Giustizia, nel piano Bonafede più sanzioni per giudici e Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 luglio 2019 Nella riforma della giustizia del Guardasigilli Alfonso Bonafede aumentano i casi di illecito disciplinare che possono colpire giudici e Pm. Nel mirino, il mancato rispetto dei tempi d’indagine e di esame dei fascicoli. Più responsabilità per i capi degli uffici. Nella bozza di riforma aumentano gli illeciti disciplinari. Colpiti il mancato rispetto dei termini nella durata dei processi e l’indecisione su esercizio dell’azione penale o archiviazione. Il pubblico ministero non deposita tempestivamente gli atti d’indagine? Rischia una sanzione disciplinare. Il pubblico ministero non esercita l’azione penale né chiede l’archiviazione? Rischia una sanzione disciplinare. Il giudice non adotta misure per chiudere i processi nei tempi previsti? Rischia una sanzione disciplinare. Il capo dell’ufficio non si attiva per segnalare le situazioni che possono comprometterne l’efficienza? Rischia una sanzione disciplinare. Un dato tecnico e un paradosso politico appaiono evidenti nella bozza di disegno di legge delega messa a punto dal ministero della Giustizia in vista della presentazione in Consiglio dei ministri. Il testo è certo assai composito, toccando molti punti (dal Csm al processo penale, dal processo civile alla geografia giudiziaria), e tuttavia salta all’occhio il florilegio di nuove fattispecie di illeciti disciplinari che lo costella. Tanto più sorprendente visto che arriva da un ministero la cui attuale guida più ha sostenuto di essere vicina alla magistratura e alle istanze di legalità. E allora vediamoli, alcuni di questi casi. Innanzitutto il nuovo illecito che andrà a colpire il magistrato che non adotta misure efficaci per permettere la definizione deì processi civili a lui assegnati entro quattro anni nel giudizio di primo grado, tre anni in appello, e due anni in Cassazione. Termini che, si chiarisce, si dovranno applicare solo ai fascicoli di cui il magistrato è stato il primo assegnatario e che sono ancora pendenti a suo carico allo scadere del termine, visto che non si potrà attribuire responsabilità per un arretrato solo ereditato. In questo caso, comunque, toccherà anche al capo dell’ufficio giudiziario di appartenenza del magistrato segnalarne la condotta al titolare dell’azione disciplinare; in caso contrario, l’omessa segnalazione rappresenterà a sua volta illecito a carico del capo dell’ufficio. Il disegno di legge, per una maggiore responsabilizzazione dei capi degli uffici, attribuisce rilevanza disciplinare anche all’insufficienza delle iniziative che il dirigente ha assunto a fronte di situazioni di criticità e di illeciti disciplinari da parte di magistrati della sezione o dell’ufficio. “In sostanza - si legge -, il “buon” dirigente, al quale spetta innanzitutto organizzare in modo efficiente l’ufficio, non può limitarsi a segnalare le criticità nella gestione del lavoro da parte dei magistrati che a quell’ufficio sono addetti, ma deve dimostrare di aver adottato ogni iniziativa utile al superamento delle predette criticità”. Per esempio, di fronte a gravi e ripetuti ritardi da parte di un magistrato dell’ufficio, non sarà ritenuto sufficiente richiamarlo al rispetto dei termini e segnalarne l’incapacità organizzativa, ma occorrerà assumere tutte le iniziative per rimuovere la situazione di difficoltà venutasi a creare (mediante redistribuzione dei ruoli o mediante adozione di mirati e fattibili piani di smaltimento, periodicamente verificati). Quanto ai pubblici ministeri, il faro è puntato sulla fase delle indagini preliminari, dove si è voluto compensare l’aumento da sei a 12 mesi nell’ipotesi base e da 12 a 18 per i reati più gravi (con una sola proroga possibile però), con un meccanismo che in caso di mancato avviso di chiusura indagini o di richiesta di archiviazione, vincola il pm alla discovery degli atti d’indagine. Misura assistita dalla previsione di un nuovo illecito disciplinare nel caso di mancato rispetto. E sempre agganciata a un possibile illecito disciplinare è poi l’inerzia del pm che non esercita l’azione penale, dopo l’avviso di deposito, e neppure chiede di archiviare entro 30 giorni dalla richiesta avanzata dall’indagato. A parziale bilanciamento c’è poi l’introduzione di un istituto inedito come la riabilitazione, della quale potrà beneficiare il magistrato colpito da ammonimento o censura. Riabilitazione possibile, in caso di ammonimento, dopo avere ottenuto la prima valutazione positiva di professionalità dopo la sanzione e dopo la seconda valutazione in caso di censura. “La riforma della giustizia è incompleta, il problema dei tempi non si risolve così” di Valentina Errante Il Messaggero, 14 luglio 2019 Intervista al presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli. Dal processo civile a quello penale, fino ai nuovi criteri per le nomine e alla rivoluzione per l’elezione dei componenti del Csm. Secondo Cesare Mirabelli, la riforma della Giustizia pensata da via Arenula è nel complesso positiva: “Un seme che dovrebbe germogliare”, dice. Ma Mirabelli paventa un rischio: “Mi pare che sia una sommatoria di più provvedimenti, sarebbe stato più semplice approvare più disegni di legge per ciascuno degli argomenti: civile, penale, magistratura e Csm. Non vorrei - dice - che la complessità delle materie, così aggregate, anziché accelerare, rallenti il percorso parlamentare”. Una riforma per settori sarebbe stata più proficua? “Probabilmente la scelta di unificarli ha l’obiettivo di avere un grande. Non è un giudizio negativo sui singoli aspetti, ma il problema è che la resistenza su una delle questioni possa fermare l’intero treno”. Partiamo dal processo civile “Di fatto si punta ad accelerare. Si interviene sulla parte preprocessuale, si prevedono un’udienza di prima comparizione rinforzata e tempi più stretti anche per la decisione, dopo la discussione deve essere subito letto il dispositivo della sentenza. E si prevedono 30 giorni per le motivazioni che non arrivino con la decisione. Dovrebbe funzionare”. Pensa sia attuabile? “In realtà la lentezza ha spesso a che vedere con problemi organizzativi non processuali, si deve potenziare l’impianto organizzativo. Altrimenti la misura rimane optativa. C’è un’illusione costante: che si possa affrontare il problema dei tempi con nuove regole processuali anziché organizzative. Trovo invece molto positivo l’intervento sulle esecuzioni immobiliari, chi vanta un credito avrà più chance, la vendita immediata è un passaggio importante, riguarda innanzi tutto le banche e le grandi società, ma può portare elementi di accelerazione per l’economia. L’intenzione è buona. Gli strumenti possono essere anche positivi, ma se non c’è un apparato che funzioni e lavori a pieno regime, i meccanismi si inceppano”. E il processo penale? “Si restringeranno i tempi delle indagini e, soprattutto, non si andrà in giudizio se gli elementi raccolti nell’istruttoria non siano sufficienti per una condanna. Si eviteranno processi inutili. Anche i criteri di priorità definiti per l’iscrizione dei fascicoli, a fronte del gran numero di prescrizioni, sono un