Ergastolo ostativo. Il carcere fino alla morte contrario ai diritti dell’uomo di Giorgio Frasca Polara ytali.com, 16 luglio 2019 Un caso portato all’attenzione della Corte europea di Strasburgo propone in primo piano la vergogna tutta italiana della detenzione a vita. “La dignità umana viene prima, sempre”, affermano i giudici internazionali. “Fine pena mai”, oppure “Fine pena 99.99.9999”. Sui registri dei penitenziari puoi trovare l’una o l’altra scritta in calce al registro dei condannati all’ergastolo. Ma in Italia esistono due tipi di ergastolo. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato buona condotta, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Poi ci sono i detenuti - oggi sono circa 1.400 - che hanno invece l’ergastolo “ostativo”: il più duro, quello che non prevede sconti, permessi, semilibertà. Sino alla morte, come è accaduto di recente al capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Questo secondo caso si applica ai condannati per reati particolarmente gravi (omicidi per terrorismo, per associazione mafiosa, maxi traffico di droga, ecc.) nel caso in cui essi rifiutino di collaborare con la giustizia o qualora la loro collaborazione sia giudicata irrilevante. Ci si chiede sempre più spesso: è lecito - sul piano umano, sul piano giuridico, sul piano costituzionale - questo “divieto di concessione dei benefici” introdotto nel 1992 dall’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario? No, ha appena detto la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo: l’ergastolo ostativo è contrario all’articolo 3 della Convenzione per i diritti umani che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. La sentenza della Cedu (pubblicata a metà del giugno scorso) è relativa al caso di un detenuto condannato all’ergastolo ostativo per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti. La sentenza non comporta un mutamento delle condizioni del detenuto né un’attenuazione della pena, ma l’Italia è condannata a pagare al detenuto una somma per le spese legali del procedimento. Comunque la sentenza afferma un principio, e a questo elemento-chiave ha fatto riferimento Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: Sull’ergastolo ostativo la Corte europea ha preso una decisione di grande rilievo stabilendo che la dignità umana viene prima, sempre. La Cedu ribadisce un principio che i più grandi giuristi italiani avevano già espresso, ossia che sono inaccettabili gli automatismi (assenza di collaborazione) che precludono l’accesso ai benefici. Una persona che dia prova di partecipazione all’opera di risocializzazione deve avere sempre una prospettiva possibile di libertà. Ci auguriamo che il legislatore tenga conto di questa sentenza modificando le norme penitenziarie e i suoi inaccettabili automatismi. In realtà già una volta la Corte costituzionale (che tornerà il prossimo 22 ottobre a discutere della legittimità dell’ergastolo ostativo) aveva affermato che i benefici non potevano essere negati qualora venga stabilito che la limitata partecipazione all’attività criminosa renda impossibile una ulteriore collaborazione con la giustizia, o nel caso in cui i condannati abbiano raggiunto un grado di rieducazione sufficiente prima dell’entrata in vigore della legge 356/92 (quella norma di tipo eccezionale che ha istituito appunto l’ergastolo ostativo), a meno che non siano accertati collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Sulla sentenza della Corte di Strasburgo interviene anche l’associazione Nessuno tocchi Caino che parla di “pronunciamento storico”: “La Cedu svuota l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario sullo sbarramento automatico ai benefici penitenziari; e fa cedere la collaborazione con la giustizia ex articolo 58 ter dello stesso ordinamento come unico criterio di valutazione del ravvedimento del detenuto. La Corte considera inoltre questo dell’ergastolo ostativo un problema strutturale dell’ordinamento italiano e chiede che si metta mano alla legislazione in materia”. Può essere questo giudizio un’avvisaglia per la causa-chiave che verrà discussa ad ottobre davanti alla Corte costituzionale? Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, se ne dice certo: “il preludio di quel che deve succedere alla Corte costituzionale”. “Dopo la chiusura degli Opg troppi falsi pazienti psichiatrici spediti nelle Rems” di Chiara Daina Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2019 “Hanno un disturbo antisociale di personalità che però non va confuso con una malattia e non va curato con i farmaci”, spiega Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3 e presidente della Società italiana di psichiatria (Sip). “Di solito hanno un uso problematico di sostanze e per procurarsi droga o alcol appena possono scappano dalla comunità”. Chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg), è scoppiato un mezzo pasticcio. I casi che prima finivano in un unico contenitore indifferenziato, oggi vengono a galla in tutta la loro complessità creando talvolta dei cortocircuiti. Come quello dei malati mentali autori di reato parcheggiati in carcere in attesa di un posto libero nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (le Rems, strutture di carattere sanitario che hanno sostituito l’Opg, struttura di tipo detentivo). Oppure di quelli che anziché essere presi in carico dai servizi sul territorio vengono impropriamente spediti nelle rems, che così si ingolfano, da magistrati che con un po’ troppa disinvoltura ne riconoscono la “pericolosità sociale”, requisito necessario per entrarci. O, ancora, il caso recentissimo dei detenuti senza vizio di mente, quindi “sani”, che accusano un disadattamento al carcere e vengono indirizzati presso i servizi psichiatrici senza possibilità di trattamento. Una situazione che sta mettendo in seria difficoltà i medici. “Sono falsi pazienti psichiatrici con un disturbo antisociale di personalità che però non va confuso con una malattia e non va curato con i farmaci - spiega Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl Torino 3 e presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), che ha lanciato l’allarme -. Trasgrediscono le regole, non rispettano l’autorità, aggrediscono il personale e sono elemento di disturbo per gli altri pazienti. Di solito hanno un uso problematico di sostanze e per procurarsi droga o alcol appena possono scappano dalla comunità”. Una conseguenza della sentenza n. 99 depositata dalla Corte costituzionale il 19 aprile 2019. In cui i giudici hanno stabilito che se durante la carcerazione si manifesta una malattia psichica, si potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere, applicando la misura alternativa della detenzione domiciliare o in luogo di cura, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. “Questi detenuti dicono di stare male in carcere, teatralizzano i sintomi dell’insofferenza, ma non sono mai stati trattati prima della detenzione in ambito specialistico e non vogliono assolutamente collaborare con i sanitari - continua Zanalda -. Da aprile, in seguito a quella sentenza, nel mio dipartimento sono arrivati già tre casi del genere, due sociopatici e uno con disturbo dell’adattamento”. Secondo la Sip, se permane questo trend (conseguente alla decisione dei giudici costituzionali) ogni anno ci saranno oltre 400 detenuti “mentalmente sanissimi” trasferiti nei dipartimenti di salute mentale senza averne alcuna indicazione clinica. “Un fenomeno che interessa il cinque per cento di tutti gli autori di reato inviati alla psichiatria e che sottrae posti a chi ne ha davvero bisogno”, dice il medico. Giudicando “inaccettabili e insostenibili a livello pratico” queste ordinanze “che delegano alla psichiatria un ruolo cautelativo custodiale perso da tempo. Non siamo agenti penitenziari, il nostro compito - lo ribadisce - è curare, non vigilare e custodire”. La soluzione? Zanalda non ha dubbi: “Per questi soggetti c’è bisogno di un percorso psicoeducativo all’interno del carcere o nelle case di lavoro. Guai a psichiatrizzare i loro comportamenti, sarebbe un alibi per uscire di prigione”. Un nervo scoperto del sistema carcerario è proprio la scarsità di personale sociosanitario. Nell’ultimo rapporto di Antigone, relativo al 2018, si legge che secondo i dati del Dap il rapporto medio tra detenuti ed educatori si attesta a 65,5. Mentre stando all’Osservatorio di Antigone, negli istituti visitati dall’associazione il rapporto sale a 78. Ma ci sono realtà dove le carenze sono peggiori, “ad esempio la Casa Circondariale di Taranto Carmelo Magli ha 1 educatore ogni 205 detenuti, quella di Rieti 1 educatore ogni 182 detenuti e quella di Tolmezzo 1 educatore ogni 179 detenuti”. La funzione rieducativa del carcere insomma è compromessa. Questo è il problema e da qui bisogna partire. Ne è convinto Giuseppe Nese, coordinatore per il superamento degli opg della Regione Campania e membro del tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria: “Dobbiamo chiederci perché il carcere ha peggiorato lo stato mentale di quella persona, se è in grado di rieducare, se ha risorse adeguate. È necessario intervenire sulla fonte del disagio, altrimenti il problema non si risolve, si sposta in altri contenitori e basta. Il sistema carcerario così com’è oggi va rivisto, i suicidi continuano a crescere, va potenziato il numero di educatori e psicologi”. I detenuti “sani” ma psichiatrizzati sono la punta di un iceberg di una stortura più ampia, esplosa all’indomani di una sentenza della Cassazione del 2005, secondo cui alcune forme di disturbo di personalità possono comportare l’infermità di