“Certezza della pena” non è solo quantità ma anche qualità di Riccardo Polidoro e Gianpaolo Catanzariti* Guida al Diritto - Il Sole 24 ore, 17 luglio 2019 La legge 26 luglio 1975 n. 354 - ordinamento penitenziario - ha rappresentato, da un punto di vista normativo, il passaggio dal sistema esclusivamente punitivo a quello anche “rieducativo”. Dopo 27 anni venivano recepiti i principi costituzionali, ma l’assenza di una preparazione culturale a comprendere tale cambiamento è stata fatale per la concreta realizzazione della metamorfosi. Ancora oggi, a 44 anni da quella data storica per l’esecuzione penale in Italia, ci sono norme che non trovano applicazione ovvero sono state stravolte da altre disposizioni e prassi dovute alla continua emergenza e/o alla cronica mancanza di risorse. Dopo la sentenza “pilota” della Cedu dell’8 gennaio 2013, che ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, il nostro Paese è stato costretto a “pensare” a una nuova riforma del regime detentivo. Ma la delega al Governo, che pur aveva trovato totale attuazione nel lavoro delle commissioni ministeriali, è stata solo in minima parte rispettata con il venir meno di elementi fondamentali quali l’eliminazione degli automatismi, la facilitazione all’accesso alle misure alternative e il diritto all’affettività. Il 2018 doveva essere un altro “anno storico” per il sistema delle carceri italiane. Ha, invece, visto affermarsi principi che credevamo ormai non più pronunciabili, come “marcire in carcere”, in nome di una visione di “certezza della pena” che non trova alcun fondamento, né logico, né giuridico. La “certezza” non può essere solo riferita alla quantità, ma anche alla “qualità” e il detenuto ha diritto a una condanna che consista in una privazione della libertà, nel rispetto dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario. Privazione della libertà che si realizza non solo con il carcere - l’articolo 27 della Costituzione, infatti, fa riferimento a “le pene...” non alla “pena” - ma anche attraverso altre modalità esecutive, la cui durata viene stabilita dal giudice al momento della condanna, con un enorme potere discrezionale che, invece, nell’affossare la riforma, si è voluto togliere al magistrato di sorveglianza costretto a rispettare automatismi e preclusioni. Il ministro della Giustizia e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nelle loro linee programmatiche per il 2019, hanno chiaramente affermato che la strada da seguire è quella di più carcere, meno misure alternative, in contrasto con quanto l’Europa ci aveva chiesto e con i principi indicati nella Legge Delega. Un presente e un futuro per l’esecuzione penale che riporta al Regolamento del 1931, che stabiliva una rigida separazione tra il mondo penitenziario e la realtà esterna e concepiva il carcere come istituzione chiusa. E se con la “mano sinistra” il Governo ha deciso di sminuire la portata della Legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario varata nella precedente legislatura, con la “mano destra” ha introdotto nuove ostatività della pena (cosiddetta Spazza-corrotti) e l’inasprimento irrazionale delle sanzioni penali (voto di scambio, decreto sicurezza e decreto sicurezza bis). Con il recentissimo Decreto Legge 14 giugno 2019, n. 53, tristemente noto come “decreto sicurezza bis”, le serrate critiche della dottrina, già espresse in merito al primo decreto sicurezza (Dl 4 ottobre 2018 n. 113), appaiono ancor più evidenti non solo in punto di disorganicità, ma, soprattutto, in punto di “necessità e urgenza” se è vero che, per bocca dello stesso ministro dell’Interno, in questi ultimi mesi si starebbe assistendo a una drastica riduzione dei reati. Desta particolare perplessità l’intenzione (“salve le sanzioni penali quando il fatto costituisca reato”) d’irrogare, in maniera congiunta, nelle ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - articolo 12 del Dlgs 286/1998, cosiddetto Tu sull’immigrazione - le sanzioni amministrative di recente introdotte e le sanzioni penali originariamente previste, in violazione del principio del ne bis in idem che, più volte, la Cedu ha inteso rammentare specie in presenza di sanzioni amministrative, che, per quanto pecuniarie, appaiono per la loro sproporzione particolarmente onerose e afflittive al pari di una sanzione penale, con una inammissibile duplicazione sanzionatoria. Quanto, invece, alle disposizioni finalizzate al mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza, si registra l’ennesimo inasprimento del sistema sanzionatorio in presenza di manifestazioni pubbliche e di piazza, ampliando il solco emergenziale tracciato dalla famigerata Legge Reale. Si prevede l’aumento di pena per coloro che, utilizzando caschi protettivi o altri mezzi, rendono difficoltoso (termine evidentemente generico) il riconoscimento personale nelle manifestazioni di piazza. Si introduce una nuova fattispecie delittuosa, con pena fino a quattro anni, per chi, in occasione delle manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lanci o utilizzi illegittimamente “razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere”. Si introduce l’ennesimo inasprimento sanzionatorio, attraverso l’introduzione di specifiche aggravanti o attraverso la creazione di fattispecie autonome aggravate, delle disposizioni del codice penale per fatti-reato commessi in occasione di manifestazioni pubbliche o aperte al pubblico (violenza, minaccia, resistenza a pubblico ufficiale o a corpo politico, amministrativo o giudiziario, interruzione di ufficio o pubblico servizio, danneggiamento). Il leit-motiv delle disposizioni in questione appare sempre più il desiderio, peraltro non celato, dell’esercizio della forza brutale in occasioni di aperte manifestazioni di dissenso. Un giro di vite pericoloso che, speriamo davvero, non apra le porte a un decreto sicurezza ter, sfruttando l’ennesima insofferenza provocata nel chiuso delle nostre carceri o all’aperto, in una piazza affollata di manifestanti. L’aria che si respira dentro e fuori il carcere è pesante e soffia un vento che rischia di portare via le pagine della nostra Costituzione. La Riforma dell’ordinamento penitenziario non vi è stata, per le stesse ragioni per cui quell’atto innovativo e, finalmente, costituzionalmente orientato che fu la Legge del 1975 non ha trovato completa applicazione. Occorre una “rivoluzione culturale” che faccia comprendere il “senso” della pena e l’importanza di un percorso punitivo-rieducativo che offra al condannato la possibilità del reinserimento sociale. Innanzitutto “educare” l’opinione pubblica promuovendo la conoscenza della Costituzione, anche attraverso una campagna istituzionale, cosiddetta “pubblicità progresso”, che sfrutti tutti i canali di comunicazione. Promuovere il lavoro dei condannati dentro e fuori le mura, con una mentalità manageriale che possa sfruttare le enormi potenzialità che offre il mondo penitenziario. Il “Carcere-Impresa” avrebbe diverse finalità: responsabilizzerebbe il condannato, diventato protagonista di un percorso trattamentale i cui risultati sono immediatamente tangibili; consentirebbe la formazione lavorativa spendibile al momento del fine pena; produrrebbe risorse economiche per l’amministrazione penitenziaria. La pena, limitata alla perdita o alla riduzione della libertà, sarebbe effettivamente propedeutica al reinserimento sociale. Tutto ciò presuppone l’istituzione di una figura, all’interno dell’amministrazione penitenziaria, che abbia capacità imprenditoriali. Da sempre, invece, a capo del Dipartimento, come delle stesse direzioni, vi è un magistrato, spesso proveniente dall’ufficio di procura, che, per storia professionale e cultura, non ha la possibilità di amministrare, nel migliore dei modi, un mondo così complesso ed eterogeneo come quello penitenziario. Per una pena scontata nel rispetto della Costituzione, l’Unione Camere Penali Italiane si è astenuta dalle udienze e da ogni attività giudiziaria lo scorso 9 luglio, con una manifestazione nazionale a Napoli. *Avvocati e responsabili dell’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali italiane Di cella si muore ancora: 25 suicidi nel 2019 tra i detenuti, 7 tra gli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2019 Il carcere continua a mietere vittime, detenuti ma anche agenti penitenziari. Una escalation senza fine quella dei suicidi. L’ultimo, in ordine cronologico, è avvenuto nel carcere campano di Secondigliano. Domenica pomeriggio, Giovanni Pontillo, un 59enne di Capodrise (Ce), si è impiccato nella sua cella del carcere napoletano. Era detenuto nel reparto Ionio, alta sicurezza del carcere, dove stava scontando una condanna in primo grado a 20 anni per spaccio internazionale di droga e associazione a delinquere. È il quinto suicidio in un carcere in Campania dall’inizio dell’anno, gli altri erano avvenuti nel carcere superaffollato di Poggioreale, al centro di una recente rivolta. Il Garante dei Detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha denunciato la carenza di personale adatto a occuparsi della salute mentale dei reclusi negli istituti detentivi della regione: “Ogni carcere, anche Secondigliano, ha avuto approvato e validato dall’Osservatorio regionale della sanità il Protocollo di prevenzione del rischio suicidario in istituto. Ma mancano le figure sociali di psicologi ed educatori: 95 educatori per 15 Istituti penitenziari (7.832 detenuti), 32 psicologi e 16 psichiatri, per complessive 1.428 ore mensili. In media ogni mese queste figure sociali dedicano ad ogni detenuto 10/ 11 minuti. E adesso gli psicologi devono stare anche nei consigli di disciplina”, spiega il Garante. “Non si può morire in carcere e di carcere”, prosegue Ciambriello. “Ogni morte violenta è un’offesa alla vita, al buon senso, alla Costituzione ed un invito, un desiderio di saperne di più sulla vita detentiva, ma anche il coraggio di dubitare delle proprie credenze in merito al carcere”. Il penultimo suicidio, invece, è avvenuto nel carcere di Ferrara. Il detenuto, come accade troppo spesso, aveva problemi psichiatrici e l’11 luglio si è impiccato. Con l’ennesimo recente suicidio, siamo giunti a 25 persone che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno. Parliamo di una macabra conta senza fine, una lunga lista funebre. L’istituto penitenziario è come un luogo pieno di cappelle mortuarie e infatti le celle, tecnicamente, vengono anche chiamate “cubicoli”. D’altronde la parola “carcere” deriva anche dall’ebraico “carcar” che vuol dire, appunto, “tumulazione”. Il tema dei suicidi in carcere rimane di estrema attualità. Secondo un vecchio studio del Consiglio d’Europa, in Italia il rischio di suicidio in carcere era risultato fra i più elevati. Non solo, mentre fra la