L’ergastolo “ostativo” alla prova della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Alessio Martino diritticomparati.it, 15 luglio 2019 Brevi osservazioni sulla sentenza Viola c. Italia. Nel mese di giugno 2019 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha per la prima volta sottoposto al proprio vaglio la disciplina dell’ergastolo c.d. “ostativo” disciplinato dall’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario. In particolare, il ricorso ha trovato origine nelle doglianze di un detenuto, Marcello Viola, le cui condanne nel 1995 e poi nel 1999 all’ergastolo (dovute alla sua appartenenza ad una associazione criminale calabrese di stampo mafioso di cui, peraltro, era risultato a capo e in virtù della quale era stato sottoposto al regime del c.d. “41bis” dal 2000 al 2006) e, soprattutto, l’assenza del requisito di “collaborazione con la giustizia” avevano impedito a più riprese tanto la concessione di permessi premio, quanto l’accesso al beneficio della liberazione condizionale. L’oggetto del giudizio, sostanzialmente, riguardava l’automatismo legale volto ad impedire ex art. 4bis O.P. ai condannati per determinati gravi reati, di accedere a tutti i benefici penitenziari - che, peraltro, hanno quale unico scopo quello di promuovere la risocializzazione del detenuto a compimento dell’indirizzo costituzionale dettato dal terzo comma dell’art. 23 Cost. - qualora gli stessi non si rendano disponibili a “collaborare con la giustizia” nelle modalità descritte dallo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 58ter. La sentenza ha quindi finalmente affrontato il nodo problematico dell’impossibilità di concedere qualsiasi provvedimento che influisca positivamente su entità e modalità di esecuzione della pena detentiva ai condannati all’ergastolo per determinati delitti se non “nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia” dichiarandone la non conformità al dettato convenzionale. Va detto che, in Italia, il tema della condanna a vita è stato oggetto di un numero assai copioso di interventi della giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito. Proprio tale dato, in realtà, rappresenta un allarmante segnale allorché la Corte di Strasburgo, nonostante tale vaglio diffuso della giurisprudenza nazionale, evidenzi criticità tanto serie e gravi quanto quelle emerse nella sentenza in commento. La Consulta, a ben vedere, è parsa adoperare come un vero e proprio grimaldello il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione rileggendo i regimi detentivi “senza fine”, ma anche quello emergenziale disciplinato all’art. 4bis O.P., cercando di ricondurre a Costituzione tutto il sistema penitenziario italiano. In via generale, nella sent. 313 del 1990 la Corte aveva affermato come la funzione di risocializzazione dovesse sempre e necessariamente accompagnare la pena dalla sua creazione normativa sino alla sua estinzione, ma anche giustificato la pre-condizione per accedere ai benefici penitenziari imposta dall’art. 4bis O.P. alla luce della discrezionalità del legislatore che, con tale disposizione, avrebbe inteso privilegiare la prevenzione generale rispetto alla singola posizione soggettiva di ogni detenuto (sent. 306 del 1993). Ancora, e sempre in relazione all’art. 4bis O.P., la Corte nella sent. 273 del 2001 ha ritenuto compatibile con il terzo comma dell’art. 27 Cost. l’idea che solo attraverso la volontà di collaborare con la giustizia il condannato per determinati e gravi delitti possa concretamente dimostrare la propria volontà di iniziare un percorso di reinserimento. Infine, i giudici costituzionali hanno anche escluso che tale divieto possa essere considerato un automatismo legale, non rappresentando un divieto assoluto ma una condizione necessaria per l’accesso ai benefici (sent. 135 del 2003). Ebbene, tali indirizzi interpretativi non sembrano però aver incontrato la condivisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Infatti, la Corte sovranazionale ha escluso la conformità ai principi generali di rispetto della dignità dell’uomo della circostanza che alcuni benefici penitenziari possano essere inderogabilmente subordinati ad una condotta attiva di collaborazione con le autorità inquirenti del reo. “Il principio della “dignità umana”, affermano i giudici convenzionali, “impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà” (par. 113). Di più, la nozione di “collaborazione” individuata nell’ordinamento italiano non può in alcun modo essere considerata quale sintomo di un percorso di reinserimento e rieducazione libero e consapevole, rappresentando al contrario l’”unica opzione aperta al ricorrente” dallo Stato, che influisce direttamente su beni fondamentali come la libertà personale e la libera autodeterminazione dell’individuo ristretto(“Se è vero che il regime interno offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di tale scelta, così come dell’opportunità di stabile un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato”, par. 116). Nel ragionamento della Corte, peraltro, si è coerentemente inserita una variabile specifica relativa alla tipologia di ambiente criminale nel quale si sviluppano i reati più gravi individuati dall’art.4 bis O.P.: la minaccia di violenza, ritorsione e aggressione ai familiari ed ai congiunti del potenziale “collaboratore”. Non solo, quindi, la scelta di collaborare non sarebbe di per sé libera e quindi non può fungere da parametro di giudizio del percorso di risocializzazione ma, ancor di più, deve prendersi coscienza del fatto che la decisione di non collaborare sia spesso altrettanto non libera, essendo il frutto non di una determinazione susseguente alla fedeltà all’organizzazione criminale, bensì conseguenza diretta della paura per l’incolumità dei propri cari. La Corte ha, in ogni caso, sottolineato come coerentemente ai propri principi il sistema detentivo italiano offra un vasto arco di opportunità progressivamente più intense perché il detenuto, in perfetta osservanza del terzo comma dell’art. 27 Cost., possa ritornare a diretto contatto con la società potendo così pienamente reinserirsi nel complesso sistema vitale seguendo quell’iter intorno al quale la potestà punitiva deve necessariamente articolarsi. Tanto più, quindi, stupisce come si possa aver privato di qualsiasi “beneficio”, peraltro indirizzato esclusivamente al pieno compimento della funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere, un detenuto come Viola, il ricorrente, la cui condotta detentiva ultradecennale era stata priva di qualsiasi richiamo. Di più, tale situazione è stata esclusivamente frutto di un divieto tout court imposto dall’ordinamento senza alcuna possibilità di gradazione, di cui difficilmente - se non a prezzo di un complesso e forzato iter logico - può trovarsi una coerenza ai principi della nostra Costituzione e del comune sentire europeo. Proprio in questo senso, la Corte ha considerato che sulla base dell’art. 4 bis O.P. la “non collaborazione con la giustizia” abbia finito per rappresentare una ineluttabile - e quindi incomprensibile - presunzione di pericolosità priva di qualsiasi giustificazione concreta e, quindi, sicuramente eccessiva. Si deve infatti anche tener conto di come “la suddetta presunzione inconfutabile impedisce de facto al giudice competente di esaminare la domanda di liberazione condizionale e di verificare se, durante l’esecuzione della sua condanna, il ricorrente si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi nel cammino della correzione per cui il mantenimento della detenzione non è più giustificato per motivi inerenti alla pena” (par. 129). Come sempre, i giudici convenzionali non hanno ignorato la “storia criminale” del ricorrente, prendendo atto della pericolosità sociale del ristretto ma, allo stesso tempo, ricordando come non si possa attuare una presunzione di pericolosità solo in ragione del crimine commesso, tanto più se il fatto sia avvenuto a distanza di tanto tempo. In questa prospettiva, l’art. 3 CEDU costituisce un limite invalicabile a qualsiasi pretesa dello Stato, che non può mai e per nessun motivo sottrarsi al vaglio di coerenza del proprio ordinamento e della propria condotta alla luce del divieto assoluto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Nell’iter argomentativo dei giudici di Strasburgo, peraltro, un ruolo centrale è svolto, anche in questo caso, dal concetto di dignità umana. Privare un individuo della libertà personale significa sottoporne la dignità ad uno “stress test” non indifferente che, seppure la restrizione sia legittima e coerente, impone un perdurante controllo sul percorso di risocializzazione e riabilitazione. Affermare che un determinato regime detentivo sia in contrasto con le tutele approntate della Convenzione, sia chiaro, non significa che il detenuto debba essere liberato, o che non dovesse essere ristretto ma, più correttamente, che l’ordinamento giuridico nazionale deve farsi carico, nell’amministrazione della pena, del principio di dignità che, come tale, costituisce limite e barriera critica rispetto all’esercizio del potere. In effetti, “le cose potranno sensibilmente cambiare soltanto quando (…) si comprenderà che - senza retorica - togliere la dignità e la speranza ad un proprio simile significa toglierle a se stessi” (Glauco Giostra, “Il rimedio compensativo della riduzione di pena: problematiche tecniche e demagogici allarmismi”, in “Il senso della pena. Ad un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU”, a cura di Marco Ruotolo, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, pag. 126). Quasi un italiano su due si scopre manettaro di Renato Mannheimer Il Giornale, 15 luglio 2019 Per il 43% meglio un innocente in galera che un colpevole fuori: colpa del crescente rancore sociale. “Meglio un colpevole fuori dalla galera che un innocente dentro”. È un detto comune e l’idea corrente, spesso anche tra gli stessi magistrati, è che non si possa che convenire, al fine di evitare i tanti errori giudiziari di cui leggiamo sui giornali. E invece no. Secondo un recente sondaggio di EumetraMR (condotto per la trasmissione Quarta Repubblica di Nicola Porro), infatti, a fronte del 46% - vale a dire la (lieve) maggioranza relativa della popolazione intervistata - che dichiara effettivamente di essere d’accordo, c’è una parte assai consistente e sostanzialmente simile per dimensioni (43%), che è del parere esattamente opposto e ritiene di conseguenza che sia meglio rischiare di condannare un innocente, piuttosto che trovarsi un possibile colpevole fuori dalla prigione. Siamo dunque un popolo di “manettari”? Non proprio. Si comprendono meglio le ragioni di questo atteggiamento analizzando le caratteristiche di chi lo esprime. Infatti, esso non dipende tanto dall’orientamento politico (è presente tra gli elettori di tutti i partiti), quanto dalle caratteristiche sociali: è assai più diffuso tra le persone con bassi titoli di studio e tra le classi di età più anziane, specie tra i residenti al Sud. Si tratta, in altre parole, dei settori relativamente più “deboli” della società. Che, anche a causa della loro condizione di maggior fragilità, sentono la necessità di una più diffusa protezione. Oltre, naturalmente, a essere connotati da un più intenso rancore sociale. Non a caso, da un altro sondaggio recente (Diamanti su La Repubblica del 12 luglio) emerge come la maggioranza relativa degli intervistati dichiari che, tra tutti i provvedimenti che il governo ha preso sin qui, il più apprezzato sia il decreto anti-corruzione. È un giudizio che, ancora una volta, deriva dall’ira verso chi compie il malaffare e da quella che, a torto o a ragione, viene percepita come una sopraffazione nei confronti di chi si ritiene più debole socialmente. Insomma, viviamo in un contesto dove una parte consistente della popolazione si sente insicura e al tempo stesso, arrabbiata. E insegue, di conseguenza, le soluzioni (e le forze politiche) che sembrano apparentemente offrire una maggior protezione. Come le manette. Bongiorno “Pene più alte per la violenza sulle donne, entro luglio la nuova legge” di Cristina Nadotti La Repubblica, 15 luglio 2019 “Conto che la legge “Codice rosso” sia approvata già in settimana, i fatti di Savona mostrano quanto un nuovo intervento sia importante”. La ministra leghista Giulia Bongiorno è sempre disponibile a parlare di femminicidi perché, sottolinea, “non sa quante persone mi dicono di aver trovato la forza di denunciare dopo aver letto un articolo o visto la tv”. Quali i punti forti della nuova legge, che potrebbero evitare tragedie come quella di ieri? “Non ho ancora i dettagli, ma da una prima ricostruzione appare chiaro che, per l’ennesima volta, il femminicidio si dimostra una violenza particolare, da trattare in modo specifico. Il “Codice rosso” sottolinea questa particolarità”. Qual è la particolarità? “L’omicida pare avesse già patteggiato per stalking e avesse violato il divieto di avvicinamento, nonostante questo la sua violenza non si è placata perché alcuni uomini considerano le donne come oggetti di loro possesso. Vivono la volontà delle loro ex compagne o mogli di chiudere una relazione come un affronto al loro onore. Sembra strano che nel 2019 sia ancora così, ma oltre alle leggi bisogna agire sulla mentalità”. Cosa possono fare le istituzioni oltre a proporre leggi adeguate? “Facciamo i conti con secoli di legislazione maschilista e una cultura radicata da cambiare. Il resto, però, lo devono fare leggi e