mente. “Succede che viene applicata in maniera estensiva, anche a disturbi che non alterano il rapporto con la realtà, come il narcisismo, il disturbo dipendente o antisociale. Condizioni cliniche che non sono di pertinenza dei dipartimenti della salute mentale - osserva Zanalda -. Questo ha generato falsi infermi, per lo più sociopatici, a cui non dovrebbe essere applicato nessun vizio di mente, dichiarati da periti senza esperienza nei servizi di salute mentale, perciò non idonei a valutare queste situazioni”. Il risultato per gli psichiatri clinici è paradossale: “Rems strapiene di persone con vizio di mente fittizio, non imputabili dunque, che dovrebbero restare in carcere o essere inviate in altri luoghi di recupero”. Alessandro Jaretti Sodano, direttore della Rems di San Maurizio Canavese (Torino), conferma che su venti ospiti dieci non hanno i requisiti per stare lì. “Non è possibile garantire la gestione di persone violente, non collaboranti, il cui comportamento deviante non deriva da una condizione psicopatologica ma dalla volontà di delinquere o di non sottostare ad alcuna regola di convivenza in comunità - dichiara il direttore -. I posti letto disponibili nelle rems sono limitati ed è necessario un loro utilizzo mirato dando priorità all’ingresso ai soggetti che possono giovarsi dei percorsi terapeutico-riabilitativi. In questo modo - conclude - possiamo rispettare la legge 81/2014”. Quella che ha portato al superamento degli opg e alla nascita delle rems. L’era post-opg soffre ancora di un ritardo normativo. La riforma dell’ordinamento penitenziario (dlgs 123/2018) “non solo non ha potenziato l’assistenza psichiatrica come avevamo proposto - sottolinea Marco Pelissero, professore di diritto penale all’Università di Torino che ha presieduto la commissione per la riforma della sanità penitenziaria al ministero della Giustizia -, ma ha addirittura tolto qualsiasi riferimento ad essa facendoci fare un passo indietro. Avevamo previsto anche l’equiparazione del disagio psichico a quello fisico ai fini del rinvio della pena e la possibilità di misure alternative, come la detenzione domiciliare o in altro luogo idoneo, oltre all’affidamento in prova in comunità terapeutica”. Proposte inevase. “Poi però è arrivata la sentenza 99/2019 della Corte costituzionale che - ammette Pelissero - ha sanato un vuoto”. Mentre dal punto di vista degli psichiatri l’effetto è meno idilliaco, almeno finché non verranno trovate alternative che non aggravino i servizi di salute mentale. Servirebbe infine mettere mano a tutti articoli del codice penale che fanno ancora riferimento agli opg. E all’articolo 203, che tiene in vita il concetto di “pericolosità sociale” di una persona, che risale addirittura al codice Rocco del 1930 e che il progresso scientifico ha superato con il più umano “bisogno di cura”. “Con il Piano Bonafede in arrivo 2.500 agenti di Polizia penitenziaria” di Antonio Pitoni La Notizia, 16 luglio 2019 Per il capogruppo 5S in Commissione Giustizia alla Camera, Devis Dori, la riforma del ministro sta dando i suoi frutti In arrivo il 31 luglio 1.162 nuovi agenti penitenziari. “Cui se ne aggiungeranno al 1300 in deroga”, assicura il capogruppo M5S in commissione Giustizia della Camera, Devis Dori. Dallo Spazza-corrotti fino alla riforma per tagliare i tempi dei processi. È corretto dire che tra gli obiettivi impliciti degli interventi sulla giustizia c’è anche quello della certezza della pena? “Il disegno del MoVimento 5 Stelle per una riforma complessiva della Giustizia, attesa da decenni, è già in atto e passa dai principi che storicamente ci ispirano nella nostra azione politica. La certezza della pena è uno di questi, ed è citato anche nel contratto di governo”. Al riguardo, dal ministero della Giustizia è arrivato l’annuncio che dal 31 luglio 1.162 nuovi agenti della polizia penitenziaria saranno operativi e assegnati in diverse strutture da nord a sud. Come saranno ripartiti e, più in generale, il potenziamento degli organici rientra in questo piano generale per dare attuazione al principio della certezza della pena? “Anticipo subito che a queste assunzioni se ne aggiungeranno a breve altre 1300 in deroga, che il ministro Bonafede sta provvedendo a definire. La ripartizione degli oltre mille agenti che prenderanno servizio dopo il 31 luglio è effettuata in base alle aree coperte dai provveditorati, e nello specifico: Torino 111 unità, Padova 113, Milano 115, Bologna 132, Firenze 91, Roma 174, Napoli 41, Bari 97, Catanzaro 86, Palermo 123, Cagliari 77”. Basterà o ritiene vada preso in seria considerazione un nuovo piano di edilizia carceraria per realizzare nuove strutture e ampliare e ammodernare quelle già esistenti? “Sicuramente queste misure avranno effetti positivi sulla qualità del lavoro degli agenti penitenziari e della vita dei detenuti all’interno delle carceri. Questo porterà ad un miglioramento complessivo, che a sua volta favorirà sia un abbassamento del rischio di recidiva che un conseguente innalzamento della soglia di sicurezza per i cittadini. È un circolo virtuoso, nel quale - come specificato nel contratto - si può inserire anche la manutenzione ordinaria e straordinaria delle attuali strutture e l’utilizzo dei beni demaniali per realizzarne di nuove”. Sul fronte minori il MoVimento 5 Stelle ha presentato alla Camera la richiesta di un’indagine conoscitiva. Di che si tratta? “Dopo gli ultimi fatti di cronaca, un intervento della politica e del Parlamento diventa essenziale: ecco da cosa nasce la nostra richiesta di effettuare un’indagine conoscitiva sul sistema di gestione dei minorenni sottratti illegittimamente alle famiglie di origine. L’intento è realizzare un ciclo di audizioni per individuare eventuali carenze normative ed intervenire per migliorare la legislazione. Il nostro impegno affinché le Istituzioni facciano da garante per la sicurezza e il futuro dei più piccoli è a tutto tondo e non si ferma”. A proposito di minori, a che punto è la proposta 5S sul bullismo? “Intanto voglio sottolineare che il testo sul bullismo, a mia prima firma, che abbiamo depositato alla Camera è emblematico del nostro approccio agli interventi legislativi. Diamo vita a una ‘piccola rivoluzione, senza però appesantire l’architettura codicistica: non creiamo, infatti, nuove figure di reato, ma interveniamo per rafforzare e declinare ulteriormente quelle già esistenti. A brevissimo inizieranno le audizioni”. Dall’omicidio stradale al femminicidio: così vince il populismo penale di Angela Azzaro Il Dubbio, 16 luglio 2019 Nuovi reati e pene sempre più dure. ma la ricetta è sbagliata. Sono decenni che in Italia i temi più scottanti vengono affrontati sempre allo stesso modo, creando nuove fattispecie di reato oppure chiedendo, e ottenendo, l’aumento delle pene. Ma è davvero la strada giusta da percorrere? E perché si è scelta proprio questa direzione? Prendiamo due esempi lontani tra loro, se si pensa alle motivazioni che ci sono dietro, ma che hanno in comune la richiesta di più galera per chi viene coinvolto. Sono due fatti legati alla cronaca di questi giorni: da una parte i femminicidi, dall’altra gli omicidi stradali. La soluzione per questioni così complesse, e diverse, è sempre la stessa: galera, galera e ancora galera. A pochi ormai viene in mente di affrontare i problemi ponendoli sul piano della cultura, della prevenzione, del cambiamento sociale. Eppure i dati dimostrano che aumentare le pene non sia un deterrente e che il problema va affrontato alla radice se davvero lo si vuole risolvere. I femminicidi - Deborah è l’ultimo caso, l’ultimo femminicidio. È stata uccisa dall’ex, già condannato per stalking, mentre cantava in una serata dedicata al karaoke. Si sentiva braccata, ma in quel momento forse era felice, faceva una cosa che le piaceva. Il suo ex la ha uccisa davanti a tutti, una vendetta consumata fredda e che almeno per una volta leva a diversi giornali la possibilità di scrivere che è stato un raptus, una follia, e non una premeditazione. Chi lavora nei centri anti violenza sa bene che dietro un femminicidio ci sono, quasi sempre, anni e anni di violenze fisiche e psicologiche. Non si tratta di episodi isolati. Dietro a Deborah, come a tutte le altre di cui apprendiamo i nomi e le storie una volta che non ci sono più, ci sono sofferenze, solitudini, impossibilità di rifarsi una vita. Per questo i centri antiviolenza, che sono il cuore della lotta alla violenza contro le donne, non chiedono aumento delle pene, ma aumento dei fondi da investire per prevenire. Se una donna, decide di sporgere denuncia o di lasciare la casa che condivide con il marito o compagno violento deve essere messa nelle condizioni di rendersi autonoma da tutti i punti di vista, a partire da quello economico. Servono strumenti, mezzi, risorse. Invece sui soldi si continua a non investire il necessario per fare una seria campagna di informazione, formazione, aiuto alle donne in difficoltà. I stessi centri antiviolenza D. i. Re hanno espresso il loro dissenso rispetto alle misure del “Codice rosso” là dove si parla di aumento delle pene perché in generale non è interesse delle donne che certo non cercano pene esemplari, ambiscono piuttosto a vivere libere dalla violenza. Omicidio stradale - Nonostante l’introduzione della nuova legge sull’omicidio stradale, tanto criticata dai penalisti e da una parte dell’opinione pubblica, ogni qualvolta che si assiste alle stragi del sabato sera la reazione è la stessa. Non basta aver aumentato le pene, si vuole di più. Sempre di più. A tal punto che il vicepremier Luigi di Maio in un post su Facebook sembra voler invocare la pena