popolazione libera negli ultimi 20 anni i tassi di suicidio diminuiscono progressivamente, ciò non accade in carcere. Diversi sono i fattori e in diverse Regioni le direzioni del carcere e le Asl hanno aderito a un protocollo di intesa per prevenire i suicidi e gli atti di autolesionismo. Ma non appare sufficiente. Molte sono le situazioni - basti pensare ai detenuti con problemi psichici - che a buon titolo possono essere comprese nel concetto di vulnerabilità: lo stesso numero dei suicidi viene considerato per certi aspetti un indicatore, così come lo sono i tantissimi casi di autolesionismo registrati. Ma il sistema penitenziario non risparmia nemmeno gli agenti. Tra il 1997 e il 2018 sono 143 coloro che si sono tolti la vita (dati registrati da Ristretti Orizzonti), già sette i casi registrati nel 2019. L’ultimo il 10 luglio: un agente in servizio alla Casa circondariale di Bologna si è ucciso nella sua casa in Abruzzo, aveva 35 anni. Ad aprile un altro, sempre a Bologna. A giugno un agente originario di Sassari che, da anni, lavorava a Vigevano si era ucciso mentre era in ferie in Sardegna. “Il carcere è un contenitore di disagio sociale e noi siamo dall’altra parte, disarmati, senza strumenti per affrontarlo”, dice amaramente Nicola D’Amore, delegato del Sinappe, il Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria, di stanza alla Casa circondariale di Bologna. Carceri, ecco il piano mobilità del Dap: in arrivo 1.162 nuovi agenti penitenziari giustizianews24.it, 17 luglio 2019 Rafforzamento del personale di Polizia Penitenziaria in servizio negli istituti di pena italiani. È quanto prevede il piano di mobilità collegato alle prime assegnazioni dei neo agenti del 175esimo corso. Sulla base di quanto previsto dal piano di mobilità, la Direzione generale del personale e delle risorse del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria adotterà i provvedimenti di trasferimento del personale che si è collocato in posizione utile nella graduatoria definitiva dell’interpello nazionale per il 2018. Delle assegnazioni e dei trasferimenti beneficeranno tutti gli ambiti territoriali del Paese. In Lombardia, per esempio, saranno 115 le risorse aggiuntive (97 agenti uomini e 18 donne): 12 sono state assegnate alla casa circondariale Voghera Nuovo Complesso, 11 a quella di Bergamo e 10 (6 uomini e 4 donne) alla casa di reclusione di Vigevano. Incrementi di personale previsti anche per le strutture afferenti al Prap Lazio-Abruzzo-Molise. Si tratta, complessivamente, di 110 agenti per i reparti maschili e di 64 per quelli femminili. Sono 43 le risorse aggiuntive per il carcere di Rebibbia, di cui 20 per la Casa Circondariale di Rebibbia Femminile. Potenziamento delle unità in servizio anche per l’istituto di Velletri (17 nuovi agenti in totale), per la casa circondariale di Frosinone (15 uomini e 4 donne), di Pescara(10) e Teramo (8 agenti uomini e 5 donne). L’ampliamento del personale in servizio riguarderà anche le strutture penitenziarie delle regioni del Sud. Le carceri campane potranno contare su 41 agenti in più (28 uomini e 13 donne). Assegnate 13 risorse in più all’istituto di Napoli Poggioreale, 6 al reparto femminile della casa circondariale di Pozzuoli, 5 a Salerno e 10 (8 uomini e 2 donne) a Santa Maria Capua Vetere. Carcere e detenuti, rettifica del ministero della Giustizia di Andrea Cottone tempi.it, 17 luglio 2019 Pubblichiamo la rettifica di Andrea Cottone, capo Ufficio stampa del ministero della Giustizia, al nostro articolo “Cose buone dal carcere”. Egregio Direttore, nell’ultimo numero di Tempi è contenuto l’articolo “Cose buone dal carcere”, firmato da Pietro Piccinini, nel quale sono riportate alcune affermazioni palesemente false che ledono l’immagine dell’Amministrazione Penitenziaria. I 60mila detenuti di cui parla il giornalista non vivono “22 ore al giorno in una cella di tre metri per tre”, non fanno “a turno con gli altri tre compagni per stare in piedi nell’unico fazzoletto di pavimento non occupato dalle brande”, non prendono “2 ore d’aria, una la mattina, una il pomeriggio, stipati con tutti gli altri carcerati dentro gabbie all’aperto che sembrano voliere da zoo”. Lo garantiscono la riforma seguita alla sentenza Torreggiani e il controllo di organismi sovranazionali. Non è vero che “nelle galere italiane non si esce da quei buchi che sono le celle”, né che “se sono fortunati, durante il giorno i detenuti possono ciondolare un po’ nel piano di pertinenza”. La sorveglianza dinamica istituita nel 2013 prevede l’apertura delle celle per i detenuti in media sicurezza per almeno 8 ore al giorno, con possibilità di muoversi nella sezione e di usufruire di spazi più ampi per le attività. È falso inoltre che “in tutto il paese sono meno di mille i carcerati che svolgono un lavoro vero per imprese sociali”. Nel 2018, 2.386 hanno lavorato alle dipendenze di terzi; senza contare i 4.500 che, a rotazione, hanno svolto lavori di pubblica utilità, formati da imprese esterne. Infine, perché definire “secondini” gli agenti di Polizia Penitenziaria, tanto più che anche uno degli intervistati li chiama correttamente? Sarebbe importante che nel raccontare la bontà di iniziative come quella di Padova non ci si dimentichi di spendere una parola anche sull’impegno dell’Amministrazione e la professionalità dei suoi operatori. *Capo Ufficio Stampa Ministero della Giustizia Giustizia e politica vanno separate di Bruno Ferraro* Libero, 17 luglio 2019 Giustizia, ovvero applicazione della legge senza se e senza ma; politica, ovvero l’arte di mediare fra due o più soluzioni tecnicamente possibili. Basterebbero queste enunciazioni per separare i due mondi e renderli impermeabili ad ogni ipotesi di infiltrazione. Lo avevano capito i Padri costituenti quando sancirono il principio che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati”. Principio ovvio, visto che il magistrato deve essere super partes ed il politico è per sua natura un uomo di parte. Le cose sono andate diversamente, poiché il legislatore è stato incerto ed i magistrati hanno avviato la stagione delle “porte girevoli” entrando ed uscendo dalla politica a loro piacimento. Mi auguro che si imbocchi la strada giusta, prendendo spunto dallo scandalo che ha investito il Csm, che ha sorpreso solo chi chiudeva gli occhi... per non vedere, accettando l’ineluttabilità della cosiddetta giustizia ad orologeria. Mi tornano alla mente i numerosi casi di politici accusati e poi scagionati. Senza riandare al capitolo di “Mani pulite”, ripenso ai casi dell’ex governatore pugliese Raffaele Fitto assolto dall’accusa di falso in cambio di tangenti; dell’ex governatore della Banca d’Italia Fazio, assolto dall’accusa di aver favorito illegalmente scalate bancarie tentate da imprenditori a loro volta assolti; dell’ex presidente della Regione Piemonte Cota assolto nel processo per i rimborsi “mutande verdi”; dell’ex presidente della Provincia di Milano Penati assolto nel processo per le tangenti a Sesto San Giovanni; dell’ex sindaco di Amatrice Pirozzi indagato in piena campagna elettorale nel 2018; dell’ex Capo della Protezione Civile Bertolaso, prima crocefisso e poi riabilitato da accuse infamanti. Si dirà: come la mettiamo con i tanti casi di malaffare e di tangenti scoperchiati dai magistrati? Ma è proprio per questo che giustizia e politica devono rimanere separate. La giustizia deve essere imparziale e come tale deve essere percepita dall’opinione pubblica. Nel 2011 l’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano disse: “È indispensabile evitare condotte che creano indebita confusione dei ruoli e fomentano l’ormai intollerabile, sterile scontro tra politica e magistratura. Come accade, ad esempio, quando il magistrato si propone per incarichi politici nella sede in cui svolge la sua attività, oppure quando esercita il diritto di critica pubblica senza tenere in conto che la sua posizione accentua i doveri di correttezza espositiva, riserbo e sobrietà”. Una giustizia equilibrata eviterebbe l’abuso della carcerazione preventiva, la pubblicizzazione di inchieste a ridosso delle elezioni, ogni forma o sospetto di giustizia ad orologeria, interventi a gamba tesa come quelli per i migranti a carico di Conte-Salvini-Di Maio. Andrebbe salvaguardato il principio della presunzione di non colpevolezza. Una conclusione mi sembra necessaria: fuori i magistrati dalla politica, fuori dalla giustizia quando sono candidati; rafforzamento del principio di responsabilità civile per i giudici che incorrono in errori inescusabili. In questo momento, se lo si vuole forse si può. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Dl sicurezza, scontro Pd-Lega in Commissione alla Camera Il Dubbio, 17 luglio 2019 L’Ufficio di presidenza delle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, alla luce dell’ostruzionismo messo in atto dal Pd, che sta rallentando le votazioni sugli emendamenti al decreto sicurezza bis, ha deciso - come prevede il regolamento - di contingentare i tempi e assegnare 5 minuti a gruppo per intervenire su ogni proposta di modifica da votare. Lo riferisce, al termine della riunione, il presidente della Affari costituzionali, Giuseppe Brescia (M5s), illustrando quindi il nuovo timing: l’esame riprenderà alle 14,15 per proseguire fino all’avvio dell’Aula e poi a seduta terminata, in serata, fino alle 22,30. Idem domani, e così anche nella giornata di giovedì e ove necessario venerdì, per “essere in Aula come da calendario lunedì 22 luglio”. la presidente della Giustizia, Francesca Businarolo, nel motivare la necessità di contingentare i tempi, ha spiegato: “Fino ad ora, tra ieri ed oggi, le commissioni hanno lavorato per 10 ore, votando circa 20 emendamenti. Se si procedesse così servirebbero oltre 140 ore di lavoro per esaminare i circa 300 emendamenti ancora da votare”. La decisione ha immediatamente provocato la reazione del Pd che non ci sta e accusa la maggioranza, e in particolare il presidente della Affari costituzionali, Giuseppe Brescia, di un “atto di protervia assoluta” e di negazione dei “diritti delle opposizioni”. Brescia respinge le accuse: “La decisione è stata presa sulla base del regolamento e non è assolutamente arbitraria o irragionevole”, replica. Il Dl sicurezza bis arriva dopo una serie di polemiche che hanno attraversato la stessa maggioranza di governo. Nato all’indomani dello scontro sugli sbarchi da un’iniziativa della Lega, il dl sicurezza bis ha creato scetticismo e malumore tra le fila dei parlamentari grillini soprattutto per quel che riguardava l’aumento delle multe per chi soccorre i migranti. Ecco i super procuratori nella riforma dell’ordinamento giudiziario di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 luglio 2019 Via Arenula assegna ai capi degli