magistratura. Il primo punto forte del “Codice rosso” è di promuove la violenza contro le donne da reato di serie B a reato di serie A, con l’obbligo di ascoltare le donne che denunciano entro 3 giorni. È fondamentale, perché troppo spesso i pericoli che corrono le vittime sono sottovalutati”. Associazioni e vittime spesso lamentano di non aver trovato interlocutori preparati… “Altro punto fondamentale sono i corsi di formazione per tutte le forze dell’ordine, perché la capacità di reazione alle denunce in Italia varia molto. Sono misure per avvicinare la giustizia alle donne”. I fatti di Savona ripropongono il problema di pene adeguate. “Il “Codice rosso” prevede aumenti di pena, soprattutto per gli stalker”. La legge sarà votata in modo bipartisan? “C’è una condivisione ampia, come è giusto che sia. Ho voluto non indicare il cognome di chi l’ha proposta, ma usare i termini “Codice rosso” proprio per dare l’idea dell’urgenza”. Di recente il governo si è spaccato dopo che il sottosegretario Spadafora, del M5S, ha accusato Salvini di essere responsabile di una deriva sessista. Lei che ne pensa? “Se stiamo approvando il “Codice rosso” è anche perché Salvini l’ha voluto nel contratto di governo. Io so che è attento a queste tematiche. Quando dice “sbruffoncella” a Carola Rackete lo fa senza intenti discriminatori. Il suo è un linguaggio colorito, dice le stesse cose a donne e uomini”. Da donna di destra, non si sente a disagio in una cultura di stampo maschilista? “La destra maschilista è un’invenzione. Io sono per il rispetto delle regole, L’unica cosa che può davvero garantire che non esistano discriminazioni”. Intercettazioni: la posta in gioco quando il gioco è sporco di Milena Gabanelli e Mario Gerevini Corriere della Sera, 15 luglio 2019 Il materiale è ad altissimo tasso di riservatezza. Parliamo delle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria: strumento alla base di indagini penali sui reati più gravi e arma fondamentale nelle inchieste di mafia, terrorismo, corruzione. Da esse può dipendere la sicurezza dello Stato, la garanzia delle istituzioni, la vita delle persone. Ma chi materialmente si occupa di intercettare i telefoni, piazzare le microspie o apparati informatici (trojan ecc.), facendosi carico poi del riversamento dei dati raccolti? Non possono che essere aziende specializzate, certificate e selezionate dal ministero della Giustizia, viene da dire. Non è così. Sono aziende private talvolta con un management di livello, ma anche senza dipendenti, proprietarie dei software oppure solo locatarie, con azionisti noti o con prestanome, tipo la moglie di un poliziotto. 130.000 bersagli l’anno - Il costo delle intercettazioni è la voce più rilevante delle spese che gli uffici giudiziari mettono in conto allo Stato: 169 milioni su 193 nel 2017. Più della metà è concentrata in cinque distretti: Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Milano e Roma. Le intercettazioni telefoniche (106 mila) rappresentano, per numero di bersagli, l’80% del totale (130 mila). Dalle ultime stime disponibili, le imprese del settore sono 148 con 285 milioni di fatturato e 198 mila “interventi operativi effettuati” annualmente. Oggi alcune delle più attrezzate aziende del comparto hanno fatturati tra i 20 e i 30 milioni. Come la Rcs che “opera dal 1993 - si legge sul sito - nel mercato mondiale dei servizi a supporto dell’attività investigativa”; era di Rcs la famosa intercettazione Fassino-Consorte del 2005 (“Abbiamo una banca”) non depositata agli atti ma portata direttamente ad Arcore dall’ex amministratore delegato della società. La Innova di Trieste è di un gruppo di ingegneri e manager. La Ips di Mario Romani ha sede nella capitale, mentre la Loquendo (10 milioni) è controllata dalla Nuance Communications, multinazionale Usa di sviluppo software. Nella gran parte dei casi però sono piccole imprese da qualche centinaia di migliaia di euro e a sostanziale conduzione familiare. La posta in gioco: il caso Exodus - È possibile che una qualsiasi piccola società che gestisce risparmio, o polizze, debba strutturarsi con svariati livelli di controllo ed essere soggetta a una vigilanza esterna (Bankitalia, Ivass, Consob), mentre chi maneggia per conto delle procure dati sensibilissimi può permettersi la governance di una ditta artigiana? Eppure la posta in gioco è altissima. Ce ne siamo accorti qualche settimana fa quando è scoppiato il caso Exodus, uno spyware per Android in grado di impossessarsi e controllare da remoto gli smartphone. Due fin lì sconosciuti signori, un manager con licenza media superiore e un tecnico informatico (Diego Fasano e Salvatore Ansani, ora agli arresti), gabbando le Procure di mezza Italia che utilizzavano il software della loro società (eSurv) e, bucando i sistemi di sicurezza di Google con app camuffate e pubblicamente disponibili, hanno infettato migliaia di telefoni e computer, risucchiando 80 terabyte di dati riservatissimi (soprattutto intercettazioni giudiziarie) parcheggiandoli su un cloud di Amazon nell’Oregon accessibile dall’esterno con una password. Tanto per capirci: per occupare un terabyte di memoria ci vogliono 250mila foto. E là dentro c’è anche la privacy “rubata” a centinaia di ignare persone mai indagate: messaggi, whatsapp, conversazioni. La società della moglie del poliziotto - Casi simili, seppure di minore portata, erano emersi anche in passato. Exodus ha alzato di molto il livello d’allerta. La storia inizia con alcune società di intercettazione che “affittano” questo trojan. Fra queste la Stm di Cosenza, che aveva un contratto con la procura di Benevento. Stm è una piccola azienda con poca storia (nata nel 2016) e fatturato, posseduta al 100% da Marisa Aquino, moglie di un poliziotto della questura di Cosenza, Vito Tignanelli. Anche i Servizi segreti italiani hanno comprato Exodus proprio dalla Stm. Che garanzia può dare un’azienda così per essere fornitore delle procure? I contorni della vicenda non sono ancora chiari. Dal “dossieraggio” alla vendita di informazioni riservate, fino all’intromissione di 007 stranieri. C’è un’indagine avviata dalla procura di Napoli. I criteri di reclutamento - Nei rapporti con le società di intercettazione non c’è una linea guida, ogni procura si regola come meglio crede: formando short list, affidandosi alle scelte della polizia giudiziaria, e risparmiando il più possibile sul budget, sempre più risicato. A Torino, però, Exodus, proposto da un’altra ditta, è stato bocciato senza appello per il fiuto e i dubbi sollevati da un fidatissimo funzionario appassionato di informatica: la ditta non era proprietaria del software; non dava garanzie totali di riservatezza nel riversamento dei dati al server della procura; non c’era la certezza che fosse “mirato” ai soggetti sotto indagine. Cosa chiedono le procure da 20 anni - “L’unica soluzione - dice Francesco Greco, capo della procura di Milano - è che il ministero assuma la guida”. “Occorre un quadro di norme, controlli e verifiche sull’attività di queste società” sostiene Giovanni Melillo procuratore capo a Napoli. Intanto, secondo Patrizia Caputo, procuratore aggiunto a Torino, “diffidare di quelle società che si improvvisano nel campo e ti abbagliano con un prodotto eccezionale”. Nel 2017 Milano fece un bando al quale risposero 15 società. Sette furono escluse per mancanza dei requisiti: compagine societaria opaca, oppure dati riservati deviati fuori dagli ambienti stabiliti per legge, contenzioso con il Fisco, giro d’affari nullo. Qualcuno fece ricorso e vinse al Tar, rientrando nella griglia e allungando di un anno i tempi. Tant’è che oggi il procuratore aggiunto di Milano, Riccardo Targetti, ammette: “Scade nel 2020 e non lo rifaremo”. Però invita il ministero a fare un bando centralizzato e a stabilire anche “un prezzario nazionale”. Alessandra Dolci, capo della Dda di Milano (le intercettazioni sono indispensabili nelle indagini di mafia) ritiene che “bisogna avere un albo o un’authority di controllo”. In sostanza da nord a sud i capi delle procure, da 20 anni, chiedono al ministero della Giustizia di fornire un elenco di società selezionate e certificate. Meglio ancora società in possesso di “nulla osta sicurezza”, ovvero abilitate al trattamento di informazioni, documenti o materiali classificati dal grado di riservatissimo fino a segretissimo. Cosa fa il ministero della Giustizia Dice che sul prezzario “è stato costituito un apposito tavolo di lavoro”. E poi che in vista del processo penale telematico il ministero “sta operando presso le sedi della procura della Repubblica per l’installazione di server ministeriali la cui finalità è anche quella di innalzare ulteriormente i livelli di sicurezza dei sistemi informativi ministeriali”. Risposta burocratica a un allarme che suona. Segui il denaro… e lo smartphone, direbbe oggi Giovanni Falcone. Prove di whistleblowing. Magistrati, allo studio le denunce anonime di Marzia Paolucci Italia Oggi, 15 luglio 2019 Se con la “legge spazza-corrotti” del 3 gennaio 2019, l’anticorruzione scommette sul whistleblowing, la procedura telematica di segnalazione anonima del dipendente pubblico di illeciti o irregolarità all’interno della p.a. a cui appartiene, anche il Ministero della giustizia ci sta pensando. Bocche cucite all’ufficio legislativo del dicastero di Alfonso Bonafede dove l’intervento legislativo è ancora in via di definizione. Sappiamo però che riguarderebbe la magistratura interessata da una riforma più complessiva a cominciare dai meccanismi di elezione del Consiglio superiore della magistratura al centro del nuovo scandalo sulle nomine innescato dal caso Palamara, ai tempi della sua consiliatura al Csm. Il whistleblower, letteralmente “colui che soffia nel fischietto”, è nato negli Stati Uniti per indicare l’individuo che denuncia attività illecite all’interno dell’organizzazione di appartenenza. Ricalcata sull’originale relativa alla denunce anonime di condotte illecite da inoltrarsi sul sito dell’Autorità nazionale anticorruzione, la denuncia di malagestione degli affari, ritardi, irregolarità, assenze e conflitti di interesse dei magistrati, partirebbe allo stesso modo da una piattaforma digitale specifica. Qui, persone qualificate procederebbero in forma criptata alle segnalazioni da indirizzare al Consiglio giudiziario presso la Corte d’appello. Italia Oggi Sette ha chiesto a esponenti della magistratura di lungo corso un parere sulla possibilità di diventare oggetto di indagini, anonime. E se il presidente del tribunale di Roma Francesco Monastero preferisce non cavalcare l’onda e fa sapere che parlerà solo a testo pronto, la presidente del tribunale di Firenze, Marilena Rizzo ritiene l’intervento superfluo, quando non controproducente: “Già oggi ricevo frequentemente esposti nominativi attribuibili nella stragrande maggioranza a ritardi nei depositi delle sentenze ma si tratta di tutte situazioni che già monitoro come capo dell’ufficio. Viceversa, il sistema di denunce anonime che si vorrebbe introdurre può innescare una deriva pericolosa di delegittimazione del corpo giudiziario senza contare che l’attuale scandalo delle nomine al Csm non è certo partito da una denuncia anonima ma da un’inchiesta partita dalla Sicilia e arrivata successivamente sul tavolo delle procure romana e perugina”. Altro il punto di vista di Gian Maria Pietrogrande, padovano, classe 1948, per sei anni presidente del tribunale del riesame di Venezia, ultimo incarico da magistrato ordinario e oggi presidente della Commissione tributaria provinciale di Vicenza dove i ricorsi si decidono in sei mesi. “Il codice penale vieta la possibilità di aprire un procedimento sulla base di una denuncia anonima ma io magistrato posso autonomamente decidere di avviarci un’indagine. Ma questo, nei fatti non si fa perché già a fatica si riesce a star dietro alle denunce ufficiali in un panorama dove l’azione penale, obbligatoria sulla carta, è invece del tutto discrezionale perché il pm decide a quale causa dare la priorità o meno sulla base della mole d’arretrato che si trova a gestire. Se poi la denuncia anonima venisse accolta dal Consiglio giudiziario, promanazione dell’attuale modello di Csm, organo politico eletto in base alle correnti”, conclude, “il Consiglio lascerebbe in stand-by le denunce scomode mandando invece avanti le altre... Meglio sarebbe dunque un sistema di estrazione a sorte dei suoi membri”. La moglie Vincenza Lanteri, catanese, magistrato della seconda sezione civile del tribunale di Padova, animata da verve dialettica e parlar chiaro liquida invece il whistleblowing come “idee destinate a lasciare il tempo che trovano”. Da sempre sostenitrice del valore dell’esperienza e della meritocrazia in magistratura e nemica del suo correntismo strisciante: “Il Csm decide ben 630 nomine ad incarichi semidirettivi: nell’ottica di ridurre questa pendenza ed il collegato deprecabile fenomeno della lottizzazione, ritengo opportuno prevedere l’automatica attribuzione degli incarichi semidirettivi per la durata di due anni, non rinnovabile, in favore dei magistrati con adeguata anzianità di servizio. Ciò consentirebbe di verificare in concreto le capacità organizzative del magistrato, in vista di un eventuale incarico direttivo e lascerebbe più tempo al Csm per occuparsi dell’organizzazione degli Uffici in un’ottica di efficienza”. Lo stato della giustizia di Alfredo Mantovano Tempi, 15 luglio 2019 Non basterà mettere una pezza sullo scandalo del Csm per restituire alle toghe la credibilità che