i familiari dei detenuti protagonisti dello spettacolo teatrale. I volontari che con il loro grande impegno hanno reso possibile la realizzazione di questo spettacolo sono Filippo Ianniello e Giovanni Maliziano, i quali, da alcuni mesi, conducono, a titolo gratuito, un laboratorio teatrale a favore della popolazione detenuta di Carinola. Un tema, quello trattato dalla rappresentazione teatrale, sicuramente impegnativo, dai toni serrati, acuti, che lascia spazio ad importanti riflessioni, condivise e rievocate con impegno dai detenuti. Il reinserimento sociale ha più probabilità di riuscire se i detenuti hanno l’opportunità di incontrare durante il proprio percorso qualcuno che li rinforzi nella capacità di autodeterminazione, nella possibilità di non ricadere più, di avere accanto persone che collaborano con il carcere e contro gli effetti desocializzanti. I Funzionari Giuridici Pedagogici Barcellona P.G. (Me): “oltre il muro del pregiudizio”, sfilata di moda nel carcere 24live.it, 18 luglio 2019 Parla l’organizzatrice Angela Gitto. “Ho coronato un mio sogno”: così dichiara Angela Gitto, imprenditrice della moda, che con forza e determinazione ha organizzato un evento unico per il Centrosud, come la sfilata di moda all’interno della casa circondariale Madia di Barcellona. Nel reparto femminile della struttura oggi pomeriggio dalle 19 sarà allestita una passerella su cui sfileranno 24 modelle per un giorno, tra cui alcune detenute che hanno accolto con entusiasmo la proposta dell’organizzazione, capace di ottenere tutte le autorizzazioni per un’iniziativa così unica nel suo genere. Al fianco delle 9 detenute, ci saranno tante donne comuni, che sfideranno la passerella, con la presenza di un magistrato di sorveglianza e di rappresentanti della politica e delle istituzioni del territorio. Al fianco di Angela Gitto, titolare dei negozi di abbigliamento “Le Sorelle Inglesi” ed al club Soroptimist di Spadafora, ci saranno anche il Lions Club, l’associazione Frida Onlus, il circolo delle lucertole e l’edizione Smasher, che proporranno alcuni intermezzi con letture e interventi sulle donne. “L’idea - racconta Angela Gitto - è nata da un evento organizzato nel negozio di via Dante. Era presente anche la responsabile del reparto femminile del carcere di Barcellona, che mi ha proposto quasi per scherzo questo progetto. Ho subito sposato l’iniziativa e l’ho fatta mia, forte anche della mia passione per la criminologia, messa da parte per quella ancor più forte verso la moda. Il gruppo di ragazze coinvolte si trova nel reparto psichiatrico del carcere e ciò ha reso ancora più titanica questa impresa. Insieme alle Soroptimist di Spadafora abbiamo coinvolto donne della società civile e del mondo politico provenienti da tutta la provincia. Questo evento, che coinvolgerà una platea limitata di 100 persone, non sarà fine a stesso, ma rappresenta un punto di partenza per altre iniziative a sostegno delle donne detenute, che vivono una condizione di grave disagio”. Roma: Sant’Egidio, cocomerata a Regina Coeli perché “la solidarietà non va in vacanza” agensir.it, 18 luglio 2019 “Noi non ci dimentichiamo di voi”. Lo ha detto Alessandro, uno dei rappresentanti della Comunità di Sant’Egidio che oggi pomeriggio, insieme ad altri volontari, ha visitato i detenuti del Carcere Regina Coeli di Roma. L’incontro è avvenuto in uno degli spazi comuni del penitenziario capitolino, circa un centinaio i reclusi che alle 16 hanno lasciato le loro sezioni per spezzare la monotonia della giornata con un momento di condivisione e di incontro. L’iniziativa nasce in seguito a un più che ventennale servizio di Sant’Egidio all’interno di questa realtà: “Negli anni - racconta Fabio - abbiamo visto che l’esperienza iniziata nel carcere con i pranzi o le cene di Natale è stata contagiosa e in tanti, tra associazioni e parrocchie, hanno accolto questo servizio. Col tempo ci siamo accorti che l’estate è un momento critico in cui i reclusi sono più esposti alla solitudine, per questo abbiamo pensato ad un momento di solidarietà come la Cocomerata”. Ci troviamo nella Casa Circondariale principale di Roma, conosciuta per le condizioni di sovraffollamento, 1.020 detenuti per una capienza effettiva di circa 870 persone. La Comunità di Sant’Egidio, sostenuta dalla generosità del Centro Agroalimentare di Roma, è riuscita a raccogliere una tonnellata di cocomeri, suddivisi tra Rebibbia e Regina Coeli. L’idea, in entrambi i penitenziari, è quella di raggiungere in più giornate tutti i detenuti, attraverso incontri di condivisone in cui il gioco a quiz tra squadre di reclusi diventa un momento di leggerezza e uno spazio di umanizzazione. “Sono le armi semplici del gioco” prosegue Fabio, che nella sua esperienza di volontariato tra i detenuti, ricorda come questo sia proprio lo spirito cui tanto è affezionato Papa Francesco. “A mio avviso l’aspetto più prezioso del dono è che è circolare - dice Doriana del Centro Agroalimentare di Roma rivolta ai