uffici ampi margini di intervento. Ecco i super procuratori. Arrivano, e non soltanto nel senso figurato, i super procuratori ed i super presidenti di Tribunale. La riforma dell’Ordinamento giudiziario voluta dal ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, assegnerà infatti ai capi degli uffici un potere senza precedenti. Saranno loro, e non più il Consiglio superiore della magistratura, a nominare i presidenti di sezione ed i procuratori aggiunti. Funzioni che cambieranno anche nome in “coordinatori di sezione” e “coordinatori di dipartimento”. La novità è contenuta all’articolo 24: “Riordino dell’assetto organizzativo della magistratura, con riferimento alle funzioni direttive e semi-direttive e all’ufficio del pubblico ministero”. I coordinatori saranno scelti tra i magistrati dell’ufficio, “tenuto conto dell’anzianità nel ruolo, dell’anzianità di servizio e delle attitudini specifiche maturate in rapporto alle materie di competenza della sezione o del dipartimento”. Dovrà esserci un coordinatore ogni dieci magistrati. Prima di procedere alla loro nomina, i procuratori e i presidenti del Tribunale avranno però l’obbligo di acquisire “il parere dei magistrati assegnati alla sezione o al dipartimento”. Parere che non dovrebbe essere comunque vincolante per la scelta. L’incarico avrà durata quadriennale, non rinnovabile a differenza di adesso. Svuotato il Csm. La riforma dei “semi-direttivi” è destinata dunque a svuotare di competenze il Consiglio superiore della magistratura, tenuto conto che circa l’80 percento delle nomine effettuate dall’Organo di autogoverno delle toghe riguardano proprio questo genere di incarichi. Tornando agli obblighi del magistrato coordinatore, la riforma sottolinea che dovrà “perseguire gli obiettivi fissati nel modello organizzativo” e “assicurare una presenza costante nell’ufficio”. I probabili effetti immediati di questa riforma sono stati evidenziati in una nota diramata ieri dalla dirigenza di Magistratura indipendente, la corrente moderate delle toghe. “L’eliminazione delle funzioni semi-direttive - si legge nel documento - rappresenta una misura non condivisibile che, per limitare l’intervento del Csm per il conferimento degli incarichi di responsabilità, finisce per attribuire un potere enorme nelle mani dei capi degli uffici, accentuando la gerarchizzazione delle Procure della Repubblica e introducendo criteri gerarchici all’interno degli uffici giudicanti che mal si conciliano con l’autonomia e l’indipendenza riconosciute dalla Costituzione a ogni magistrato”. Va ricordato che lo scorso Csm aveva approvato, fra gli ultimi atti della consiliatura, una circolare sulle Procure che cercava di “limitare”, per quanto possibile, i poteri, già rilevanti, del procuratore della Repubblica. “Il rischio concreto è di favorire comportamenti conformistici nei confronti dei vertici degli uffici giudiziari, livellando verso il basso l’esercizio delle funzioni giudiziarie”, prosegue la nota di Magistratura indipendente. Fra le soluzioni per limitare la discrezionalità del Csm nel conferimento degli incarichi di responsabilità organizzativa, sottolineano le toghe di Mi, ci sarebbe quella di “prevedere l’espressa prevalenza degli indicatori specifici su quelle generali e su questo obiettivo intende ribadire il proprio impegno per una compiuta revisione del testo unico della dirigenza giudiziaria che consenta di attribuire preminente rilievo all’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Difficilmente, però, un Csm fuori combattimento a causa delle polemiche relative all’indagine sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palarmara, sarà in questo momento in grado di dar seguito a tali indicazioni. Questo fine settimana, a tal proposito, è previsto l’addio del procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio. Coinvolto anch’egli nella vicenda Palamara, doveva lasciare la magistratura il 20 novembre. Le tensioni di questi giorni lo hanno costretto ad anticipare. Csm, riforma e dintorni di Vincenzo Vitale L’Opinione, 17 luglio 2019 Leonardo Sciascia, oltre tre decenni or sono, formulò una richiesta al Parlamento italiano, proponendo che per un tempo determinato si astenesse dal varare leggi di riforma, pur continuando a percepire lo stipendio nelle persone dei singoli parlamentari. Lo scrittore infatti temeva non solo le leggi vigenti - già allora confuse, aggrovigliate, a volte inesplicabili - ma, ancor di più, le leggi di riforma che le avrebbero sostituite: in realtà, ancor più confondendole, aggrovigliandole, rendendole impossibili da decifrare. Naturalmente, il Parlamento continuò imperterrito a riformare tutto il riformabile ed anche il non riformabile. Ebbene, oggi le cose non sono molto diverse, se il Governo mette mano a riformare per l’ennesima volta il Consiglio superiore della magistratura. E intende farlo sotto due direttrici complementari, ma entrambe assai discutibili. Per un verso, intende sorteggiare i componenti del Csm - sia pure da una rosa predeterminata - allo scopo di sottrarli all’egemonia delle correnti e delle lorio intestine lotte di potere. Il sorteggio è stato nell’antichità uno dei metodi tradizionali dell’agone democratico. Tuttavia, esso - icasticamente definito quale metodo di una “aleocrazia” (cioè democrazia dell’azzardo) - presta il fianco a due obiezioni insuperabili: esso infatti da un lato non tiene in alcun conto le qualità soggettive delle persone sorteggiate, la loro competenza, i loro limiti, le loro reali capacità; dall’altro lato, non spinge in alcun modo i sorteggiati a far del loro meglio per ottenere una eventuale riconferma, impossibile nel sorteggio. Infatti, il sorteggio è un metodo arcaico, buono per le società non ancora sviluppate, ove le fazioni e le contrapposizioni siano tanto violente da sfociare nella ingovernabilità. Oggi, residua solo nella scelta dei componenti popolari delle giurie di Corte d’Assise, ma per una motivazione fondamentalmente diversa: qui il sorteggio serve solo a garantire che i giudici non possano esser scelti con criteri previamente politici, non ispirati a giustizia. Per altro verso, il Governo vuole attribuire al Csm il compito di indicare alle Procure, periodicamente, ove rivolgere in via prioritaria l’azione penale, che tuttavia rimane obbligatoria. Un vero assurdo: attribuire ad un organo di amministrazione - quale il Csm - la scelta dei reati da perseguire, finendo con il subordinare alla prospettazione politica o parapolitica l’attività giurisdizionale. Insomma, un vero pasticcio, per giunta anche incostituzionale. Se ne accorgerà il Governo? Whistleblowing, raddoppiano le segnalazioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2019 Più che raddoppiate, le segnalazioni di whistleblowing: nel mirino soprattutto le irregolarità negli appalti. Nel 2018 l’Anac, come emerge dal quarto rapporto, ha ricevuto 783 notizie di comportamenti illegittimi, 65 al mese, a fronte delle 364 del 2017. Un trend in crescita confermato anche per i primi sei mesi del 2019: sono giunte all’Anac 439 notizie di comportamenti illegittimi (73 al mese) con una media di due “indicazioni” al giorno. A sollevare il velo su presunte irregolarità è soprattutto il Sud che, con le isole, fa totalizzare il 41% delle segnalazioni per il 2018, che salgono al 51,7% al 30 giugno 2019. “Al sud il livello di problemi è elevato - afferma il presidente dell’Anac Raffaele Cantone - e restano prioritarie le segnalazioni sugli appalti”. In crescita, e in questo caso, il dato non è positivo, le segnalazioni anonime che - specifica Cantone - possono essere prese in considerazione, per approfondimenti, solo se particolarmente circostanziate. Ma per il presidente dell’Anticorruzione il rapporto fornisce comunque il quadro confortante di un istituto che sta prendendo piede. Al primo posto tra gli autori delle segnalazioni i dipendenti pubblici : 55,5%, seguiti con netto distacco (14%) dai lavoratori delle imprese che svolgono servizi per la Pa o di società partecipate. Monitorate non solo le segnalazioni Anac ma anche quelle degli enti locali pubblici o nazionali. Quattro, per il 2018, quelle che riguardano Roma Capitale arrivate all’ufficio interno del Campidoglio: disapplicazione di leggi o regolamenti per il commercio su aree private, comportamenti illegittimi in un concorso pubblico, irregolarità nello svolgimento di un interpello per affidare un restauro e un abuso d’ufficio. Sale anche il numero di segnalazioni che l’Anac ha inviato per approfondimenti di natura penale o contabile: 20 nel 2018 alla Procura della Repubblica e 19 alla Corte dei Conti. Nei primi 6 mesi del 2019 gli invii alla Procura sono già stati 33 e 29 Corte dei Conti sono 29. Cucchi, inchiesta depistaggi: rinviati a giudizio 8 carabinieri di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 17 luglio 2019 Sono indagati a vario titolo per falso, omessa denuncia, calunnia e favoreggiamento. Il processo a loro carico inizierà il 12 novembre. La giudice dell’udienza preliminare Antonella Minunni ha rinviato a giudizio otto carabinieri accusati di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Si tratta di alcuni dei militari che si occuparono di Stefano Cucchi dopo l’arresto e la morte arrivata a una settimana di distanza, fino alle indagini riaperte nel 2015. Ad affrontare il processo, saranno il generale Alessandro Casarsa, ex capo dei corazzieri del Quirinale; i colonnelli Lorenzo Sabatino (ex comandante del Nucleo investigativo di Roma), Francesco Cavallo e Luciano Soligo, il capitano Tiziano Testarmata, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, i carabinieri Francesco Di Sano e Luca De Cianni. Secondo la ricostruzione del pubblico ministero Giovanni Musarò, accolta dal gup, hanno depistato l’inchiesta sulla morte di Cucchi per coprire le responsabilità di chi picchiò il ragazzo. Il processo bis che vede accusati del pestaggio altri tre carabinieri (più altri due di calunnia e falso) è alle battute finali: il 20 settembre è fissata la requisitoria del pm, poi le arringhe difensive e a novembre dovrebbe arrivare la sentenza. Così il quadro, almeno secondo la Procura, è completo: Cucchi sarebbe stato picchiato in caserma dagli stessi carabinieri che lo avevano arrestato e che, in seguito alla sua morte, con l’aiuto dei superiori, avrebbero coperto la verità. Le due inchieste - quella bis che ha portato al processo per omicidio preterintenzionale la ter sfociata ieri nel rinvio a giudizio - hanno avuto diversi momenti di svolta. Nel primo caso con le rivelazioni dell’imputato Francesco Tedesco che ha accusato i suoi colleghi, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, di aver pestato Cucchi: “Mentre uscivano dalla sala del fotosegnalamento, che Cucchi si rifiutò