Si vuole “normalizzare” l’illegalità delle nostre carceri, per imporla senza affrontarla camerepenali.it, 13 luglio 2019 Le proposte emendative sollecitate dal Dap al Governo, in sede di conversione parlamentare del decreto “sicurezza bis”, destano particolare allarme. Chiedere, con vigore, come avvenuto con la nota GDAP n. 0209946, datata 3 luglio 2019, l’introduzione di una nuova fattispecie di reato proprio del detenuto, di una specifica aggravante e di un ampliamento degli ambiti punitivi della condotta, facendo, altresì, rientrare il tutto sotto l’ombrello della ostatività previsto dall’art. 4 bis O.P., è, non solo ingiustificato, ma certamente irresponsabile. Si propone, infatti, senza tenere conto della realtà e quindi con una valenza meramente simbolico espressiva, di introdurre all’articolo 391 bis c.p. - che sanziona la condotta di chi, in concreto, consente ad un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale ex articolo 41 bis O.P. “di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte” - la punizione con la reclusione da uno a quattro anni del “detenuto che venga trovato in possesso di apparato radiomobile o di strumento comunque idoneo ad effettuare comunicazioni con l’esterno dell’istituto penitenziario”. Analoga sanzione per chi “detiene, o comunque porta con sé all’interno di un istituto penitenziario apparato radiomobile o strumento idoneo ad effettuare comunicazioni con l’esterno al fine di cederlo a soggetto detenuto”. Un reato proprio, dunque, che non corrisponde ad alcuna concreta ed attuale esigenza se è vero quanto dichiarato in audizione, innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, in data 29 maggio 2019, dai vertici del Dap, su specifica domanda posta dai commissari circa il rinvenimento di “micro telefonini” introdotti abusivamente all’interno delle sezioni speciali 41 bis ovvero “non si è mai registrato il caso di un telefonino in un reparto 41 bis… telefonini all’interno di una sezione del 41 bis non sono mai stati rinvenuti, per l’esistenza di vetro divisorio, per la rigidità delle perquisizioni… ancora a questo non ci siamo arrivati”. E dunque, se episodi del genere non si sono mai verificati al 41 bis, perché introdurre una specifica fattispecie ritagliata come un vestito su misura per il detenuto? S’intende forse estendere la punibilità a tutte le categorie dei detenuti esorbitando dai limiti specifici dell’articolo 391 bis codice penale? Si propone, ancora, l’introduzione di una specifica aggravante all’articolo 576, comma 1 n. 5 bis c. p., laddove il fatto-reato commesso sia avvenuto in danno di “personale in servizio presso strutture penitenziarie” con finalità dichiarate di deterrenza alla commissione di condotte lesive all’interno degli istituti penitenziari, considerata: - l’impossibilità per l’istituzione penitenziaria di “dissuadere la totalità della popolazione detenuta dalla commissione di altri reati”; - l’esistenza di schemi comportamentali, intra moenia, “assolutamente in contrasto con i modelli proposti dall’amministrazione penitenziaria all’interno degli istituti e dalla società all’esterno”; - la “eterogeneità della popolazione detenuta, che peraltro è nuovamente cresciuta, riportando all’attenzione la problematica del sovraffollamento”; fattori che “possono inasprire la percezione della convivenza forzata a cui si è costretti in carcere, incoraggiando comportamenti che possono esitare anche nella commissione di reati”. Proporre l’introduzione di una specifica aggravante per fatti commessi in danno di personale in servizio presso gli istituti penitenziari, oltre che irresponsabile, appare come la codificazione di un desiderio - in linea con l’impianto del decreto sicurezza bis neanche troppo celato - dell’esercizio della forza brutale in occasione di aperte manifestazioni di dissenso nel segreto delle nostre carceri. Addirittura si propone l’allargamento delle maglie dell’ostatività prevista dall’articolo 4 bis O.P., inserendo sia la nuova fattispecie di reato proposta nel corpo dell’articolo 391 bis al comma 1 bis, sia il reato di lesioni personali, aggravato perché commesso in danno di personale all’interno degli istituti penitenziari. La proposta del capo del Dap, dell’allargamento delle ostatività con le modifiche suggerite al Governo per la discussione