detenuti - non siamo noi che abbiamo regalato qualcosa a voi con questi cocomeri, la verità è che voi ci avete fatto il dono della vostra presenza e di questo momento”. La verità è delle donne di Luigi Manconi La Repubblica, 18 luglio 2019 La grandissima parte degli italiani ignora chi sia Elisa Signori Rocchelli, e continuerà tranquillamente a ignorarlo. E tuttavia la grandissima parte degli italiani deve un po’ di riconoscenza alla professoressa Signori, docente di Storia contemporanea al l’Università di Pavia. Suo figlio Andrea, fotoreporter di guerra, ha trovato la morte a trent’anni nel distretto di Slov’jans’k in Ucraina. Durante il conflitto del Donbass, nel maggio 2014, Rocchelli, il traduttore Adrei Mironov, l’inviato francese William Roguelon e un autista locale furono oggetto di un attacco mirato, a colpi di mortaio, da parte di un gruppo di miliziani della Guardia nazionale ucraina. Oltre a Rocchelli, morì Mironov, mentre Roguelon rimaneva gravemente ferito. Il capo di quei miliziani, Vitaly Markiv, arrestato in Italia nel giugno del 2017, è stato condannato lo scorso 11 luglio a 24 anni di reclusione per concorso in omicidio. Così un atroce episodio, che sembrava destinato a finire negli archivi anonimi delle tante “guerre sporche”, ha cominciato a rivelare la sua natura e il suo intento: cancellare le testimonianze e i testimoni delle stragi di civili che accompagnano quelle guerre. Con la condanna di Markiv, quel progetto non è più un mistero: ed è probabile che, senza la determinazione e l’intelligenza di Elisa Signori, della figlia Lucia e della nuora Maria Chiara, questo non sarebbe accaduto. Fateci caso, in una ininterrotta sequenza di vicende tragiche, che tuttavia riescono a strappare interamente o parzialmente il velo che nasconde verità messe a tacere, compaiono sempre un volto e un nome femminili. Per limitarci all’ultimo mezzo secolo di storia italiana e ai casi più noti, ricordiamo Rossella Simone, compagna di Giuliano Naria, assolto con formula piena dopo nove anni di carcere, le cosiddette “mamme del Leoncavallo”, riunitesi in associazione dopo l’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci e poi via via Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, e tanti altri nomi, ognuno dei quali richiama una storia rimasta insoluta o la cui soluzione fa emergere responsabilità istituzionali. In altre parole a un certo numero di figure femminili di intenso impatto emotivo e simbolico corrispondono altrettante questioni di rilievo pubblico. Penso a Patrizia Moretti Aldrovandi, Lucia Uva, Ilaria e Rita Cucchi, Grazia Serra Mastrogiovanni, Claudia Budroni, Domenica Ferulli, Elena Guerra, Flora ed Emilia Bifolco, Maddalena Lorusso, Giuliana Rasman, Paola Regeni (e con lei Alessandra Ballerini, legale anche della famiglia Rocchelli). Emerge qualcosa di importante, in genere trascurato. Si può dire che la rilevanza del legame di sangue, quello primario e connaturale, è determinante nel fare di queste madri, figlie, sorelle, il “fattore umano” decisivo in tante battaglie civili. La particolare determinazione nel perseguire verità e giustizia ha la sua radice proprio nell’elemento simbiotico tra congiunti, nel tessuto di “carne e ossa” che rappresenta il vincolo più tenace e che sembra avere nell’identità femminile il suo nucleo essenziale. Intorno a quel nucleo si forma l’aggregazione familiare-parentale-amicale che diventa protagonista della mobilitazione nel nome della vittima. E qui si verifica qualcosa di profondo. I familiari rinunciano all’insopprimibile bisogno di vivere ed elaborare il proprio lutto nell’intimità della sfera affettiva. Una parte di quel dolore viene affidato alla società perché diventi questione pubblica, tema di mobilitazione collettiva, materia di conflitto. Il lutto viene “esposto” cosicché la vittima (di un’ingiustizia, un abuso di Stato, una colpa istituzionale) diventi interesse pubblico. Molti hanno creduto di vedere, in quelle figure femminili, l’incarnazione contemporanea dell’Antigone di Sofocle. La suggestione è forte, ma la comparazione è impropria: le donne citate non simboleggiano le ragioni del cuore in conflitto con la ragion di Stato. No. Qui e oggi le ragioni di quelle donne sono le stesse dello Stato di diritto e del sistema democratico, violate e negate dagli interessi particolari di corporazioni e apparati statuali. Pur tra le mille differenze, così è stato per la tragedia di Ustica, come per la morte del diciottenne Federico Aldrovandi sotto i colpi di quattro poliziotti (condannati in via definitiva). Queste vicende rimandano ancora a un’altra dimensione: quella filosofica, dove si pensano le grandi categorie che orientano la conoscenza umana. In uno bel libro “L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo” (Quodlibet 2017) Eugenio Mazzarella, riprendendo Hegel, spiega come la legge del cuore sia in effetti la legge di tutti i cuori, abbia cioè una portata comunitaria e universale. E sottolinea come