hanno dissipato. L’esecutivo e i rappresentanti dei cittadini si sveglino dal sonno stregato. Anche il non fare è una scelta. Esaurita la parte del vocabolario che contiene le parole altisonanti, disperse nel vento le grida di dolore, dissipata l’ipocrita meraviglia per ciò che tutti sapevano e a cui in tanti partecipavano, è passata la parola d’ordine di procedere “evitando le buche più dure”, come cantava Lucio Battisti: non è successo niente. Al Consiglio superiore della magistratura (Csm) nella fascia dei consiglieri eletti fra i giudici di merito i primi dei non eletti sono già subentrati ai dimissionari, mentre per la fascia dei pubblici ministeri il capo dello Stato ha indetto le elezioni suppletive: inevitabili visto che un anno fa le 4 correnti avevano indicato 4 candidati - uno a testa - per i 4 posti disponibili (rappresentazione plastica di lottizzazione), sì che alle dimissioni di due di loro non è potuto subentrare nessuno. E, pur se i media sono rapidamente passati ad altro, al momento in cui scrivo 5 su 16 componenti togati del Csm sono dimissionari o “autosospesi” (due fra essi già sostituiti), il vicepresidente si asterrà dai lavori della sezione disciplinare del Consiglio quando esaminerà la posizione di taluno dei magistrati coinvolti, le pratiche più delicate sono ferme: è come se alla Camera si fossero dimessi 200 deputati, al Senato 100 senatori, il presidente dell’una o dell’altro non si recasse all’ufficio di presidenza, e le leggi più importanti restassero congelate in commissione. In una situazione del genere, il Parlamento verrebbe sciolto senza incertezze e sarebbero indette nuove elezioni. Perché non accade lo stesso col Csm? Si risponde che il nuovo Consiglio verrebbe votato col sistema elettorale attuale, col rischio di dare continuità al correntismo: come se per fare una legge di elezione di 16 consiglieri togati siano necessari anni di lavoro parlamentare. E come se la questione più importante sia il sistema di voto del Csm: rilevante, certo, ma secondario rispetto ai problemi della magistratura italiana, la cui soluzione esige misure più ampie, articolate e coraggiose. Mentre il dibattito mediatico si trastulla in disamine sulle norme migliori per votare il Csm, spaziando dal sorteggio all’uninominale, dall’estensione dei collegi alla rotazione nella carica consiliare, la magistratura è attraversata da una serie senza precedenti di arresti e indagini con gravi accuse a carico di propri appartenenti, da Torino a Trani, da Lecce a Palermo, da Gela a Roma: al di là delle specifiche vicende, per ciascuna delle quali vale la presunzione di non colpevolezza degli imputati, l’insieme dà l’idea di un preoccupante abbassamento di tenuta etica. L’abuso del pubblico ludibrio L’entità considerevole degli indennizzi che lo Stato paga per l’ingiusta detenzione, insieme col numero di procedimenti, anche per delitti gravi, che si concludono con la prescrizione, denuncia che l’abbassamento del livello interessa pure il piano della professionalità. Prosegue indisturbata la prassi di non pochi gip di disporre provvedimenti di privazione della libertà recependo acriticamente le richieste del pm, spesso riportate fra virgolette e tendenzialmente coincidenti con l’intera ordinanza restrittiva: mostrando così nel modo più evidente l’assenza della necessaria autonoma valutazione. Prosegue impunita la prassi di non pochi pm di depositare nelle redazioni dei media di riferimento - magari a rate - estrapolazioni di trascrizioni di intercettazioni, telefoniche o ambientali: sicuramente distruggono la reputazione - e quindi la vita - dei soggetti interessati pur se costoro sono prosciolti, o addirittura archiviati; la sanzione mediatica surroga quella pena che la giurisdizione non è stata in grado di comminare per assenza di prove. L’uso a strascico, di recente introdotto, di strumenti di captazíone come il trojan aumenta, se possibile, l’invasione di sfere estranee al diritto penale, mentre accentua la sottoposizione del captato al ludibrio pubblico, spesso senza difesa. I posti direttivi, quand’anche non siano attribuiti in conformità all’appartenenza correntizia, comunque rispondono al criterio secondo cui scrivere le sentenze migliori è la garanzia per guidare un ufficio giudiziario; non va bene: con la stessa logica il sovrintendente alla Scala dovrebbe essere nominato non tra i migliori manager con ovvia competenza musicale, ma fra i migliori tenori. Ma quel che è illogico per il teatro diventa logico nel palazzo di giustizia. L’accesso alla funzione di magistrato continua attraverso un concorso che valuta - con una certa dose di alea - esclusivamente la preparazione, non però il rendimento, né l’equilibrio e la tenuta fisiopsichica in quelle condizioni di stress che caratterizzano il lavoro del giudice; questi parametri non sono particolarmente incisivi nemmeno nella verifica della progressione in carriera. Il massimo della mortificazione L’elenco è ben più lungo: qualcuno è convinto che basta cambiare le regolette di elezione dei togati al Csm per affrontare anche solo una parte delle voci appena accennate? Quanto fin qui riassunto condiziona e amareggia il lavoro quotidiano dei magistrati onesti e capaci, sempre più insoddisfatti dei meccanismi di attribuzione dei posti direttivi, degli avanzamenti in carriera, della gestione della formazione, del giudizio disciplinare del Csm, e del peso delle correnti. Non ci si attenda che dall’interno qualcuno esca allo scoperto finché è in servizio: la denuncia dei mali interni della magistratura capita con maggiore frequenza quando i giudici vanno in pensione, cioè quando è gratis, prima si rischia sulla propria pelle. Non significa però che quegli ingranaggi siano apprezzati e condivisi dai più: il massimo della mortificazione per un magistrato è sentire chi, a fronte di un processo importante, chiede a quale corrente appartiene il giudice chiamato a decidere. Competenza e professionalità non sono più percepite come prevalenti per l’esercizio di una funzione così complicata e difficile, e questo non rende agevole il lavoro. Se l’incantesimo malefico non può essere rotto dall’interno della magistratura, tuttavia una iniziativa politica seria e decisa di riforma sulle questioni prima enunciate, del governo, del Parlamento, o di entrambi, potrebbe incontrare nel corpo giudiziario cauta condivisione, e magari pure collaborazione per far sì che le eventuali riforme fruiscano dei suggerimenti di chi conosce quel mondo dal di dentro. La politica oggi non può continuare ad assistere dalla tribuna a una partita della quale è soggetto essenziale, perché responsabile verso il popolo dell’amministrazione della giustizia. Poiché pure il non fare è una scelta, non fare oggi significa avallare, insieme col silenzio caduto sulla questione magistratura, la non soluzione dei problemi che quel silenzio porta con sé. I test psicologici per i magistrati. Se Bonafede copia Berlusconi di Liana Milella La Repubblica, 15 luglio 2019 Quando Silvio Berlusconi, era il settembre 2003, in un’intervista alla rivista inglese The Spectator, li definì “mentalmente disturbati” e il suo Guardasigilli, il leghista Roberto Castelli, ipotizzò dei test psicoattitudinali per verificare se davvero chi voleva fare il giudice fosse un po’ matto, fu l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a smentire con nettezza sia l’uno sia l’altro. Disse quello che allora molti italiani pensavano: “I cittadini hanno fiducia nei magistrati”. E perfino gli psicologi reagirono giudicando cervellotica la sola ipotesi. Sedici anni dopo un silenzio profondo, anche a sinistra, accoglie la proposta dell’attuale ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede di M5S, di prevedere il parere di “uno psicologo di comprovata professionalità allo scopo di valutare il parametro dell’equilibrio del magistrato in funzione della sua valutazione di professionalità”. Non si tratta di una barzelletta, né tantomeno di una fake news. Basta leggere l’articolo 27, alla lettera “d”, del disegno di legge sulla riforma della giustizia che il Guardasigilli ha inviato venerdì a Palazzo Chigi per il prossimo consiglio dei ministri. Tra le nuove regole imposte al Csm per valutare i magistrati in vista di possibili salti di carriera e aumenti di stipendio, ecco “lo psicologo”. Che dovrà essere “di comprovata professionalità”, anche se non è ben chiaro in base a quali parametri. Per grazia del ministro, alla toga dovranno essere “assicurate adeguate garanzie”. Uno psicologo di parte, forse c’è da supporre. Magari per controbattere il giudizio negativo con una controperizia. Se questo è il fatto - “carta canta” avrebbe detto Antonio Di Pietro - a lasciare stupefatti è la totale assenza di reazioni. Quasi che la magistratura stessa si senta in colpa per gli ultimi, e gravissimi, episodi di corruzione, e abbia paura che una sua protesta possa accentuare la sua posizione oggettivamente critica. Anche se, va ricordato, sono stati altri magistrati a scoprire quei fatti. Ma cosa sarebbe accaduto se la stessa ipotesi di utilizzare uno psicologo - cosa mai avvenuta ovviamente - fosse stata fatta per selezionare il titolare di un importante incarico pubblico? Sicuramente ne sarebbe nata una bagarre. Invece se il Guardasigilli - di certo sollecitato dalla Lega, visto che a marzo il ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno aveva parlato di “test psicoattitudinali” per le toghe - pensa di far scegliere il capo di un’importante procura italiana dopo aver verificato la salute mentale dei concorrenti, tutti stanno zitti. Giudici compresi, che pure contro Berlusconi e contro gli strali dell’ex presidente Cossiga, avevano fatto i “matti”. Il vero scandalo rimosso dal Csm di Annalisa Chirico Il Foglio, 15 luglio 2019 Tra arretrati, carichi di lavoro ipertrofici e il rischio di paralisi dell’attività, che cosa dicono i magistrati sul falso dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale? Le falle nel sistema giudiziario e le scelte discrezionali nei fatti. Un girotondo. C’è ancora qualcuno che crede nell’obbligatorietà dell’azione penale? Il principio è bellissimo, per carità, ma nell’amministrazione concreta della giustizia esso si conferma, ogni giorno, impossibile da realizzare. Unfeasible, direbbero gli inglesi. Con una lettera al Foglio, l’ex procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati ha rotto gli indugi: “Difendere il principio per la sua valenza di garanzia impone di affrontare il tema delle scelte discrezionali del pm che la prassi comporta. Problemi complessi non hanno soluzioni semplici”. Detta in altri termini, se il principio inscritto nell’articolo 112 della Costituzione viene brandito come un “atto di fede”, esso diventa sì un falso dogma. A ben vedere, la posizione critica è sempre più condivisa tra i magistrati che, dovendo fronteggiare un carico di lavoro ipertrofico, fanno i conti con la triste realtà di un arretrato che non arretra e dell’impossibilità materiale di perseguire ogni notizia di reato con la medesima tempestività ed efficacia. Il magistrato è obbligato a compiere scelte discrezionali, pena la paralisi. “Il principio, nei fatti, è già superato - dichiara al Foglio il procuratore aggiunto di Venezia Stefano Ancilotto -. Con una procura sepolta da milioni di fascicoli, il pm finisce per scegliere autonomamente quali reati perseguire e quali no. I procuratori generali e il Csm trasmettono le tabelle di priorità, è vero, ma spesso la genericità delle indicazioni fornite e la specificità dei singoli casi da affrontare fanno sì che ognuno si regoli un po’ come vuole, in modo discrezionale. Le faccio un esempio: se giunge sulla scrivania la notizia di un reato bagatellare che però coinvolge una personalità pubblica, probabilmente quel fascicolo avrà una corsia preferenziale”. Bruti Liberati evidenzia i momenti in cui la discrezionalità del pm si fa più marcata: l’iscrizione nel registro degli indagati, per esempio. “Mi rallegra che anche lui abbracci finalmente questa posizione: com’è noto, Magistratura democratica ha sempre considerato l’azione penale obbligatoria alla stregua di un dogma infallibile. Venendo al merito, il pm, in taluni casi, posticipa l’iscrizione non per qualche oscura ragione ma perché magari sussistono solo sospetti e non elementi integranti un reato”. Il risultato è un sistema a macchia di leopardo: procura che vai giustizia che trovi. “Io ritengo che in un sistema riformato dovrebbe essere il Parlamento, culla della sovranità popolare, a fissare le priorità di politica giudiziaria, non il Csm”. Ricapitolando: l’obbligatorietà dell’azione penale, nella prassi, è già disattesa per manifesta impossibilità. Intanto i 2 mila magistrati requirenti - una minoranza sui circa 9 mila togati italiani - esercitano ampia discrezionalità. Non c’è da stupirsi poi se la gente pensa che sia meglio avere un pm amico che un giudice amico. “I pm di primo grado, incaricati di seguire le delicate fasi delle indagini, sono ancor meno di duemila, eppure godono di maggiore visibilità, sono quelli che si mettono di più in vista. Una volta si diceva che la procura di Roma vale come un ministero. Il motivo è semplice: il pm controlla l’azione penale, esercita un ruolo superiore. Se le chiedo i nomi di magistrati eccellenti, sia in positivo che in negativo, le verranno in mente soltanto dei pm. Accade così pure negli Stati Uniti dove tutti ricordano Rudolph Giuliani: non è un bene o un male, è semplicemente l’effetto del