elemento positivo. Di fatto gli uffici non possono già adempiere all’obbligatorietà dell’azione penale, ma stabilire le regole diventa una forma di depenalizzazione. È un seme che deve germogliare. Poi trovo importante la norma che prevede l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione nel caso di reati puniti con pena pecuniaria. Del resto se c’è giù stata un’assoluzione, un’eventuale condanna non può essere contro ogni ragionevole dubbio”. Passiamo alla magistratura e agli incarichi. Che ne pensa? “Le misure sulle nomine tendono a rendere più chiare le modalità con le quali il Csm dovrà procedere. Le nomine dovranno rispettare l’ordine cronologico delle vacanze, non ci saranno più i pacchetti che aggregavano le scelte su diversi uffici per comporre le esigenze dei candidati. Poi vengono sanciti criteri rigidi sulla scelta e avere stabilito che la mancata anzianità sia preclusiva per alcuni ruoli mi sembra fondamentale. È una norma che elimina eccessi di discrezionalità”. Per qualcuno la riforma è una mancata occasione per procedere alla separazione delle carriere, cosa ne pensa? “Credo che se la separazione non sia pensata come una distinzione netta tra il ruolo inquirente e quello giudicante sia rischiosa. Potrebbe creare uno spirito di corpo ancora maggiore. Un principio che non può essere messo in discussione riguarda il pm, che mai deve dipendere dall’esecutivo. Sarebbe una perdita di garanzie per i cittadini. Trovo positivo l’intervento sulle toghe in politica che non potranno tornare in ruolo”. E il sorteggio per il Csm, che ne pensa? “La definizione dei 20 collegi al posto di un collegio unico è un elemento positivo. In questo modo dovrebbero ottenere i voti i magistrati più stimati dai colleghi e non quelli voluti dalle correnti. Anche se si pone un problema sulla rappresentatività e il rischio che le correnti concentrino i voti su alcuni si pone ugualmente. Ho dei dubbi sull’aumento dei componenti, in un momento in cui si taglia su tutto. Non ne vedo la necessità”. Basta con i giudici “garanti della legalità” che fanno politica di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 14 luglio 2019 L’elezione del Csm per sorteggio è un errore miope che ne mina l’indipendenza. È da tempo in voga un luogo comune secondo il quale il magistrato sarebbe il “garante della legalità”, che io considero molto pericoloso e che è la causa principale della deformazione della funzione della giustizia, del suo rapporto anomalo con l’opinione pubblica, e spiego perché. La sovraesposizione dei pubblici ministeri prima ancora che dei giudici e il ruolo politico che entrambi hanno assunto negli ultimi anni, hanno modificato la funzione istituzionale “terza” propria della giustizia per farle assumere quella di “garante della questione morale” e riferimento unico della legalità. I giudici, o meglio i magistrati, hanno una funzione completamente diversa: debbono reprimere l’illegalità sanzionando il fatto criminoso e risarcendo in tal modo la comunità dello strappo che il reato ha determinato nel tessuto sociale. La funzione nobile e di garanzia sociale è questa ed è prerogativa in particolare del giudice, non del pubblico ministero che ha il solo compito dell’accusa come “parte” del processo. Da molti anni tutto questo è stato dimenticato e sia il pubblico ministero che il giudice nella grande confusione dei ruoli hanno teorizzato una funzione della giustizia come una “lotta” alla devianza per “garantire la legalità” e la lotta è sempre “politica”. La conseguenza è che si è determinata una funzione etica del magistrato che “lotta” per far vincere (p. m. e giudice insieme) il bene sul male. Niente di più pericoloso di un giudice etico come hanno ritenuto di essere in questi anni i vari Caselli, Di Pietro, Davigo e altri. E dunque sembrerà strano ma per comprendere lo scandalo delle intercettazioni che in queste ore assale la magistratura bisogna risalire a questa anomala funzione. Quindi le sciagure odierne non sono occasionali, ma partono da lontano, dalla sfrenata autonomia a svantaggio della indipendenza che la magistratura ha maturato in questi anni. Alla fine degli anni 60 fu approvata una legge che aboliva la “valutazione” nel passaggio del magistrato dal tribunale alla Corte d’Appello; e poi negli anni 70 i magistrati pretesero il passaggio automatico dalla Corte d’Appello alla Cassazione. In quegli anni per la prima volta in Parlamento insieme a Francesco Cossiga facemmo dura opposizione insieme ad un repubblicano storico, Oronzo Reale, ma la DC si piegò e approvò ed io fui messo all’indice. A seguito di quella legge tutti diventarono e diventano magistrati di Cassazione indistintamente; e questo per la pretesa incredibile di non intaccare la “indipendenza” dei magistrati neanche con i concorsi!!? La conseguenza di questo e di tante altre “prerogative”, come ho spiegato in vari libri e articoli, è che la magistratura da “ordine autonomo”, come vuole la Costituzione, è diventato “potere” e il potere ha sempre un valore politico. Il magistrato, dopo questi anni di scorribande istituzionali, deve rientrare in sè e riaffermare il suo ruolo che non è etico: garantire la legalità è compito dei maestri, dei professori, della classe dirigente tutta a cui deve stare a cuore la questione morale tanto invocata che è un valore preventivo: fa parte dell’educazione civica del cittadino: la sanzione è la condanna e la sanzione per la questione morale disattesa. Il CSM per questa ragione non riesce ad essere un organo di “garanzia” che tutela l’indipendenza, ma un organo che tutela solo l’ “autonomia” come separatezza, fuori da ogni responsabilità e da ogni controllo come oggi possiamo agevolmente constatare. La assoluta “autonomia”intacca l’indipendenza che dunque è insidiata non dal potere politico ma della stessa magistratura. Come tutti sanno questo “potere” è esercitato da sempre dai magistrati ma siccome si tratta di un “potere anomalo”le trattative correntizie fanno scandalo e giustamente. Le pratiche di lottizzazione che da anni si portano avanti in maniera spregiudicata, non sono ammesse per scelte che dovrebbero essere fatte non attraverso trattative di lottizzazione per garantire appunto la imparzialità di chi deve dirigere un ufficio giudiziario. Per superare questo scandalo che squalifica l’istituzione c’è bisogno di una presa di coscienza della stessa magistratura, la quale deve accettare le riforme che da anni indichiamo e che ha sempre ostacolato: è l’unico modo per rimediare, perché il governo in carica non ha la cultura per comprendere e scegliere le riforme necessarie; sa solo inasprire le pene per imporre una sorta di castigo eterno! che qualunque giurista sa non avere alcun valore. In particolare, dunque, per superare questa prova durissima che inevitabilmente la segnerà per sempre, la magistratura dovrebbe accettare alcune riforme e per prima la riforma del pm il cui ruolo deve essere diverso da quello del giudice per dare valore al processo penale che negli anni 90 abbiamo voluto accusatorio: bisognava superare quello “inquisitorio” che sembrava meno democratico e meno garantista. La stessa magistratura deve riconoscere, soprattutto