di morte, perché - ha detto la prigione non basta. Anche in questo caso la carta della prevenzione e del cambiamento viene tenuta fuori gioco, come se fosse una chimera, un sogno impossibile. Dieci ragazzi morti nel week end, più i due cugini nel ragusano, davvero sarebbero ancora vivi se si potesse applicare una pena ancora più severa? Nel 2017 i morti su strada sono aumentati rispetto all’anno precedente, senza contare che la nuova legge ha - purtroppo - visto aumentare anche i casi di omissione di soccorso con conseguenze spesso letali. Se davvero dovesse interessare che i morti diminuiscano, si dovrebbero prendere ben altre iniziative: per esempio fare informazione soprattutto per le giovani generazioni, aumentare i controlli su strada, migliorare la viabilità che in alcune parti del Paese è ferma all’anno zero. Invece davanti a fatti che indubbiamente lasciano sgomenti e addolorati, si sceglie la strada più breve, quella che parla non alla razionalità ma alla pancia delle persone. Il populismo penale - Secondo il professor Giovanni Fiandaca il populismo penale è la “strumentalizzazione politica del diritto penale e delle sue valenze simboliche in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure, allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico- mediatiche propense a drammatizzare il rischio- criminalità”. Nel caso dei femminicidi ciò a cui non si vuol mettere mano è il rapporto uomo donna, la sua matrice comune a tutte le relazioni. Si ha cioè paura di affrontare il nodo principale mettendo in discussione ruoli, stereotipi, abiti culturali che tutti e tutte abbiamo assunti. Si ha cioè paura di mettere in discussione se stessi e la società intera. Meglio invocare l’aumento delle pene che è appunto rassicurante, perché sposta sul singolo e la sua punizione, quella sfida che dovremmo fare nostra in prima persona. Meno complesso il discorso della risposta populista all’omicidio stradale dal punto di vista delle dinamiche psicologiche e storiche. La legge e le reazioni di questi giorni sono però pur sempre emblematiche di una società che invece di ragionare e cambiare, preferisce mettere in atto riti ancestrali fondati sulla vendetta. Non si tratta di essere buonisti o innocentisti ma di capire quale sia la miglior risposta per problemi che assumono valenze spesso così tragiche. Rispondere: più galera, non è una soluzione. È una sconfitta. Le risorse che mancano per difendere le donne di Carlo Rimini Corriere della Sera, 16 luglio 2019 Servono soldi, dei quali non c’è traccia. La Commissione Bilancio del Senato ha dato parere favorevole all’approvazione delle nuove norme solo dopo avere ribadito che non devono derivare maggiori oneri per la finanza pubblica. Il Senato ha iniziato la discussione finale della legge sulla violenza di genere. Le nuove norme hanno l’obiettivo di proteggere le donne vittime della violenza, dell’insana volontà di vendetta o di controllo dell’uomo che viveva al loro fianco. Il sangue dell’ultima donna uccisa dall’ex marito è ancora sul terreno in uno stabilimento balneare di Savona. La nuova legge avrebbe permesso di salvarla? Avrebbe permesso di salvare le 836 donne uccise dal 2012? Permetterà di salvare vite in futuro? Per cercare una risposta, vediamo quali sono le principali novità. C’è una norma attesa e importante. Si prevede un nuovo reato: diffondere immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che erano destinati a rimanere privati. La pena è severa: la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. Non è una bravata. È un crimine. Lo devono sapere i ragazzi che non si rendono conto che possono rovinare l’esistenza delle loro compagne e gli adulti che lo fanno con cattiveria proprio per rovinare l’esistenza. Quali sono, invece, le novità destinate a fronteggiare la violenza fisica e a proteggere la vita delle donne? Ci sono alcune norme che si possono riassumere dicendo che la violenza di genere verrà trattata con maggiore severità. Ci sono poi tre misure simbolo, in relazione alle quali è stato coniato il nome gergale della nuova legge: “codice rosso”. L’idea è che tutti i reati riconducibili alla violenza in famiglia devono essere trattati, come in un pronto soccorso, con il codice dell’urgenza. Il legislatore ha aggiunto questi reati all’elenco di quelli in relazione ai quali la polizia giudiziaria, ricevuta la notizia del reato, ha l’obbligo di riferire al pubblico ministero “immediatamente anche in forma orale”. Il pubblico ministero, a sua volta, ha l’obbligo di sentire entro tre giorni la persona che ha presentato la denuncia. Infine, se il pubblico ministero richiede alla polizia giudiziaria atti di indagine, questi devono essere compiuti “senza ritardo”. Per capire se funzionerà, la metafora del pronto soccorso può essere utile. Immaginiamo un pronto soccorso con poco personale dove lavorano medici e infermieri non specializzati in medicina d’urgenza, costretti a turni massacranti. I pazienti fanno lunghe attese. Capita che qualche caso sia affrontato con superficialità e persino che qualche paziente perda la vita. Immaginiamo che venga emanata una direttiva: per ogni nuovo paziente, gli infermieri devono subito riferire al primario il quale ha l’obbligo di parlare con il paziente entro i successivi trenta minuti e, se ritiene necessario qualche esame, questo deve essere svolto senza ritardo. Qualcuno può seriamente pensare che una simile direttiva potrà salvare anche una sola vita? Ovviamente no. Gli infermieri, invece che dedicare la loro attenzione a selezionare i casi urgenti, passeranno il tempo a “riferire immediatamente” al primario tutti i casi. Il primario non potrà certo da solo parlare con tutti i pazienti e troverà un espediente burocratico per delegare questo incarico ad altri. L’inefficienza sarà solo aggravata da nuova burocrazia. La nuova legge sulle violenze di genere avrà esattamente lo stesso effetto. Ogni giorno polizia e carabinieri ricevono centinaia di denunce, di segnalazioni, di semplici telefonate riferibili a episodi di violenza in famiglia. Fra queste si annidano solo pochi casi in cui vi è una donna realmente in pericolo. Le vite si salvano creando un sistema efficiente in grado di individuare chi ha bisogno di protezione immediata rendendo innocuo l’aggressore. Di fronte alla follia o alla malvagità dell’uomo che aggredisce la propria moglie o la propria ex compagna, non serve creare nuovi reati che si sovrappongono ad altri già esistenti, non serve aumentare la severità della risposta penale e non serve neppure imporre per legge agli operatori di essere più efficienti. Per salvare vite, occorrono nuclei di operatori esperti e specializzati, diffusi sul territorio, capaci di intervenire subito individuando alla prima telefonata le situazioni di pericolo reale. Servono tanti agenti e tanti magistrati specializzati che vanno messi in condizione di lavorare con efficienza. Quindi servono soldi, dei quali non c’è traccia nella nuova legge. La Commissione Bilancio del Senato ha dato parere favorevole all’approvazione delle nuove norme solo dopo avere ribadito che dalla legge non devono derivare maggiori oneri per la finanza pubblica: le attività previste dalla legge dovranno essere svolte avvalendosi delle risorse umane e finanziarie attuali. L’unica norma che ha un autonomo stanziamento prevede un piccolo aumento della dotazione del fondo per il sostegno degli orfani per crimini domestici. È come se lo Stato dicesse ai medici e agli infermieri di quel pronto soccorso: trattate tutti con il codice rosso, ma fatelo con le risorse che avete. Non ci sono soldi per nuovo personale e nuove strutture ma aumentiamo un po’ il fondo per il risarcimento alle vittime. Davvero è difficile essere ottimisti. Il nodo dei tempi dei processi sulla riforma Bonafede di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2019 Se 9 anni sembrano pochi. C’è un dato tecnico e uno politico che messi insieme rischiano di rendere assai accidentato il percorso del piano Bonafede per la riforma della giustizia. Un intervento che ha, tra gli altri, anche il dichiarato obiettivo di ridurre i tempi di durata dei processi assume in realtà come tollerabili limiti ben al di sopra di quanto già oggi è previsto dalla legge Pinto. Quest’ultima, infatti, fissa una durata massima di 6 anni (3 in primo grado, 2 in appello e 1 in Cassazione). Più elevati invece i parametri standard della bozza di legge delega messa a punto dal ministero della Giustizia. Questa infatti considera accettabili 4 anni per il giudizio di primo grado, 3 per quello di appello e 2 per quello di Cassazione, 9 in tutto appunto. Naturalmente bisogna intendersi su due diverse nozioni di ragionevolezza. Perché la legge Pinto disciplina, anche sulla scorta di indicazioni ormai concordi in ambito europeo, la possibilità di ottenere un risarcimento in caso di mancato rispetto degli standard di ragionevole durata del processo, mentre la riforma Bonafede inserisce i 9 anni di durata massima all’interno di una norma che affida al Governo la delega a individuare misure per il contenimento della lunghezza dei giudizi. Come deterrente la bozza di delega introduce la possibilità di sanzionare sul piano disciplinare il magistrato che non riesce a rispettare i limiti in più di un terzo dei processi civili e penali iniziati. Con una serie di condizioni, però. Innanzitutto il perimetro dei procedimenti interessati riguarda solo i fascicoli di cui il magistrato è stato il primo assegnatario; non apparirebbe infatti ragionevole accollargli responsabilità per un arretrato solo ereditato. E poi, quanto alla condotta, la sanzione disciplinare