di fare, Di Bernardo si voltò e lo colpì con uno schiaffo violento in pieno volto - ha raccontato Tedesco - Poi lo spinse e D’Alessandro diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano”. Per il presunto depistaggio sono state invece le parole di Colombo Labriola ad aver acceso una luce sull’inquinamento delle prove da parte dell’Arma, che sarebbe arrivata a confezionare una versione di comodo anche sotto il profilo medico legale: Colombo ha rivelato di aver ricevuto la richiesta di modificare le annotazioni di servizio sulla custodia di Cucchi. Ieri, nel corso della discussione davanti al gup, il generale Casarsa ha dichiarato che ciò che aveva scritto nell’appunto sulle possibili cause della morte di Cucchi lo aveva appreso al comando provinciale dell’Arma. E il suo avvocato, Carlo Longari, ha precisato che quelle anticipazioni sarebbero arrivate direttamente dal comando guidato all’epoca da Vittorio Tomasone, oggi comandante interregionale della Campania. Al processo ter che inizierà il prossimo 12 novembre sono parte civile sia la presidenza del Consiglio che il ministero della Difesa e l’Arma dei carabinieri, oltre agli agenti di polizia penitenziaria che avevano subito il primo processo da innocenti. Esulta Ilaria Cucchi: “Dieci anni fa, mentre ci battevamo in processi sbagliati, non potevamo immaginare cosa succedeva alle nostra spalle. Oggi qualcuno ne risponderà in un’aula di giustizia. Per la prima volta ho sentito parlare dal vivo il colonnello Casarsa. Le note mediche della sua relazione che anticipavano le conclusioni dei medici legali non ancora nominati furono frutto di informazioni avute dal comandante Tomasone. Insomma, così decisero a tavolino di che cosa doveva esser morto mio fratello”. Anche un boss al 41 bis ha diritto a informarsi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2019 La Cassazione accoglie un ricorso sui giornali da leggere in galera. Giornali locali vietati ai boss al 41 bis per mero sospetto, nonostante riguardino luoghi di non appartenenza. La Cassazione dà ragione a un detenuto al regime duro e rimanda il provvedimento contestato al tribunale per un nuovo esame. Come si sa, tra i vari divieti ferrei, i detenuti possono leggere solo giornali nazionali, ma non locali per impedire che i boss si informino “sulle vicende connesse al clan criminale ovvero per verificare l’avvenuta esecuzione dei propri ordine veicolati all’esterno”. Nel caso specifico, tale divieto però è esteso anche per chi legge notizie locali non appartenenti al proprio luogo di origine. Parliamo del boss barcellonese Giovanni Rao ristretto nella casa circondariale de L’Aquila al quale, tramite un provvedimento dell’ottobre 2018 della Corte d’assise di Messina, era stato ordinato il “divieto di acquisto o ricezione dei giornali di stampa locale, indipendentemente dalla loro provenienza geografica”. L’avvocato difensore Franco Scattareggia del foro di Messina, ha fatto ricorso in Cassazione e quest’ultima gli ha dato ragione annullando il provvedimento contestato e rinviando gli atti al Tribunale di Messina per un nuovo esame. “La ratio del divieto nei confronti del mio assistito - spiega l’avvocato e costituzionalista Scattareggia - è quella che potrebbe diffondere nell’ora di socialità notizie locali ad altri boss e quindi veicolare messaggi”. Ma il problema è che questo divieto si basa, appunto, su un mero sospetto. Il ricorso posto dall’avvocato, quindi, è in punto di diritto prendendo come riferimento primario l’esistenza del diritto fondamentale all’informazione tutelato dall’art. 21 della costituzione. “L’estensione e la portata dei diritti dei detenuti - prosegue il legale - può subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere”, ma “in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto allo scopo del 41 bis”. Ma c’è anche la convenzione europea che garantisce il diritto all’informazione e, non a caso, diverse sentenze della Cedu fanno riferimento ad essa anche quando si tratta delle persone private della libertà. Quindi il ricorso, accolto dalla Cassazione con rinvio, si fonda sulla lesione del diritto all’informazione. Tali afflizioni aggiuntive, in generale, sono state evidenziate anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà tramite il Rapporto tematico sul regime detentivo speciale. Nel capitolo dove ci sono le raccomandazioni che riguardano gli ulteriori diritti, il Garante ha sottolineato che l’esercizio del diritto all’informazione del detenuto è parso in altri casi essere limitato dalla mancata consegna di articoli di stampa o pubblicazioni che, pur estranee alla vicenda del detenuto, facevano generale riferimento al contrasto alla criminalità organizzata. Condotta che il Garante ha ritenuto - nei casi non strettamente necessari - idonea a compromettere l’effettivo accesso all’informazione. La ratio del regime del 41 bis è quella di rafforzare la funzione custodialistica del carcere e spezzare i legami con la consorteria mafiosa di appartenenza: si vuole impedire che il detenuto possa continuare a “guidarla” ed impartire ordini nonostante la reclusione, nell’ottica di una guerra dichiarata alla criminalità di tipo mafioso a tutto campo. Un regime detentivo che, non a caso, si è guadagnato l’appellativo di “carcere duro” per via di ulteriori restrizioni che esulano dallo scopo originario. Misure cautelari reali: il Pm non può impugnare il decreto di sequestro preventivo del Gip di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2019 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 16 luglio 2019 n. 31239. In caso di misure cautelari reali Il pubblico ministero non può fare appello contro il decreto di sequestro preventivo del Gip che ha omesso di pronunciarsi su uno dei beni oggetto della richiesta cautelare. Per la Corte di cassazione infatti, (sentenza 31239) il Pm ha gli strumenti per reagire alla mancata decisione del Gip sulla richiesta di sequestro di un bene, perché può lui stesso, in caso di urgenza, disporre il sequestro preventivo, in base al comma 3-bis dell’articolo 321 del Codice di rito penale, o, mancando l’urgenza, rivolgersi nuovamente al giudice per le indagini preliminari e, in caso di rigetto, fare appello al Tribunale della libertà. Partendo da questi principi la Suprema corte rigetta il ricorso della pubblica accusa contro la decisione del tribunale della libertà di bollare come inammissibile il suo appello contro i decreti di sequestro pera la parte in cui il Gip non si era pronunciato in merito al sequestro preventivo di un immobile di proprietà di un indagato per il reato di favoreggiamento della prostituzione. Una scelta che il Tribunale aveva fatto seguendo alla lettera l’articolo 322-bis del Codice di procedura penale che nega al Pm la possibilità di fare appello contro il decreto di sequestro preventivo. Ad avviso del Pm invece l’articolo 322-bis sarebbe una norma di chiusura applicabile a tutti i provvedimenti non impugnabili in base all’articolo 322 del Codice di rito penale. A sostegno della su tesi il Pm cita la sentenza dei giudici di legittimità 416/1999. Per il ricorrente, infatti, il no all’impugnazione metterebbe la pubblica accusa nell’impossibilità di reagire, creando così una disparità di trattamento nel caso in cui il Gip abbia solo parzialmente accolto l’istanza. Ma ad avviso della Cassazione è corretta l’interpretazione del Tribunale. La Suprema corte ricorda che l’articolo 322-bis comma 1 prevede espressamente l’appellabilità delle ordinanze in materia di sequestro preventivo e del decreto di revoca del sequestro emesso dal Pm. Si deve quindi escludere, trattandosi di una norma per la quale è preclusa l’interpretazione analogica, vista la tassatività dei mezzi di impugnazione, l’ammissibilità dell’impugnazione contro il decreto del giudice. Cosenza: detenuti AS3 in sciopero della fame di Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 17 luglio 2019 Dal 25 giugno alcuni detenuti della sezione AS3 del carcere di Cosenza hanno iniziato lo sciopero della fame per la mancata chiusura della relazione di sintesi da parte del Got, relazioni che dovevano essere redatte già da diversi mesi, e in assenza delle quali è impossibile poter accedere ai benefici penitenziari. Queste problematiche erano già emerse durante l’ispezione che fece lo scorso aprile l’on. Anna Laura Orrico con un esponente della nostra associazione, ed erano state segnalate nell’interrogazione che la stessa ha presentato al Ministro della giustizia e che, ad oggi, non ha ricevuto ancora alcuna risposta. Quello che rivendicano è di poter avere riconosciuti i propri diritti. Da fonti “ufficiose” pare che lo sciopero della fame sia stato interrotto il 12 luglio e nei prossimi giorni dovrebbero ottenere la chiusura delle relazioni di sintesi. Riteniamo paradossale che di fronte alla commissione di reati, come misura sanzionatoria e risarcitoria, le persone vengano della libertà per poi essere lasciate in uno stato di alienazione e inazione per tutta la durata della carcerazione. L’obiettivo che lo stato si dà attraverso il sistema penale è quello di “rieducare” chi ha sbagliato al rispetto delle leggi e del vivere civile, ma questo obiettivo non può essere perseguito se lo stato stesso, attraverso chi amministra la giustizia viola e tradisce l’art. 27 della Costituzione. Un po’ come quel padre che pretende che il figlio smetta di fumare, con la sigaretta fumante in bocca. Il mondo cambia con il nostro esempio non con la nostra opinione. Belluno: detenuti psichiatrici verso il trasferimento Il Gazzettino, 17 luglio 2019 Chiude la sezione psichiatrica del carcere di Baldenich. Il trasferimento è programmato tra la fine del 2020 e il 2021. Ma le organizzazioni sindacali e i politici sono scettici. La notizia della prossima fine dei disagi per detenuti e per polizia penitenziaria è infatti accolta con tiepido entusiasmo da parte di Fns Cisl. “Apprendiamo con diffidente soddisfazione la notizia - afferma Robert Da Re della Cisl Fns Belluno Treviso - perché è dall’ottobre del 2017 che a tutte le promesse fatte per risolvere la gravissima situazione di insicurezza in cui versa la sezione e che penalizza sia il personale dell’istituto penitenziario sia i detenuti, non sono seguiti fatti concreti. Ad ogni modo vigileremo sulla corretta implementazione del supporto sanitario e sui tempi dichiarati per la ristrutturazione del nuovo reparto presso la Casa Circondariale di Padova”. Nell’attesa di trasferire i detenuti, l’Usl 1 Dolomiti ha chiesto di implementare l’attività sanitaria, con copertura h24 da parte del personale medico e infermieristico. La situazione nell’Articolazione Salute Mentale del carcere cittadino è sotto il mirino dei sindacati da tempo, per lo stato di degrado dell’area e per i