dopo i racconti che la stampa ci ha offerto, che è urgente modificare il rapporto tra laici e togati del CSM per determinare una parità in modo da attribuire un ruolo più incisivo agli stessi laici all’interno del consiglio; stabilire che anche il pubblico ministero come il giudice non possa permanere nella stessa sede più di cinque anni per evitare che si determinino aderenze e solidarietà negative. Per rispondere alle preoccupazioni del Capo dello Stato bisognerà modificare rapidamente il sistema elettorale per la nomina dei componenti sul supremo organo per rendere possibile una scelta personale per i suoi componenti i quale debbono avere qualità professionali ma anche capacità di gestione del ruolo non solo giuridico e che deve esercitare. Il sistema elettorale proporzionale ha esaltato le correnti e le ha potenziate come “partito”, facendo perdere quel contenuto culturale che negli anni 80 pur hanno avuto per individuare il nuovo ruolo del giudice in una società diversa e complessa. Questo era l’approfondimento che la magistratura nel suo complesso avrebbe dovuto operare per individuare una funzione nuova che nel 1946- 48 i Costituenti non potevano anticipare. Un giurista come Mastursi, mai dimenticato negli anni 70, individuava il giudice non più “bocca della legge”, e non più “sottoposto alla legge”, ma un giudice “di fronte alla legge”. Bisogna ancora sviluppare quella provocazione che aveva contenuto culturale e avveniristico ma la magistratura in tutti questi anni si è chiusa in se stessa, ha contemplato il suo nuovo potere e ha fatto prevalente il “carattere”politico, ha inquinato il suo ruolo e le sue stesse prerogative. Sul CSM si sono scaricate tutte le tensioni, le lottizzazioni le ansie di potere, e di conseguenza il riferimento per garantire le correnti attraverso i responsabili dell’azione penale che appunto sono la prima espressione del potere. Pensare di ridare prestigio alla giustizia attraverso modifiche dei criteri di elezione per il CSM attraverso il sorteggio come da più parti viene suggerito è miope e puerile: assale a questo punto un avvilimento perché vuol dire che non è chiaro il significato che la Costituzione dà a questo istituto che in questo caso sarebbe davvero declassato e mortificato. Il procuratore Spataro intervenendo sull’argomento ha messo in evidenza la discrezionalità delle scelte del CSM che dovranno essere ancora più discrezionali e non declassate ma con criteri trasparenti e condivisi. Il CSM deve essere soprattutto indipendente: perché l’autonomia è da acien regime! C’è bisogno di uno scatto di orgoglio per riscoprire il prestigio del ruolo che in una democrazia il potere giudiziario ha e non farsi assalire da complessi di colpa che finiscono per aggravare la situazione. Torino: Cpr di corso Brunelleschi, il Garante dei detenuti avverte “degrado elevato” torinoggi.it, 14 luglio 2019 “Le persone vivono in condizioni offensive”. Stanzoni da sette persone, bagni non divisi dall’ambiente utilizzato per dormire e pasti consumati per terra: Garante Nazionale per i diritti dei detenuti. Un volantino dà appuntamento alle 19.30 per una protesta. Il decesso di Hossain Faisal, cittadino bengalese morto a causa di un infarto presso il Cpr di corso Brunelleschi, ha portato agli onori della cronaca una questione da sempre spinosa e delicata: le condizioni di vita nei Centri per il Rimpatrio. Più volte, in questi anni, diverse organizzazioni umanitarie hanno infatti denunciato le pecche di un sistema che non sempre riesce a garantire i fondamentali diritti delle persone che vivono all’interno di un Cpr. In tal senso, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha stilato un rapporto che ha come obiettivo di fornire alcune linee guida indispensabili perché questi diritti possano essere tutelati. Il punto di partenza è il centro di Torino, il più grande dei sei Cpr presenti in Italia. Un centro troppo grande, destinato a ospitare 175 persone, e che presenta non poche lacune dal punto di vista strutturale: mancanze che, di riflesso, incidono sulle condizioni di vita dei migranti che vi sono al suo interno. Nell’incontro che ha visto la partecipazione di Bruno Mellano (garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte), Massimiliano Bagaglini (Ufficio del Garante Nazionale), Emilia Rossi (componente del Collegio del Garante Nazionale), Guido Savio (componente Asgi) e Laura Scomparin (docente di diritto processuale penale), il parere più duro circa le condizioni di vita al Cpr di corso Brunelleschi arriva da Emilia Rossi. Dopo la visita dello scorso 17 aprile, la componente del Collegio del Garante Nazionale per i diritti dei detenuti, avverte: “La condizione del Cpr di corso Brunelleschi è di altissimo degrado, le persone vivono in condiziono offensive rispetto alla dignità”. A fare luce in un luogo dove generalmente telecamere e macchine foto non sono ammesse è il racconto che Emilia Rossi fa del Cpr: “I migranti vivono in stanzoni da sette persone dove il bagno non è nemmeno separato dall’ambiente dove le persone dormono”. Per separare i due ambienti, gli ospiti del centro si sono adattati, mettendo alcune tende che garantiscono un minimo di privacy ma non fermano di certo gli odori provenienti da un bagno usato da sette persone. Da rivedere, secondo Rossi, anche il modo in cui viene somministrato il cibo: “Non ci sono posti per sedersi, i cittadini stranieri sono obbligati a mangiare per terra con i piatti appoggiati sulle gambe”. “Passano il loro tempo lì senza fare nulla, in gabbia. Dovrebbero stare 90 giorni, finiscono per starci il doppio senza che nessuno li avvisi” attacca la componente del Collegio del Garante Nazionale per i diritti dei detenuti. Tra le criticità emerse e segnalate da Massimiliano Bagaglini, vi è poi la questione rimpatri. Solo nei primi sei mesi del 2019, a Torino, la percentuale di persone rimpatriate dopo essere state trattenute è del 56%, pari a 185 migranti su 327 trattenuti. Il restante 44% non è stato rimpatriato. Ecco perché, tutte le persone che hanno contribuito a redarre il rapporto “Norme e normalità - Standard per la privazione della libertà delle persone migranti” hanno auspicato che gli standard possano costituire un’ideale piattaforma per un progetto di legge, dal momento che - a differenza della privazione della libertà in ambito penale, normata a livello nazionale dall’Ordinamento penitenziario - la detenzione amministrativa delle persone migranti non prevede garanzie certe e uniformi sul territorio. Questa sera, intanto, come riportano alcuni volantini, è attesa una manifestazione di protesta alle 19.30, proprio davanti al CPR, in via Monginevro all’angolo con corso Brunelleschi. Aversa (Ce): la manutenzione del Parco Pozzi affidata ai detenuti casertanews.it, 14 luglio 2019 Al via il progetto per il reinserimento sociale. Golia: “Protocollo ci dà la possibilità di allargare il campo”. Tre detenuti della Casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa saranno impiegati nella manutenzione del verde pubblico presso il Parco Pozzi. Ad annunciarlo è il sindaco di Aversa, Alfonso Golia, che spiega: “Il progetto è frutto di un protocollo