potrà scattare solo in caso di “negligenza inescusabile” e in caso di mancata adozione di misure idonee ad affrontare l’arretrato. Ancora, la negligenza, mette nero su bianco la riforma, deve essere valutata in concreto tenuto conto dei carichi di lavoro complessivi e di quelli che possono essere richiesti, tenendo conto del numero e della tipologia dei procedimenti, della loro complessità, “nel quadro della produttività fisiologicamente sostenibile dall’ufficio”. A rendere più problematico tutto il tema, c’è poi l’intreccio con la prescrizione. Intreccio politico, perché l’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2020, del congelamento dei termini dopo la pronuncia di primo grado è condizionata all’approvazione di misure per accelerare la durata dei processi. Stime la bozza di Ddl non ne fa e tuttavia è molto probabile che una soglia di 9 anni di durata prima che possa scattare (forse) una misura disciplinare è destinata a scontentare soprattutto la Lega. Anche perché su altre e più specifiche previsioni, come quella sulla durata delle indagini preliminari le perplessità sono comunque forti: se ne aumenta addirittura la lunghezza (di 6 mesi nell’ipotesi base) compensandola con una discovery piena. I test psicologici per i futuri magistrati dividono le toghe di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 luglio 2019 La proposta di Bonafede rompe un tabù ventennale. Un colpo a freddo. Soprattutto inaspettato. L’ipotesi di introdurre i test psicologici ai fini della valutazione di professionalità dei magistrati ha letteralmente annichilito le toghe italiane. La norma è contenuta nel ddl sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario presentato la scorsa settimana dal ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede. In particolare, all’articolo 27, “Riforma del sistema di funzionamento del consiglio giudiziario, delle valutazioni di professionalità e della progressione economica dei magistrati”, è previsto, al comma d, che “il Consiglio superiore della magistratura, allo scopo di valutare il parametro dell’equilibrio del magistrato in funzione delle valutazioni di professionalità, possa tener conto, unitamente gli altri elementi conoscitivi acquisiti, del parere di uno psicologo di comprovata professionalità, appositamente nominato, assicurando all’interessato adeguate garanzie”. Una svolta che rompe un tabù di anni e che, appunto, ha lasciato senza parole le toghe. L’unica reazione degna di nota è, infatti, affidata ieri ad un corsivo del quotidiano La Repubblica. L’argomento, come detto, non è certamente nuovo. Prima della sortita di Bonafede, era stato qualche mese fa il ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, ad intervenire al riguardo. “Urge riformare il tradizionale metodo di selezione”, aveva dichiarato a marzo la ministra preferita da Matteo Salvini, intervenendo alla Scuola di formazione politica della Lega. “I magistrati - aveva aggiunto - sono troppo legati ad un sapere nozionistico, spesso lontano dalle concrete complessità della carriera in magistratura: i test psicologici dovrebbero essere funzionali a verificare la stabilità emotiva, l’empatia ed il senso di responsabilità, caratteristiche imprescindibili della professione”. Nel settembre 2003, in un’intervista alla rivista inglese The Spectator, Silvio Berlusconi definì i magistrati “mentalmente disturbati” e il suo Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli subito ipotizzò di introdurre i test. Al solo pensiero di introdurli venne però, a differenza di questa volta, giù il mondo. La reazione è sempre stata di chiusura. In una intervista di qualche mese fa a questo quotidiano, Edoardo Cilenti, toga di Magistratura indipendente e già segretario generale dell’Anm durante le presidenza di Eugenio Albamonte, aveva manifestato la totale contrarietà ai test psicologici “perché introducono il rischio di una omologazione secondo un modello precostituito di tipo soggettivo, con presunti esperti valutatori che potrebbero entrare finanche nel merito delle attitudini”. E, senza scomodare Silvio Berlusconi, aveva ricordato che il primo a volere i test psicologici per i magistrati era stato Licio Gelli. Previsti per moltissime categorie lavorative, dalle forze di polizia ai piloti d’aereo, i test psicoattitudinali sono visti dai magistrati come “un’offesa” e non come il riconoscimento della delicatezza del ruolo svolto, per il quale empatia e stabilità mentale sono di basilare importanza. Attualmente quello più diffuso è il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, o più semplicemente “Minnesota”, il quanto la prima pubblicazione di questo test avvenne proprio presso l’Ospedale dell’Università del Minnesota. In questi anni è stato costantemente affinato. È un test che consente di individuare non solo paranoia, ipocondria, depressione, schizofrenia, ma anche se il soggetto in questione è potenzialmente portato allo sviluppo di dipendenze da sostanze stupefacenti o alcoliche. Il test è affiancato da colloqui con da psicologi o medici con specializzazione in psichiatria. E in Europa? Va detto che l’attenzione all’equilibrio psicologico di chi amministra la giustizia è molto forte. In Francia, Paese spesso portato a modello, sono andati oltre la semplice somministrazioni di test psicoattitudinali e di colloqui con lo psicologo. Le prove d’esame per l’aspirante magistrato, che in Italia si limitano a delle verifiche scritte ed orali, prevedono lo svolgimento di un caso pratico in cui è prevista la partecipazione dello psicologo. Quest’ultimo analizza le reazioni da parte del candidato, valutando in particolar modo come reagisce alle situazioni di stress a cui viene sottoposto dagli esaminatori. Altre simulazioni vengono poi organizzate dalla locale Scuola superiore della magistratura e sono oggetto di valutazione. Non solo la Francia, ma anche i Paesi bassi hanno sistemi di selezioni analoghi. In Germania, addirittura, le valutazioni psicologiche sono periodiche ed entrano nella progressione di carriera degli operatori del comparto giustizia. Napoli: ennesimo suicidio in carcere vivicentro.it, 16 luglio 2019 Il Garante dei detenuti: “Ogni morte è un insulto alla Costituzione”. Nel pomeriggio di ieri, G. P., 59 anni di Capodrise (Ce), si è impiccato nella sua cella del carcere di Napoli-Secondigliano. Era detenuto nel reparto Ionio, alta sicurezza del carcere napoletano, dove stava scontando una condanna in primo grado a 20 anni per spaccio internazionale di droga ed associazione a delinquere. È il quinto suicidio in un carcere in Campania dall’inizio dell’anno. Il Garante dei Detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha denunciato la carenza di personale adatto a occuparsi della salute mentale dei reclusi negli istituti detentivi della regione: “Ogni carcere,anche Secondigliano, ha avuto approvato e validato dall’Osservatorio regionale della sanità il Protocollo di prevenzione del rischio suicidario in istituto. Ma mancano le figure sociali di psicologi ed educatori: 95 educatori per 15 Istituti penitenziari (7832 detenuti), 32 psicologi e 16 psichiatri, per complessive 1428 ore mensili. In media ogni mese queste figure sociali dedicano ad ogni detenuto 10/11 minuti. E adesso gli psicologi devono stare anche nei consigli di disciplina.” spiega il Garante. “Non si può morire in carcere e di carcere. Ogni morte violenta è un offesa alla vita, al buon senso, alla Costituzione ed un invito, un desiderio di saperne di più sulla vita detentiva, ma anche il coraggio di dubitare delle proprie credenze in merito al carcere.” Napoli: morto in carcere, sequestrata la cella edizionecaserta.com, 16 luglio 2019 Un detenuto di 59 anni Giovanni Pontillo, di Capodrise condannato pochi giorni fa a 20 anni di reclusione nell’ambito di un’inchiesta per droga del clan Belforte è stato trovato morto nel carcere di Secondigliano dove era recluso. Sarà l’esame autoptico a chiarire il momento in cui Giovanni Pontillo è deceduto. Stando ai primi rilievi del medico legale la morte dovrebbe essere avvenuto verso le 17,30 quando Pontillo era rimasto da solo in cella. Una scelta probabilmente maturata quella di non voler partecipare insieme agli altri detenuti all’ora di socialità, così, quando i compagni di cella, sono rientrati hanno fatto la drammatica scoperta. Per Pontillo non c’era purtroppo già più nulla da fare. Nella serata di ieri è stata allertata la famiglia mentre la notizia si è diffusa questa mattina tra Capodrise, città di origine e Marcianise, dove il 59enne viveva nel Parco Unrra Casas fino all’arresto avvenuto tredici mesi fa. Al momento non si sa se l’uomo abbia lasciato un biglietto per spiegare il gesto estremo: la cella dove è avvenuta la tragedia è stata infatti sottoposta a sequestro, così come la salma di Pontillo che si trova ora all’istituto di medicina legale di Napoli. Probabilmente già nella giornata di domani (gli atti sono arrivati questa mattina negli uffici della Procura) il pubblico ministero potrebbe fissare il test e nominare un perito. La famiglia Pontillo, assistita in questa triste vicenda dall’avvocato Giuseppe Foglia, potrebbe scegliere un consulente di parte per seguire l’esame, passaggio necessario prima di poter riabbracciare il proprio caro per l’ultimo viaggio. Bologna: ergastolano scrive al giudice un decalogo di consigli, ascoltati La Repubblica, 16 luglio 2019 Il Magistrato di Sorveglianza chiede al carcere degli interventi. Un detenuto elenca tutte le migliorie necessarie alla vita in carcere (anche il rispetto del divieto di fumo). E le ottiene. Dagli interruttori nelle celle, dove la luce è