parlamentare di conversione del decreto sicurezza bis sfugge a qualsivoglia criterio di razionalità giuridica, oltre a porsi in evidente contrasto con le indicazioni della Cedu (con la ultima decisione sul caso Viola c. Italia) che invita il legislatore italiano a rivedere, attraverso l’ergastolo ostativo, l’impianto del 4 bis O.P. che rischia di calpestare la fondamentale funzione risocializzante della pena detentiva. Siamo, pertanto, fortemente preoccupati per l’evidente incapacità di affrontare la grave e drammatica situazione carceraria da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. Voler “normalizzare” piuttosto che superare la crisi del sistema carcere rischia di rappresentare il detonatore dell’attuale condizione penitenziaria particolarmente esplosiva, nonché la scorciatoia verso la sospensione delle ordinarie regole trattamentali magari con l’adozione di un “indotto” decreto sicurezza ter. La Giunta dell’Ucpi L’Osservatorio Carcere Carceri, in 20 anni oltre 140 agenti suicidi. “Servono punti di ascolto psicologico” Redattore Sociale, 13 luglio 2019 In carcere ci si suicida oltre 18 volte in più rispetto a quanto avviene tra la popolazione libera. Gli ultimi dati disponibili del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria riferiscono di 61 suicidi tra i detenuti nel 2018 (67 secondo Ristretti Orizzonti), 504 dal 2009 al 2018 (564 secondo Ristretti Orizzonti). Il suicidio non riguarda solo i detenuti ma anche gli agenti di Polizia penitenziaria che, con i primi, condividono la vita all’interno del carcere. Tra il 1997 e il 2018 sono 143 gli agenti che si sono tolti la vita (dati Ristretti Orizzonti), già sette i casi registrati nel 2019. L’ultimo il 10 luglio: un agente in servizio alla Casa circondariale di Bologna si è ucciso nella sua casa in Abruzzo, aveva 35 anni. Ad aprile un altro, sempre a Bologna. A giugno un agente originario di Sassari che, da anni, lavorava a Vigevano si era ucciso mentre era in ferie in Sardegna. “Il carcere è un contenitore di disagio sociale e noi siamo dall’altra parte, disarmati, senza strumenti per affrontarlo”, dice Nicola D’Amore, delegato del Sinappe, il Sindacato nazionale autonomo di Polizia penitenziaria, di stanza alla Casal circondariale di Bologna. Da tempo, il Sinappe chiede l’attivazione di punti di ascolto psicologico presso le strutture detentive per prevenire e fronteggiare eventuali problemi di stress lavorativo e di burnout tra gli operatori. Rivendicazione ribadita dal segretario regionale dell’Emilia-Romagna, Gianluca Giliberti, a poche ore dalla notizia del suicidio dell’agente in Abruzzo. “Non possiamo accettare un ennesimo suicidio, proviamo rabbia e dolore - ha detto Giliberti - Il carcere è una macchina articolata, con molteplici difficoltà e precarietà che vanno fronteggiate quotidianamente, spesso con scarse risorse e strumenti utili. Auspichiamo che l’Amministrazione penitenziaria prenda in carico seriamente questa piaga, con giusti interventi da porre in loco, e non con un mero numero verde nazionale, a tutela del sacrosanto diritto alla vita dei lavoratori”. Giliberti ha anche annunciato una fiaccolata di solidarietà per sensibilizzare le autorità locali. La sindrome da burnout nella Polizia penitenziaria è un tema che è stato affrontato anche dall’Amministrazione comunale di Bologna in un’udienza conoscitiva del settembre 2018 proposta dalla presidente della Commissione Sanità, Politiche sociali, Sport, Politiche abitative, Maria Caterina Manca. E dei punti di ascolto psicologico il Sinappe ha parlato con i garanti dei detenuti, regionale e comunale. Ma la questione è complicata e richiede un “cambiamento culturale”, secondo D’Amore. “Chi si trova in questa situazione difficilmente parlerà del proprio disagio, la paura è quella di venire etichettati, di essere guardati in maniera diversa dai colleghi - dice - Ma quando un agente trova un detenuto impiccato nella sua cella, dovrebbe essere il protocollo a prevedere un sostegno di tipo psicologico, purtroppo non è così. Con il risultato che quello che vivi dentro poi te lo porti a casa, e non tutti sono abbastanza forti da sopportarlo”. Dello stesso parere anche Giuseppe Merola, segretario regionale del Sinappe per la giustizia minorile: “Il carcere è per gli specialisti del trattamento, noi