d’intesa avviato dalla precedente Amministrazione comunale e firmato nel mese di marzo dal commissario Lastella. L’accordo prevede la possibilità di coinvolgere i detenuti, previa autorizzazione del magistrato di sorveglianza, in attività di pubblica utilità. Iniziamo dal parco Pozzi, ma il protocollo ci dà la possibilità di allargare il campo degli interventi ad altre iniziative di recupero del decoro urbano”. I detenuti, per i quali l’autorizzazione è arrivata nei giorni scorsi, hanno già seguito un corso di formazione di due settimane con un funzionario del comune. “L’Amministrazione comunale deve stimolare e supportare - aggiunge l’assessore alle politiche sociali Ciro Tarantino - tutti quei percorsi di formazione professionale e lavoro all’esterno che possono tramutarsi in concrete occasioni di reinserimento sociale dei detenuti, in attuazione dell’articolo 27 della Costituzione”. Il progetto prenderà il via il prossimo 15 luglio. Roma: sfila “Made in Rebibbia”, la collezione dei detenuti di Flavia Fiorentino Corriere della Sera, 14 luglio 2019 “Ricuciamo il futuro”: sarti-modelli in passerella con 25 capi. L’iniziativa di rieducazione sociale voluta dal presidente dell’Accademia dei Sartori Ilario Piscioneri, scomparso un anno fa. A Roma ha funzionato, ora si pensa a un protocollo nazionale. La sapienza delle mani, la concentrazione della mente, l’attenzione ai dettagli su forme e tessuti che trasmettono bellezza, ha permesso a un gruppo di detenuti del carcere di Rebibbia di riacquistare fiducia in se stessi, combattere la rabbia e costruire giorno per giorno, tra orli, bottoni e asole, un futuro diverso, pieno di speranza. Così a conclusione del corso di taglio e cucito dal titolo “Ricuciamolo insieme”, organizzato dall’Accademia nazionale dei Sartori e fortemente voluto dal presidente Ilario Piscioneri, scomparso lo scorso anno, qualche sera fa, nell’area verde dell’istituto penitenziario sulla Tiburtina, sono saliti in passerella gli stessi sarti-detenuti, in veste anche di modelli, per presentare una collezione di 25 capi “Made in Rebibbia” tra giacche, completi, pantaloni e gilet. “Erano emozionati - racconta il coordinatore del corso Daniele Piscioneri, uno dei tre figli di Ilario - perché si sono esposti davanti a un pubblico esterno, ad altri detenuti e soprattutto ai loro cari. Un modo per mostrare agli altri cosa sono capaci di fare, uno sforzo tangibile per riabilitarsi con la famiglia”. I sette detenuti, alcuni con pene tra i 10 e i 15 anni, che hanno appena concluso il secondo anno di corso (sostenuto da Bmw Roma che ha acquistato il materiale didattico), hanno frequentato il laboratorio tutti i giorni dalle 9 e 30 alle 12 e 30 e uno di loro, Manuel Zumpano ha ottenuto il permesso di uscire dall’istituto per partecipare ad alcune lezioni supplementari presso l’atelier Ilario, nel quartiere Prati. “Ho vissuto sensazioni che non provavo da più di 4 anni e mezzo, una diversa percezione della realtà - racconta Manuel - con questo progetto ho ritrovato sicurezza ed è appagante vedere che le persone apprezzano il mio lavoro. Sogno di avere un riscatto personale e costruirmi una nuova vita. Quest’ esperienza mi aiuta a superare i momenti bui. Sto imparando un mestiere che sta scomparendo e spero ci sia la possibilità di farlo scoprire a molti altri giovani”. Un’ iniziativa virtuosa, con doppio effetto positivo: “Se da una parte, imparare un mestiere rappresenta per loro una strada verso la libertà e la possibilità di riprendersi in mano la propria vita - conclude Piscioneri - dall’altra, potrebbero crearsi delle professionalità che le sartorie cercano continuamente e fanno fatica a trovare. Mio padre immaginava di allargare questo modello a livello nazionale, la sfida ora è creare un protocollo per coinvolgere altre carceri italiane”. Palermo: riscatto e lavoro, ecco i detenuti che hanno realizzato il carro di Santa Rosalia di Max Firreri Giornale di Sicilia, 14 luglio 2019 Chi sono Ihattur, Fabio, Carmelo, Marco, Antonio, Massimo, Francesco, Gazmet, Mario, Salvatore, Bruno? Volti di uomini detenuti che nel carcere dell’Ucciardone a Palermo stanno scontando il loro conto con la giustizia. Quest’anno dalle loro mani è nato il carro di Santa Rosalia, che sfilerà domani per il centro di Palermo. Il direttore Lollo Franco ha voluto affidare ai detenuti la realizzazione del carro della Santuzza, “il sacro carro della condivisione e del riscatto”. Dalle mani dei detenuti è nato tutto, mettendo insieme ferro, legno e colori. La “Fondazione Buttitta” ha documentato il lavoro fatto dentro il carcere e che, in anteprima il Giornale di Sicilia vi propone. “Ognuno dei detenuti, con storie e appartenenze molto diverse, sono uniti da quel “tempo”, dedicato al lavoro per la realizzazione del carro, che per loro ha rappresentato l’unico modo possibile per dire “possiamo essere ancora utili, siamo parte di questa società per cui stiamo lavorando”“ha detto Monica Modica Buttitta, che ha coordinato il lavoro di documentazione. “Uno degli aspetti maggiormente rilevanti nel lavoro che abbiamo svolto ha riguardato, indubbiamente, il confronto con i detenuti al fine di restituire in maniera adeguata il loro punto di vista in relazione a un tema particolarmente importante quale il loro rapporto con la dimensione festiva in una ottica di riscatto. In tal senso seppur immersi nel tempo sospeso della detenzione hanno avuto la possibilità di rivivere un contesto festivo che come è noto offre una serie di rassicurazioni simboliche non altrimenti esperibili”ha detto Antonino Frenda, collaboratore al progetto della “Fondazione Buttitta”. “Abituati come siamo a una visione spettacolarizzata delle feste religiose tradizionali, quest’anno il carro di Rosalia realizzato e portato dai detenuti infrange a suo modo una visione accomodante e turistica del festino riportando prepotentemente alla luce uno dei valori simbolico-rituali oggi meno appariscenti anzi sommersi della sacralità tradizionale, ovvero la necessità di rapportarsi al trascendente per essere e continuare a essere nella storia”.+ Decreto sicurezza bis, le organizzazioni tornano in piazza: “Va fermato” Redattore Sociale, 14 luglio 2019 Mobilitazione sotto il Parlamento della Rete Restiamo Umani: “È un provvedimento pericoloso”. Appuntamento previsto per il pomeriggio di lunedì 15 Luglio. “È un provvedimento pericoloso, che va fermato”. Lunedì 15 luglio, dalle ore 16, la Rete Restiamo Umani torna in Piazza Montecitorio per protestare contro il Decreto Sicurezza Bis, invitando la popolazione a un’assemblea e una mobilitazione contro il provvedimento ritenuto “razzista e antidemocratico”. “Dobbiamo attivarci tutte e tutti insieme per arginare la deriva razzista del governo Lega- 5 Stelle -affermano la Rete Restiamo Umani in una nota -. Dobbiamo costruire un’opposizione larga e trasversale contro un provvedimento autoritario, che attacca pesantemente il dissenso, vorrebbe introdurre pericolose restrizioni degli spazi democratici nel nostro Paese e punta a cancellare i diritti di chi scappa da guerre, povertà e crisi ambientali. Dobbiamo ribadire che salvare vite in mare è un dovere, non un crimine. Dobbiamo