accesa 24 ore su 24, all’accesso al lavoro dentro al carcere, da regolamentare secondo la legge, al rispetto del divieto di fumo, spesso violato. Se la qualità della vita nell’istituto penitenziario di Bologna sarà migliore, almeno un po’, per tutti i detenuti, lo si deve a un ergastolano che con pazienza ha messo in fila una serie di punti per dire cosa non funziona e a un giudice che l’ha preso sul serio, verificando le segnalazioni e chiedendo alla direzione di intervenire, dove le norme lo consentono. Il detenuto è Andrea Rossi, commercialista bolognese all’ergastolo per l’omicidio di Vitalina Balani, del 2006. Nei giorni scorsi il suo reclamo, presentato dall’avvocato Gabriele Bordoni, è stato in parte accolto dal magistrato di Sorveglianza Susanna Napolitano, che ha indicato al carcere alcuni adempimenti. Questione su cui si chiede di intervenire “con particolare urgenza”, è l’accesso al lavoro interno per chi frequenta il polo universitario. Da accertamenti è risultato infatti che a Bologna la commissione per stilare le graduatorie non è formata dai componenti previsti dalla legge e non si riunisce da ottobre. Inoltre, per assegnare il lavoro, non si terrebbe attualmente in dovuta considerazione il carico familiare (Rossi ha sei figli). Oltre al tema del lavoro, definito dal giudice nell’ordinanza “di centrale importanza e rilevanza”, è stato accolto anche il punto sulla corrente elettrica: mancano gli interruttori e le luci sono accese giorno e notte, segnala il detenuto, in cella e in bagno. Il giudice prende atto che la direzione ha avviato lavori in alcune sezioni per installare interruttori, ma osserva anche che, in conformità alle disposizioni Cedu, si deve superare l’idea di un sistema elettrico centralizzato azionabile solo da una persona esterna alle celle e quindi si deve intervenire. Rossi ha anche fatto presente che gli è stata negata la consultazione di documenti dalla propria cartella personale. Il giudice, pur ammettendo che la direzione può decidere di negare al detenuto la visione di alcuni atti, chiarisce che questi devono essere indicati e il diniego deve essere motivato. Infine, il divieto di fumo, che secondo il detenuto non viene rispettato. A riguardo, l’ordinanza del magistrato di Sorveglianza è chiara: l’amministrazione penitenziaria deve adoperarsi al massimo per garantire il rispetto del divieto nei locali comuni, con vigilanza e sanzioni ai trasgressori. Ma se non tutti i 16 punti sollevati da Rossi sono accoglibili, su alcuni, come ad esempio la richiesta di poter telefonare anche di domenica e nei festivi, come, fa notare il detenuto, avviene nel carcere di Ferrara, l’ordinanza sottolinea l’opportunità di direttive univoche negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna. Frosinone: nel penitenziario mancano medici e infermieri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2019 La denuncia arriva dallo Snami, il Sindacato nazionale dei camici bianchi. Il servizio sanitario nelle carceri è di primaria importanza, ma in generale presenta numerose criticità. Il primo problema è la carenza degli operatori sanitari, medici ed infermieri. Tra i vari istituti penitenziari, spicca quello di Frosinone, nel Lazio, e la denuncia arriva direttamente dallo Snami, il Sindacato nazionale dei medici. Tramite una nota trasmessa a tutti gli enti e autorità preposte, denuncia una grave carenza della dotazione organica, riguardante il Personale medico e infermieristico che sta avendo “pesanti ripercussioni sulla sicurezza sul lavoro dello stesso personale. Per valutare le criticità occorre considerare che in tale penitenziario sono ristretti circa 630 detenuti, di cui una gran parte è affetto da gravi malattie”. Il carcere di Frosinone è classificato dal punto di vista sanitario come Sai (servizio di assistenza sanitaria integrativa), ossia è equiparato ai vecchi Centri clinici, dove sono allocati detenuti con gravi patologie e bisognosi di cure intensive (cardiopatici, diabetici, nefropatici, soggetti con epatopatie correlata a Hcv, Hiv, Hcv, pazienti psichiatrici). “Facendo un raffronto con gli altri Sai - denuncia sempre lo Snami -, emerge che la dotazione infermieristica di Frosinone è gravemente deficitaria, poiché è inferiore di oltre un terzo rispetto alla dotazione dei restanti Istituti. A Frosinone ci sono solo quattro infermieri a turno la mattina, e spesso una unità è mancante e non viene neanche sostituita, tre infermieri il pomeriggio e due infermieri la notte”. Con questi numeri diventa quindi impossibile erogare una congrua assistenza infermieristica “tenendo bene a mente che, solo per l’attività consueta, si deve preparare 2- 3 volte al giorno la terapia a circa 450 pazienti in trattamento farmacologico, somministrare farmaci ai numerosi pazienti psichiatrici accertandosi a vista che vengano assunti al momento, effettuare il controllo della glicemia e le terapie insuliniche ai diabetici, controllare la pressione ai cardiopatici, i parametri vitali a chi rifiuta il vitto e la terapia salvavita”. Inoltre i pochi infermieri devono “supportare i numerosi specialisti che operano in sede, preparare le richieste dei farmaci per l’approvvigionamento alla farmacia interna ed esterna, collaborare con il medico Sias nelle emergenze/ urgenze e nelle visite non differibili e con il medico incaricato nelle visite ordinarie giornaliere”. Non va meglio per la dotazione medica, “esiste solamente un medico incaricato, il quale è presente in Istituto solo tre ore al giorno, ed un solo medico Sias presente H24 nel vecchio padiglione, mentre nel nuovo padiglione, dove ci sono oltre 300 detenuti sin da quando è stato aperto, non vi è nessun medico in sede. È pressoché impossibile trovare un altro Istituto in Italia con un rapporto medici/ detenuti così basso”. Lo Snami, ricordando che questa situazione permane ormai dal 2015, sollecita tutti i destinatari della nota, ciascuno per le proprie competenze, a intervenire e “precisa che se nel frattempo dovessero insorgere o emergere patologie, infortuni, o incidenti vari collegabili o riconducibili anche in senso pregresso alla mancata applicazione del Dlgs 81- 08, gli organi Asl di vertice in indirizzo, come soggetto datoriale, verranno ritenuti quali responsabili”. Da ricordare che l’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Servizi sanitari regionali. Il trasferimento delle competenze sanitarie dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale e ai Servizi sanitari regionali è stato definito con il decreto del presidente del Consiglio l’ 1 aprile 2008. Con esso, assieme alle funzioni, sono state trasferite al Fondo sanitario nazionale e ai Fondi sanitari regionali le risorse, le attrezzature, il personale, gli arredi e i beni strumentali afferenti alle attività sanitarie nelle carceri. Avellino: “l’area sanitaria non funziona, ci tolgono l’acqua e gli educatori sono assenti” di Maria Fioretti orticalab.it, 16 luglio 2019 Una lettera dei detenuti dal carcere di Bellizzi Irpino: “L’area sanitaria non funziona, ci tolgono l’acqua e gli educatori sono assenti”. Indirizzata a Pietro Ioia - attivista per i diritti e il reinserimento degli reclusi, presidente dell’associazione Ex Detenuti Napoletani Organizzati - è stata pubblicata sul suo profilo Facebook: una pagina che ci dice molto sullo stato di vita - o di non vita - all’interno e all’esterno delle celle della Casa circondariale “Antimo Graziano”. I detenuti chiedono solo di riappropriarsi dei loro diritti giusti e necessari, invocano prima di tutto quello ad esistere come persone, oltre i reati commessi, lontane dalla distruzione, fisica e morale, che sembra però inevitabile a queste condizioni. Chi di dovere intervenga per fare qualcosa. “Caro Pietro Ioia, chi ti scrive sono i detenuti del Carcere di Avellino, ti scriviamo in forma anonima perché abbiamo paura di subire ripercussioni. Qui la situazione è critica, l’area sanitaria non funziona e ci negano i farmaci mutuabili che dobbiamo comprare noi, i medicinali spesso mancano. Infatti ci sono detenuti con gravi problemi respiratori che hanno bisogno della ventilazione notturna per apnea, cura che viene loro negata per problemi dell’area sanitaria e per la lunga lista delle prenotazioni. Ti facciamo presente che accade anche che la prenotazione viene annullata per mancanza delle scorte e non viene nemmeno comunicato se non pensiamo noi di informarci. Al reparto De Vivo - Reparto Dinamico Trattamentale - dove dobbiamo inserirci con i corsi, risulta che siamo solo inseriti nella sezione della Scuola Media e del Liceo Artistico. Nella sala hobby partecipano solo quattro detenuti, l’educatrice non si è mai vista, sarebbe una figura importante per l’educazione del detenuto. Inoltre con questo caldo insopportabile ci chiudono l’acqua dalle ore 13 alle 15, dalle 17.30 alle 20 e dalle 22 alle 6, è una situazione disumana ed incivile, molti di noi non abbiamo la possibilità economica di comprare l’acqua e siamo costretti a non bere. Dovrebbero provvedere a darci bottiglie d’acqua per sostenerci. Pietro, noi chiediamo il tuo aiuto e scusaci di averti scritto in forma anonima”. Questa è la lettera che i detenuti della Casa Circondariale di Bellizzi hanno indirizzato a Pietro Ioia, attivista per i diritti e il reinserimento degli reclusi, guida l’associazione Ex Detenuti Napoletani Organizzati, è autore del libro La “cella zero”. Morte e rinascita di un uomo in gabbia (edizioni Marotta e Cafiero) in cui racconta la sua storia, quella di 22 anni in carcere in 20 istituti penitenziari diversi. Spacciatore del rione Forcella di Napoli, dalla bella vita con i soldi del narcotraffico è passato all’inferno del carcere di Poggioreale. Un viaggio in un mondo poco raccontato, quello delle carceri e delle ingiustizie che i detenuti italiani subiscono. Spiega cosa significa la detenzione, cosa significa il sopruso, l’abuso di potere, la sospensione dei diritti. A Poggioreale Pietro Ioia ha conosciuto la “Cella Zero”, un luogo di torture dove detenuti di tutte le età venivano vessati dalle guardie penitenziarie. Uscito dal carcere Pietro ha denunciato. 