nell’eroina di Sofocle questa “legge di tutti i cuori” sia il diritto di resistenza in ultima istanza dell’umano in quanto umano alla sua negazione, da dove che venga: l’altro uomo, il popolo, lo Stato. In definitiva, al di là di ogni schematismo, c’è una “Antigone eterna” che ci parla ancora. Migranti. Rimpatri volontari assistiti, storie di ritardi e di promesse mancate Redattore Sociale, 18 luglio 2019 La storia di Dulo Embaló dice molto su chi decide di ritornare nel proprio Paese: 28 anni, partito con la speranza di raggiungere l’Italia, alla fine Dulo è tornato in Guinea Bissau ascoltando le promesse dell’Oim. Che però, dopo 2 anni, non ha ancora mantenuto l’impegno. La storia di Dulo Embaló dice molto su chi lascia il proprio paese africano e dopo vari, disperati, tentavi decide di ritornare. Ventotto anni d’età, partito con la speranza di raggiungere l’Italia, alla fine Dulo è tornato in Guinea Bissau ascoltando le promesse dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Che però, a distanza di due anni, non ha ancora mantenuto l’impegno. Impossibile viaggiare “in regola”. Il giovane decise di viaggiare con tutti i documenti necessari, ma questo sogno naufragò presto: dopo aver pagato tra carta d’identità, passaporto e “compensi” a funzionari vari un totale di 130 euro, si scontrò con la realtà: per ottenere il visto, rilasciato di rado, avrebbe dovuto pagare una mazzetta sui 1.500 euro. Una situazione strettamente legata alle regole dei paesi Ue, che hanno chiuso sempre più le maglie degli ingressi. E così Dulo si rassegnò a partire come tutti. Il viaggio. La rotta seguita dal giovane, come da tutti quelli che partono dalla Guinea-Bissau, prevedeva il passaggio di Senegal, Mali, Burkina-Faso, Niger e Libia. Un viaggio che, nel suo caso, durò un mese. “Capita spesso che ti perquisiscano e ti rubino tutto, che siano i trafficanti o la polizia non importa”, dice. Dulo ricorda bene il viaggio nel deserto, durato sei giorni. “Eravamo più di 30 persone stipate nel retro del pick up, durante il viaggio qualcuno è caduto, ma la macchina non si è fermata: sono rimasti lì, in mezzo al nulla, a morire”. Inferno Libia. Giunto in Libia, il giovane lavorò come fabbro per racimolare i soldi necessari a partire. Ma in tre occasioni fu fermato dalla guardia costiera libica. “Sono stato rinchiuso nei centri di detenzione: due volte sono riuscito a scappare, un’altra volta ho dovuto corrompere le guardie pagando perché mi facessero uscire. Poi, disperato, mi sono spostato in Algeria, ma anche lì mi hanno arrestato e trasferito in Niger”. Il rientro. Alla fine Dulo si rassegnò e accettò la proposta di rientro volontario assistito dell’Oim. “Il fatto che i ritorni volontari siano cresciuti non significa che i flussi migratori siano in aumento, tutt’altro. Questa tendenza è indicativa invece di una linea politica dei governi europei. Il messaggio che viene mandato è semplice: l’accoglienza è finita, è il momento di rimandare le persone a casa”, dice Laura Amadori, responsabile Oim in Guinea-Bissau. Le promesse dell’Oim. L’organizzazione dà circa 100 euro a chi decide di rientrare, oltre a supporto legale, assistenza medica e psicosociale. Poi dovrebbe cominciare il programma di reintegrazione, con aiuti per piccole attività imprenditoriale. “La fase di avviamento delle start-up dovrebbe partire entro due mesi dal rimpatrio, ma i ritardi si stanno accumulando”, ammette Amadori. E così su 520 rientri assistiti da maggio 2017 a oggi, appena 135 hanno avviato uno di questi progetti. Mentre gli altri, tra cui Dulo, sono ancora in attesa. Migranti. No all’espulsione dell’eritreo in carcere per 3 anni per un errore di persona amnesty.it, 18 luglio 2019 “Non c’è una sola ragione al mondo per cui al cittadino eritreo Medhanie Tesfamariam Behre, arrestato nel 2016 in Sudan e per tre anni erroneamente ritenuto un importante trafficante di esseri umani, debba essere negato l’asilo politico”, ha dichiarato Amnesty International Italia. Secondo l’organizzazione per i diritti umani, non solo l’accoglimento della richiesta d’asilo, su cui si pronuncerà venerdì 19 luglio la commissione per l’esame nel Cpr di Caltanissetta, suonerebbe come un risarcimento per tre anni di carcere passati in Italia per un mero errore di persona: un errore portato alla luce grazie soprattutto alle inchieste giornalistiche del quotidiano britannico “Guardian”. Soprattutto, negare l’asilo a Medhanie Tesfamariam Behre costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale dei rifugiati. Espellerlo verso il Sudan, dove venne arbitrariamente arrestato nel 2016, lo porrebbe di fronte al rischio di un nuovo arresto, in un contesto nel quale le autorità di transizione che hanno preso il potere dopo la fine del dominio di Omar al-Bashir non danno ancora la minima garanzia di rispetto dei diritti umani. Se dal Sudan venisse trasferito nel suo paese di origine, l’Eritrea, Medhanie Tesfamariam Behre rischierebbe l’imprigionamento per diserzione (dalla leva obbligatoria) e uscita illegale dal paese e con ogni probabilità una lunga condanna e la tortura. Sorte riservata da anni a chi, in Eritrea, critica il regime, professa una fede non consentita o cerca di fuggire al servizio militare obbligatorio e a tempo indeterminato. Una situazione che la raggiunta pace con l’Etiopia, nel 2018, non ha purtroppo modificato. “Migranti prigionieri nei container”. Ancora tensione al confine francese di Massimo Calandri La Repubblica, 18 luglio 2019 Mentone, gli stranieri detenuti illegalmente in prefabbricati di 15 metri quadrati senza cibo né acqua. La denuncia di Amnesty, Msf e altre Ong: “La polizia falsifica i documenti per riportare in Italia anche i minori” I due container in alluminio, di un giallo screpolato dal sole, sono stati sistemati dai francesi accanto alla loro caserma di polizia, subito dopo il confine di Ventimiglia: 3 metri per 5, una minuscola finestra, all’interno nessun arredo - neppure una branda - a parte un paio di vecchie sedie di plastica. Da inizio anno ci sono passati migliaia di migranti, detenuti illegalmente prima di essere rispediti in Italia. Esseri umani fermati dai gendarmi transalpini e trattati senza alcun rispetto per la legge e l’umanità: niente medico, avvocato, interprete. Niente. “Vengono dall’Italia, in Italia devono tornare”. Ma dal momento che i nostri poliziotti della caserma di Ponte San Luigi, poche centinaia di metri più a est, non accettano i respingimenti dalle 19 alle 9 del mattino, ecco che i “clandestini” fermati al tramonto da qualche parte vanno rinchiusi. Non al centro di identificazione di Nizza, no. Prigionieri a forza, illegalmente: nei container. Uomini e donne, bambini di pochi mesi, e guai a ribellarsi. Che importa, se quasi un migliaio di minori avrebbe dovuto invece essere assistito e ospitato - lo dice sempre il codice - dalla Francia: gli agenti hanno rispedito anche loro il mattino dopo, magari dopo aver strappato sotto i loro occhi i documenti d’identità e falsificato i dati trascritti sul Refus d’Entrée, il foglio che viene messo loro in mano prima di spingerli via. Allez, vite! Amnesty International France, Anafé, La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans frontières, Secours catholique Caritas France. Sei associazioni francesi - più altre due di avvocati per la difesa dei diritti dell’uomo - hanno sottoscritto un documento che rafforza 13 denunce presentate alla procura di Nizza e a Felipe Gonzales Morales, inviato speciale delle Nazioni Unite, per altrettanti casi di “privazione illegale della libertà” nei confronti di migranti, costretti in quei container giallo screpolato di marca Agelco. Ma basta passare qualche ora nella terra di nessuno sul ponte che scavalca il rio San Luigi, in mezzo alle due caserme, per raccogliere altre terribili testimonianze dai respinti. O per ascoltare la versione degli agenti italiani, che in un surreale balletto a loro volta restituiscono ai colleghi stranieri i minori che non potevano essere espulsi, confessando: “I francesi ci guardano dall’alto in basso, fanno i prepotenti”. “Mi hanno chiuso in quella prigione per più di 10 ore con molti adulti, la notte del 27 maggio”. Alpha è un ragazzo nigeriano di 17 anni. “Gli ho detto che ero minorenne, non gli importava. “Zitto, o è peggio per te”. Non potevamo usare i bagni. È stato orribile”. La sua e molte altre storie (“Persone maltrattate cui viene rifiutata la visita medica, promiscuità, documenti strappati”) le raccontano i responsabili di due associazioni italiane, We World e Iris, che con Anafé e Oxfam hanno presentato le denunce in procura. L’altra notte nei container c’era anche una famiglia eritrea: papà, mamma e un bimbo di 4 mesi che ha pianto tutta la notte. Ha avuto un po’ di latte in polvere solo ieri mattina, nel campo della Croce Rossa a Ventimiglia. Jacopo Colomba lavora al confine per We World, una delle associazioni in prima linea per i diritti degli ultimi. “Durante la settimana sono 40-50 al giorno le persone che ricevono il Refus d’Entrée e vengono riconsegnate alla polizia italiana. Nel fine settimana 50-70 casi almeno”. Quasi 8.000 da inizio anno. “E buona parte di loro trascorre la notte nei container”. I minori? “Mediamente, il 10 per cento. Forse di più”. Un migliaio di ragazzi. Solo una parte viene restituita dai poliziotti italiani ai colleghi francesi, come prevede la legge. È successo anche ieri pomeriggio. Un ragazzino di origine yemenita, un altro bengalese (“Perché adesso i migranti passano dalla rotta balcanica: anche i nordafricani, che raggiungono la Turchia con un visto e poi risalgono l’Europa. Una strada lunga, ma meno rischiosa”, spiega Colomba). Due agenti della nostra polizia di frontiera li accompagnano verso la caserma transalpina: entrano tutti e 4 negli uffici, i poliziotti risalgono qualche minuto dopo. Soli. “Glieli abbiamo lasciati, anche se i francesi non sembravano molto d’accordo: i minori erano stati identificati in Italia qualche mese fa, ma i nostri colleghi stranieri si erano “sbagliati” nel compilare le schede. Però le impronte non mentono. E insomma, se li devono tenere”. Che assurdità, tutto questo andare e tornare. Parliamo di due sedicenni. “I francesi è come se si sentissero più forti di noi”, spiega l’agente. “Ma sapete che se ci prendiamo quei due ragazzini commettiamo un reato?”