attivarci tutte e tutti insieme per restare umani”. Del decreto, la Rete Restiamo Umani in particolare contesta la criminalizzazione delle organizzazioni che operano salvataggio in alto mare, il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane che si imporrebbe loro e le sanzioni eventualmente irrogabili in caso di mancato rispetto di questo divieto, che vanno dall’imposizione di multe sino alla confisca dell’imbarcazione; il trasferimento di ulteriori competenze in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare alle procure distrettuali;ammissione di mezzi di indagine più aggressivi e invasivi (es. intercettazioni e agenti sotto copertura). “Circostanza che potrebbe portare a ulteriori forme di criminalizzazione della solidarietà verso e tra le persone migranti - sottolinea la Rete - la previsione di accordi bilaterali per favorire la riammissione di soggetti nei Paesi terzi, spesso dove vigono regimi dittatoriali e sanguinosi, come la Libia; l’inasprimento delle pene per chi manifesta ed esprime il proprio dissenso durante una pubblica manifestazione. Le attiviste e gli attivisti infine si oppongono in toto al Decreto per la deriva securitaria cui lo stesso potrebbe condurre in caso di approvazione, limitando fortemente diritti minimi costituzionalmente tutelati dal nostro Stato. La Rete Restiamo Umani è al fianco di chi disobbedisce a leggi ingiuste e disumane, come gli equipaggi della Sea Watch 3 e di Mediterranea. E per questo è in mobilitazione permanente da settimane, con partecipate assemblee pubbliche per dire no a provvedimenti demagogici e pericolosi. Per la Rete Restiamo Umani questo è il momento di incontrarsi, di scendere in piazza e di non limitarsi più alla sola indignazione virtuale”. Poveri di tutto il mondo, unitevi! di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 14 luglio 2019 La miseria materiale si accompagna sempre più spesso a solitudine e emarginazione. Per combatterla occorre solidarietà tra chi sta in basso. Nel corso degli ultimi anni, a letteratura accademica ha trattato approfonditamente il tema della povertà materiale declinandolo in povertà assoluta o estrema, che fa riferimento alla condizione nella quale versano le persone impossibilitate a soddisfare i bisogni di base, e in povertà relativa, che esprime l’incapacità e le difficoltà economiche nella fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di un paese. Questi due parametri della povertà materiale si manifestano anche attraverso “carestia, malnutrizione, accesso limitato all’istruzione e ai servizi di base, discriminazione sociale, esclusione e mancanza di partecipazione al processo decisionale. Oggi, più di 780 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà internazionale. Più dell’Il per cento della popolazione mondiale vive ín condizioni di estrema povertà e lotta per soddisfare i bisogni di base come la salute, l’istruzione, l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari. Oltre 160 milioni di bambini rischiano di rimanere in condizioni di estrema povertà entro il 2030” secondo le Nazioni Unite. La povertà materiale, che sia essa relativa o assoluta, interessa anche milioni dí lavoratori e di lavoratrici per la natura precaria del lavoro e dei bassi salari che li confina al contempo in una precarietà socio esistenziale. Secondo i dati recentemente diffusi dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), in Italia la povertà assoluta interessa circa 5 milioni di persone mentre quella relativa riguarda quasi 9 milioni di individui. Secondo questo dato, la povertà materiale colpiscel4 milioni di persone in Italia, ovvero circa il 23,4 per cento dell’intera popolazione. Il dramma della povertà materiale insieme alla sua intensità divora, in modo sistematico, ogni giorno milioni di persone ai quattro angoli del mondo. Purtroppo, le società odierne tendono a stigmatizzare le persone impoverite per la loro condizione di povertà subita. Queste persone, definite “parassiti della società”, vengono ghettizzate urbanisticamente e relegate nelle periferie che diventano luoghi di solitudini parallele e che non consentono di trasformare il sentimento di disperazione in una condivisa consapevolezza politica. In questo contesto diventa più facile indirizzare la frustrazione verso chi sta peggio. Tutto ciò favorisce di fatto il sorgere dì una povertà delle coscienze. La povertà materiale dei nostri giorni è accompagnata da una povertà immateriale che continua a erodere valori e principi indispensabili alla nostra comunità. Per uscire dalla povertà immateriale serve un risveglio delle coscienze anche attraverso una indispensabile rivoluzione spirituale e politica. Questo processo, oltre ad analizzare il presente, dovrebbe avere come principale vocazione la messa in discussione dello stesso con la finalità di cambiarlo. La crisi che viviamo, caratterizzata dalla decadenza di civiltà, va affrontata nelle dimensioni materiali ed immateriali. Oggi abbiamo più che mai bisogno di una rivoluzione spirituale capace di accendere le luci della speranza andando oltre il presentismo ed il suo cannibalismo. Se oggi non riusciamo a definire chi siamo, chi vogliamo essere e in quale tipo di contesto vogliamo vivere non possiamo proiettarci verso una società più giusta ed equa. Definire un orizzonte migliore vuol dire innanzitutto entrare in relazione con i sentimenti delle persone che vivono in povertà, in precarietà lavorativa e socio-esistenziale, in umiliazioni e in privazioni. Questo processo susciterebbe la costruzione di una solidarietà intesa come condivisione di bisogni comuni tra soggetti simili e diversi. La solidarietà è la spina dorsale dell’umanità in una prospettiva umana e per una società più sociale. Questa solidarietà umana, che va difesa e tutelata, permetterebbe un’equa ridistribuzione delle ricchezze indispensabile a fronteggiare la povertà. Rinunciare alla solidarietà equivale a soccombere alla disumanità e ad abdicare alla nostra umanità. In questa prospettiva, si dovrebbe stigmatizzare la povertà e non i poveri con l’ambizione di una più ampia e diffusa prosperità per tutti gli esseri umani. Tuttavia sarebbe abbastanza irrealistico pensare che i sostenitori degli odierni processi di accumulazione, proprio dell’attuale paradigma economico, possano farsi promotori di soluzioni volte a contrastare la povertà. Solamente, una salda unione tra le persone immiserite e impoverite in rivolta, resistendo agli stratagemmi di divisione adoperati dalle classi dominanti per continuare a esercitare la loro egemonia, sarebbe capace di avviare un percorso per sconfiggere ogni forma di povertà, sia essa materiale che immateriale. Migranti. Quella guerra fatta solo di parole di Roberto Saviano L’Espresso, 14 luglio 2019 Molta propaganda del governo sullo stop alle Ong. Ma nessuno pensa ai disperati che senza colpa sono detenuti nei campi di prigionia libici. Siamo in un vicolo cieco, importante ammetterlo. Un vicolo cieco perché chi crede che bisogna salvare vite in mare, ma al contempo contrattare con l’Europa regole che superino il Trattato di Dublino, chi crede che sia importante esprimere la propria opinione, chi ritiene che la dottrina Minniti abbia ridato il via, dopo la caduta di Gheddafi, alla pratica criminale di fermare i migranti in Libia in veri e propri campi di concentramento, non ha alcuna rappresentanza politica. È all’opposizione, ma l’opposizione la fa da sola, senza che in Parlamento ci sia davvero una forza capace di raccogliere questo disagio. Di raccogliere, anzi, quella che è diventata sofferenza vera e propria. Questa sarà la terza estate che vivremo in Italia accompagnati da una propaganda anti-immigrati perenne, e a chi dice: “Siete voi che la alimentate” rispondo: “Abbiamo scelta? Possiamo ignorare?”