22 indagati, 12 rinviati a giudizio, tra di loro molti secondini e anche medici, il processo però ancora non riesce a partire. E da questo coraggio di denunciare per primo e per anni le violenze che si sono consumate in quella cella vuota e senza numero, arriva tutto l’impegno di Pietro Ioia al fianco dei reclusi e degli ex carcerati per garantire il pieno rispetto dell’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Così ha pubblicato la denuncia dei detenuti di Bellizzi sul suo profilo Facebook, definendo le carceri italiane come delle vere e proprie discariche umane. Per concessione del Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Casa Circondariale di Avellino, in via del tutto inedita grazie al lavoro del Direttore Paolo Pastena e di tutti i collaboratori siamo riusciti a documentare la nostra giornata nella Casa Circondariale di Bellizzi, dove abbiamo avuto la possibilità di intervistare Mario, Luigi e Giovanni, di attraversare le quindici sezioni, di visitare il padiglione a Regime Aperto e la palazzina penale, gli spazi comuni, le aule di socialità, il passeggio, i corridoi, le sale per i colloqui. Tutto. E nella nostra visita lunga chilometri abbiamo parlato con diversi operatori: gli articoli li trovate qui, qui e anche qui. Parliamo di tre anni fa. L’ultima visita del Garante Campano per i Detenuti risale a gennaio del 2019, in questa data Samuele Ciambriello denunciava tra le criticità quelle riguardanti la sanità negata e la rigidità, i tempi lunghi nelle decisioni del Tribunale di Sorveglianza, la mancanza di infermieri, medici specialisti, di psichiatri e del medico del reparto per i tossicodipendenti. I detenuti in questa lettera ci dicono molto sullo stato di vita - o di non vita - all’interno e all’esterno delle celle della Casa Circondariale “Antimo Graziano”: chiedono solo di riappropriarsi dei loro diritti giusti e necessari, invocano prima di tutto quello ad esistere come persone, oltre i reati commessi, lontane dalla distruzione, fisica e morale, che sembra però inevitabile a queste condizioni. E allora che la Direzione del Carcere si attivi, che intervenga il Garante per i Detenuti provinciale, perché la pena abbia davvero una funzione rieducativa, affinché sia davvero tutelato il valore dell’esistenza umana: già privi di libertà, non lasciamo che i detenuti siano anche privi di diritti nelle mani dello Stato. Forlì: istituzioni e imprese rafforzano il sostegno al lavoro in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 luglio 2019 Il laboratorio di metalmeccanica Altremani, nato all’interno del carcere di Forlì, ha compiuto tredici anni ma da tempo ha raggiunto l’autosufficienza economica, obiettivo non sempre facile da conseguire per le attività che hanno sede negli istituti, a causa di difficoltà logistiche e strutturali. In questi anni l’officina ha occupato 65 detenuti in attività di assemblaggio per conto di Mareco Luce, Vossloh Schwabe e Cepi Spa che hanno assicurato importanti e costanti commesse. Dentro l’istituto penitenziario opera da circa dieci anni anche il laboratorio Manolibera, creato e gestito dall’Agenzia formativa Techne. Vi lavorano oggi cinque detenuti che riciclano scarti di legatoria attraverso un’antica tecnica artigianale arabo-cinese realizzando carta e manufatti di pregio. All’esterno della struttura ha invece sede il laboratorio RAEE, gestito dalla Cooperativa sociale Formula Solidale che occupa detenuti nel recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche provenienti dalle isole ecologiche del territorio. Tre realtà unite dal comune intento di offrire opportunità di lavoro e formazione a persone in esecuzione pena per favorire il loro reinserimento nella società esterna ma anche dalla capacità di attrarre sempre più agenzie del territorio e di ampliare così le opportunità d’inclusione di soggetti svantaggiati. Nati con il contributo del Fondo Sociale Europeo attraverso l’amministrazione provinciale di Forlì, coordinati da Techne, l’agenzia formativa pubblica di proprietà dei Comuni di Forlì e di Cesena, i laboratori hanno visto aumentare i firmatari dei protocolli che ne regolano le attività. Venerdì scorso hanno siglato gli accordi oltre all’istituto penitenziario, a enti locali, a istituzioni e ad aziende del territorio, anche i sindacati Cgil, Cisl e Uil, l’impresa Cepi Spa, la Consigliera di Parità della Provincia di Forlì-Cesena e l’Inail. “I tre laboratori - spiega la direttrice del carcere Palma Mercurio - sono frutto della collaborazione dell’intero territorio, si dimostrano quotidianamente strumenti importanti di riscatto sociale per le persone in carcere, che si vedono offrire una seconda possibilità, imparano un mestiere e ritrovano il senso della legalità”. Palermo: le vite dei detenuti dietro le sbarre, il libro di Katya Maugeri Il Sicilia, 16 luglio 2019 La presentazione a Palazzo dei Normanni. Sette detenuti raccontano le loro storie, i loro errori, le loro debolezze, i rimpianti e la speranza di costruire un nuovo progetto di vita. Un’indagine che va oltre il reato, quella realizzata dalla giornalista siciliana Katya Maugeri in “Liberaci dai nostri mali. Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento”, con la prefazione di Claudio Fava e la postfazione del giornalista Salvo Palazzolo, edito dalla Villaggio Maori Edizioni, un viaggio inchiesta nelle carceri, arricchito dal progetto fotografico di Alessandro Gruttadauria. È una crepa, un insieme di ombre nelle relazioni sociali è un distacco dalla realtà. Un crimine è tutto questo. Un ponte interrotto che smette di collegare l’essere umano con la propria dignità, con la parte sana che vorrebbe fare un salto di qualità e oltrepassare la frattura. Se ne discuterà a Palermo il 16 luglio alle 17.00 al Palazzo dei Normanni, piazza del Parlamento, 1 sede dell’assemblea regionale siciliana, sala “Piersanti Mattarella” (sala gialla). Dialogheranno con l’autrice, Claudio Fava, presidente della commissione regionale Antimafia, Salvo Palazzolo, giornalista de La Repubblica, Mario Conte, consigliere Corte d’Appello di Palermo e Pino Apprendi, presidente “Antigone Sicilia”. La giornalista indaga le vite dietro le sbarre di chi, oltre agli errori commessi e l’etichetta di ‘carcerato’, rimane un essere umano. Non c’è assoluzione nelle sue riflessioni: nelle sue ore d’aria annota le sue emozioni di intervistatrice e riesce a raccontare le difficili condizioni psichiche di chi ha commesso un reato, e di chi, fuori da una cella, ha lasciato rimpianti e sogni. “Liberaci dai nostri mali” non è solo un’inchiesta: è il racconto di una realtà di cui bisognerebbe avere coscienza, superando sbarre, muri e pregiudizi. Parole malfamate e insulti etnici di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 16 luglio 2019 Fenomenologia di un odio razziale attraverso gli abusi linguistici: utilissima in un momento in cui il linguaggio è fuori controllo. Non è raro che un meridionale ancora oggi si senta dare del “terrone”. Qualche settimana fa Vittorio Feltri ha usato questo epiteto contro Montalbano, il commissario di Camilleri, aggiungendo che “ci ha rotto i coglioni...”. Si tratta di un “etnonimo”, come spiega bene Enrico Testa nel recente saggio Bulgaro (Il Mulino). Gli “etnonimi” sono l’insieme di nomi che indicano un popolo: a volte sono sostantivi dal valore puramente denotativo; altre volte, specie quando provengono dall’esterno, assumono connotazioni dispregiative. “Terrone” è un’indicazione etnica del secondo tipo: anche se non menziona esplicitamente il nome del popolo, si sa che allude agli italiani meridionali. Lo stesso valeva quando i francesi ci chiamavano “macaronì”, idem quando noi chiamiamo i tedeschi “crucchi” (nel web l’aggettivo, di origine incerta, è tornato di moda per la capitana Carola). Lo stesso vale quando i tedeschi chiamano i francesi “Froschesser” (mangiatori di rane) e così via, ci si può sbizzarrire negli incroci. Senza dimenticare che al tempo in cui gli svizzeri promuovevano i referendum popolari per affermare “prima gli svizzeri!”, gli italiani venivano chiamati “cingali” (zingari) e spesso “Africa bianca”. La storia si ripete e per rinfrescarsi le idee sulla discriminazione linguistica, sarebbe bene, appunto, leggere il saggio di Testa, che analizza e ripercorre il diffondersi di “bulgaro” come parola malfamata. Basti pensare a combinazioni lessicali come “maggioranza bulgara”, “pista bulgara”, “editto bulgaro” riprese in contesti diversi ma sempre in chiave squalificante. Non accade solo in italiano: anche in altre lingue esistono parolacce che si possono ricondurre al paese balcanico. Rovistando nel web, nei giornali, nel discorso politico, in resoconti di viaggio e in documenti antichi, Testa ricostruisce la storia di uno stereotipo culturale diventato stereotipo lessicale. E mostra come la lingua non sia mai innocente e come certi usi rivelino un’avversione maturata per secoli: quella occidentale verso il popolo balcanico, per esempio, ha radici in varie sette religiose considerate “repugnanti” dalla Chiesa romana. Dunque, fenomenologia di un odio razziale attraverso gli abusi linguistici: utilissima in un momento in cui