processo accusatorio che ha posto al centro del procedimento il pm attaccante, non un modesto centrocampista”. Nel 2017 il Csm, con l’allora vicepresidente Giovanni Legnini, emana una circolare sulle priorità investigative e l’obbligatorietà dell’azione penale riconoscendo pubblicamente l’ipocrisia di un sistema che, da un lato porge un ossequio formale al suddetto principio costituzionale, e dall’altro esercita quotidianamente il suo contrario. “In realtà, si tratta di un principio attenuato, già oggi disatteso nella sostanza - dichiara al Foglio Legnini che oggi è consigliere regionale in Abruzzo -. Con quella circolare esso fu disciplinato, per la prima volta in assoluto, in un atto consiliare”. Un’azione obbligatoria, dunque, nella misura in cui ciò sia “sostenibile” a fronte di un “carico di lavoro spesso poco gestibile e magmatico, sproporzionato rispetto alle risorse e alle esigibili risposte di giustizia che possono fornirsi all’utente, con conseguente esposizione alle valutazioni disciplinari e di professionalità”. “Il provvedimento del dirigente dell’ufficio in materia di ‘priorità’ - si legge nella circolare del Csm - sarà strumento di orientamento del lavoro del singolo, del quale il Consiglio potrà tener conto sia in materia di valutazione di professionalità del singolo magistrato (con particolare riferimento al rapporto fra quantità e qualità degli affari trattati), che in occasione della conferma o della nuova nomina ad altro incarico del dirigente”. Nello stesso documento di Palazzo dei Marescialli, si ribadisce che “scelte di priorità sono immanenti nel precipuo esplicarsi del potere di organizzazione del procuratore della Repubblica, attraverso la discrezionale distribuzione delle risorse umane e tecnologiche, il concreto impiego della polizia giudiziaria, la declinazione del principio di semispecializzazione attraverso la creazione di gruppi di lavoro, l’emanazione di direttive in materia di protocolli investigativi, la creazione di strutture di trattazione centralizzata degli affari, l’indirizzo per l’utilizzazione massiva di riti alternativi come il decreto penale di condanna, e dunque a prescindere dalla eventuale enunciazione di un catalogo di reati prioritari, intesi in astratto o attraverso concorrenti metodi selettivi”. Rifugge dall’ipocrisia il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato: “A mio giudizio, il principio va mantenuto perché è posto a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Tuttavia, la sua applicazione, nella prassi, è assai limitata: siamo inondati da una mole enorme di notizie di reato, anche grazie alla tendenza del legislatore alla panpenalizzazione. Ogni fatto sociale, oggigiorno, è affiancato da un reato di nuovo conio che, a sua volta, genera una moltitudine di procedimenti. Per prima cosa, dunque, sarebbe auspicabile un serio programma di depenalizzazioni”. D’accordo, questo è compito della politica, ma nel frattempo l’azione penale è obbligatoria secondo un parametro di “sostenibilità”, diciamo così. “Il nostro compito è fornire una risposta adeguata alla domanda di giustizia che proviene dai cittadini, a tale scopo servono norme chiare e responsabilità organizzativa. Io mi sono sempre attenuto alla seguente regola: reati diversi seguono modalità organizzative differenziate. I reati bagatellari o, comunque, a minore allarme sociale, per esempio, sono destinati a una modalità routinaria, mentre nei casi ove manchino i presupposti per la sostenibilità dell’accusa in giudizio è bene procedere rapidamente all’archiviazione, senza tirarla per le lunghe. Nel momento dell’iscrizione della notitia criminis nell’apposito registro, il pm deve decidere se impiegare il modello 45 (degli atti non costituenti notizie di reato), il modello 44 (delle notizie di reato a carico di persone ignote) o il modello 21 (a carico di persone note); questa scelta, che è fondamentale perché, a far data dalla iscrizione, decorrono i termini per le indagini preliminari, è carica di conseguenze sulle fasi successive. La formula del cosiddetto ‘atto dovuto’ è spesso un alibi per coprire uno scarico di responsabilità. Assistiamo così a processi per reati colposi con un numero sproporzionato di indagati rispetto al risultato finale: in questi casi la procura ha operato delle scelte scorrette ab origine”. Chi dovrebbe fissare le priorità: il pm o il Parlamento? “Che sia il singolo procuratore, con le proprie determinazioni, a individuare i reati a trattazione privilegiata, mi sembra inopportuno. Nella mia esperienza, io mi attengo esclusivamente alle linee diramate dal Csm e ai criteri di priorità che trovano una copertura nella legge primaria, del resto in diversi casi è il legislatore a prevedere delle corsie preferenziali per talune fattispecie criminose. Per l’omicidio stradale, per esempio, il legislatore fissa termini ravvicinati per l’esercizio dell’azione penale”. Bruti Liberati, nella sua lettera, si sofferma anche sull’invio dell’informazione di garanzia. “L’ex procuratore ha ragione quando sostiene che la trasmissione di un atto, posto a tutela dell’indagato, rischia talvolta di trasformarsi in un boomerang se rende pubblica l’indagine nei confronti di una persona destinata all’archiviazione. Alcuni strumenti di garanzia, per paradosso, appesantiscono il fascicolo di adempimenti inutili, a scapito dell’indagato che dovrebbero invece tutelare”. “Mi fanno rabbia le scorciatoie”, dichiara al Foglio Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, con i toni spicci che sono diventati il marchio di fabbrica del pm anti-’ndrangheta. “Prima di riformare l’obbligatorietà dell’azione penale, esistono altre urgenze che eliminerebbero il problema alla radice”. Quali? “Informatizzazione del processo e degli uffici giudiziari. Se applicassimo la tecnologia più innovativa disponibile nel 2019, lo spaventoso arretrato odierno scomparirebbe in un battibaleno. Invece sento dire che questo non si può fare, quest’altro neanche, quest’altro ridurrebbe le garanzie, come se l’informatica fosse il diavolo. I bambini, al giorno d’oggi, stanno in culla con lo smartphone in mano e la connessione Internet. Nessuno si domanda perché certi fascicoli attendono quattro anni sulla scrivania di un pm e poi altri sei nell’ufficio del gup o del giudice di primo grado. È davvero necessaria per il buon andamento della pubblica amministrazione questa pletora di magistrati fuori ruolo? Se qualcuno di loro rientrasse in servizio, a pieno regime, un po’ del carico pendente sarebbe abbattuto. L’ex ministro della Giustizia Paola Severino si è intestata una riforma importante della geografia giudiziaria con la chiusura dei cosiddetti “tribunalini”, io sono favorevole a proseguire l’opera di accorpamento”. L’attuale guardasigilli, Alfonso Bonafede, è di avviso opposto: dice che con gli uffici di prossimità la giustizia è “sotto casa”. “Conosco la sua opinione e gli ho espresso personalmente il mio disaccordo - replica Gratteri - Francamente stento a credere che questo esecutivo sia in grado di fare una seria riforma della giustizia”. La discrezionalità di cui gode oggi il pm non rischia di essere eccessiva? “Se il pm deve agire per automatismi, allora è meglio utilizzare un computer, costa meno. Noi dobbiamo mettere i magistrati nelle condizioni di svolgere il mestiere per cui hanno vinto il concorso. La discrezionalità c’è ma non è senza limiti. Di norma, si dà la precedenza ai fascicoli con persone agli arresti o ai reati di maggiore allarme sociale. In presenza di omicidi o stupri, il furto in appartamento passa in secondo piano. Nella vita ci vuole un po’ di buon senso: il capo dell’ufficio svolge una funzione d’indirizzo e controllo, deve applicare le norme e usare la testa per essere un buon direttore d’orchestra. Bisogna rassegnarsi a trascorrere le giornate in ufficio, dalle otto del mattino alle otto di sera, solo così si rimane sul pezzo”. Il suo è un accenno polemico verso i lavativi? “Esistono anche in magistratura, come in ogni categoria”. Per il sostituto procuratore di Roma Mario Palazzi “se vuoi ridurre il traffico su una strada intasata di auto, non otterrai il risultato varando una legge che fissa l’obbligo di viaggiare a ottanta chilometri orari, piuttosto dovrai allargare la carreggiata e aggiungere una corsia”. Metafora di viabilità per dire che, se l’effettiva obbligatorietà dell’azione penale resta un miraggio, ciò è dovuto, in primo luogo, all’eccessivo carico di lavoro. “Bruti Liberati - spiega Palazzi - pone un problema ineludibile che paragonerei a un imbuto”. In che senso? “Se a Trento sono ultra efficienti, è perché possono contare su risorse e strutture adeguate. Se noi, a piazzale Clodio, dobbiamo fronteggiare continui ‘imbuti’, è perché le scrivanie sono invase da troppi fascicoli, e di depenalizzazioni non si parla, anzi esiste ormai un “diritto penale simbolico”, panacea di ogni male. L’idea che va per la maggiore è che così si possano risolvere i problemi, facendo la faccia feroce, inventando nuovi reati. La verità è che il nostro è un sistema penale autoreferente, ripiegato su se stesso, che applica un unico rito, quello accusatorio, sia a un episodio bagatellare che a un omicidio plurimo. Molte condotte illecite andrebbero affrontate fuori dal circuito penale oppure destinate a un rito speciale”. Esistono già i riti alternativi a scopo deflattivo. “Ma se mantieni invariati personale, risorse, il tetto di udienze possibili, il risultato non cambia, e neppure i tempi. Così l’orizzonte dell’imputato diventa la prescrizione, e il difensore persegue un’aspettativa legittima che certifica il fallimento del sistema”. Chi deve fissare le priorità di politica giudiziaria? “Decidano pure le procure purché ciò avvenga in modo trasparente, tenendo conto del contesto in cui si opera. Voglio dire: il terrorismo rappresentava un’emergenza negli anni Settanta, oggi non più. Milano è diversa da Reggio Calabria”. L’obbligatorietà è un principio assolutamente irrinunciabile per Fabio Roia, presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano: “Il senso profondo del principio costituzionale è che il giudice terzo controlla l’operato del pm. Il pubblico ministero gode di ampi margini di discrezionalità, è vero, ma non nell’esercizio dell’azione penale (dove è sempre sottoposto al controllo giurisdizionale), bensì nei tempi di esercizio della stessa. È una questione annosa, legata all’ipertrofia della fase investigativa e all’enorme mole delle notizie di reato con cui dobbiamo fare i conti. Tuttavia, già oggi, il legislatore può prevedere dei canali prioritari per certe categorie di reato: il Codice rosso, di recente approvazione, per esempio, fissa una corsia preferenziale per i casi di violenza contro le donne”. Per Guido Salvini, giudice della prima sezione del Tribunale di Milano, la questione è ben più complessa perché il buon senso non è sempre l’unico criterio a guidare l’azione togata: “Conosco pm che danno l’anima su processi dotati di eco mediatica e magari politica, e poi abbandonano quelli che coinvolgono cittadini comuni. Oggi la scelta è totalmente discrezionale a causa della mole di notizie di reato. Io sono favorevole all’autonomia delle procure purché essa si fondi su criteri ostensibili, trasparenti, pubblici”. Insomma, il principio di obbligatorietà è desueto? “Io ne riformulerei il significato: non l’obbligo di celebrare tutti i processi, il che è irrealistico, ma piuttosto quello di trattare i processi minori, che riguardano i signor nessuno, con il medesimo impegno profuso nelle indagini mediaticamente fragorose, quelle che danno lustro e fama ai procuratori che fanno gara per accaparrarseli”. Quando si dice, la sincerità. Medhanie, espulso o rifugiato? di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 luglio 2019 Braccio di ferro giudiziario sul futuro dell’eritreo ingiustamente scambiato per un trafficante di uomini. La sentenza prevede la sua espulsione, il Viminale lo detiene in un centro per i rimpatri, ma lui ha presentato richiesta di asilo e non può essere rimandato nel suo paese dove rischierebbe la vita. Il trafficante non è lui, e questo - almeno per il momento - lo ha accertato la Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto. Ma adesso sul futuro di Medhanie Tesfamariam Behre, così si chiama il falegname eritreo che, per più di tre anni è rimasto in carcere in Italia scambiato con Mered Medhanie Yedhego, capo di una potente organizzazione di trafficanti di uomini, si gioca un nuovo braccio di ferro tra ministero dell’Interno e la difesa del giovane eritreo. Dopo la scarcerazione decisa dalla Corte che comunque lo ha condannato a cinque anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, Medhanie - per il tramite del suo avvocato Michele Calantropo - ha subito presentato una richiesta di protezione internazionale. Ma l’uomo è stato immediatamente portato al Centro per i rimpatri di Caltanissetta dove, secondo il decreto sicurezza, è possibile trattenere gli immigrati irregolari prima di una eventuale espulsione. La nuova contesa è tutta in punto di diritto. L’espulsione di Medhanie Tesfamariam Behre è contenuta nello stesso dispositivo della sentenza che lo ha assolto dall’accusa di essere il capo dei trafficanti ma lo ha condannato per favoreggiamento. L’espulsione, che deve essere convalidata dal giudice monocratico di Caltanissetta in un’udienza già fissata per domani, però è stata prevista prima della presentazione della richiesta d’asilo. Che, a questo punto, potrebbe