. E così tutto il dibattito è saturato da questa polarizzazione, senza che realmente si comprendano i termini della questione. Quanti sanno davvero leggere i procedimenti giudiziari che coinvolgono le Ong? Quanti conoscono la differenza tra sequestro preventivo e sequestro probatorio? Quanti sanno cosa significhi che un procedimento viene archiviato? E spesso non sapere non è questione di ignoranza, ma di superficialità. Fermo, nel flusso continuo di notizie, due informazioni che mi fanno riflettere. Una ragazza denuncia uno stupro e accusa due immigrati. Dopo mesi confessa di aver inventato la notizia. L’Associated Press riporta i casi di più di 20 migranti detenuti nella prigione libica di Zintan morti di malattia, stenti, fame e violenza. Le persone a lungo detenute e intervistate hanno denunciato il loro isolamento, hanno detto di essere stati completamente abbandonati in contesti di detenzione disumana. Detenuti incolpevoli. Perché queste due notizie mi hanno colpito? Perché l’immigrato stupratore (mai presunto), minacciato di castrazione chimica, è una costante nella comunicazione di questo governo, quindi che sia o no colpevole, cambia poco. Che in Libia ci siano lager è ormai una informazione di pubblico dominio; credo che - ma potrei sbagliarmi - tutti sappiano che in Libia è in corso una guerra civile e che ci sono prigioni costruite per fermare chi vuole venire in Europa. Dunque, tutte queste ormai possiamo considerarle nozioni condivise e, nonostante ciò, non è chiaro che la soluzione va trovata senza atti di prepotenza. Vige oggi una sorta di ¡No pasarán! al contrario: non passano i disperati e si finge di difendere frontiere dove poi, invece, passa di tutto. In tutto ciò, si evitano come la peste quegli argomenti che potrebbero seriamente deprimere l’elettorato (certo è strano che non si deprima pensando alle migliaia di disperati torturati a pochi chilometri dalle coste italiane) che si troverebbe a sbattere contro una amara consapevolezza: a parte la ferocia dei toni di oggi, la situazione per gli italiani resta drammatica quanto lo era ieri. Gli spostamenti che interessano ai nostri politici sono solo quelli verso l’Italia, perché si possono utilizzare contro l’Europa - quale occasione migliore di Ong straniere con imbarcazioni battenti bandiere di stati che non siano il nostro? - eppure l’emorragia di italiani che continuano a lasciare il Paese resta un argomento più che tabù. Se analizziamo i dati che fornisce l’Aire (Anagrafe degli Italiani all’Estero) il numero dei nostri connazionali che lascia l’Italia dovrebbe preoccuparci seriamente: negli ultimi 10 anni oltre 200mila giovani tra i 20 e i 34 anni se ne sono andati e non hanno lasciato solo le regioni del Sud ma anche la Lombardia, che ha dovuto rinunciare a oltre 24 mila risorse qualificate. Se nel 2006 gli italiani registrati all’estero erano 3,1 milioni, nel 2018 sono 5,1 milioni. Più di 120mila persone hanno trasferito la loro residenza all’etero l’anno scorso e tra questi c’è una percentuale altissima di laureati, oltre il 30%. Persone che hanno studiato e si sono formate in Italia e che ora sono risorse che il Paese ha perso. Fossi in chi ci governa sarebbe questa una priorità, non inscenare litigi perenni tra alleati di governo o fare guerra ai disperati. Ma forse vale la pena specificare che per affrontare questa situazione non bisogna chiudere le frontiere e impedire in maniera coatta a chi vuole emigrare di farlo. Con questo governo non si sa mai. Migranti. Ecco il piano italiano: “zone franche per gli sbarchi e distribuzione dei rifugiati” di Federico Fubini Corriere della Sera, 14 luglio 2019 Intervista al ministro degli Esteri Moavero Milanesi: “Lo presenterò in settimana al Consiglio Ue: corridoi umanitari per chi supera il vaglio. E per la ripartizione ci vuole un metodo con criteri oggettivi”. Enzo Moavero Milanesi ci lavora dal giorno in cui fu nominato ministro degli Esteri poco più di un anno fa. Ne ha parlato giovedì scorso con il premier Giuseppe Conte e con Matteo Salvini, il ministro dell’Interno, ed esporrà queste idee domani a Bruxelles al Consiglio Affari Esteri per una riflessione con i colleghi europei. “Usciamo dalla tirannia delle emergenze e dell’emotività - dice - obiettivamente, sui flussi migratori sino ad oggi ogni Paese tende a reagire in maniera sovranista. Ma riusciremo a governarli solo con una vera politica europea equilibrata, fatta di molti elementi”. Ministro, lei sta per presentare idee per un’azione europea sulle migrazioni con il suo collega di Malta Carmelo Abela. Come nascono? “Negli ultimi tempi, ci sono stati accordi sulla distribuzione dei migranti fra Paesi prima dello sbarco. Ma non possiamo continuare a procedere caso per caso, cercando ogni volta soluzioni d’emergenza. Bisogna trovare un meccanismo strutturato, di carattere stabile”. Va superato il regolamento di Dublino, che obbliga i Paesi di primo sbarco a vagliare le domande di asilo? Molti governi non vogliono. “Dublino riguarda l’asilo, ma il Trattato Ue contiene norme per regolare le migrazioni in generale, non solo su come verificare le domande di asilo. Questo porta ad allargare la riflessione all’insieme dei flussi migratori: i migranti non cercano la costa italiana, greca o maltese. Cercano l’Europa. Dunque è in una cornice europea che va trovata una soluzione”. Non teme una reazione scettica dagli altri governi? Vi diranno che l’unica politica dell’Italia è chiudere i porti. “Per governare simili flussi occorre una politica comune europea che stabilisca bene cosa si fa, collaborando. Gli Stati non vanno lasciati soli ad affrontare l’emergenza con strumenti parziali e inevitabilmente egoistici. Il Trattato Ue parla di politiche europee sui flussi migratori e, quindi, va oltre il semplice riconoscimento del diritto di chiedere asilo o protezione internazionale”. A cosa pensa? “Il primo livello è fare di più prima che le persone inizino a migrare. Occorrono investimenti maggiori, con finanziamenti sufficienti, nei Paesi dai quali si parte: progetti mirati a rafforzare il tessuto sociale o mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Le risorse necessarie sono ingenti e proprio per questo il tema deve entrare nei negoziati sul Quadro finanziario europeo 2021-2027. Per raccoglierle, si può pensare anche all’emissione di appositi titoli europei di debito”. Le persone continueranno comunque a partire, non trova? “Per questo è giusto che quei migranti che legittimamente chiedono asilo possano farlo in luoghi il più possibile vicini a quelli