. Lunedì Gérald Darmanin, ministro francese dell’Azione e dei Conti pubblici, era nella vicina Cannes, dove ha perorato la causa della lotta ai prodotti di marca falsificati: borsette, orologi, vestiti. “Ho chiesto il rinforzo della collaborazione con le autorità straniere, in particolare italiana. Siamo tutti d’accordo”. Quando si tratta di merci - non di uomini - nessun problema. Migranti. “Trattati come animali”, la truffa dei centri d’accoglienza di Marco Lignana La Repubblica, 18 luglio 2019 I pasti dei migranti erano frattaglie, cibo per animali: “Cuore, polmone... costa un euro, un euro e mezzo al chilo, meno del pollo. E loro lo mangiano”. Ma quelle persone, quegli ultimi sbarcati in Italia fra speranza e disperazione, non solo venivano malnutriti. Pure sottomessi, umiliati: “L’ho preso per i capelli, gli ho tirato un calcio nelle giunture delle gambe, si è inginocchiato da solo… vai a cambiarti va! Che adesso ti faccio diventare bianco, dai il bianco ai muri!”. Le intercettazioni in mano a Guardia di finanza di Sanremo e procura di Imperia raccontano il più bieco e meschino degli sfruttamenti: quattro arrestati per truffa ai danni dello Stato, tre indagati a piede libero fra i quali l’attuale capo di gabinetto della Prefettura di Torino, Alessandra Lazzari. L’indagine in mano alla pm Maria Grazia Pradella ha messo a nudo quanto commesso da soci e consulenti della cooperativa di Cuneo “Caribù”, che fino a ieri gestiva due centri di accoglienza temporanea nel ponente ligure, a Sanremo e Vallecrosia. Secondo il gip che ha ordinato le quattro custodie in carcere, i migranti venivano “trattati come animali”. E nel frattempo gli indagati intascavano soldi sporchi. Fino a un milione e 300mila euro. Del resto, raccontavano, “centoventi migranti per 30, vuol dire che fanno 3.600 euro al giorno... per 31 giorni sono 111mila euro al mese”. Il “guadagno” avveniva usando una minima parte dei fondi ricevuti, o facendosi rimborsare dalla prefettura fino a sette volte la stessa fattura, o ancora dichiarando molti più migranti di quelli presenti. La Giustizia penale internazionale, bloccata dal potere dei grandi Stati di Alessandro Di Bussolo vaticannews.va, 18 luglio 2019 Si è celebrata ieri la Giornata della Giustizia penale internazionale, in occasione del 21.mo anniversario della creazione, a Roma, del Tribunale che giudica sui crimini di guerra, genocidio, contro l’umanità e aggressione. Amnesty International: “Se a volte il Tribunale non ha processato, è per il blocco degli Stati più potenti” La Giornata della Giustizia penale internazionale unisce tutti coloro che desiderano sostenere la giustizia, promuovere i diritti delle vittime e aiutare a prevenire i reati che minacciano la pace, la sicurezza e il benessere del mondo. È stata proclamata nel corso della prima conferenza di revisione dello statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (Cpi-Icc), che si è tenuta nel giugno 2010 a Kampala, in Uganda. La data scelta è quella dell’adozione, nel 1998, dello statuto, presso la sede romana della Fao, con 120 voti a favore, sette contrari e 21 astensioni. Ad oggi sono 123 i Paesi che ne fanno parte, ben più della metà dei 193 Stati membri dell’Onu. Alcuni hanno firmato il trattato, ma non l’hanno ratificato, come Stati Uniti, Israele e Sudan. Tra i non firmatari anche Russia e Cina, che pure, con Usa, Francia e Gran Bretagna fanno parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo scopo degli Stati firmatari era quello di creare una giurisdizione competente su presunti colpevoli di crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra, e dal dicembre 2017 anche di aggressione. Quando è stata raggiunta la sessantesima ratifica, il 1 luglio 2002, lo statuto della Corte è entrato in vigore, e da quell’anno a L’Aia, nei Paesi Bassi, sede della Corte, sono iniziati i lavori per “metter fine all’impunità per i peggiori crimini ancora commessi in tutto il mondo” come dicevano gli slogan delle Organizzazioni non-governative che quel processo avevano accompagnato per anni e che ancora oggi seguono da vicino. Nello statuto della Corte si legge che la Cpi ha giurisdizione sovranazionale e può processare individui (non Stati) responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità, crimine di aggressione, commessi sul territorio e/o da parte di uno o più residenti di uno Stato parte, nel caso in cui lo Stato in questione non abbia le capacità o la volontà di procedere in base alle leggi di quello Stato e in armonia con il diritto internazionale. La giurisdizione della Corte si esercita nel caso di crimini commessi