non abbiamo quella preparazione”. Altro problema è quello degli organici, fortemente sottodimensionati. In Italia secondo gli ultimi dati sono oltre 37 mila gli agenti di Polizia penitenziaria, di cui solo 31 mila presenti: una carenza del 16%, con punte superiori al 20% in Marche, Emilia-Romagna, Calabria e Sardegna (dati Antigone). Gli educatori effettivamente presenti sono 925 (dovrebbero essere circa mille) con un rapporto medio detenuti/educatori di 1 a 78 con variazioni molto evidenti da carcere a carcere. Alla Dozza, ad esempio, sono 5 invece di 12 (a cui si aggiunge un capo area che però non ha in carico nessun detenuto) quindi 1 ogni 117 (definitivi). Stabile invece il numero di volontari: oltre 16 mila. “I volontari danno un grandissimo contributo, rendono meno gravoso il lavoro della Polizia”, spiega D’Amore. In calo il numero dei mediatori culturali. E poi mancano direttori e vicedirettori. “Al minorile di Bologna dovremmo avere un funzionario, tre sovrintendenti, due ispettori e 43 agenti mentre abbiamo un funzionario pro tempore che finisce l’incarico il 16 luglio, un viceispettore e 40 agenti di cui otto distaccati presso altre strutture - spiega Merola - Con 23 ragazzi su una capienza di 22, di cui 11 maggiorenni. E si prospetta un raddoppio delle presenze con l’apertura di un secondo piano, a cui noi ci opponiamo”. Sulla situazione del minorile il deputato del Partito democratico Gianluca Benamati ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia. Dal sorteggio per il Csm alle sanzioni ai pm lumaca, così cambia la giustizia di Valentina Errante Il Messaggero, 13 luglio 2019 Nella riforma di Bonafede anche la riduzione dei tempi delle indagini. Toghe in politica: niente ritorno in magistratura, lavoreranno al ministero. Tempi strettissimi per le indagini, un ruolo filtro dell’udienza preliminare e obbligo dei pm alla discovery se non procederanno con la chiusura delle indagini o la richiesta di rinvio a giudizio entro i nuovi termini, con un’ipotesi di illecito disciplinare in caso “di dolo o negligenza inescusabile”. La legge delega pensata dal ministro Alfonso Bonafede prevede grandi novità anche per le toghe: dal divieto di tornare negli uffici per i magistrati che abbiano scelto la politica, a un mix tra elezioni e sorteggio per i membri del Csm, che aumenteranno di numero. Non solo, il Consiglio superiore della magistratura potrà anche avvalersi di uno psicologo per valutare i profili dei candidati a incarichi direttivi. Inoltre, dopo lo scandalo che ha investito Palazzo dei Marescialli, con la nuova legge, procuratori e aggiunti dovranno essere individuati rispettando “inderogabilmente l’ordine temporale con cui i posti si sono resi vacanti”. Il testo non piace né all’Anm né all’Avvocatura e di certo sarà soggetto a revisioni. A cominciare dal sorteggio definito incostituzionale, fino ad arrivare alla norma che prevede di inquadrare per sempre al ministero le toghe che abbiano avuto un mandato parlamentare: per legge, non possono essere più di 200 i magistrati collocati fuori ruolo. Sarà consentita una sola proroga di 6 mesi per tutti i tipi di reato. Attualmente sono possibili tre proroghe, che possono portare fino a due anni la durata delle indagini. ll rinvio a giudizio sarà limitato ai casi in cui gli elementi acquisiti consentano, se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria. Il gup cioè dovrà già stabilire se ci siano gli elementi per una condanna. Con la riforma solo le inchieste su mafia, strage, omicidio, violenza sessuale, potranno raggiungere il tetto dei due anni. Mentre per i reati “bagatellari” non potranno trascinarsi per più di un anno: la loro durata normale sarà di 6 mesi, quella dei reati di media gravità un anno mentre quella dei reati gravissimi un anno e sei mesi. E se sinora il mancato rispetto dei termini comportava soltanto l’inutilizzabilità degli atti, adesso, a tre mesi dalla scadenza dei tempi (che diventano 5 o 15 per i reati più gravi), il pm dovrà depositare gli atti, se non abbia firmato la chiusura delle indagini o la richiesta di rinvio a giudizio. Una norma che, però, non tiene conto dei tempi di valutazione impiegati spesso dai gip nel caso di richieste di misure cautelari. Con la nuova legge sarà precluso il rientro nei ruoli organici della magistratura