numerosi episodi di violenza avvenuti ai danni delle guardie. Anche il deputato di Fratelli d’Italia e sindaco di Calalzo Luca De Carlo commenta la novità. “Era ora che qualcosa si muovesse sul trasferimento della sezione psichiatrica del carcere di Belluno - dichiara - ora vigileremo perché i tempi annunciati vengano rispettati. Già un anno fa ci era stato annunciato il trasferimento, ma oggi siamo ancora qua a parlarne, e poche settimane fa commentavamo l’ennesima aggressione ai danni degli agenti che vi lavorano. Ora confidiamo che la data del 2021 sia definitiva, non possiamo continuare a mantenere detenuti e lavoratori in quelle condizioni”. Alba (Cn): “A quando il bando per i lavori nel carcere?” di Ezio Massucco lavocedialba.it, 17 luglio 2019 Il Garante dei detenuti Prandi scrive al guardasigilli Bonafede. Progetto approvato, fondi stanziati e massima priorità assegnata: allora perché il Ministero della Giustizia non procede ad assegnare l’intervento da 4,5 milioni di euro necessario a riaprire l’intera struttura. C’è il nome del ministro alla Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, in testa alla lista di destinatari della missiva partita oggi da Alba all’indirizzo dei vertici nazionali dello Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap). A prendere in mano carta e penna, il garante comunale delle persone private della libertà personale Alessandro Prandi, che torna a sollecitare lo stesso ministro e i responsabili del dicastero romano circa l’urgenza di prendere in mano il progetto per la ristrutturazione della Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, chiusa dal gennaio 2016 per la contaminazione da legionella che ne interessò gli impianti pochi giorni prima e riaperta soltanto un anno e mezzo dopo, a metà 2017, e solamente per un quarto - 35 posti su 140 - della sua capienza regolamentare. Come riportato da queste pagine ancora nelle scorse settimane (qui il nostro articolo), nell’unica recente palazzina ora attiva (staccata dal corpo centrale, la sede è quella che in passato aveva ospitato la sezione femminile prima e quella dei collaboratori di giustizia poi) in questo momento trovano ospitalità oltre 50 detenuti, con un tasso di occupazione attestato ora al 143%: valori che fanno di quella albese una delle sedi più sovraffollate d’Italia. Intanto il progetto da 4.5 milioni di euro teoricamente già stanziati per la ristrutturazione del corpo centrale langue. Dopo le assicurazioni arrivate dallo stesso ministro nel corso della sua visita ad Alba del novembre scorso, gli ultimi riscontri sul tema sono quelli arrivati nel marzo scorso dalla voce del sottosegretario Vittorio Ferraresi, che in sede di question-time alla Camera dei Deputati informava che il progetto era stato approvato, il 20 febbraio, dal Provveditorato Interregionale delle Opere Pubbliche. Circostanza poi confermata nella successiva lettera inviata il 15 maggio scorso dal ministro Bonafede al sindaco di Alba Maurizio Marello (leggi qui), scritto col quale il Guardasigilli confermava lo stanziamento già previsto nel 2018 all’interno del “Programma di edilizia penitenziaria 2019-2021”. Un documento che da una parte confermava il precedente stanziamento, inserendo intanto l’intervento albese tra quelli di “priorità massima”. “Verosimilmente l’ultimo atto utile per dar il via all’emissione del bando per l’affidamento dei lavori”, rimarca ora Prandi, che rileva però anche come dello stesso bando intanto si continui a non vedere traccia. Cosicché i tempi per la completa riapertura della struttura vanno dilatandosi di mese in mese. “Quando il bando arriverà - spiegava ancora nei giorni scorsi Prandi al nostro giornale - dovremo poi aggiungere i relativi tempi di affidamento e lavori che non dureranno meno di un anno. Se anche si partisse domani, insomma, per vedere il Montalto interamente riaperto bisogna attendere almeno sino al 2021”. Da qui l’iniziativa di un nuovo sollecito al ministro, nella speranza che per compiere l’ultimo miglio verso la riapertura integrale del “Montalto” non si debba attendere un altro lustro. Gorgona (Li): protesta del Sappe per i bagni a mare dei detenuti di Nicola Vanni livornotoday.it, 17 luglio 2019 Mazzerbo: “I problemi dell’isola sono altri”. Il Sindacato di Polizia penitenziaria contro la disposizione del direttore Mazzerbo: “Non c’è una tabella di consegna che indichi i compiti dei poliziotti”. La replica: “Per gli agenti non cambia niente, piuttosto pensiamo a rilanciare l’isola” Funzionava così 30 anni fa, quando tutte le domeniche i detenuti del carcere di Gorgona venivano portati a fare il bagno in una caletta impervia dell’isola. Poi, dal 2010, anche quel tipo di attività ricreativa, così come altre, fu sospesa. Adesso, da sabato 13 luglio, su disposizione del direttore del penitenziario, Carlo Mazzerbo, la popolazione carceraria potrà tornare a tuffarsi nelle acque di Cala Martina, per un’ora e mezzo al giorno, dalle 9.30 alle 11. Una disposizione che, “senza entrare nel merito delle scelte operate dalla direzione per quanto attiene alle attività trattamentali in favore dei detenuti”, viene contestata dal Sappe (sindacato autonomo di polizia penitenziaria) con tanto di lettera protocollata e firmata dal segretario, Donato Capece, nella quale si chiede al ministero della giustizia, Alfonso Bonafede, l’immediata sospensione del provvedimento. Secondo il Sappe, a mancare è la regolamentazione di un “posto di servizio” che, come da normativa del corpo di polizia penitenziaria, imporrebbe una “tabella di consegna” con indicati i compiti e le mansioni degli agenti in servizio. Una mancanza che, per Capece, impone una serie di interrogativi: “In quali condizioni il poliziotto dovrà svolgere tale servizio - argomenta il sindacato - dovrà sostare in piedi per un’ora e trenta esposto alle intemperie? Quali indumenti dovrà indossare? Anche il poliziotto potrà indossare pinne, boccaio ed occhiali?”. “E ancora, dovrà intervenire in caso un bagnante-detenuto sia colto da malanno o peggio ancora tenti una seppure improbabile fuga? Sarà impiegato solo eventuale personale in possesso della qualifica di assistente bagnante? Sarà sollevato da ogni responsabilità sia penale che disciplinare in caso di qualsivoglia evento critico?”. “Il tutto - conclude il Sappe - senza tenere di conto che, a causa del ridimensionamento del servizio navale del corpo, la costa di Cala Martina non è più presidiata dalle motovedette della polizia penitenziaria e che, negli specchi d’acqua antistanti l’isola, vige tutt’ora il divieto di balneazione”. Polemiche che il direttore della casa circondariale di Livorno, Carlo Mazzerbo, ritiene fini a se stesse. “Non capisco queste polemiche, mi sembrano pretestuose - spiega Mazzerbo. È un servizio che sull’isola esiste da 30 anni, tra l’altro prima questa specifica attività trattamentale veniva svolta in una zona ancora più impervia. Adesso la strada di accesso è stata liberata e ripulita, non esistono problemi per gli agenti che devono svolgere un servizio di controllo e vigilanza così come ce ne sono altri”. E allora il perché di tutte queste polemiche? “Ho letto di agenti che dovranno fare i bagnini - continua il direttore - ma non è assolutamente così. E per i detenuti non può essere altro che un’attività ricreativa che, soprattutto per coloro che non hanno un lavoro, può servire almeno in parte ad alleviare il disagio della detenzione”. “Piuttosto - chiude Mazzerbo - i problemi dell’isola e degli agenti penitenziari sono ben altri e decisamente più seri: dalle indennità corrisposte alle case per i poliziotti, fino a un pacchetto completo che rilanci definitivamente la Gorgona”. Come qualche anno fa, quando l’isola era considerato un modello sperimentale dal punto di vista giuridico, etico, ambientale, sanitario e zoo-antropologico. Varese: “Cucinare al fresco”, dai Miogni le ricette dei detenuti varesenews.it, 17 luglio 2019 Darwin parlava di evoluzione riferendosi allo spirito di adattamento e l’uomo è diventato quello che è per aver adattato la propria esistenza ai cambiamenti della vita. Così accade che per chi sta in carcere, chiuso dietro alle sbarre, il tempo possa diventare un supplizio. E per questo c’è chi studia, lavora e sogna una nuova vita: chissà che fra i detenuti dei Miogni non si nasconda un cuoco chef capace di stupire una volta saldato il conto con la giustizia. Ecco che dopo il “Mandato di cottura” di Como, e il “Diario dei sapori” di Bollate, a Varese giunge “Assapori(amo) la libertà”, il terzo dei laboratori di cucina del progetto “Cucinare al fresco”, ovvero una raccolta di ricette realizzate rigorosamente dietro alle sbarre. Autori dell’iniziativa non grandi chef e nemmeno scrittori di professione, ma tre gruppi di detenuti che si sono messi in gioco per realizzare una pubblicazione dedicata al food. Una sperimentazione avviata lo scorso anno all’interno dell’Istituto del Bassone di Como, grazie all’allora direttore (oggi a Varese) Carla Santandrea, entrato poi nel carcere di Bollate e ora anche in quello di Varese, in attesa di replicarsi anche in altre strutture lombarde. L’iniziativa è coordinata da Arianna Augustoni e, a Varese, vanta il supporto di Virginio Ambrosini, storico volontario dell’Istituto e anima di moltissimi laboratori di cucina. Proprio per condividere con l’esterno i sapori e i profumi della cucina, facendolo in modo serrato, oltre ai libri di ricette, il Gruppo di collaboratori ha deciso di lanciare una nuova iniziativa: un magazine che porta lo stesso titolo dell’iniziativa con proposte stagionali. Questa parte del progetto è stata supportata dai Lions Club di Cernobbio e da Alberto Galimberti che, da sempre, è vicino ai ragazzi. Parliamo di 24 pagine di sfiziosità estive che potranno essere facilmente preparate anche da chi ha qualche problema a “vivere” la cucina. L’iniziativa è nata per caso, da una fortuita chiacchierata coi detenuti, una conversazione che in poco tempo ha reso partecipi tutti i presenti e tutti quanti hanno deciso di impegnarsi per “fare qualcosa di buono”, sia in cucina che nella vita. Parole, sapori, profumi, ingredienti sono il “sale della vita”, fattori in grado di unire e di sviluppare nuove sensazioni e nuovi bisogni come quello di raccontarsi. Si tratta di una sorta di esperienza di conoscenza e di esternazione dei sentimenti in chiave enogastronomica. Oltre a raccontare la preparazione di ogni piatto, viene spiegato come ci si deve arrabattare per costruire e mettere in pratica una ricetta, con quali strumenti e con dei tempi molto dilazionati, nell’arco della giornata. Dagli ingredienti del carrello, a quelli della spesa, passando da quanto entra dall’esterno, il ricettario e il magazine sono un percorso di vita e di speranza. La cucina, la