sul territorio di uno Stato parte o da un cittadino di uno Stato parte alla Corte. Ne consegue che anche i crimini commessi sul territorio di uno Stato parte, da parte di un cittadino di uno Stato non parte, rientrano nella giurisdizione della Corte. Uno Stato non parte non è tenuto a estradare i propri cittadini che abbiano commesso tali crimini in un Paese parte e al giorno d’oggi non esistono mezzi di coercizione internazionali per spingere gli Stati non parte a cedere alle richieste della Corte internazionale. Il problema, tuttora aperto, è semmai l’esistenza di trattati internazionali (detti Sofa) che attribuiscono immunità a soldati di uno Stato non parte quando sono sul territorio di uno Stato parte. In questi 17 anni di vita, la Corte penale internazionale (dati del 2018, n.d.r.) ha avviato indagini in 11 “situazioni”: in Burundi; due nella Repubblica Centrafricana; in Costa d’Avorio; in Darfur; Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo; in Georgia, in Kenya; in Libia; in Mali; e in Uganda (le prime in ordine cronologico). L’Ufficio del procuratore sta inoltre studiando in fase preliminare altre 11 “situazioni” in Afghanistan; Colombia; Gabon; Guinea; Iraq; Regno Unito; Nigeria; Palestina; le Filippine relativamente a navi battenti bandiera delle Comore, Grecia e Cambogia; Ucraina e Venezuela. Sono state incriminate 42 persone e messi mandati di arresto per 34, richieste citazioni per altre otto. Otto sono anche i detenuti all’Aia. La Corte penale internazionale non è un organo dell’Onu e non va confusa con la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aia, più nota come Tribunale internazionale dell’Aia (Cig-Icj). Istituita nel 1945, la Cig ha il compito di dirimere le dispute fra Stati membri delle Nazioni Unite che hanno accettato la sua giurisdizione. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha poi il potere, attraverso una risoluzione, di istituire tribunali penali ad hoc, come è accaduto di recente per l’ex-Jugoslavia, dal 1993 al 2017 e per il Ruanda, dal 1994 al 2015, per per giudicare eventi avvenuti in differenti conflitti. La Cpi ha però alcuni legami con le Nazioni Unite: ad esempio il Consiglio di sicurezza ha il potere di deferire alla Corte situazioni che altrimenti non sarebbero sotto la sua giurisdizione. Noury (Amnesty): è il meglio che abbiamo, deve funzionare Sul significato di questa Giornata e sullo stato di salute della giustizia penale internazionale, ecco l’ opinione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. R. - La Giornata può servire a spronare non tanto il Tribunale penale internazionale quanto gli Stati che lo compongono, lo sorreggono, i quali dovrebbero collaborare a fare di più, perché quell’organo di giustizia è la migliore cosa che abbiamo e deve funzionare bene. E se ha funzionato in maniera non perfetta, se ha mancato di indagare, processare potenziali gravi criminali, non è per colpa dei suoi giudici, ma perché non ha avuto la collaborazione necessaria. Quindi sì, occorre valorizzare di più questo compito che da venti anni è assolto e assunto dal Tribunale penale internazionale. Combattere attraverso la Corte penale internazionale i crimini contro l’umanità, di genocidio, di guerra e - l’ultimo che è stato aggiunto - di aggressione, può fare davvero da deterrente perché nuovi conflitti non comincino e nuovi genocidi non avvengano? R. - Mettiamola così: se non ci fosse la Corte, sicuramente non ci sarebbe un potenziale deterrente. Credo che questo deterrente ci sia perché avere il presagio che i crimini che stanno per essere commessi o che verranno commessi non resteranno impuniti può fermare qualcuno dal farli. Certo, occorre poi che l’impunità trovi contrasto anche sul piano interno, perché se penso a quello che è successo ultimamente … Per fare un esempio pratico: non appena la procuratrice generale del Tribunale penale internazionale avvia un’indagine sulla cosiddetta guerra alla droga del presidente delle Filippine Duterte che ha fatto migliaia e migliaia di morti tra i più poveri della popolazione filippina, le Filippine decidono di ritirarsi dalla Corte, ecco che il potere giudiziario non è stato affatto deterrente, ma è stato soltanto qualcosa a cui si ha risposto con un insulto. Quali sono le sfide più attuali per la giustizia penale internazionale, che costituiscono anche un grave ostacolo per la sua vera efficacia? R. - Credo in primo luogo i conflitti o i post conflitti e anche i conflitti in corso. Direi che Siria, Yemen, Myanmar sono i casi più evidente di conflitti che sono in corso e che stanno per chiudere o che addirittura si trovano in una situazione paradossale in cui la ricostruzione è già iniziata - come nel caso della Siria - a conflitto ancora non terminato. Se la ricostruzione è iniziata è perché poi al tavolo dove si inizia a ricostruire ci sono persone che invece dovrebbero stare sul banco degli imputati del Tribunale internazionale. Quindi togliere l’impunità, garantire