bloccare tutto l’iter. In linea teorica, spiegano fonti del Viminale, una condanna è pregiudizievole per la concessione di un permesso di protezione internazionale, ma è pur vero che Medhanie è eritreo ed è fuor di dubbio che, se tornasse nel suo paese, la sua vita sarebbe a rischio. E questa circostanza, per il diritto internazionale e per la Costituzione italiana, è prevalente. Sembra escluso dunque che il giudice possa convalidare un’espulsione verso l’Eritrea o verso il Sudan, Paese in cui l’uomo è stato ammanettato, a conclusione di una indagine condotta dalla polizia sudanese con la collaborazione dei servizi segreti inglesi, ed estradato in Italia. Una situazione paradossale e senza precedenti che vede il falegname vittima di un incredibile scambio di persona al quale, nonostante le testimonianze e gli esami del Dna la Procura di Palermo non si è mai voluta arrendere, ancora privato della libertà dopo quasi tre anni e mezzo passati in carcere. Piuttosto che correre il rischio di essere perseguitato o ucciso se fosse riportato in Eritrea o in Sudan, Medhanie è costretto a chiedere asilo in Italia, Paese dove si trova ovviamente da irregolare ma dove non è venuto volontariamente e dove, ovviamente, non ha alcun interesse a rimanere visto l’incredibile errore giudiziario di cui è stato vittima. Calabria: sovraffollamento nelle carceri, maglia nera a Castrovillari, Cosenza e Reggio di Antonio Ricchio Gazzetta del Sud, 15 luglio 2019 Può definirsi civile un Paese che non riesce a garantire condizioni umane e dignitosi a chi si trova in carcere per scontare una pena? Domanda retorica e anche un po’ banale, ma sempre attuale in riferimento all’Italia. Il sovraffollamento delle carceri è un problema irrisolto - come riporta la Gazzetta del Sud oggi in edicola -, ciclicamente portato alla ribalta, ma mai seriamente affrontato. Un trend negativo, che tocca da vicino anche la Calabria. Secondo gli ultimi dati diffusi dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - datati 30 giugno 2019 - nelle carceri calabresi sono ospitate 2.869 persone a fronte di una capienza di 2.734 posti. Sulle dodici case circondariali presenti in Calabria solo due sono frequentate da meno detenuti rispetto alla capienza massima: si tratta del carcere di Palmi e di quello di Vibo Valentia. Tutti gli altri penitenziari presentano numeri superiori agli standard regolamentari. Le situazioni più critiche sono quelle che riguardano le strutture di Castrovillari, Cosenza, Locri, Reggio-Arghillà e Corigliano Rossano. Puglia: al via i bandi dei Garanti regionali per aiutare i figli dei detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 15 luglio 2019 Dal Consiglio 75mila euro destinati ai minori e al terzo settore Il Consiglio regionale della Puglia rafforza l’attività dei garanti regionali e riorganizza le strutture amministrative per affrontare le fragilità sociali. È quanto ha annunciato il presidente dell’Assemblea, Mario Loizzo, nel presentare i primi due di una serie di avvisi pubblici: uno favorisce l’incontro dei figli minori coi detenuti, l’altro istituisce l’albo fornitori “per un consumo etico e consapevole”. Con il presidente, sono intervenuti alla conferenza stampa il Garante dei detenuti, Piero Rossi, e il Garante dei minori, Ludovico Abbaticchio. Ammonta a 75mila euro l’impegno di spesa complessivo iniziale, 60mila per il primo avviso e 15mila per il secondo (già pubblicati sul Burp, il Bollettino ufficiale della Regione). Il bando rivolto al sistema no profit di accoglienza riguarda i figli minori in visita a genitori reclusi. Saranno sostenuti, fino a un massimo di 15mila euro, progetti in grado di favorire l’incontro, facilitarlo materialmente, intrattenere i bambini, aiutare gli adulti a rielaborare la consapevolezza della genitorialità. L’altro avviso crea un albo fornitori dei garanti per assicurare l’acquisto di beni, prodotti e servizi preferibilmente da imprese sociali impegnate nell’inclusione di soggetti deboli attraverso il lavoro (produzioni realizzate negli istituti di pena o da disabili) e dal commercio equo e solidale. “Sperimentiamo modelli di attività che intervengono sui bisogni, sosteniamo le organizzazioni del terzo settore che cercano seriamente di risolvere i problemi” ha detto Rossi. Con le iniziative previste nei due avvisi un Garante entra nelle materie dell’altro:”si tratta di una prima esperienza di condivisione dei nostri compiti - ha sottolineato Abbaticchio - inauguriamo un metodo di lavoro di squadra e allo stesso tempo lanciamo un messaggio, augurandoci che queste esperienze possano allargarsi a Comuni e Asl, integrando così le risorse”. Torino: una storia di migrazione, tra doppio carcere e doppia assenza di Daniela Galiè dinamopress.it, 15 luglio 2019 Tra il 7 e l’8 luglio viene ritrovato il corpo senza vita di un uomo. È un migrante di origine bengalese, in stato di trattenimento presso il Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino. Un uomo di origine bengalese, Faisal Hossai, di 32 anni, è deceduto ieri presso il Cpr di Torino. Secondo quanto riportato da alcune testimonianze, l’uomo era stato posto in isolamento per ragioni non ancora chiarite, nonostante tale disposizione punitiva non sia prevista all’interno di queste tipologie di strutture. Alla notizia della morte del compagno del centro, di cui ancora erano ignote le cause, alcuni migranti hanno iniziato una protesta che ha causato piccoli incendi in alcuni moduli della struttura. A svolgere le indagini sono state la squadra mobile della questura di Torino e la procura, al termine delle quali è stata esclusa qualsiasi ipotesi delittuosa e il decesso è stato associato a un arresto cardiaco. Dalle prime ore di lunedì 8 luglio, i reclusi del centro hanno messo a fuoco materassi e mobili, mentre in serata attorno alle mura del CPR si sono raccolti numerosi solidali. Da dentro arrivavano forti le voci delle persone rinchiuse e il grido “libertà” ha accompagnato lo svolgersi del presidio. La polizia ha risposto sparando lacrimogeni dentro al CPR e al tentativo di blocco da parte dei manifestanti di una delle strade adiacenti sono partite delle violente cariche. Il giorno successivo i manifestanti erano più numerosi e dopo aver bloccato la strada sono partiti in corteo attorno al quartiere per poi tornare di fronte al CPR e protestare contro le condizioni tristemente note di queste strutture di detenzione. Gli abusi e le violenze all’interno dei CPR non sono storia nuova e da anni vengono denunciate da chi le subisce o da chi ne è testimone. Ma il trattamento dei reclusi, le continue violazioni e storie tragiche che si sono consumate all’interno di questi luoghi rappresentano una contraddizione talmente netta con lo stato di diritto che spesso sono state ignorate dalla politica istituzionale. Di fronte al vergognoso silenzio delle istituzioni competenti le persone trattenute nel CPR di Corso Brunelleschi stanno portando avanti dal mese di giugno tentativi per mettere in luce il volto oppressivo e violento che contraddistingue queste strutture, figlie di un sistema che con lo scorso decreto legge Minniti-Orlando e con l’attuale decreto Salvini ha posto le basi normative per estendersi in tutte le regioni italiane e che ha visto aumentare il periodo di trattenimento fino a 180 giorni. Il CPR è di fatto un luogo di confinamento per migranti sprovvisti di regolare titolo di soggiorno, che si trovano al loro interno con lo status di trattenuti o di “ospiti”. La loro presenza corrisponde sotto innumerevoli aspetti a una vera e propria detenzione: la privazione della libertà personale e un trattamento coercitivo sono la cifra di questa permanenza forzata. A tutto questo si aggiunge il senso di segregazione e reclusione che comincia molto prima della misura punitiva dell’isolamento nei casi in cui il soggetto vada punito o “protetto”, in quanto alle persone è proibito ricevere visite e il diritto alla difesa legale viene reso sempre più arduo. La situazione degli ospiti verte in situazioni preoccupanti, sia dal punto di vista della vita quotidiana, che scorre senza alcuna attività che impegni le ore della giornata, il che comporta delle evidenti ripercussioni sulla salute psicofisica di quanti vi dimorano anche oltre sei mesi, sia per quanto riguarda le condizioni materiali degli ambienti, lasciati in condizioni di deterioramento strutturale e igienico. A sua volta, il CPR è solo uno dei luoghi preposti al trattenimento, identificazione e smistamento dei migranti. La storia tormentata dell’accoglienza in Italia si infoltisce di sigle vecchie e nuove: alle prime procedure d’identificazione e smistamento effettuate negli hotspot, si passa alla prima accoglienza nei Cara (centri d’accoglienza per i richiedenti asilo), Cpa (centri di prima accoglienza) e Cpsa (centri di primo soccorso e accoglienza). L’alternativa a quest’ultimi, nello specifico per coloro i cui requisiti non permettono di fare domanda di protezione, i cosiddetti clandestini, gli irregolari, è il CPR, un tempo CPT (centri di permanenza temporanea), poi CIE (centri di identificazione ed espulsione), in attesa del rimpatrio. I Centri di trattenimento, con le loro varie ridenominazioni, realizzano in Italia lo stato della detenzione amministrativa, sottoponendo a regime di privazione della libertà personale individui che hanno violato una disposizione amministrativa, come quella del necessario possesso di permesso di soggiorno. Il CPR si delinea pertanto come deposito umano dove vengono ammassati tutti coloro la cui mobilità viene interrotta da una categorizzazione artificiale che stabilisce chi sia meritevole di migrare e chi rappresenta, per la sua stessa esistenza in territorio italiano, il nemico perseguitabile di una guerra ormai dichiarata contro lo straniero. I casi di torture e maltrattamenti nelle varie strutture destinate ai migranti dopo l’approdo in Italia sono numerosi e spesso denunciati da organizzazioni solidali, non governative, o dagli stessi ospiti. A loro volta tali torture assumono varie forme, alcune convenzionali e collaudate, altre meno appariscenti e subdole: dal mancato soccorso in caso di malattia o malessere, alle varie forme di proibizione arbitraria o vessazioni. La cultura della violenza tipica delle strutture detentive non vive quindi solo di norme ma di pratiche che ledono la dignità umana. La stessa storia di Faisal ci riporta un caso emblematico in cui le necessità di una persona vengono trattate secondo una logica punitiva e discriminatoria. Secondo alcune fonti giornalistiche, era stata diffusa la notizia che Faisal fosse stato vittima di uno stupro e successivamente costretto all’isolamento nella piccola struttura dell’Ospedaletto. Un episodio a sua volta realmente accaduto, ma che coinvolge un’altra persona trattenuta nel CPR e che forse, senza la morte di Faisal, sarebbe rimasta sepolta tra le mura asfissianti delle celle. Sta di fatto che, in maniera illegittima, Faisal viene posto in isolamento, dove verrà lasciato per più di due settimane. La cella d’isolamento è da sempre il luogo dove viene scontata la sanzione disciplinare per eccellenza, dove vengono rinchiuse le persone difficili o i detenuti più a rischio. È proprio in questi spazi vuoti e disadorni che l’essere umano si trova in un “secondo carcere”, dove la propria psiche subisce la privazione definitiva attraverso l’allontanamento da stimoli e socialità. Là dove la privazione della libertà non è ufficializzata o riconoscibile, tutto tace. A restituire dignità a quanti vengono abbandonati nei luoghi di reclusione sono quanti continuano a denunciare questi abusi. Dall’8 al 9 luglio presidi e proteste si sono susseguiti sotto il CPR, sedati poi dall’intervento delle forze dell’ordine. Non è però un caso isolato. L’estate scorsa, il centro era stato danneggiato da un incendio doloso. Alcune delle persone recluse nel Cpr sono salite sui tetti, in segno di protesta per le condizioni nelle quali erano costrette a vivere. In seguito alcuni moduli abitativi vennero dati alle fiamme da ragazzi maghrebini reclusi da oltre un mese e mezzo nel centro. Qualche mese fa, l’avvocato Cristiano Prestinenzi ha definito la situazione nel CPR “una grave violazione di diritti inalienabili dell’individuo riconosciuti dalla Costituzione, dai trattati internazionali e, più in generale, dai principi basilari su cui si regge uno stato democratico”. Il riferimento era ad un uomo ospite del centro, trattenuto da oltre un mese al CPR, che non riusciva ad avere la documentazione sanitaria che lo riguardava. Questo fatto di cronaca è un indicatore di un problema politico che coinvolge molti aspetti della nostra quotidianità, a partire dalla capacità di decodificare la realtà e declinare il conflitto oltre l’istintività o l’addomesticazione mediatica. Simili episodi racchiudono sempre un insieme di segnali interpretativi: la storia di Faisal si iscrive in un contesto che vorrebbe definirsi come la normalità del percorso del migrante dentro i confini nazionali, un percorso studiato a norma per irrobustire barriere fisiche e simboliche, determinare spazi d’esclusione e rafforzare linguaggi accusatori. La storia di Faisal si pone nella lunga lista di persone costrette in un regime migratorio devastante che ridimensiona la narrazione dell’esistenza e della morte, mostrandosi come parabola dell’invisibilità a cui molti soggetti migranti sono destinati e determinando quell’immagine di “doppia assenza” (dalla propria società d’origine e da