il linguaggio è fuori controllo. Migranti. L’Ue resta fredda sulla proposta di Moavero Milanesi di Carlo Lania Il Manifesto, 16 luglio 2019 Non sono mancati apprezzamenti per il lavoro svolto ma alla fine i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno detto “no grazie” al piano presentato dal collega italiano Enzo Moavero Milanesi per ridurre le partenze di migranti dall’Africa e distribuire in Europa quanti riescono ad attraversare il Mediterraneo. “Un approccio costruttivo e responsabile” ma che purtroppo “non porta risultati immediati”, ha chiarito il ministro per gli Affari europei di Berlino Michale Roth, presente anche lui ieri a Bruxelles e convinto che, in un momento in cui i porti sono chiusi e le navi delle ong bloccate in mezzo al mare, a servire sia piuttosto un’”alleanza” tra Paesi pronti a battersi per “un meccanismo vincolante” di ripartizione dei profughi. Di fatto la proposta messa a punto da Berlino e che il ministro degli Esteri Heiko Maas vorrebbe realizzare in tempi stretti, anzi strettissimi, con le capitali che accettano di aderire. Peccato che sia proprio quello che da almeno tre anni, e sotto varie versioni, l’Unione europea tenti di fare senza successo per l’opposizione di un buon numero di Stati membri. A partire dall’Austria e dall’Ungheria alleata di Matteo Salvini. C’era molta attesa in Italia e a Bruxelles per il piano messo a punto dal titolare della Farnesina, piano che nelle ore che hanno preceduto il vertice di ieri ha raccolto consensi non solo tra i 5 Stelle ma anche a sinistra (insieme a un significativo silenzio della Lega). La proposta di Moavero prevede la creazione nei Paesi di transito di uffici dell’Ue nei quali i migranti possano presentare richiesta di asilo in modo da poter essere poi trasferiti in Europa - in caso di esito positivo della domanda - attraverso un corridoio umanitario, saltando così l’inferno dei trafficanti di uomini e dei barconi. Una volta qui verrebbero poi smistati in “aree franche” da crearsi negli Stati che vorranno aderire al programma. Gli uffici dell’Ue potrebbero anche vagliare le domande di lavoro di chi emigra per motivi economici e per cause ambientali. Si tratta di idee che, seppure formulate in maniera differente, a Bruxelles sono già circolate in passato senza approdare a nulla. E non lontanissime da quanto proposto ieri dalla Germania che punta invece a creare un gruppo di Paesi che offrano accoglienza ai migranti tratti in salvo in mare senza che sia necessaria ogni volta un’estenuante trattativa sulla pelle di uomini, donne e bambini come accade ora. Niente uffici nei Paesi africani, dunque, cosa che allungherebbe i tempi, ma un accordo, anzi un’”alleanza” tra Stati. Berlino - che dall’inizio dell’anno ha accolto 223 persone - ha dato la propria disponibilità a far parte del gruppo al quale, visto come sono andate le cose con le ultime navi delle ong bloccate, potrebbero far parte anche Francia, Lussemburgo, Spagna e Portogallo. Va detto che - al di là dell’interesse dimostrato - l’accoglienza verso le due proposte non sembra poi essere stata così calorosa. “Quando sento parlare di corridoi umanitari, meccanismi di ricollocamento e una coalizione di volenterosi occorre stare attenti che la discussione non torni indietro di tre anni”, ha commentato il ministro degli Esteri austriaco Alexander Schallenberg. Più esplicito il collega ungherese Peter Szijjarto che schierandosi dalla parte di Matteo Salvini (“o si sta con il ministro dell’Interno italiano o da quella dei trafficanti”), ha nuovamente chiuso la porta in faccia al nostro paese rifiutando qualsiasi ripartizione dei migranti, come proposta da Italia e Germania: “Ho chiarito che l’Ungheria non sosterrà alcuna nuova proposta sulle quote. Questi Paesi stanno giocando col fuoco”, ha detto. La parola passa adesso al vertice dei ministri dell’Interno che si terrà mercoledì e giovedì a Helsinki per “concordare - hanno spiegato fonti della presidenza di turno finlandese - un meccanismo fino alla fine dell’anno per evitare una crisi politica o umanitaria durante l’estate”. Libia. I migranti sopravvissuti alla strage di Tajoura tornano dai carcerieri di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 16 luglio 2019 La denuncia del capo missione di Medici senza Frontiere in Libia Sam Turner: “Solo 95 superstiti sono stati evacuati”. Al Tribunale dell’Aja aperta indagine sulle responsabilità dei 53 morti e 130 feriti. Il governo di Tripoli aveva dichiarato di averli “rilasciati”, masarebbe stato più corretto dire “abbandonati”. E così, non sapendo dove andare, molti migranti sopravvissuti al bombardamento del 3 luglio del centro di detenzione di Tajoura, stanno tornando dentro il capannone devastato, nonostante le condizioni all’interno siano ancora più invivibili e i rischi di essere di nuovo presi a bersaglio della guerra, che va avanti ancora più violenta tutto intorno, siano aumentati esponenzialmente. A denunciare questa situazione, che riguarda circa 300 persone sopravvissute all’attacco aereo notturno attribuito all’aviazione del generale Haftar costato la vita a 53 persone con il ferimento di altre 130, è stato, ieri, il capo missione di Medici senza Frontiere in Libia, Sam Turner. A parte un centinaio di migranti che erano detenuti lì e che sono stati trasferiti in altri centri dalle organizzazioni umanitarie o hanno trovato da soli altre collocazioni o sono fuggiti, gli altri hanno cercato riparo nella struttura bombardata a pochi passi dal deposito di munizioni e veicoli della milizia che gestisce entrambi gli hangar per conto del governo Serraj. Un miliziano che ha parlato con Msf volendo restare anonimo - riferisce Turner - ha detto: “Abbiamo ripreso a lavorare, ne arrivano più di prima”. La liberazione, chiesta dall’Unhcr e dall’Oim, di tutti i 5.800 migranti imprigionati nelle carceri della Libia, di cui 3.000 nelle zone dove si combatte, senza un piano di evacuazione, per loro non rappresenta una soluzione, se hanno accettato di tornare sotto il controllo dei miliziani che quella notte hanno sparato su chi fuggiva dalle bombe - come risulta dalle testimonianze raccolte dalla missione Unsmil dell’Onu. Sulle responsabilità della strage ora all’Aja la procuratrice Fatou Bensouda ha aperto un’indagine, secondo quanto risulta ai media libici. I combattimenti nella periferia a sud di Tripoli nel frattempo si sono intensificati. Le forze armate al comando del generale Haftar (Lna), che dal 4 aprile ha lanciato l’offensiva sulla capitale, tra sabato e domenica stanno cercando di riconquistare la base di Gharyan, dopo aver fatto affluire in zona i veterani delle battaglie di Derna e Bengasi, e sostengono di essere ad un passo dalla “liberazione totale della città dalle milizie” pagate da Serraj. Un’inversione di marcia che i nemici di Misurata fedeli governo di accordo nazionale (Gna) contestano. I combattenti morti da entrambe le parti in questa nuova pagina della guerra civile libica alimentata dalle armi straniere, sono ormai ben oltre quota mille, nel bilancio dell’Oms. Stati Uniti. Migranti: retate (finora) a vuoto, ma scompare il diritto d’asilo di Marina Catucci Il Manifesto, 16 luglio 2019 Primo giorno di raid, nessun migrante arrestato. Cambia la legge sui rifugiati: non potranno chiedere protezione se sono passati prima per un paese terzo. Di fatto diventerà impossibile per i migranti centroamericani. Domenica negli Stati uniti sono cominciate le retate chieste da Trump e indirizzati contro circa 2mila famiglie di immigrati illegali su cui pesa un ordine di espulsione. Ma al momento, stando alle dichiarazioni di molti gruppi che si occupano di difendere gli immigrati, non ci sono notizie sulla cattura di nessuno, almeno a Baltimora, Chicago o New York. L’annuncio dell’inizio delle retate ha seminato il terrore tra gli immigrati privi di documenti. “Molti hanno fatto scorta di generi alimentari progettando di rimanere a casa con luci e aria condizionata spente e le persiane chiuse - dice Daisy Cohen, volontaria newyorchese che si occupa di difesa dei migranti - Alcuni non vanno neanche al lavoro”. Sono stati presi d’assalto i numeri verdi aperti dai governi locali per dare informazioni e supporto legale per difendersi dalle retate del braccio armato di Trump, l’Ice, Immigration and Customs Enforcement, la controversa agenzia federale parte del Dipartimento della sicurezza interna degli Stati uniti e responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione. “La persona che viene a fare le pulizie da me - ci raccontano anonimamente - è nascosta a casa mia visto che io sono al mare con la mia famiglia. Quando noi torneremo in città, lei e la sua famiglia verranno nella casa al mare. Molte persone che conosco stanno facendo questo genere di cose”. In molte città i governi locali e i gruppi di difesa si sono organizzati per aiutare gli immigrati: a Chicago sono stati stampati volantini per informare gli illegali dei loro diritti e si incoraggiano i residenti ad attaccarli ovunque e ad esercitare i propri privilegi di cittadini americani per difendere gli immigrati. I sostenitori della Georgia Latino Alliance for Human Rights di Atlanta vanno nei negozi e centri commerciali latinoamericani distribuendo volantini e facendo informazione capillare. Sheila Jackson Lee, deputata del Texas ha detto che legali esperti in materia di immigrazione saranno a tempo indeterminato nel suo ufficio di Houston per fornire risorse legali a individui in cerca di informazioni sui raid, che lei ha definito “draconiani”. Il direttore del Dipartimento per la cittadinanza e l’immigrazione degli Stati uniti, Ken Cuccinelli, ha