giustizia ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime dei conflitti è la priorità numero uno. Dobbiamo riconoscere che se c’è questa Corte penale internazionale, un grande ruolo è stato anche quello svolto dall’Italia. Infatti lo statuto è stato firmato qui a Roma, grazie anche allo stimolo che veniva dal governo italiano... R. - Sì, è vero. C’eravamo anche noi di Amnesty International. Lo sforzo che ha fatto l’Italia, che hanno fatto alcuni parlamentari - e Non c’è pace senza giustizia, tra i movimenti insieme a noi - è uno sforzo che va riconosciuto e verrà riconosciuto per sempre. Bisogna essere all’altezza di tutti quegli auspici. Però dire - ed è un po’ un luogo comune - che il Tribunale penale internazionale esercita la giustizia dei vincitori, che guarda soltanto all’Africa, non è esatto né nel presente né in prospettiva. Il Tribunale penale internazionale fa quello che può. Quando non fa qualcosa è perché Stati grandi e potenti lo bloccano e lo boicottano probabilmente temendo che rischierebbero o di finire a loro volta sul banco degli imputati. L’Iran e le occidentali detenute. “Vogliono estorcere la confessione” di Leonardo Martinelli La Stampa, 18 luglio 2019 Nel pieno della crisi con la Ue, un’inglese e una francese nelle mani di Teheran: sono spie. Due donne con la doppia nazionalità, europea e iraniana, in manette nel pieno delle tensioni tra Teheran e Occidente. Nelle cancellerie europee circola il sospetto che non sia una coincidenza. Nelle mani degli Ayatollah ci sono l’anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, 40 anni, e la franco-iraniana Fariba Abdelkhah, che ne ha sessanta. La prima, in realtà, venne arrestata già il 3 aprile 2016. Project manager presso la Thomson Reuters Foundation, Ong finanziata dall’agenzia di stampa, era venuta a Teheran per visitare la sua famiglia, accompagnata dalla figlia Gabriella, che aveva allora 22 mesi. Arrestata all’aeroporto, mentre stava ritornando a Londra, dove viveva, è stata condannata nel frattempo a cinque anni di prigione per spionaggio. La piccola vive con i nonni materni, nell’impossibilità di raggiungere il padre e marito della donna, Richard Ratcliffe. Ebbene, ieri è venuto fuori che Nazanin è stata appena trasferita dalla prigione di Evin, nel nord di Teheran, al reparto psichiatrico dell’ospedale Imam Khomeini. È stata lì accompagnata da un gruppo di temibili Guardie della rivoluzione, la milizia dalla matrice fortemente ideologica, che sempre si era opposta all’accordo sul nucleare e sembrerebbe ora rafforzata dalle nuove tensioni internazionali. Il sospetto della famiglia è che si voglia costringere Zaghari-Ratcliffe, con le buone o con le cattive, a confessare il tradimento del suo Paese d’origine, che mai ha voluto ammettere. La scorsa settimana Londra aveva reso noto che la marina iraniana ha tentato di “impedire il passaggio” attraverso lo stretto di Hormuz di una petroliera britannica, rendendo necessario l’intervento della Hms Montrose, fregata della Royal Navy, presente in zona. Intanto martedì è emersa un’altra novità a Teheran. Nella stessa prigione di Evin, dove era incarcerata Nazanin, si trova anche una franco-iraniana, Fariba Abdelkhah, antropologa e ricercatrice del Ceri, il Centro di ricerche internazionali di Sciences-Po a Parigi. Esperta di sciismo duodecimano, trascorre abitualmente lunghi periodi in Iran. Ma dallo scorso 5 giugno se ne erano perse le tracce. Anche lei è accusata di spionaggio. La donna è molto apprezzata nell’ambito degli studi sull’Iran in Europa. Jean-Frangois Bayart, ex direttore del Ceri, ha ricordato che Abdelkhah “aveva sempre rifiutato di condannare il regime della Repubblica islamica e questo le è costato talvolta di non essere capita dalla diaspora iraniana in Francia”. Proprio la scorsa settimana Emmanuel Macron aveva inviato a Teheran un suo emissario, per sondare il presidente Hassan Rohani. Ma i giochi politici sembrano ormai svolgersi su un altro piano. Relazioni tese tra Iran e Occidente, a pagare sono le prigioniere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 luglio 2019 Dall’Iran arrivano in questi giorni notizie estremamente preoccupanti per quanto riguarda la situazione dei diritti umani. Lunedì scorso è stata trasferita nel reparto psichiatrico dell’ospedale Imam Khomeini la prigioniera anglo-iraniana Nazanin Zaghari-Ratcliffe, detenuta da oltre tre anni per l’assurda accusa di spionaggio. Lo stesso giorno è finita in carcere, per accuse al momento ignote, la ricercatrice franco-iraniana Fariba Adelkhah. Sempre lunedì 15 è stata arrestata la giornalista Moolod Hajizadeh. Poco più di un giorno dopo è stata rilasciata su cauzione come avvenuto quattro mesi prima, quando aveva preso parte a una manifestazione di donne di fronte al ministero del Lavoro per chiedere l’uguaglianza di genere e la fine dell’obbligo d’indossare il velo. La campagna contro l’obbligo del velo continua a essere un nervo scoperto per le autorità iraniane, che