quella d’arrivo) descritta dal sociologo Abdelmalek Sayad. L’approccio allo straniero, meritevole all’accoglienza o clandestino irregolare, dissimula, attraverso un complesso di disposizioni normative, la definizione arbitraria del concetto d’accoglienza, caratterizzato da modalità predominanti basate sul concetto di ordine e di produttività, che spesso si risolvono in meccanismi d’esclusione, mercificazione e negazione della soggettività politica delle persone migranti. Le proteste che da anni interessano i CIE di tutta Italia e che spesso scaturiscono da episodi isolati non sono mai casi circoscritti. Le rivendicazioni hanno un obiettivo più generale che attacca l’approccio costrittivo e il clima di disciplinamento di queste strutture. Ci troviamo davanti all’applicazione di una precisa logica che traduce il diritto a migrare in una colpa da espiare con il carcere, per cui dopo la prima selezione di chi è assimilabile a un’ideale di normalità e produttività, verrà estratto chi invece deve essere punito, respinto ed espulso. Grosseto: il carcere del futuro è con una mini-zona artigianale di Giovanna Mezzana Il Tirreno, 15 luglio 2019 L’ex caserma Barbetti verrà acquisita a settembre dal ministero di giustizia E nell’area potrebbero essere ospitate imprese e coop che assumano detenuti. Emergono nuovi dettagli del percorso che porterà Grosseto ad avere un nuovo carcere in sostituzione della casa circondariale di via Saffi, ospitata in uno storico edificio di fine ‘800 adibito alla funzione di istituto penitenziario. Come è noto, il nuovo carcere non sorgerà in un immobile che verrà costruito ex novo bensì nell’area della ex caserma Barbetti - o Ansaldo - lungo la via Senese. Ed è qui che una quota di capannoni (che già ci sono) potrebbe essere riservata a imprese e cooperative grossetane che volessero delocalizzare la propria attività all’interno della cittadella penitenziaria in cambio dell’assunzione di detenuti. Ebbene, lungo questo percorso c’è una prima tappa per la fine dell’estate. A settembre, confermano dagli uffici della Prefettura di Grosseto, la caserma Barbetti e l’area verranno traghettate in seno al ministero della giustizia perché attualmente sono sotto l’egida del dicastero della difesa; tale passaggio - fondamentale perché si possano avviare i lavori di riconversione - è già stato previsto all’interno di un accordo quadro che è stato firmato il 13 luglio dai due ministri. Della tappa settembrina si è parlato in un incontro che si è svolto di recente nel Palazzo del Governo, presieduto dalla prefetta di Grosseto Cinzia Torraco e al quale ha preso parte il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria Antonio Fullone. Intanto prende forma anche un’ipotesi “di massima” che - se andasse in porto - rappresenterebbe un’opportunità sia per detenuti che vogliono darsi una chance di futuro che per imprese e cooperative locali. L’area ex Ansaldo di via Senese consta di capannoni: alcuni potrebbero essere opzionati da imprese grossetane che volessero delocalizzare lì la propria attività: lavanderie, sartorie, falegnamerie, per esempio; tale opportunità potrebbe essere prevista anche per cooperative che nascessero ad hoc per lavorare all’interno dell’area carcere; in cambio imprese e/o cooperative riserverebbero a loro volta ai detenuti una quota di forza lavoro, di assunzioni. “Si tratta di un modello - spiega Francesco Sansone, segretario territoriale di Uilpa-polizia penitenziaria - che è già operativo in altre realtà carcerarie: per esempio, a Milano Bollate i detenuti producono pezzi per le biciclette Atala”. Non solo: anche nei lavori di ristrutturazione dell’area dell’ex caserma Barbetti potrebbero essere impiegati detenuti, secondo una modalità già consolidata. La Uilpa - Polizia Penitenziaria esprime soddisfazione per l’incontro che si è svolto in Prefettura. “La Uilpa - Polizia Penitenziaria ma anche la Confederazione della camera sindacale Grossetana - nota Sansone - ravvisano che solo attuando politiche di costruzione di nuovi istituti penitenziari nella Regione Toscana si possano affermare condizioni dignitose sia per i lavoratori che per la popolazione detenuta. Possiamo dire di aver svolto - conclude Sansone - un lavoro di concertazione affinché restasse un presidio di sicurezza come il carcere nel sud della Toscana”. Ferrara: Sappe contro Ilaria Baraldi “problema del disagio psichico in carcere irrisolto” estense.com, 15 luglio 2019 Il sindacato replica alla consigliera Pd: “Prima di chiudere gli Opg era meglio creare valide alternative, felici che non sia passata la riforma Orlando”. L’esecuzione della pena non deve guardare solo alla dignità e alla rieducazione dei detenuti ma garantire anche la sicurezza dei cittadini onesti. È quanto sostenuto dal Sappe nel replicare alla presa di posizione di Ilaria Baraldi, consigliera comunale del Pd, in merito agli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) chiusi e sostituiti dalle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). “Se proprio si volevano chiudere gli Opg forse sarebbe stato meglio creare prima delle valide alternative” commentano Giovanni Battista Durante e Francesco Campobasso, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario nazionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, confermando la tesi che “non erano adeguati e andavano riformati e migliorati” piuttosto che chiusi. “La consigliera, invece, sembra volersi iscrivere al partito di coloro che piuttosto che migliorare ciò che non funziona bene preferiscono distruggerlo e lasciare il problema irrisolto - criticano Durante e Campobasso. Chissà se la consigliera sa che le Rems non riescono ad esaudire tutte le richieste e adesso c’e la lista d’attesa per collocare le persone sottoposte a misura di sicurezza. Chissà se è al corrente del fatto che non tutte le regioni si sono dotate delle strutture necessarie”. “L’unica cosa intonata scritta dalla consigliera e che quindi condividiamo è l’affermazione secondo cui il disagio psichico non va gestito in carcere, ma questo lo abbiamo detto noi prima di lei, se avesse letto attentamente il nostro intervento e quelli precedenti se ne sarebbe accorta” bacchettano i rappresentanti i sindacalisti, rivelando che “molte aggressioni sono poste in essere da detenuti con forte disagio psichico, al contrario di ciò che invece sostiene la consigliera”. Per il resto, “non abbiamo alcuna intenzione di farci trascinare in inutili e sterili considerazioni e polemiche di carattere strettamente politico sulle riforme fatte da questo o quel governo. Ci limitiamo ad osservare in chiave strettamente tecnica e di buon senso”. Per quanto riguarda le riforme che avrebbe voluto il ministro Orlando, “come abbiamo già osservato a suo tempo - ricordano i rappresentanti Sappe - c’erano alcune cose positive come, per esempio, lo svolgimento delle udienze in videoconferenza per i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, ma ce n’erano altre che abbiamo ostacolato con forza come, per esempio, la possibilità di concedere i benefici penitenziari a quegli stessi detenuti appartenenti alla criminalità organizzata che oltre ad essere stati condannati per reati associativi sono stati altresì condannati per altri reati, commessi avvalendosi della forza intimidatrice, derivante dal vincolo associativo (per i tecnici: scioglimento del cumulo)”. “Questa è solo una delle note stonate di quelle riforme - attaccano dal Sappe -. Riforme che erano il frutto di una visione strettamente ideologica dell’esecuzione penale. D’altra parte, la stessa consigliera, quando tratta dell’esecuzione penale, nel suo intervento, fa esclusivo riferimento alla dignità e alla rieducazione, ma dimentica che attraverso l’esecuzione della pena bisogna anche garantire la sicurezza dei cittadini onesti: quelli che rispettano le leggi e pagano le tasse, anche per quelli che la legge non la rispettano. Mettere fuori dal carcere i mafiosi che hanno sciolto i bambini nell’acido non è un buon servizio reso ai cittadini italiani. Siamo felici che quella riforma non sia passata”. Brescia: in carcere 40 giorni per sbaglio, ma non verrà risarcito di Beatrice Raspa Il Giorno, 15 luglio 2019 Era stato accusato di stupro da un’anziana. Ma la donna ha inventato tutto. Un’anziana accusa il vicino del piano di sopra, un romeno incensurato, di averla stuprata nel cuore della notte dopo essersi introdotto nella sua abitazione. Seguono ondate di sdegno collettivo in mezza Italia. L’uomo viene arrestato, ma dopo qualche settimana c’è un colpo di scena: si scopre che Angela Betella, classe 1929, di Castelcovati, si è inventata tutto con un complice per fare pagare allo straniero cattivi rapporti di vicinato, spiega la Procura. Nel frattempo però, Saint Petrisor, muratore 35enne, ha trascorso quaranta giorni in carcere. È tornato in libertà solo grazie alla prova del dna che lo ha scagionato, ma per l’ingiusta detenzione il finto mostro non otterrà alcun indennizzo. Motivo: “La Corte d’appello ha rigettato l’istanza di risarcimento ritenendo che il mio assistito non si sia subito fatto trovare quando i carabinieri lo cercavano per arrestarlo - spiega l’avvocato Cristian Mongodi, che lo difende -. In realtà non era irreperibile, si era semplicemente trasferito da un cugino. Tre giorni dopo è andato a lavorare normalmente, dunque non intendeva affatto nascondersi o scappare. Per i giudici pero’ con questo piccolo ritardo ha rallentato le indagini”. Petrisor aveva quantificato l’indennizzo in 25mila euro - il massimo previsto per legge è 516.450 - commisurando la cifra alle giornate di privazione della libertà. Un periodo limitato, che tuttavia gli aveva causato la perdita del posto lavoro in una fabbrica di calcio, nella Bergamasca, e il successivo rientro in patria con moglie e figli. Ha rinunciato a impugnare in Cassazione l’ordinanza di rigetto della richiesta di ristoro, e non è tornato dalla Romania nemmeno per costituirsi parte civile al processo per calunnia aggravata contro la novantenne e un altro vicino, Pietro Preti, 72 anni, stando all’accusa l’amante della calunniatrice. Il dramma, poi virato in commedia, iniziò il primo ottobre 2016. La signora si recò dai carabinieri per raccontare che Petrisor nel cuore della notte si era intrufolato in casa sua, aveva afferrato un coltellaccio in cucina, si era diretto verso la sua camera, l’aveva sorpresa nel sonno e, puntandole la lama alla gola, l’aveva violentata. Reggio Calabria: donne vittime di violenza, il Comune di assegna due beni confiscati Corriere della Calabria, 15 luglio 2019 Il Comune di Reggio è il primo della Calabria che ha risposto all’appello che nel novembre scorso Mario Nasone e Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’osservatorio regionale sulla violenza di genere, avevano rivolto ai Comuni calabresi evidenziando come quello abitativo è un problema molto sentito dalle donne vittime di maltrattamenti, che spesso avvengono proprio in ambito domestico. Donne che sono costrette a lasciare la propria casa insieme ai figli ed a chiedere ospitalità e sostegno alle case rifugio ed alle altre strutture di accoglienza operanti in regione che spesso non hanno posti disponibili. “Nell’appello - si legge in una nota - i referenti dell’osservatorio citavano la legge regionale numero 20 del 2007 che espressamente prevede che i Comuni, al fine di garantire adeguata assistenza alloggiativa alle donne, unitamente ai loro figli minori, che vengono a trovarsi nella necessità, adeguatamente documentata dagli operatori dei Centri antiviolenza e/o dagli operatori comunali, di abbandonare il proprio ambiente hanno diritto all’assegnazione di un alloggio nelle disponibilità del patrimonio edilizio dell’ente Locale”. “Normativa - continua la nota - che in Calabria continua a non essere rispettata nonostante le numerose segnalazioni fatte da centri anti violenza e servizi sociali comunali di situazioni anche gravi in cui si ravvisano dei pericoli di vita per le donne ed i figli coinvolti. A questo appello una prima risposta l’ha data il Comune di Reggio grazie all’iniziativa della consigliera delegata ai beni confiscati Nancy Iachino ed al Dirigente Daniele Piccione che sono riusciti a definire l’iter che ha portato all’assegnazione di due appartamenti confiscati alla mafia a due donne vittime di violenza con figli minori. Un primo segnale concreto di assunzione di responsabilità da parte di un Comune calabrese che l’osservatorio auspica che sia da esempio per altri Enti Locali”. “Per questo sarebbe cosa utile - scrivono Nasone e Cusumano - che l’Anci Calabria sottoscrivesse il protocollo che l’osservatorio aveva proposto da tempo proprio per favorire l’applicazione della legge 20 del 2007, parimenti sarebbe importante che il consiglio regionale approvasse il progetto di legge 285 fermo in terza commissione che preveda tutta una serie d’interventi importanti anche di tipo economico e lavorativo per le donne che vivono con i loro figli questa condizione di precarietà e di sofferenza e che chiedono concreta protezione e accompagnamento. Purtroppo il bisogno di soluzioni abitative per queste donne cresce ogni giorno, grazie anche al lavoro delle forze dell’ordine - come quello della Questura di Reggio che con il programma Liana sta portando molte donne a denunciare - aumentando però le richieste di accoglienza che non sempre la rete dei centri di accoglienza riesce a soddisfare. I beni confiscati che i vari comuni stanno acquisendo, compresa la Città