minimizzato dicendo che le retate non sono che una normali prassi: “Questo è il lavoro dell’Ice di ogni giorno, gli agenti stanno solo facendo il loro lavoro”, ha detto. E quando un giornalista gli ha chiesto se i bambini sarebbero stati separati dai loro genitori, Cuccinelli ha risposto che questo costituisce solo “un dettaglio operativo”. L’amministrazione Trump, d’altro canto, ha accusato le famiglie di sfruttare le scappatoie legali che consentono di avere un permesso negli Stati uniti mentre attendono l’iter delle richieste di asilo e ha cancellato le protezioni per gran parte dei migranti centroamericani, vietando loro di chiedere asilo negli Usa se ci sono arrivati attraversando un altro Paese, come capita a decine di migliaia di persone provenienti dall’America centrale che attraversano il Messico prima di avanzare le loro richieste di asilo negli Stati Uniti. Immediatamente gli avvocati della American Civil Liberties Union nazionale hanno affermato che questa nuova regola dell’amministrazione Trump non ha basi legali, anzi, è “palesemente illegale”, come ha detto l’avvocato della Aclu, Lee Gelernt: “Per la legge statunitense sull’immigrazione e la cittadinanza negli Stati uniti - ha spiegato Gelernt - chiunque può chiedere asilo alla frontiera indipendentemente da come vi è arrivato”. Per il procuratore generale Bill Barr, fedelissimo di a Trump, invece, “questa regola è un esercizio legale di autorità fornito dal Congresso per limitare l’ammissibilità dell’asilo”. “Gli Stati uniti sono un paese generoso ma sono sopraffatti dal peso derivante dall’elaborazione di centinaia di migliaia di stranieri lungo il confine meridionale - ha scritto Barr in una nota - Questa regola ridurrà il numero di migranti economici e di chi cerca di sfruttare il nostro sistema di asilo per ottenere l’ingresso negli Usa”. A oggi sono oltre 800mila le richieste di asilo pendenti: nel 2018 ne sono state mosse 162.060, 13.168 quelle accolte. Pure l’Italia condanna la Cina sui diritti umani, ed è una notizia di Giulia Pompili Il Foglio, 16 luglio 2019 L’Italia ha aderito alla lettera in cui i rappresentanti di almeno altri 22 governi, per lo più occidentali, chiedono all’Onu di intervenire sulle detenzioni di massa da parte della Cina nella regione dello Xinjiang. Lo ha confermato al Foglio la Farnesina. Una prima versione della lettera, datata 8 luglio, era circolata online nei giorni scorsi, ma in calce, tra le firme degli ambasciatori dei paesi membri del Consiglio, non compariva il nome dell’ambasciatore Gian Lorenzo Cornado, rappresentante permanente presso le Organizzazioni internazionali a Ginevra. Il sospetto, circolato tra gli analisti di questioni asiatiche, era che l’Italia, in quanto paese firmatario della Via della Seta, avesse deciso di non prendere una posizione su una questione molto delicata per Pechino. Invece secondo la Farnesina l’adesione verbale di Cornado sarebbe arrivata venerdì, durante l’ultimo giorno della 4lesima sessione del Consiglio dei Diritti umani, che si è svolto dal 24 giugno al 12 luglio. Probabilmente, oltre all’Italia, anche altri paesi hanno aderito successivamente alla lettera, ma per saperlo bisognerà aspettarne la pubblicazione. Non lo ha fatto e non lo farà l’America, che lo scorso anno è uscita dal Consiglio accusando l’istituzione dell’Onu con base a Ginevra di “ipocrisia” sui diritti umani. Nella lettera, destinata al presidente del Consiglio Coly Seck e all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet, gli ambasciatori dei paesi firmatari esprimono “preoccupazione” per le “detenzioni arbitrarie”, per la sorveglianza di massa e le restrizioni che “colpiscono particolarmente gli uiguri e altre minoranze nello Xinjiang, in Cina”. Si chiede poi alla Cina di cooperare con il Consiglio per ristabilire la promozione e la protezione dei diritti umani, e che la lettera venga pubblicata tra i documenti ufficiali della sessione del Consiglio. È una mossa importante, un’iniziativa “senza precedenti”, scrive Reuters, anche se, secondo i diplomatici ascoltati da Reuters, “non è stata presentata alcuna dichiarazione formale al Consiglio né è stata proposta una risoluzione da mettere ai voti perché il timore è quello di una reazione politica ed economica da parte della Cina”. Alcune reazioni in effetti ci sono state. Oltre alle critiche del ministero degli Esteri di Pechino (compreso uno scontro a insulti via Twitter tra Susan Rice, ex consigliere per la Sicurezza nazionale dell’Amministrazione Obama, e il viceambasciatore cinese in Pakistan Zhao Lijian) venerdì gli ambasciatori di 37 paesi dall’Asia fino al medio oriente hanno firmato una contro-lettera in cui lodano le attività cinesi nello Xinjiang e il “contributo della Cina alla causa internazionale dei diritti umani”. Secondo la versione di Pechino, quelli dello Xinjiang sono “campi di rieducazione” dove si combatte l’estremismo islamico. Tra i paesi firmatari ci sono il Pakistan, l’Arabia Saudita - a maggioranza musulmana - ma anche Russia, Corea del nord, Venezuela, Cuba e molti paesi africani. Come spesso accade nei luoghi simbolo della cooperazione e del multilateralismo, emergono anche le contraddizioni di certe istituzioni. Per esempio, durante l’ultimo giorno di assemblea, il Consiglio ha approvato una risoluzione proposta dalla Cina chiamata: “Il contributo dello sviluppo finalizzato al godimento di tutti i diritti umani”, che “riafferma la necessità da parte della comunità internazionale di trattare i diritti umani a livello globale in modo equo”, ha scritto Xinhua. 1125 giugno l’assemblea ha ospitato Ai erken Tuniyazi, vicegovernatore dello Xinjiang, che ha parlato dei “centri di rieducazione” nella sua regione. La Cina è uno dei 47 membri del Consiglio per i Diritti umani, che ha il potere di votare risoluzioni, e può commissionare indagini e avviare inchieste. I paesi membri sono eletti ogni tre anni dall’Assemblea generale dell’Onu con scrutinio segreto. L’Italia è entrata nel Consiglio per la terza volta nel gennaio del 2019 e ci resterà fino al 2022. La Cina finisce il suo triennio alla fine del 2019. Cina. Lo Xinjiang degli Uiguri e lo spettro della pulizia etnica La Repubblica, 16 luglio 2019 Restauri, autostrade, voli per l’Europa. Un imponente programma di sviluppo del turismo voluto da Pechino per la sua regione a prevalente cultura musulmana. Ma dietro agli edifici storici tirati a lucido, palazzoni che ospitano “scuole di rieducazione”, in altre parole campi di internamento per la popolazione di antica origine turca. Da poco è stato inaugurato un nuovo volo che da Vienna collegherà direttamente la città di Urumqi nella speranza, per i cinesi, di aprire le rotte turistiche anche agli europei (per ora il 40% dei visitatori sono solo locali) ma al contempo, sostiene l’Afp, è necessario che i viaggiatori vengano a conoscenza di ciò che è tenuto nascosto per esempio poco fuori Kashgar, un’antica città della Via della Seta. Qui i venditori di cibo commerciano frutta, spiedini, i piccoli giocano nelle strade e tutto sembra “ordinario” ma poliziotti armati e posti di controllo frequenti ricordano i conflitti interetnici nell’area. Gli affari sono cresciuti costantemente nel corso degli anni sopratutto perché “lo Xinjiang è ora stabile” ha spiegato all’Afp Wu Yali, che gestisce un’agenzia di viaggi nella regione. Gli stessi turisti “si adattano agli elevati livelli di sicurezza dopo pochi giorni”. Ai viaggiatori viene chiaramente impedito di entrare o avvicinarsi ai campi di rieducazione. Le strutture sono recintate, costantemente sorvegliate e ben protette: i giornalisti francesi, durante un viaggio di una settimana nella regione, raccontano di essere stati continuamente respinti mentre cercavano di avvicinarsi ai campi. A domande sulla situazione la Cina continua a rispondere che le strutture sono “centri di formazione professionale” dove i “tirocinanti” di lingua turca imparano il mandarino e le capacità lavorative ma osservatori internazionali temono che nei centri vengano sfruttati donne e uomini per creare forza lavoro a bassissimo costo. “Per un turista che va e viaggia per un percorso prestabilito tutto sembra bello” sostiene Rachel Harris, esperta di cultura e musica uigura presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra. “La violenza che viene inflitta a uiguri e musulmani... è stata resa invisibile. È tutto molto tranquillo perché c’è un regime di terrore che viene imposto alla popolazione locale” sostiene duramente. In tutto ciò il governo continua ad accrescere le sue ambizioni per trasformare lo Xinjiang in una meta dalla forte attrattiva turistica, puntano su investimenti milionari e avvalendosi di pacchetti turistici che presentano le diverse bellezze naturali e culturali patrimonio dell’umanità Unesco. Offrono perfino esperienze “etniche” legate a danza e visite nei luoghi degli uiguri. “La cultura uigura si riduce al solo canto e danza” ha dichiarato all’Afp Josh Summers, un americano che ha vissuto nello Xinjiang per oltre un decennio e ha scritto guide di viaggio per la regione. “Ciò che mi rende triste è che ci sono solo parti molto specifiche della cultura uigura che vengono mantenute a causa del turismo”. A livello internazionale crescono inoltre le preoccupazioni per i leader culturali della comunità uigura scomparsi e che potrebbero essere stati detenuti, per l’ostracismo da parte della Cina per le tradizioni musulmane in quell’area e per il possibile utilizzo di test nucleari nella zona in passato. Informazioni che - secondo il reportage - i futuri turisti dello Xinjiang dovrebbero poter avere prima di decidere di partire.