la ritengono un’invenzione pubblicitaria statunitense. Dalle ricerche di Amnesty International è emerso che, dal mese di aprile, in almeno sei casi attiviste della campagna sono state poste in isolamento, private di ogni rapporto con l’esterno, minacciate di ripercussioni contro le loro famiglie se non avessero “confessato” di fronte a una telecamera di provare rincrescimento e pentimento per essersi piegate al volere di “agenti dell’opposizione anti-rivoluzionaria all’estero”, ossia la campagna dei cosiddetti Mercoledì bianchi. Il caso più recente riguarda Saba Kordafshari, 22 anni, arrestata il 1° giugno. Per i primi 11 giorni è stata tenuta in isolamento nel centro di detenzione Vozara della capitale Teheran. Qui, hanno provato invano a farla “video-confessare”. Poi è stata trasferita nella prigione di Shar-e Ray, dove ha ricevuto altre pressioni. Il 2 luglio è scomparsa, per ricomparire in carcere 12 giorni dopo. Nel frattempo, il 10 luglio è stata arrestata anche la madre, Raheleh Ahmadi. Gli altri casi sono descritti qui. Spicca la pessima figura, alla faccia della deontologia professionale giornalistica, del personale della Islamic Republic of Iran Broadcasting (Irib), che filma interviste forzate senza il minimo consenso. Come nel caso di Yasaman Aryani e di sua madre Monireh Arabshahi, arrestate il 10 e l’11 aprile, e di Zarrin Badpa, l’anziana madre di Masih Alinejad, giornalista iraniana residente negli Usa e ideatrice della campagna dei Mercoledì bianchi. Ricordiamo che per aver difeso le attiviste della campagna è in carcere, condannata a un totale di 33 anni e 148 frustate, poi ridotti a 12 anni per il divieto di cumulo, l’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh. Egitto. Lo stato delle prigioni suscita preoccupazione per gli Usa sicurezzainternazionale.luiss.it, 18 luglio 2019 Il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha espresso la propria preoccupazione per le condizioni delle prigioni egiziane, ed ha affermato che Washington continuerà a collaborare con le autorità egiziane in tale ambito. Tale questione fa riferimento alla risposta del segretario di Stato americano al Gruppo di Lavoro sull’Egitto, ovvero un gruppo di esperti di politica internazionale costituito nel 2010. Questo aveva sottolineato, in una lettera datata 20 giugno 2019, che la morte dell’ex presidente egiziano Mohammad Morsi, del 17 giugno scorso, avrebbe dovuto rappresentare una scintilla in grado di richiamare l’attenzione a livello internazionale sulla condizione dei prigionieri detenuti nelle carceri egiziane, i quali vivono in condizioni rischiose e dovrebbero essere salvati. Da parte sua, Mike Pompeo, ha condiviso lo stato di preoccupazione del Gruppo di Lavoro ed ha espresso la propria opposizione verso ogni forma di arresto arbitrario o maltrattamento contro qualsiasi persona, a prescindere dalla nazionalità o dalle accuse riportate. Pertanto, il segretario di Stato ha affermato di aver discusso la questione nell’ambito degli incontri sui rapporti annuali sulla situazione delle prigioni e sul rispetto dei diritti umani ed ha altresì sottolineato che continuerà a lavorare con le autorità egiziane dei più alti livelli in tal senso. Il Gruppo di Lavoro sull’Egitto ha parlato, nella propria lettera, di condizioni terribili per i prigionieri detenuti in Egitto. La lista comprende violazioni dei diritti fondamentali, uso sistematico della scomparsa forzata, isolamento, mancata assistenza medica, detenzione arbitraria, processo ingiustificato, torture, abusi sessuali. Le autorità avrebbero altresì cacciato fuori i detenuti, uccidendoli a sangue freddo, e mostrando la loro uccisione come se si trattasse di raid contro cellule terroristiche. Questo è stato il destino di più di 450 uomini egiziani dal 2015, come sottolineato altresì da un rapporto di Reuters. Di fronte a tale scenario e considerato che vi sono diversi cittadini americani detenuti in Egitto, gli Stati Uniti sono stati invitati a prendere in esame la questione e a supportare alcune mosse significative. In particolare, alcune organizzazioni egiziane per i diritti umani hanno richiesto l’accesso da parte del Comitato Internazionale della Croce Rossa alle prigioni e di formulare rapporti e suggerimenti per migliorarne le condizioni. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha, invece, chiesto di avviare indagini indipendenti sulle circostanze relative alla morte di Morsi, incluse quelle riguardanti il periodo di detenzione. Tale invito è stato altresì assecondato da Human Rights Watch e Amnesty International. Secondo quanto sottolineato, l’amministrazione americana attuale, con il presidente Donald Trump, sta svolgendo un ruolo rilevante nel sostenere le richieste dei manifestanti in Sudan e Algeria circa i propri diritti. Pertanto, anche le richieste da parte dei politici prigionieri in Egitto dovrebbero essere prese in considerazione da parte americana, visto altresì l’aiuto dimostrato per più di 40 anni.