metropolitana di Reggio Calabria, potrebbero essere destinati anche a progetti di semi autonomia, già sperimentati in altre regioni, per tutte quelle donne accolte nella case rifugio o seguite dai centri anti violenza che dopo il periodo di emergenza potrebbero, sapendo di potere usufruire di un alloggio e del sostegno di associazioni di volontariato e di cooperative sociali, iniziare un percorso di inserimento lavorativo e sociale. Una scelta di politica sociale che permetterebbe tra l’altro di liberare posti di accoglienza nelle strutture spesso sature e soprattutto di alleviare i costi psicologi e sociali che le donne che fanno queste scelte dolorose devono affrontare”. Cosenza: “Amore sbarrato”, spettacolo con i detenuti al Rendano Redemption Day quicosenza.it, 15 luglio 2019 Venerdì 19 luglio al Teatro Rendano, per il Festival delle Invasioni, lo spettacolo “Redemption Day” di Adolfo Adamo, terzo capitolo del progetto “Amore sbarrato”. “È possibile pensare ad una vita rinnovata? Ebbene sì! Perché tutti commettiamo errori. È quello che accade in “Redemption day”, atto unico liberamente ispirato al Moby Dick di Herman Melville. Sconfiggendo la “balena bianca” che altro non è che la paura dell’ignoto, il perdersi nel bianco, in quel colore non colore, gli attori/personaggi si riappropriano del significato di una parola faro, per tutti indistintamente: autostima, consapevolezza per reinserirsi ed essere pronti ad una vita nuova”. È racchiuso in queste brevi note di regia, dell’attore e regista cosentino Adolfo Adamo, il senso dello spettacolo “Redemption Day” che andrà in scena venerdì 19 luglio, alle ore 18,00, al Teatro “Rendano” (ingresso gratuito), nell’ambito del Festival delle Invasioni, a conclusione del laboratorio teatrale che per il terzo anno Adamo ha diretto alla Casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza. Un laboratorio cui hanno partecipato quest’anno 8 detenuti che il 19 luglio saliranno sul palcoscenico del “Rendano” e che saranno protagonisti del terzo capitolo di “Amore sbarrato - Il Ritorno”, questo il titolo del progetto giunto in dirittura d’arrivo grazie alla rinnovata sinergia e collaborazione tra il Comune di Cosenza e Casa circondariale “Sergio Cosmai” diretta dalla dottoressa Maria Luisa Mendicino. La finalità del progetto ed ora dello spettacolo è nota: abbattere lo stato di invisibilità dei detenuti, accorciando le distanze tra il mondo esterno e l’universo carcerario e favorendo quei percorsi rieducativi e riabilitativi che devono riguardare le persone private della libertà personale. “Questa terza fase del meritorio lavoro di Adolfo Adamo - sottolinea l’Assessore alla comunicazione Rosaria Succurro che ha seguito il progetto sin dalla sua prima edizione- è ancora una volta particolarmente delicata e dimostra una notevole sensibilità che ci rafforza nella nostra convinzione di attribuire al teatro quella funzione sociale che aiuta i detenuti a compiere quel percorso rieducativo previsto dal sistema penitenziario durante il periodo in cui sono privati della libertà personale”. L’intuizione di Adolfo Adamo che ora si sostanzia nel nuovo capitolo di “Amore sbarrato” è stata non solo felice, ma ha prodotto importanti risultati. Non era una novità in senso assoluto che alcuni detenuti recitassero, all’interno del perimetro della casa circondariale di Cosenza, ma che lo facessero andando oltre le sbarre e rappresentando degli spettacoli fuori dal carcere, peraltro nel teatro più importante della città, questa sì che è stata una assoluta novità. “Il teatro - dice ancora Adolfo Adamo - è solo un pretesto per andare a vedere cosa accade dentro e oltre quelle mura. Per me era interessante conoscere le loro vite e le loro ombre, ma in maniera discreta e non invadente. E, insieme, capire il senso della libertà e la conquista della parole. Credo molto nel teatro dal punto di vista catartico”. E sarà così anche con questa rilettura del “Moby Dick” di Herman Melville. Venezia: “Prometeo Incatenato” alla Casa di Reclusione Femminile della Giudecca balamosteatro.org, 15 luglio 2019 Martedì 16 Luglio alle ore 22.00 (prova aperta), Giovedì 18 Luglio e Venerdì 19 Luglio 2019, alle ore 21.00, si conclude il laboratorio teatrale del Centro Teatro Universitario di Ferrara “L’arte del teatro e dell’attore”, diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro con la presentazione, presso la sala del Centro in via Savonarola 19, dello spettacolo “Prometeo Incatenato” (ingresso gratuito previa prenotazione, 328 81 20 452). Lo spettacolo sarà replicato Lunedì 22 Luglio 2019 alle ore 16.00 (ingresso riservato), presso la Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, nell’ambito del progetto teatrale Passi Sospesi di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia che ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura teatrale dentro e fuori gli Istituti Penitenziari di Venezia. La complessità della tragedia di Èschilo ha a che fare anche con i suoi molteplici significati che, come un gioco ad incastro, rimandano l’uno all’altro. Del resto i miti hanno ancora un senso proprio nel loro rappresentare interrogativi, temi e sentimenti universali. Prometeo è colui che ha sfidato Zeus e che può rappresentare la ribellione politica irriducibile, coerente o cieca fino in fondo, a seconda delle letture. Ma Prometeo è anche colui che non mette in discussione l’ordine precostituito ma rivendica il diritto al pensiero critico e libero. È un possibile Cristo dell’antichità che non vuole per se ruoli e potere ma è mosso dall’amore gratuito verso gli uomini a cui dona il fuoco che, nella mitologia greca rappresenta il potere della conoscenza. È ancora colui che contribuisce alle origini della civiltà e del progresso, che rimanda alla contesa eterna tra tradizione e progresso. È l’archetipo della inestinguibile lotta e conseguente decisione tra piegare la testa, subire, tacere, diventare massa informe, o combattere, rivendicare il diritto ad avere una voce, manifestare il proprio dissenso. È una riflessione continua su cosa sia la responsabilità etica e sull’assumersi le conseguenze delle proprie azioni. Prometeo è soprattutto il dramma del dolore e della solitudine ma insieme della partecipazione corale che non ha il potere di abolire il dolore ma di elevarlo. Prometeo incatenato è stata definita tragedia immobile e in effetti è la stessa immobilità fisica a cui è ridotto il protagonista a imprimere una quasi totale assenza di movimento e azioni. Nel presente studio si è scelto di rimanere aderenti alla sua versione originale perché i temi di cui tratta sono profondamente attuali di per sé. Attraverso un processo dall’interno verso l’esterno, si è lavorato per trovare voci, gesti, composizioni a partire dalla respirazione - l’impegno e la fatica di una respirazione a cui non siamo avvezzi -, alla ricerca di una coralità che alluda all’essenza stessa del teatro, che è respiro collettivo. La scena si svolge nella desolata e montuosa regione della Scizia. Qui Efesto assistito da Cratos (Potere) e Bia (Violenza), per ordine di Zeus incatena a una rupe Prometeo, colpevole di aver rubato il fuoco per darlo agli uomini e le conoscenze tecniche utili per il loro progresso. Ad assistere Prometeo, che lamenta l’ingiustizia divina e la gravità della sua pena, accorrono dagli abissi del mare, prima le oceanine (che formano il coro), poi Oceano, che si offre, ma inutilmente, per la difficile opera di pacificazione. Ma Prometeo non è la sola vittima del sovrano dell’Olimpo, lo è anche Io, fanciulla sedotta da Zeus e trasformata per gelosia da Era in una giovenca condannata a interminabili peregrinazioni e tormentata dai continui morsi di un tafano. Prometeo la conforta, rivelandole che un suo discendente, noto a lui solo, lo avrebbe liberato, privando Zeus del suo potere. Zeus, udita la conversazione con Io, invia Ermes per estorcere il segreto a Prometeo, ma egli non cede e per questo viene scagliato, insieme alla rupe a cui è incatenato, in un burrone senza fondo. Palermo: la migrazione tra i temi premiati al Festival internazionale dei documentari La Repubblica, 15 luglio 2019 Un film ambientato nell’isola australiana di Christmas vince a Palermo la rassegna organizzata dall’associazione “Sole Luna - un ponte tra le culture”. Si è chiusa a Palermo la rassegna internazionale di cinema documentario organizzata dall’associazione “Sole Luna - un ponte tra le culture” che per sette giorni ha trasformato il Complesso di Santa Maria dello Spasimo di Palermo in un’isola del Cinema del reale con 68 proiezioni di cui 20 anteprime e 24 film in concorso. “La cifra stilistica dei film premiati quest’anno - dicono gli organizzatori - è la poesia con cui vengono raccontati temi attuali come la migrazione, la vecchiaia, la disabilità, il rapporto uomo-natura”. Il premio della giuria internazionale come miglior film documentario in concorso offerto dalla Fondazione Sicilia, è andato ad Island of the hungry Ghosts. Un film ambientato nell’isola australiana di Christmas, in mezzo all’oceano Indiano, che racconta la migrazione parallela di una specie protetta di granchi assistiti da un gruppo di ambientalisti durante il loro cammino e dei tanti rifugiati politici che qui vengono relegati in una struttura di alta sicurezza senza nessuna possibilità di integrazione reale. Il tema dell’accoglienza a cui tutto l’Occidente è chiamato e “l’alto livello artistico di tutti gli elementi cinematografici” del racconto della regista Gabrielle Brady, hanno conquistato la giuria composta da dal regista romano Giorgio Treves, dalla documentarista sudafricana Aliki Saragas (vincitrice della scorsa edizione del Festival), dall’attore palestinese Mohamad Bakri, dalla regista Costanza Quatriglio (dal 2019 direttore artistico e coordinatore didattico del CSC di Palermo), e dalla scrittrice e critica Tiziana Lo Porto. “Un film - si legge nella motivazione - che evidenzia attraverso la crisi di un’assistente sociale, l’ipocrisia di una società che ecologicamente protegge con grande impegno la stagionale migrazione di milioni di granchi e contemporaneamente segrega esseri umani disperati e privi di permesso di soggiorno”. Il film si aggiudica anche il premio del pubblico. Il premio al miglior cortometraggio della sezione Short docs, offerto dal Museo Internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino, è stato assegnato a Born in Gambia di Natxo Leuza Fernandez. Un film che racconta della difficoltà di crescere in Gambia dove credenze, malattie e superstizioni condizionano l’esistenza di bambini e donne. Questa la motivazione: “In modo semplice racconta in profondità il luogo e la gente. Cinematograficamente e artisticamente è molto ben realizzato, mettendo insieme voci e suoni con immagini e musica”. Il film si è aggiudicato altri due premi, quello della Giuria Nuovi Italiani come “miglior corto” perché “fa riflettere sulla responsabilità sociale, sulla violazione dei diritti umani che questi bambini subiscono ogni giorno, e sulle difficoltà che essi affrontano per sopravvivere e conquistare la loro dignità”, e il premio Sole Luna-un ponte tra le culture “… per il messaggio profondo che il piccolo Hassan ci trasmette con la sua storia: una storia di sofferenza in un paese dove credenze tradizionali condizionano l’esistenza. Hassan rappresenta la voce di un futuro diverso possibile”. Il premio Soundrivemotion al miglior sound design e colonna sonora ideato da Giovanni Schievano (autore anche della musica del trailer della 14 edizione del festival) è andato invece a Dark waters di Stéphanie Regnier. La motivazione: “Le voci della natura dialogano con le immagini restituendo un’idea di cinema capace di varcare la soglia del visibile ed esplorare, così, il mistero del mondo”. Il premio della giuria degli Studenti liceali è stato attribuito a Stronger than a bullet di Maryam Ebrahimi come miglior documentario della sezione “Diritti umani” “per aver mostrato che è possibile affrontare il passato scomodo di un singolo e di un popolo intero utilizzando uno sguardo critico, lucido, mai autoindulgente, mettendo a nudo l’atroce incubo della guerra e la sua pesante eredità sulle vite presenti….”