che sono costretti a lasciare. Per esempio, un rifugiato da un paese in guerra dovrebbe poter far esaminare la sua domanda di asilo presso un ufficio europeo nel più vicino Stato in pace, prima di affrontare un viaggio lungo e sempre drammatico. E se l’asilo viene riconosciuto, il rifugiato dovrebbe viaggiare verso l’Europa attraverso corridoi umanitari senza dover pagare i trafficanti. L’Ue deve garantire trasporti normali, voli charter come ne sono stati fatti anche di recente verso l’Italia per persone di cui si sapeva già che avevano diritto all’asilo. Chi ha diritto all’asilo deve poter viaggiare in condizioni degne, non in mano a criminali”. Significa che ci sarebbe una distribuzione dei rifugiati in Europa? “Il sistema funziona solo se un numero sufficiente e consistente di Stati Ue aderisce. Specie i più grandi. Per la ripartizione ci vuole un metodo con criteri oggettivi e chiari. Inoltre, gli uffici europei per la valutazione delle domande di asilo, se funzionano bene, potrebbero anche vagliare domande di lavoro fatte da chi emigra per ragioni economiche o a causa dei radicali mutamenti climatici. Se trovassero offerte di lavoro in qualche Paese europeo, anche queste persone potrebbero cosi viaggiare al sicuro”. Non pensa che ci saranno sempre persone che si metteranno in mano ai trafficanti, aggirando i centri europei di filtro in Africa? “Per quello ci vuole una seria organizzata lotta al traffico di esseri umani, con più cooperazione fra le forze di polizia e di sicurezza europee”. Ciò implica riportare missioni navali europee nel Mediterraneo? “Sì, ma stabilendo regole idonee. Il salvataggio in mare è un dovere antico, previsto da tutte le convenzioni ed è un obbligo morale. Le missioni europee nel Mediterraneo servono vari obiettivi, ma non possono continuare a prevedere che tutti i salvati siano portati in Italia. Nessun Paese può diventare la piattaforma europea degli sbarchi e, per le regole di Dublino, del vaglio delle domande di asilo e di ogni onere connesso. Senza contare che, nelle more dopo la domanda, molti richiedenti si allontanano, varcando anche la frontiera e creando questioni con gli Stati confinanti”. Il filtro in Italia però è ciò a cui altri Paesi pensano. Come se ne esce? “C’è una strada per ridurre gli oneri per lo Stato dove sbarcano i migranti. Lo sbarco va scollegato dal concetto di ‘primo arrivo’ stabilito da Dublino e i migranti andrebbero accolti in ‘aree franché da crearsi nei vari Paesi Ue”. Non rischiano di diventare centri di detenzione europea sui porti dell’Italia o della Grecia? “No. Si tratterebbe di centri controllati, un’idea presente già nelle conclusioni del Consiglio europeo di un anno fa. Tutti i Paesi Ue affacciati sul Mediterraneo potrebbero averne. Ma il soggiorno di chi sbarca sarebbe di pochi giorni, perché poi le persone andrebbero subito distribuite anche in altri Stati Ue dove si verificherebbe il loro diritto all’asilo. Così, operando su numeri ripartiti e minori, tutto procederebbe meglio”. Quando le domande d’asilo vengono respinte, i migranti diventano irregolari e non rientrano nei loro Paesi. Perché i governi Ue dovrebbero accettare questo rischio, oggi in gran parte su Italia e Grecia? “Un punto nodale sono gli accordi di riammissione con i Paesi d’origine dei migranti. Oggi ne abbiamo pochi e con tanti limiti. Ma se fosse l’Unione europea a stipularli, avrebbe molto più peso negoziale. Anche perché potrebbe collegarli ai suoi investimenti nei medesimi Paesi d’origine, di cui dicevo prima”. Lei pensa che ci sia spazio per un accordo del genere oggi in Europa? “È quello che vogliamo verificare. Per un’azione efficace, bisogna agire alla sorgente e non solo alla foce dei flussi. Questa è una proposta per un approccio europeo: richiede quel salto di qualità finora mai fatto. Perché funzioni, serve una volontà politica solidale che eviti l’arrocco sovrano di ciascuno Stato nel suo particolare”. Ministro, teme che il caso Lega-Russia pesi sulla posizione internazionale dell’Italia e sul suo ruolo nell’Alleanza atlantica? “Non rileva propriamente dei rapporti fra gli Stati. Non ho elementi d’informazione al riguardo. E, come ovvio, non posso commentare una vicenda oggetto di un’inchiesta giudiziaria”. Croazia: così l’Unione Europea deporta illegalmente migliaia di profughi di Barbara Matejcic L’Espresso, 14 luglio 2019 Un’inchiesta-reportage dell’Espresso in edicola da domenica e già online su Espresso+ rivela le espulsioni di massa effettuate di notte dalla polizia di Zagabria. Una pratica che viola tutte le regole dell’Unione ma che, paradossalmente, viene effettuata con i soldi di Bruxelles. L’Unione Europea ha deportato illegalmente oltre i propri confini migliaia di profughi, rispedendoli verso Paesi extra Ue come Serbia e Bosnia. Una pratica che continua anche in queste settimane. A confermare quello che fino a ieri era solo un sospetto (e un atto di accusa di Amnesty International) ci sono ora diverse testimonianze, tra cui quella del sindaco della città bosniaca di Bihac, Šuhret Fazlic, oltre a quella di un ufficiale della polizia croata che ha deciso di rivelare le pratiche illegali di deportazione collettiva. Ciò che succede nei boschi tra Bosnia e Croazia è questo: migliaia di persone che provengono da Siria, Afghanistan e Pakistan e che hanno fatto tutta la rotta balcanica attraversano il confine della Ue entrando in territorio croato. La Croazia, membro Ue, utilizza i fondi di Bruxelles per rimandare con la forza i rifugiati in Bosnia e Serbia. Una prassi del tutto illegale. Migliaia di persone portate via di nascosto e di notte attraverso i boschi, con i gps oscurati A questo punto le norme della stessa Ue (tra cui il Trattato di Dublino) imporrebbero che i migranti venissero mandati negli appositi centri per l’identificazione, le impronte digitali e la richiesta dello status di rifugiati. Invece quello che accade in Croazia è che i migranti vengono prelevati e forzosamente riportati oltre la frontiera bosniaca (o talvolta serba), in violazione di tutte le norme. I trasferimenti forzosi avvengono in camionette della polizia e molto spesso in maniera violenta, come provano le diverse testimonianze e le fotografie delle ferite degli stessi immigrati una volta riportati in Bosnia. Milena Zajovic Milka dell’Ong croata Are You Syrious sostiene che nel 2018 sono stati effettuati, secondo le loro stime, ben 10 mila respingimenti illegali oltre le frontiere Ue. Il sindaco di Bihac, Šuhret Fazlic sostiene di aver personalmente incontrato dei poliziotti croati armati, mentre andava a caccia nei boschi fuori dalla sua città: stavano riaccompagnando con la forza in Bosnia un gruppo di 30-40 migranti. “Erano a circa 500 metri dal confine croato, sul suolo bosniaco. Mi presentai agli agenti e dissi loro che erano sul territorio bosniaco e che quello che stavano facendo era illegale. Ma fecero spallucce e si giustificarono spiegandomi che avevano ricevuto degli ordini”. Un ufficiale anonimo della polizia croata spiega nei dettagli come avvengono queste deportazioni: di solito di notte e sempre di nascosto, dopo aver distrutto tutti i telefonini dei migranti per evitare che possano