preparazione di un piatto è un linguaggio che ha accomunato i detenuti del carcere. L’intero ricavato dalla vendita dei magazine e dei libri viene reinvestito per stampare nuove edizioni ricche di sapore. Napoli: a Doppio Sogno c’è “Il Clan dei Ricciai”, documentario sugli ex detenuti di Emanuela Sorrentino Il Mattino, 17 luglio 2019 Nell’ambito di Doppio Sogno, rassegna cinematografica d’autore organizzata da Galleria Toledo e ospitata a Villa Pignatelli, c’è “Il Clan dei Ricciai”, ultimo lavoro del regista Pietro Mereu che sarà proiettato in anteprima a Napoli venerdì 19 luglio 2019, alle ore 20.30. In concorso al premio David di Donatello nel 2018, il documentario narra la storia di Gesuino, Massimo, Simone, Bruno, Andrea e Joe, ex detenuti che scontata la propria pena, trovano nell’attività della pesca dei ricci una possibilità di reinserimento sociale. Sullo sfondo di una Sardegna a tinte forti, lontana dai circuiti turistici, in cui si rivelano scorci di degradazione suburbana dove la violenza è ovunque e la sopraffazione l’unica possibilità per sopravvivere, si snodano le vite di questi uomini sempre al limite fra lecito e illecito, fra la legge precostituita dal “continente” e la giustizia personale. Con il capo del clan, Gesuino, che parla solo lo slang della mala cagliaritana e grazie alla sua capacità organizzativa ha messo su un piccolo impero di ricciai e buttafuori, con suo fratello Massimo, dal passato ingombrante popolato di auto rubate e una figlia di cui non vuole parlare, con Andrea, iper-tatuato e autolesionista, e con Simone che sogna una barca tutta sua, Pietro Mereu mette insieme e dirige un coro di voci, a volte armoniche e a volte discordanti, riuscendo a sfuggire alla retorica e al facile pietismo, restituendo il suono duro e poetico del popolo sardo. “Quando ho conosciuto i ricciai avevo in mente una storia sulla malavita, una malavita che scompare, poi cominciando a girare e trovandomi a montare, ho scoperto che avevo davanti una storia di riscatto - racconta il regista. Persone che non sono perfette o senza sbavature, ma che ogni giorno cercano di togliersi la galera di dosso. I ricci, l’oggetto del loro lavoro, li rappresentano perfettamente: spinosi fuori ma dolci dentro. Per arrivare al cuore dolce bisogna attraversare le spine”. L’artista cagliaritano Joe Perrino, autore della colonna sonora del film, trasforma in musica le suggestioni di queste vite al limite, divenendo il legittimo cantastorie di un Clan sui generis, tenuto insieme non da intenti illeciti ma dalla più autentica e disperata voglia di rivalsa. La proiezione sarà anticipata da un aperitivo offerto da Consorzio di Tutela del Vermentino di Gallura. Sarà presente il regista. A presentare il documentario sarà Aniello Arena, ex detenuto divenuto attore (fra cui Reality e Dogman di Garrone. Con Reality ha vinto anche il Nastro d’Argento). Larino (Cb): detenuti-attori in “Pinocchio Scugnizzo”, tre serate aperte al pubblico primonumero.it, 17 luglio 2019 Detenuti attori per una notte, anzi, per tre notti. Torna infatti il Teatro nella casa circondariale di Larino con tre serate aperte al pubblico (previa prenotazione). Gli appuntamenti saranno mercoledì 17, giovedì 18 e sabato 20 luglio alle ore 20.30 quando andranno in scena i detenuti di Alta Sicurezza che hanno preso parte al laboratorio teatrale diretto da Giandomenico Sale e Gisela Fantacuzzi. Dopo l’esperienza dello scorso anno, i detenuti del Carcere larinese si cimentano in una nuova pièce teatrale, Pinocchio Scugnizzo, una rivisitazione del famoso romanzo di Collodi in chiave ironica ma sempre ricca di significato. “Nel corso del tempo si è sviluppata nei partecipanti una forte motivazione e la volontà di proseguire nel progetto, ampliando le proprie conoscenze e capacità - spiega la direttrice Rosa La Ginestra -. Come prossimo traguardo ci sarà la costituzione di una compagnia stabile all’interno dell’istituto, da affiancare al corso base rivolto a quanti vogliono intraprendere questo percorso per la prima volta”. E sulla scelta dell’opera di Collodi, la direttrice dell’Istituto afferma che “le avventure del piccolo burattinaio che vuole diventare bambino ed incontra sulla sua strada cattive compagnie, personaggi equivoci, ma anche buoni consigli su come raggiungere i suoi obiettivi, ben si presta a parafrasare la vita di tanti di quei detenuti che calcheranno le scene. Ed ognuno di loro ha lasciato nel personaggio che recita una parte delle sue esperienze”. Il laboratorio teatrale promosso dalla Casa Circondariale di Larino in collaborazione con Frentania Teatri e l’Ipseoa “Federico di Svevia” nasce con l’intento di dare consapevolezza del proprio io, di creare socializzazione tra i detenuti e iniziare un percorso di inclusione sociale avvicinando il pubblico esterno alla realtà carceraria. “Una possibilità di crescita e di formazione anche per quanti vorranno assistere allo spettacolo sconfiggendo i pregiudizi nei confronti dei detenuti e andando oltre le apparenze e i luoghi comuni”. Dopo lo spettacolo ci sarà un buffet con gli “attori”. Per info e prenotazioni è possibile contattare il numero 347.0603551. Il declino di autorevolezza che colpisce la politica di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 17 luglio 2019 Le ultime elezioni europee ma anche quelle amministrative, soprattutto nella fase del ballottaggio, sono state caratterizzate da un forte astensionismo e da una marcata volatilità.Non si tratta di problematiche recenti né tantomeno esclusive dell’Italia essendo comuni a molti dei Paesi maggiormente sviluppati, non soltanto europei. Solo per citare quelli più rappresentativi, si consideri quanto è accaduto in Germania, dove a dispetto della proverbiale stabilità, le elezioni federali e locali hanno prodotto una frantumazione politica senza precedenti. Oppure in Francia, le cui elezioni presidenziali del 2017 sono state contraddistinte dalla evaporazione dei partiti tradizionali, già nel primo turno. Tuttavia, in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei dove vi è stata una maggiore affluenza di votanti, in Italia il fenomeno è in evidente progressivo aumento. Infatti l’astensionismo, inteso nella accezione più ampia comprensiva oltre che dei non partecipanti al voto, anche di coloro che inseriscono nell’urna schede nulle oppure bianche, è stato del 43,7%, addirittura in aumento rispetto al massimo storico delle elezioni omologhe del 2014, nelle quali la percentuale è stata del 41,3%. Al netto della asetticità dei riferimenti percentuali, stiamo parlando di 21,5 milioni circa di persone che non hanno votato. Un dato straordinario se si considera che complessivamente gli elettori italiani sono poco più di 51 milioni. Anche la volatilità, vale a dire il cambiamento delle preferenze tra una elezione e l’altra, ha raggiunto nell’ultima tornata elettorale i più alti livelli nella storia repubblicana, con la sola eccezione delle votazioni del 1994 nelle quali vi è stato l’azzeramento dei partiti tradizionali. Escludere che vi sia una correlazione tra queste circostanze e la complessa situazione economica e di decadimento sociale che affliggono il Paese, sarebbe un grave errore di sottovalutazione. La politica potrà superare il diffuso giudizio di incapacità ad arginare il disfacimento della propria funzione di raccordo tra il cittadino e le istituzioni, soltanto contrastando la radicata convinzione di marginalità della partecipazione al voto. L’astensionismo, in modo particolare, ma anche la volatilità delle preferenze politiche, sono i segnali più evidenti del profondo ed irreversibile mutamento culturale in atto. Una lunga traversata del deserto che nei migliori auspici dovrebbe condurci da una prolungata fase storica di autoritarismo, a quella più moderna di autorevolezza. Facciamo riferimento ad un fenomeno di formazione intellettuale in evoluzione, nel quale troviamo le risposte alla crisi dei corpi intermedi, ma anche a quella dell’istruzione e alla ormai evidente emergenza educativa, che quotidianamente riscontriamo nel logorato rapporto tra insegnanti e studenti. Questioni con una radice comune: il rifiuto dell’impianto strutturale gerarchico fondato sulla ragione della forza. Un modello culturale superato, ma che continuerà a produrre gravi disfunzioni fin quanto non verrà definitivamente sostituito da un altro costruito sull’autorevolezza; vale a dire sulla forza della ragione. Il riconoscimento di autorevolezza, d’altra parte, è lo snodo decisivo per qualsiasi funzione di responsabilità e comando. Si consideri, prima di altri, il fondamentale ruolo educativo degli insegnanti, dai quali legittimamente si pretende equilibrio e serietà nello svolgimento del loro compito formativo ma, al contempo, non ci si preoccupa di promuovere iniziative, a qualsiasi latitudine, volte alla protezione della dignità del loro lavoro. Pur tuttavia, la posizione di maggiore rilievo è quella del leader politico. Esserlo, significa, innanzitutto esprimere valori condivisi preoccupandosi di fare piuttosto che apparire, perseguendo il consenso e non la semplice fiducia, sul presupposto che le iniziative di governo sono normalmente impopolari in quanto difficilmente proiettate a produrre vantaggi nel breve e talvolta nel medio termine. Diversamente anche i più importanti trionfi elettorali, avranno carattere temporaneo. Quando le promesse non si realizzeranno, i sostenitori saranno pronti a cambiare opinione e partito, semmai rapiti dal fascino e dalla capacità comunicativa di un nuovo aspirante leader, pronto a colmare le delusioni del precedente. Tutto ciò in barba alla stabilità che i mercati, i partner europei e gli investitori stranieri ci chiedono, senza nascondere che la sfiducia verso il nostro Paese è soprattutto causata dalla incontenibile volatilità. “Censire i rom in 2 settimane”. Piano sgomberi, Salvini accelera di Erica Dellapasqua Corriere della Sera, 17 luglio 2019 Circolare ai prefetti: operazione nel rispetto dei diritti. Il ruolo dei sindaci. Il Matteo Salvini accelera sul censimento dei nomadi chiedendo una “ricognizione urgente” di tutti i campi, abusivi e autorizzati, in tempi strettissimi: “due settimane”. La circolare, recapitata ieri a tutte le prefetture, punta esplicitamente alla “predisposizione di un piano sgomberi” che - certamente - farà discutere. Soprattutto nelle città, come Roma, in cui la presenza dei rom è numericamente importante. Salvini aveva annunciato un’iniziativa imminente, promesso una razionalizzazione e una chiusura dei campi nomadi esistenti. Cosa che il ministro dell’Interno ha sempre considerato una necessità. Ora vuole chiarire, nella circolare, che le operazioni avverranno “nel rispetto dei diritti della persona” e “delle normative nazionali e