. Come miglior documentario sezione “Il viaggio” la giuria degli studenti ha scelto invece Beloved di Yasser Talebi. “Attraverso la superba fotografia - si legge nella motivazione - l’opera riesce a immortalare i differenti paesaggi e le diverse tonalità di luce che esaltano la bellezza del nostro pianeta e sa cogliere la profonda umanità che emerge dal volto della protagonista”. Infine, le menzioni speciali: Miglior Montaggio a Stronger than a bullet di Maryam Ebrahimi; Migliore fotografia al film Beloved di Yasser Talebi; Miglior regia a Congo Lucha di Marlene Rabaud; menzione al miglior cortometraggio a Light, shade, life di Shahriar Pourseyedian. Non si fanno guerre sulla fine della vita di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 15 luglio 2019 La tragica sorte di Vincent Lambert ha dimostrato quanto sia insopportabile il fracasso delle tifoserie contrapposte su un tema tanto delicato. La tragica sorte di Vincent Lambert, il tetraplegico francese cui una sentenza del tribunale, appoggiata dalla moglie ma disperatamente contestata dai genitori, ha negato la somministrazione di acqua e cibo ha dimostrato quanto sia insopportabile il fracasso delle tifoserie contrapposte su un tema tanto delicato, forse il più delicato di tutti, della fine di una vita. Tutto questo affaccendarsi impudico di giudici e avvocati, di governi che si intromettono, di scartoffie, protocolli, annunci mediatici, ricorsi e controricorsi, controversie legali, commi e codicilli, liti televisive, risse politiche, scomuniche e minacce, questa invasione sfrontata nel chiaroscuro della malattia, negli anfratti più nascosti della sofferenza e del dolore, nell’universo fragile della finitezza umana in cui dovrebbero piuttosto comandare le indicazioni della pietas e non le ingiunzioni di un verbale di polizia, tutto questo sta a testimoniare i rischi di una deriva inumana, o disumana, della pretesa che sia l’applicazione rigida di una legge a determinare tempi e modalità della nostra uscita dalla vita: insomma del nostro morire. Che poi, certo, una legge ci vuole. Ma mai affidarsi all’onnipotenza della legge quando in gioco è un respiro, o il battito di un cuore. Tutti noi conosciamo, nella famiglia o tra gli affetti più cari, l’angoscia di un momento in cui occorre una decisione fatale. Ma sappiamo anche che l’emotività intensa e dolorosa di quel momento non ha mai la nettezza formale di una carta bollata. Conosciamo quella “zona grigia” in cui, anche senza nessuna formalizzazione giuridica, l’incrociarsi di uno sguardo con i medici nella corsia di un ospedale, uno scambio di parole avvolte nel pudore e nella complice ma affettuosa reticenza, una dichiarazione sommessa di impotenza da parte della scienza ci dice che quel momento è arrivato, e che è inutile e spietato andare oltre i limiti dell’umana sofferenza. Ci vuole una legge, certo. E benvenuto sia il cosiddetto “testamento biologico”. Ma fare una guerra sul corpo di un moribondo, di un essere umano ridotto nella condizione più estrema di vulnerabilità, vuol dire fare della legge un feticcio, e della giuridicizzazione di tutti i rapporti umani una prospettiva da incubo. E fare attorno alla vita un tifo da stadio non va bene, non è un mondo possibile. Mai. Il dossier italiano sui migranti di Veronica Forcella Il Messaggero, 15 luglio 2019 Intervista al Commissario europeo Dimitris Avramopoulos. “Dubbi su richieste d’asilo fatte fuori dalla propria nazione”. “Rimpatri per chi non ha diritto di venire in Europa. Intanto gli arrivi sono crollati”. Richiedere asilo da parte di un migrante non nel suo Paese d’origine ma mentre si trova in un paese terzo solleva molte questioni legali”. Il Commissario europeo per i migranti, Dimitris Avramopoulos, è perplesso sulle proposte del ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero. “Il reinsediamento è l’unica alternativa praticabile”, sottolinea. Per quanto riguarda poi arrivi irregolari e rimpatri, il Commissario non ha dubbi: “Bisogna rafforzare la cooperazione con i paesi terzi”. Commissario, ieri in un’intervista al Corriere il Ministro degli Esteri, Enzo Moavero, ha anticipato una proposta per gestire più compiutamente a livello europeo la questione dei migranti. La trova d’accordo? “Dobbiamo assolutamente investire di più tutti insieme nell’aprire vie legali e sicure affinché i rifugiati giungano in modo ordinato e non debbano ricorrere a trafficanti senza scrupoli e a viaggi pericolosi. Richiedere asilo al di fuori dell’Ue in un paese terzo, solleva molte questioni legali. Il reinse diamento è l’unica alternativa praticabile, con la collaborazione dell’UNHCR”. Sulla questione degli arrivi irregolari e dei rimpatri, invece? “Rafforzare la nostra cooperazione con i paesi terzi è essenziale se vogliamo ridurre gli arrivi irregolari e garantire rimpatri effettivi per coloro che non hanno il diritto di rimanere. Dobbiamo continuare sulla strada che abbiamo già intrapreso, gli arrivi irregolari sono già stati drasticamente ridotti. Chi non ha il diritto di venire o restare deve essere rimpatriato il prima possibile. Chi ha bisogno di protezione può continuare a contare sull’Ue come rifugio, perché questo è un principio a cui non possiamo rinunciare. Su tutte queste questioni il ruolo dell’Italia è della massima importanza”. Nel frattempo però, tra la Sea Watch 3, la Alan Kurdi e gli “sbarchi fantasma”, anche questa estate in Italia sembra tornare l’emergenza migranti... “La situazione non è neanche lontanamente paragonabile a quella di pochi anni fa. Ovviamente, c’è ancora bisogno di un attento monitoraggio e interventi continui. Devo ammettere che sono cautamente ottimista”. Grazie a cosa? “Gli arrivi irregolari sono diminuiti drasticamente. Dall’inizio di quest’anno, solo 3.200 immigrati irregolari sono arrivati in Italia, 1’83% in meno rispetto a un anno fa. E quelli che non vengono rilevati in mare sono molto limitati. Inoltre, mentre la scorsa estate o a gennaio di quest’anno ci sono volute diverse settimane per concordare la redistribuire dei migranti salvati, nelle ultime settimane le stesse situazioni sono state risolte in pochi giorni”. Rimane però aperta la questione della solidarietà tra i diversi Stati... “Anche qui sono fiducioso perché sento voci sempre più esplicite di alcuni Stati membri che vogliono progredire verso l’istituzione di un accordo più strutturale su come redistribuire i migranti soccorsi dopo lo sbarco”. Dopo le minacce dei mesi scorsi, al-Sarraj ha ordinato di liberare 350 profughi rinchiusi nei centri di detenzione libici. Teme ci possa essere un esodo verso le coste italiane? “Vediamo positivamente la liberazione dei migranti nei centri di detenzione in Libia, poiché le loro condizioni non erano accettabili. Ma questo non significa che verranno tutti in Europa. Dipende se hanno bisogno di protezione o se possono essere aiutati a tornare volontariamente nei loro paesi d’origine”. Non sarebbe il caso di organizzare dei corridoi umanitari? “È quello che stiamo già facendo. E chiaro che l’attuale situazione in Libia non è sicura per i migranti. Con l’IOM abbiamo già aiutato oltre 40.000 persone a lasciare la Libia e ritornare volontariamente nei paesi d’origine. Allo stesso tempo, con 1’UNHCR e alcuni Stati membri, abbiamo anche sostenuto l’evacuazione dalla Libia al Niger o direttamente in Europa di quasi 4.000 migranti bisognosi di protezione internazionale”. Il Ministro dell’Interno Matteo Salvini vuole introdurre norme più stringenti per colpire le Ong. È d’accordo? “Non è competenza della Commissione decidere dove far sbarcare le persone soccorse in mare. È una decisione che spetta alle autorità nazionali, in linea con il diritto internazionale del mare. Le imbarcazioni delle Ong, come qualsiasi altra imbarcazione, devono rispettare le regole nazionali e internazionali. Allo stesso tempo, non possiamo ignorare l’importante lavoro svolto da molte di queste navi nel salvare vite umane”. Crede ci sia un legame tra la sua fine dell’operazione Sophia e l’aumento delle operazioni delle Ong? “Sia chiaro, non è stata una mia decisione o della Commissione quella di limitare l’operazione Sophia, ma degli Stati membri. Per questo crediamo che debba continuare nel suo pieno mandato. Non penso ci sia una relazione: le imbarcazioni delle Ong sono attive nel Mediterraneo da anni, lo erano anche quando l’operazione Sophia aveva un mandato pieno”. Il neopresidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha sottolineato la necessità di riformare il Regolamento di Dublino. Si capirà che i confini dell’Italia sono i confini dell’Europa? “Sono lieto che il nuovo Presidente del Parlamento europeo dia la priorità alla Riforma del sistema europeo comune di asilo, compreso il Regolamento di Dublino. Lasciare questa impresa incompiuta sarebbe dannoso per il futuro dell’Europa. Conto anche sulla Presidenza finlandese per contribuire a guidare le discussioni con gli Stati membri nei prossimi mesi. Adottare questa riforma è sempre stata la mia priorità”. La settimana scorsa si è votato in Grecia. Che cosa significa la vittoria di Kyriakos Mitsotakis, e la sconfitta di Tsipras nel suo paese? “La vittoria di Mitsotakis segna la sconfitta del populismo e manda un forte segnale anti populista in tutta Europa. È l’inizio di una nuova era di progresso, riabilitazione istituzionale e importanza geopolitica nel garantire la stabilità regionale per tutto il nostro vicinato. Ho piena fiducia nella leadership visionaria di Mitsotakis, nelle sue capacità di riforma e nella sua sincera determinazione e ambizione di raggiungere questi obiettivi in nome della Grecia e dei suoi cittadini, rimanendo fermamente impegnati e attaccati all’Europa e ai suoi valori. Sono con lui dall’inizio e continuerò a stargli vicino”. Rilascio ed evacuazione dei rifugiati e dei migranti detenuti in Libia, l’Ue collabori di Riccardo Noury* agoravox.it, 15 luglio 2019 Amnesty International, Human Rights Watch e il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli hanno chiesto ai ministri degli Esteri dell’Unione europea, che si riuniranno a Bruxelles il 15 luglio, di rivolgere alla Libia la ferma richiesta di chiudere i centri di detenzione per migranti e rifugiati e di assumere l’impegno, a nome dei loro governi, di facilitare l’evacuazione di queste persone verso luoghi sicuri, anche negli stati membri dell’Unione europea. Le già drammatiche condizioni dei migranti nei centri di detenzione sotto il controllo nominale del Governo di accordo nazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite sono ulteriormente peggiorate da quando, all’inizio di aprile, le forze del generale Khalifa Haftar hanno iniziato l’assalto alla capitale Tripoli. Dall’inizio di aprile, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) ha potuto evacuare solo 289 persone verso il Niger e 295 in Italia, l’unico stato dell’Unione europea che ha finora accettato di prendere richiedenti asilo direttamente dalla Libia. L’attacco della notte del 2 luglio contro il centro di detenzione di Tajoura, situato all’interno di un complesso militare a sudest di Tripoli, ha causato 53 morti e almeno 130 feriti, due dei quali erano rimasti già feriti il 7 maggio, quando alcuni missili caddero a soli 100 metri dal centro. Il 9 luglio l’Unhcr ha annunciato che le autorità libiche avevano consentito ai sopravvissuti di lasciare il centro. Tuttavia, a quanto pare, queste persone non hanno avuto assistenza adeguata né la possibilità di lasciare la Libia per cercare riparo altrove, se così avessero voluto. In altri centri situati a Tripoli o nei suoi dintorni, l’intensità dei combattimenti ha causato l’interruzione delle forniture di acqua e cibo, peggiorato le condizioni sanitarie e limitato l’accesso delle organizzazioni umanitarie e delle agenzie delle Nazioni Unite nei centri. All’inizio di luglio l’Unhcr ha trasferito 1630 detenuti dai centri situati sulla linea del fronte al suo centro di raccolta e partenza di Tripoli e ad altri centri situati in zone ritenute più sicure. Sempre l’Unhcr ritiene però che 3800 persone siano ancora detenute nei centri prossimi alle zone di conflitto, su un totale di migranti e rifugiati detenuti che al 21 giugno era stimato in 5800 persone. I governi dell’Unione europea non hanno mai condizionato il loro sostegno alle autorità libiche alla chiusura dei centri di detenzione e al rilascio delle migliaia di persone ivi illegalmente detenute. Nonostante le prove del contrario, hanno insistito sul fatto che l’assistenza umanitaria finanziata dall’Unione europea avrebbe migliorato le condizioni di detenzione e hanno continuato ad aiutare la Guardia costiera libica a riportare sulla terra ferma libica persone destinate a periodi infiniti di detenzione. Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, dall’inizio del 2019 al 6 luglio la Guardia costiera libica sostenuta dall’Unione europea ha intercettato in mare e riportato sulla terra ferma 3750 persone. Nello stesso periodo, 4068 persone sono approdate in Italia e Malta e 426 sono morte in mare. Di fronte a una stima complessiva di 667 persone morte nel Mediterraneo centrale nei primi sei mesi dell’anno, l’Unhcr ha calcolato che nel tentativo di raggiungere l’Europa sia morta una persona su sei, rispetto all’una su 18 dello stesso periodo del 2018. Nonostante vi sia un ampio consenso internazionale sul fatto che la Libia non può essere considerata un posto sicuro ove far tornare le persone, molti governi e istituzioni dell’Unione europea sostengono una politica che consente alle autorità libiche di pretendere di controllare una vasta area di ricerca e soccorso, allontana le forze europee dal Mediterraneo centrale e s’impegna o appoggia tacitamente i tentativi di ostacolare o criminalizzare le azioni delle organizzazioni non governative che hanno cercato di assumersi le responsabilità dei soccorsi in assenza di un’efficace risposta degli stati. È ora, secondo Amnesty International, Human Rights Watch e il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, di invertire la rotta. Le tre organizzazioni chiedono che tutte le persone detenute arbitrariamente nei centri sotto il controllo nominale del Governo di accordo nazionale siano rilasciate e quei centri siano chiusi. Considerati i rischi cui i cittadini stranieri vanno incontri in Libia, il Governo di accordo nazionale dovrà collaborare con le agenzie internazionali e l’Unione europea per fornire immediata assistenza umanitaria alle persone rilasciate e istituire corridoi umanitari. Gli stati membri dell’Unione europea dovranno assicurare che le persone evacuate dai centri di detenzione abbiano a disposizione percorsi legali e sicuri per uscire dalla Libia, anche impegnandosi a mettere a disposizione un maggior numero di posti per i ricollocamenti. *Amnesty International