lasciare tracce digitali dei loro percorsi. L’Europa sempre più piena di muri e frontiere. La Lega inzeppata di traffichini e fascisti. E il web in bilico tra libertà e privatizzazione selvaggia. Ecco cosa trovate sul numero in arrivo in edicola e sui device. E gli articoli in anteprima per gli abbonati Espresso+ Anche il difensore civico croato, Lora Vidovic, conferma la pratica delle deportazioni illegale di migranti dalla Croazia - cioè dalla Ue - verso Bosnia e Serbia. La Commissione europea ha stanziato oltre 100 milioni di euro per la Croazia negli ultimi anni, una parte significativa dei quali è stata destinata alla sorveglianza dei confini e al pagamento degli stipendi degli agenti di polizia e delle guardie di frontiera. Di fatto quindi, la stessa Ue finanzia operazioni illegali e contrarie alle norme Ue per espellere migranti che hanno diritto a chiedere lo status di rifugiati. Egitto. Detenuti intrappolati nelle porte girevoli del sistema penitenziario di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 luglio 2019 In Egitto le cattive abitudini non muoiono mai, anzi si rafforzano. Durante la presidenza di Hosni Mubarak era prassi comune che la procura ordinasse il nuovo arresto di persone di cui i giudici avevano appena disposto la scarcerazione. L’appiglio legale era una disposizione della legislazione d’emergenza che consentiva la detenzione amministrativa a tempo indeterminato delle persone ritenute una minaccia per la sicurezza. Quella norma, con tutto lo stato d’emergenza, è stata abrogata dalla Corte costituzionale nel giugno 2013, un mese prima del colpo di stato dell’attuale presidente Abdelfattah al-Sisi. Non importa. Secondo una recente ricerca di Amnesty International, la procura suprema per la sicurezza dello stato ha ripreso quella prassi e vi sta ricorrendo sempre più frequentemente. In questo sistema di porte girevoli, diverse persone rilasciate dopo aver trascorso periodi di carcere per accuse quanto meno dubbie sono state ri-arrestate sulla base di prove fabbricate, presentate con una coincidenza temporale davvero sospetta. L’ultimo caso riguarda Ola al-Qaradawi, figlia del leader religioso della Fratellanza musulmana Youssef al-Qaradawi. La donna, arrestata il 30 giugno 2017 insieme al marito con l’accusa di militare in un gruppo terrorista e contribuire al suo finanziamento, avrebbe dovuto essere scarcerata il 3 luglio di quest’anno. Invece, è stata rimandata in cella con le medesime accuse. Difficile immaginare come, durante il regime di isolamento totale cui è stata tenuta per due anni, abbia potuto far parte di un gruppo terroristico e addirittura finanziarlo. Un altro caso segnalato da Amnesty International è quello di Mahmoud Hussein, un producer di al-Jazeera in carcere dal 23 dicembre 2016 a causa del suo lavoro giornalistico. In un’udienza senza avvocato difensore, era stato rinviato a giudizio con le accuse di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”, “ricevimento di fondi dall’estero” e “divulgazione di informazioni false”. Il 21 maggio di quest’anno un giudice ha disposto il suo rilascio con la condizionale. Dalla prigione, Hussein è stato portato in una stazione di polizia per sbrigare le ultime formalità. Qui, il 28 maggio, gli sono state riaddebitate le stesse imputazioni ed è stato riportato in carcere. Lo stesso è accaduto a Somia Nassef e Marwa Madbouly, due attiviste arrestate il 31 ottobre 2018 e scomparse per tre settimane, durante le quali hanno denunciato di essere state torturate con le scariche elettriche. Quando sono comparse di fronte a un giudice, sono state accusate di “appartenenza a un’organizzazione terroristica” e “ricevimento di fondi dall’estero” e poste in detenzione preventiva per due mesi in una stazione di polizia, per poi essere trasferite nella prigione femminile di Qanatar. Il 25 maggio un giudice ha disposto la loro scarcerazione e tre giorni dopo sono state incriminate per gli stessi identici reati. Paraguay. Moray, il Rocky galeotto che ha commosso il mondo di Sergio Arcobelli Il Giornale, 14 luglio 2019 Conquistata in carcere la corona welter sudamericana Mai un detenuto aveva vinto un titolo internazionale. C’era gente di ogni tipo quel venerdì sera ad Asunción. Facce stanche, facce in lotta con la vita, facce poco raccomandabili. La maggior parte del pubblico era arrivata in anticipo per l’incontro. Alcuni erano lì da mesi, molti, la gran parte, attendevano da anni. In fondo che altro avevano da fare? Richard, il loro beniamino, si stava preparando a pochi metri dal ring e intanto si estraniava da tutto nascondendosi nel suono delle cuffie. Sul suo viso nemmeno un sorriso. La tensione era scolpita nelle rughe e gli zigomi grandi. La posta in palio troppo alta. Si dice che solo chi abbia conosciuto profondamente la miseria sia in grado di trovare le giuste motivazioni per superare le prove più difficili. Ebbene, il detenuto Richard Moray, quella sera nel carcere di Asunción, davanti al suo pubblico, ai suoi compagni, sapeva di giocarsi molto, tutto, un’altra esistenza. Ce l’ha fatta, Richard. Ha vinto. È diventato campione del sudamerica ed è cominciata così, dopo aver toccato il fondo, la nuova vita di questo 31enne paraguaiano. Quella precedente, contrassegnata da spaccio e droga, crimini e violenze, meglio rimuoverla per sempre. Richard La Pantera Moray è infatti rinchiuso nell’unità penitenziaria “Industrial Esperanza” di Tacumbú, quartiere di Asunción, la capitale del Paraguay, dove sta finendo di scontare una pena di sette anni per furto aggravato. Qui, in carcere, su un ring allestito per l’occasione, davanti a centocinquanta persone, perlopiù dei detenuti, dopo aver già conquistato il titolo nazionale della categoria superwelter (63,5 kg.-66,6 kg.) si è impossessato della cintura di campione sudamericano a spese del brasiliano Carlos Caolho Santos. Salito sul quadrato con dei pantaloncini rossi, gli è bastato un round e poco più di due minuti - per mettere al tappeto l’avversario. Tra un “vamos Pantera” e un “usa il gancio”, queste le urla di incoraggiamento dei compagni di cella da dietro le sbarre, Moray ha liquidato lo sfidante in quello che è stato il primo incontro di boxe a livello internazionale in un penitenziario. “Avevo dei dubbi sul fatto che potesse farcela. E invece mi ha stupito”, ha detto a caldo l’allenatore Fabio Potrillo Romero, artefice del rientro agonistico di Richard che da quattro anni si batte per dare una seconda possibilità ai reclusi del penitenziario di Tacumbú. Lo sport, d’altronde, può essere la via di fuga dalla criminalità e dalla tossicodipendenza. E dal carcere. Il ministero della Giustizia gli ha infatti concesso la libertà condizionale “perché si è riabilitato grazie allo sport”. Dovrà insegnare boxe ad altri detenuti. “A tutte le persone che si trovano nella mia stessa situazione ha raccontato Moray - dico che sì, è possibile redimersi. Se ce l’ho fatta io, perché non può farcela un altro?”. Cadere e risorgere, si sa, fa parte della storia dei campioni del ring. E anche questa storia non è da meno, tanto che Netflix si è già accaparrata i diritti. La Pantera, in fin dei conti, non ha combattuto invano.