internazionali”. E che superata questa fase del censimento si avvierà “una piattaforma di discussione in ambito locale per l’approfondimento delle singole situazioni e la massima sensibilizzazione dei sindaci”, in modo da arrivare “al progressivo sgombero delle aree abusivamente occupate”. L’obiettivo è chiarissimo. Così come le posizioni di chi, ieri mattina, appresa la notizia di questa ricognizione, l’ha duramente contestata. Come l’Associazione 21 luglio, tra le più attive anche nella Capitale nella difesa dei diritti delle popolazioni rom, che ha diffuso dati per comprendere la portata dell’operazione richiesta da Salvini. Stando all’ultimo report dell’associazione sarebbero circa 25 mila i rom e sinti che vivono “in condizione di segregazione abitativa” (lo 0,04 per cento della popolazione italiana). Il sessanta per cento dei nomadi censiti - pari appunto a circa 25 mila persone - vivrebbe in 127 “insediamenti formali”, cioè nelle baraccopoli cosiddette istituzionali presenti in settantaquattro Comuni italiani, distribuite su tutto il territorio, ma comunque concentrate nelle grandi città. E almeno il quarantaquattro per cento dei rom e i sinti presenti in queste baraccopoli istituzionali avrebbe la cittadinanza italiana. Tutti gli altri (una forbice compresa tra le 8.600 e le 10.600 unità) vivrebbero in “insediamenti informali”, improvvisati, di fortuna, in molti casi già oggetto di sgomberi. Il rischio, per l’Associazione, è che si sposti solamente il problema e che si ricreino le condizioni per un’emergenza “che già nel 2011 venne dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato”. Anche perché nel 2018, così come l’anno precedente, è stato notato un sensibile aumento delle baraccopoli informali - presenti in diciassette regioni - dovuto principalmente al “declassamento” di insediamenti in passato riconosciuti come istituzionali: è il caso Scampia e Giugliano, nel Napoletano. Per l’Associazione 21 Luglio si tratta di una politica discriminatoria, “visto che non interessa, ad esempio, insediamenti abitati da persone non riconducibili ad altre etnie”. Contro il provvedimento interviene anche il deputato radicale Riccardo Magi, di +Europa, che ribadisce “il carattere discriminatorio di una circolare che rappresenta la riproposizione di soluzioni che produrranno sperpero di soldi”. Mentre dal territorio arriva l’approvazione di Alessandro Morelli, capogruppo della Lega a Palazzo Marino: “Censimento necessario a Milano: chiederemo di partire da via Martirano, dove siamo stati aggrediti, perché abbiamo documentato che il villaggio “migliore d’Europa” è in realtà una latrina”. Migranti. Sit-in dei braccianti nella basilica di Bari: “Ci trattano come schiavi” di Giuliano Foschini La Repubblica, 17 luglio 2019 “Non vogliamo carità o accoglienza. Siamo braccianti, siamo lavoratori. Noi pretendiamo soltanto i nostri diritti”. Davanti al santo nero, al santo dell’accoglienza, quello arrivato dal mare e che unisce cristiani e ortodossi, grandi e bambini, visto che l’altro nome di San Nicola è Santa Klaus, i nuovi schiavi d’Italia hanno chiesto ieri mattina di essere chiamati e protetti per quello che sono: braccianti. Lo hanno fatto occupando in maniera simbolica la basilica di San Nicola di Bari, chiedendo al Vescovo, monsignor Francesco Cacucci, di farsi mediatore con il presidente della Regione, Michele Emiliano. In Puglia, e in particolare nel foggiano, sta accadendo qualcosa di molto particolare. Da qualche settimana - su mandato esplicito del ministro dell’Interno, Matteo Salvini - è in corso, infatti, lo sgombero di Borgo Mezzanone, uno dei più grandi ghetti d’Italia abitato, come in questo periodo, da quasi quattromila persone. Le ruspe stanno abbattendo le baracche e i braccianti vengono trasportati in centri di accoglienza. La maggior parte di loro si sta però spostando altrove, creando così altri micro ghetti. “Ancora più male delle ruspe”, ha spiegato ieri però Aboubakar Soumahoro, il segretario dell’Usb che ha guidato la protesta di San Nicola, “fa l’indifferenza: quella della Regione Puglia che non rispetta gli accordi presi. Quella del governo gialloverde che cerca di trasformare una questione sociale in una di pubblica sicurezza”. I lavoratori chiedono infatti risposte sull’emergenza abitativa. “E non centri di accoglienza che servono soltanto a ingrossare il business di qualcuno. Il made in Italy - continua Soumahoro - ha il nostro sudore e spesso il nostro sangue. Siamo noi a raccogliere i prodotti di questa terra, non chiediamo carità ma diritti per tutti e tutte a prescindere dalla nazionalità e dal colore della pelle”. Il vescovo, monsignor Francesco Cacucci, si è impegnato a portare avanti una mediazione con il governatore Michele Emiliano. Ma intanto i segnali attorno non sono buoni. Ieri nel foggiano due ragazzi di 33 e 25 anni, uno originario del Senegal l’altro della Guinea Bissau, sono stati colpiti da un’automobile in corsa con dei sassi. Hanno ferite guaribili in 5 e in sette giorni. Erano in bici. E stavano andando al lavoro. La Commissione diritti umani del Senato approva risoluzione su italiani detenuti all’estero askanews.it, 17 luglio 2019 Governo impegnato a trasferire da Paesi con pena morte e a informare famiglie. “Garantire i diritti umani fondamentali alle cittadine e cittadini italiani detenuti all’estero. Con il via libera all’unanimità di una risoluzione in merito, la Commissione diritti umani del Senato ha scritto oggi una pagina importante e positiva”. Lo ha dichiarato la capogruppo Pd in Commissione diritti umani Valeria Fedeli. Il testo impegna il governo ad adoperarsi affinché vengano trasferiti i detenuti dai paesi dove è ancora prevista la pena di morte o non operano le guarentigie della normativa europea e a dare loro massima assistenza soprattutto nei primi momenti successivi all’arresto. Ma anche a facilitare le famiglie nell’ottenere informazioni, evidenziare sui siti delle rappresentanze italiane all’estero i numeri da contattare in caso di bisogno e quelli degli avvocati accreditati. La risoluzione fa anche un esplicito riferimento al caso di Enrico Forti affinché sia esaminata e accolta al più presto possibile la sua richiesta di trasferimento dalla Florida all’Italia. “È fondamentale che - come avvenuto in Commissione - le forze politiche, attraverso le nostre istituzioni democratiche, agiscano in modo trasversale, senza differenze di parte - ha aggiunto Fedeli- nella tutela di tutte le cittadine e cittadini a maggior ragione quando, in condizione di detenzione, sono costretti all’estero”, conclude Fedeli. “Alla presenza del Sottosegretario agli affari esteri Guglielmo Picchi - ha dichiarato la senatrice della Lega Stefania Pucciarelli, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani - abbiamo approvato con voto unanime una risoluzione nella quale si chiede al Governo di adoperarsi fattivamente per migliorare l’azione di supporto ai cittadini italiani detenuti all’estero”. La risoluzione, illustrata dalla senatrice Craxi, contiene un dettagliato resoconto numerico su quanti concittadini sono detenuti tra Europa e rimanenti continenti: 2.113 gli italiani presenti nelle carceri poste fuori dai confini nazionali, di cui l’82% in Europa, il 12% nel continente americano. “Inoltre - afferma Pucciarelli - sottolinea la necessità che il Ministero degli Esteri si impegni a garantire una dettagliata assistenza ai detenuti italiani fuori dai confini nazionali e ai loro familiari dotandosi eventualmente di maggiori risorse, realizzi, tra l’altro, una guida di orientamento scaricabile dal sito del Ministero, aggiorni periodicamente la lista degli avvocati accreditati presso le Rappresentanze italiane all’estero, fornisca assistenza agli italiani tratti in arresto specie nei primi momenti della detenzione”. Infine, “i lavori si sono poi conclusi con la richiesta al Governo di dedicarsi maggiormente alle sorti di Enrico Forti, ex campione italiano di windsurf, condannato per omicidio negli Usa - nonostante si sia sempre proclamato innocente - e detenuto dal 2000 a Miami, perché possa scontare la pena residua in Italia”. Germania. In galera anche i dodicenni? di Roberto Giardina Italia Oggi, 17 luglio 2019 A dodici anni si è già responsabili? Lo chiede il sindacato di polizia in Nord Renania Westfalia. “Quando i ragazzini compiono un reato, anche grave, non ci resta che riconsegnarli alle famiglie”, protestano gli agenti, “i genitori continuano a non preoccuparsi. I figli tornano in strada, a rubare, picchiare, sicuri di essere al di sopra delle leggi. Che dobbiamo fare?”. Abbassare l’età punibile, si chiede da più parti. Venerdì 5 luglio, alle 22, a Mülheim an der Ruhr, 171 mila abitanti, tra Essen e Duisburg, un gruppo di ragazzi, due di dodici anni, tre quattordicenni, hanno aggredito, derubato e violentato una diciottenne. La vittima è finita in ospedale, solo il leader della banda è in cella: Georgi S. già l’anno scorso abusò di una quattordicenne, all’epoca aveva 13 anni e venne subito rilasciato. Pochi giorni dopo tornò a molestare la ragazza, e fu obbligato a seguire una terapia. Agli altri, tutti vicini di casa, è stato solo vietato di tornare a scuola, dove già andavano di rado. E lunedì sono cominciare le vacanze. Torneranno in classe il primo settembre? I quattordicenni potrebbero essere condannati per le violenze, rischiano una pena molto ridotta, i dodicenni sono ancora bambini, non sono ritenuti responsabili. Potrebbero essere espulsi con le famiglie, tutte provenienti dalla Bulgaria, giunte nella Ruhr nel 2013, ma la procedura tra appelli e ricorsi potrebbe durare anni. E l’espulsione non è sicura: uno dei padri si è procurato subito un contratto di lavoro, uno dei quattordicenni risulta affidato a parenti che vivono in un’altra città della Ruhr, le famiglie degli altri tre stanno raccogliendo prove per dimostrare di potersi mantenere senza aiuti sociali. “La legge consente l’espulsione”, dichiara l’ex deputato europeo Elmar Brok, 49 anni, cristianodemocratico, “i cittadini provenienti da paesi della Comunità europea hanno libera circolazione, ma possono risiedere in un altro paese fi no a tre mesi, se non lavorano e non hanno un reddito. Non possiamo farci carico di famiglie numerose che emigrano da noi, non si curano dei fi gli, e non cercano un’occupazione, vivendo con i sussidi. E a comportarsi così non sono solo i Sinti o i Rom. Anche i cittadini comuni devono rispettare la legge”. Probabilmente sono Sinti o Rom, ma le autorità non rivelano l’etnia dei responsabili di reati, e anche in questo caso all’inizio si era creduto che i ragazzi fossero tedeschi. I genitori non sono penalmente responsabili per i reati dei fi gli minorenni. Potrebbero essere tenuti a risarcire i danni alla vittima, ma in questo caso non hanno alcun reddito, sono mantenuti dall’assistenza sociale. Ma a Mühleim hanno anche rifiutato l’assistenza psicologica offerta ai fi gli: “Sono bambini, ci pensiamo noi. Sono tutti bravi ragazzi”. La ministra federale della Giustizia, Christine Lambrecht, socialdemocratica, ha dichiarato di non essere favorevole a modifi care la legge sulla responsabilità dei minorenni. In Olanda, dove era stata abbassata l’età a 12 anni, si vuole tornare al limite di 14: i ragazzi, sostengono i sociologi, sotto quell’età non si rendono realmente conto della gravità dei loro atti. Solo in Renania Westfalia nei primi nove mesi del 2018 sono finiti in cella undici ragazzi tra i 14 e i 18 anni (di cui solo nove ragazze). Una cinquantina hanno compiuto violenze sessuali. Fino ai 25 anni il codice prevede pene più lievi per i colpevoli. Una ventina d’anni fa la Germania si divise sul “caso Mehmet”, che in realtà si chiamava Muhlis Ari. A Monaco, prima dei quattordici anni, il ragazzo turco, alto oltre un metro e 80, aveva compiuto una sessantina di aggressioni, sfigurando tra l’altro un passante per derubarlo. Il giorno del suo compleanno, poliziotti in borghese lo seguirono per ore, e all’ennesima violenza lo arrestarono. Fu decisa l’espulsione anche dei genitori che non lo avevano controllato, ma alla fi ne in Turchia tornò il solo Mehmet, che parlava male turco, e che fu rifiutato dai parenti ad Ankara. Il ragazzo implorò le autorità tedesche di farlo tornare, il permesso gli fu accordato, ma a Monaco aggredì e picchiò i genitori. Ancora condannato, riuscì a fuggire in Turchia. Nel 2013 scrisse la sua biografi a Mi chiamavano Mehmet, sperando sempre nel perdono, infine è stato condannato ad Ankara per rapina a undici anni. Una storia triste, ma si tentò di tutto per recuperare Muhlis, sempre straniero in Turchia o in Germania. Israele. In isolamento da 15 giorni, muore detenuto palestinese di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 luglio 2019 Nassar Taqatqa, 31 anni, trovato senza vita nel carcere israeliano di Nitzan a un mese dall’arresto. L’Anp: “Ora inchiesta internazionale”. Le associazioni dei detenuti denunciano le pessime condizioni nelle prigioni e le torture sistematiche. Il villaggio di Beit Fajjar, poco a sud di Betlemme, è senza parole. La famiglia di Nassar Majed Taqatqa non si dà pace: a meno di un mese dall’arresto il giovane palestinese, 31 anni, tornerà a casa in una bara. È successo ieri, nella prigione israeliana di Nitzan, ad al-Ramleh: Nassar è stato trovato senza vita. Era stato arrestato lo scorso 19 giugno, per la prima volta nella sua vita, dopo un raid dell’esercito israeliano nella casa di famiglia a Beit Fajjar, case in pietra bianca intervallate dai terrazzamenti agricoli, poco più di 11mila anime. Per lo più operai nelle vicine cave di pietra, come Nassar, in una comunità che una volta viveva di agricoltura ma che ha perso terre a favore delle vicine colonie di Efrat e Kfar Etzion e del muro di separazione. I motivi dell’arresto sono oscuri, nessuna accusa era stata ufficialmente mossa e, secondo quanto ci spiegano dall’associazione per i prigionieri Addameer, era ancora nella “fase interrogatorio”. Nassar era stato portato al centro di detenzione di Jalameh, noto per i lunghi e violenti interrogatori a cui sono sottoposti i prigionieri palestinesi, che una volta liberi hanno spesso denunciato abusi fisici e psicologici. Due settimane dopo, a inizio luglio, era stato trasferito a Nitzan dove, aggiunge il Palestinian Prisoners Center for Studies (Ppcs), è stato messo in isolamento. Proprio oggi era prevista l’udienza in una corte militare (i palestinesi dei Territori sono sottoposti a legge militare e non civile) che avrebbe o meno allungato la detenzione. Fino alla morte, ieri: “Siamo sotto choc - ha raccontato il cugino Mohammed ad al-Jazeera - Non abbiamo ancora ricevuto il corpo per l’autopsia”. Di certo, dice la famiglia, Taqatqa era in buona salute, non soffriva di alcuna malattia. Ne è convinto anche il Comitato per gli affari dei prigionieri (una volta ministero dell’Autorità nazionale palestinese), che accusa Israele del decesso: “Non accettiamo la versione israeliana sulla sua morte - ha detto Qadri Abu Bakr, a capo del Comitato, in riferimento all’ipotesi dell’infarto circolata ieri sui media israeliani - Chiediamo che l’autopsia sia condotta il prima possibile per determinare con esattezza la causa della morte”. Che Abu Bakr imputa a negligenza medica o alle conseguenze di torture. Non sarebbe un caso isolato, dicono le associazioni per i prigionieri: dal 1967, anno d’inizio dell’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, 220 prigionieri palestinesi sono morti in un carcere israeliano per torture, fuoco aperto dalle guardie e, in 60 casi, per assenza o carenza di cure mediche. “La prigione di Nitzan è tra le peggiori in Israele - spiega una ricercatrice del Ppcs, Amina al-Taweel - È famosa per le orribili condizioni di detenzione e la crudeltà delle guardie. Durante la detenzione Taqatqa non era autorizzato a ricevere visite dall’avvocato o dalla famiglia, non comunicava con nessuno”. Secondo i media israeliani, Taqatqa - che viene descritto come “un terrorista di Hamas” che avrebbe condotto o pianificato (non è chiaro) un attacco contro “la sicurezza dello Stato di Israele” - era stato visitato alcuni giorni fa all’ospedale di Afula e al momento del decesso si trovava nella sezione malattie mentali della prigione. Secondo quelli palestinesi, invece, era detenuto in una cella sporca e umida e durante i lunghi interrogatori era legato mani e piedi. E mentre nelle strade di Ramallah e Gaza sono partiti subito presidi di protesta, reagiscono i prigionieri politici palestinesi che, dice il Palestinian Prisoners Society, sono pronti a manifestare nelle loro celle, a partire dalla forma di protesta più pesante, lo sciopero della fame. E reagisce anche l’Anp che, tramite il ministero degli esteri, chiede un’inchiesta internazionale sulla morte di Nassar, definita “un crimine razzista”. A oggi sono 5.250 i prigionieri politici palestinesi nelle carceri di Israele, di cui 205 minorenni, 44 donne, 480 in detenzione amministrativa (senza accuse né processo) e 7 parlamentari del Consiglio legislativo. Nei primi sei mesi dell’anno sono stati arrestati 2,759 palestinesi: tra loro 446 bambini e 76 donne. “Negli ultimi cinque decenni organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno documentato le sistematiche e vaste violazioni israeliane della Quarta convenzione di Ginevra e dei diritti dei prigionieri palestinesi - commenta Hanan Ashrawi, storico membro dell’Olp - compreso l’uso di torture e abusi fisici e psicologici. I prigionieri palestinesi sono vittima di una macchina coloniale e razzista designata a mantenere l’oppressione del popolo palestinese attraverso l’incarcerazione di massa”. Stati Uniti. Cannabis, l’Illinois è l’11° Stato che la legalizza di Bernardo Parrella Il Manifesto, 17 luglio 2019 L’estate americana sta portando buoni frutti per la regolamentazione della cannabis. L’Illinois è diventato l’undicesimo Stato dell’Unione a legalizzare l’uso ricreativo per adulti, e il primo ad avviare un mercato regolato per via legislativa anziché tramite referendum popolare. Importante il sostegno degli esponenti repubblicani, tra cui il deputato David Welter: “Il proibizionismo non funziona, è ora di stabilire un mercato legale e sicuro nel nostro Stato”. Come per analoghe normative locali, è stato legalizzato il possesso per i maggiori di 21 anni fino a un’oncia (28 grammi), mentre chi ha precedenti condanne detentive solo per cannabis potrà ottenerne la cancellazione. In attesa dei dettagli operativi, una volta a regime le entrate fiscali potrebbero raggiungere i 500 milioni di dollari annui. Il Parlamento dello Stato di New York ha invece approvato l’ulteriore ampliamento dei termini della depenalizzazione in vigore da anni: semplici multe di 50-200 dollari per il possesso fino a due once (quasi 57 grammi) e cancellazione automatica di passate condanne dovute soltanto alla marijuana. Sfumata all’ultimo momento l’attesa legalizzazione, come è avvenuto nello scorso marzo in New Mexico: decisione che in entrambi i casi sembra soltanto rimandata alla prossima sessione legislativa. Questi progressi statali trovano immediato corrispettivo a livello federale. Due gli emendamenti in calce al bilancio 2020 approvati alla Camera, ora in discussione al Senato: il Ministero della Giustizia non potrà interferire sulle normative relative alla cannabis già approvate a livello statale e territoriale, compresa quindi la legalizzazione ricreativa per i maggiorenni; e lo storno di 5 milioni di dollari dal bilancio annuale della Drug Enforcement Administration, da utilizzare in programmi di assistenza per chi è dipendente dagli oppiacei senza prevederne l’arresto o il carcere. Sempre alla Camera, nei giorni scorsi la sottocommissione su crimine, terrorismo e sicurezza nazionale ha svolto un’audizione per analizzare l’impatto delle attuali norme nazionali comunque repressive nei confronti di chi fa uso di marijuana. È la prima volta che l’assise di Washington prende di petto la questione, confermando l’urgenza di avviare il percorso legislativo per una riforma complessiva capace di integrare al meglio le indicazioni dei legislatori locali e la volontà dei cittadini, oltre a offrire garanzie per una giustizia sociale riparatrice. Non a caso la relatrice democratica Karen Bass ha subito sottolineato come lo scorso anno, su un totale di 660.000 arresti per marijuana, circa 600.000 siano stati motivati dal semplice possesso per uso personale. E dal 1971, quando Nixon lanciò la cosiddetta “war on drugs”, a parità di reati gli arresti per droga di afro-americani hanno superato di 3,73 volte quelli dei bianchi. Un divario in netta diminuzione (il doppio) in Colorado, primo Stato Usa a regolamentare la cannabis ricreativa fin dal capodanno 2014. Da quella scelta deriva che le entrate per la relativa tassazione oggi coprono circa il 3% del budget statale annuale di 30 miliardi di dollari, mentre non aumenta il numero di giovani che fanno uso di cannabis e diminuiscono del 20% le infrazioni alla legge da parte di adolescenti. Tendenza quest’ultima confermata da un recente studio coordinato dai ricercatori di quattro università statunitensi: nei dispensari autorizzati si richiede la prova dell’età e decade quel “fascino del proibito” ancora diffuso tra i più giovani, determinando una diminuzione di circa il 10% del consumo degli adolescenti. Pur con gli aggiustamenti del caso, l’esperimento del Colorado e le iniziative politico-legislative in corso offrono mille buone ragioni per insistere sulla strada della regolamentazione.