alle toghe che abbiano ricoperto la carica di parlamentare o di componente del Governo, di consigliere regionale o provinciale nelle Province autonome di Trento e Bolzano, di Presidente o assessore nelle giunte delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, di sindaco in Comuni con più di centomila abitanti. Alla scadenza o alla cessazione del mandato, il magistrato sarà collocato nei ruoli amministrativi. Mentre quanti abbiano scelto l’aspettativa per candidarsi, ma non siano stati eletti, per cinque anni rimarranno al ministero poi potranno di nuovo indossare la toga ma in uffici diversi rispetto al distretto giudiziario nel quale si erano candidati. Mentre chi, fuori ruolo, abbia assunto incarichi di collaborazione con il governo, anche con la presidenza del Consiglio, non potrà avere per due anni incarichi direttivi. Aumentano da 24 a 30 i componenti del Csm, con due membri laici in più e 20 togati. Quanto all’elezione si prevede che si formino venti collegi ciascuno dei quali dovrà eleggere cinque potenziali membri del Csm. A questo punto, però, sarà un sorteggio a designare (tra i cinque) il futuro componente di Palazzo dei Marescialli. Il limite riguarda certamente la proporzione: l’ultimo degli eletti deve avere solo il 5 per cento dei voti del distretto, così, il criterio delle preferenze sarebbe di fatto bypassato dall’esito dell’estrazione. Criteri molto più rigidi per la valutazione degli aspiranti procuratori e aggiunti, a pesare sarà anche l’anzianità, ma adesso il Csm “allo scopo di valutare il parametro dell’equilibrio del magistrato in funzione delle valutazioni di professionalità, potrà tenere conto anche del parere di uno psicologo”. Magistrati, cambia tutto: il Csm eletto per sorteggio di Errico Novi Il Dubbio, 13 luglio 2019 Nella riforma di Bonafede anche sanzioni per i giudici lenti. Il ministro Alfonso Bonafede l’ha sempre annunciata come “un intervento mirato”. Ma il suo non è solo un bombardamento molecolare: è una riforma della Giustizia vera, di fronte alla quale difficilmente l’alleato leghista potrà arricciare il sopracciglio. In particolare per la fermezza, che trasfigura nel rigore estremo, adottata dal guardasigilli con la magistratura. Oltre agli interventi sul processo, penale e civile, il ddl delega trasmesso ieri da via Arenula a Palazzo Chigi contiene infatti una seconda parte tutta dedicata alle toghe. Al Csm e non solo, perché si prevedono persino sanzioni disciplinari per i giudici dall’ingiustificata lentezza. Ma certo, a colpire più di tutto è la scelta che Bonafede annuncia con micidiale serenità giovedì sera, in un’intervista pubblica a Bruno Vespa: “Nel nuovo sistema per eleggere i togati del Csm ci sarà un sorteggio”. Idea già ventilata. Che ora però è messa nero su bianco nel testo dell’ampia riforma. Il meccanismo del sorteggio non sarà, ovviamente, trapiantato nudo e crudo nelle regole per formare il Consiglio superiore. Altrimenti si dovrebbe metter mano all’articolo 104 della Costituzione, che parla di “componenti eletti”. Come spiega Bonafede, “il sorteggio avverrà tra i candidati che hanno ottenuto una soglia minima di consensi”. Non basta a disinnescare la reazione dell’Anm, i cui vertici parlano di “evidente contrasto con una norma costituzionale”. La nota, firmata da presidente e segretario dell’Associazione magistrati, Luca Poniz e Giuliano Caputo, attesta l’assoluta contrarietà delle toghe alla riforma del governo: “Apprendiamo da dichiarazioni del ministro che sarà trasmesso a Palazzo Chigi un testo” relativo a “tutto il sistema del Csm e della magistratura”, dicono, ma “rispetto al quale non vi è stata alcuna preventiva interlocuzione con l’Anm”. I contenuti della riforma sono forti e rappresentano per certi aspetti una rivoluzione. La parte dedicata alla magistratura non si riduce certo a regole disseminate qua è la per riorganizzare l’elezione dei togati o il loro ritorno in ruolo. È tutto molto più ambizioso. Si interviene, appunto, sui tempi di fase, che i giudici saranno tenuti a rispettare, pena l’avvio di un procedimento disciplinare; e sulla impossibilità di vestire di nuovo la toga per i magistrati che decidono di entrare in politica. Non si trascurano neppure le regole, “meritocratiche” e puntuali, per l’assegnazione degli incarichi direttivi, rivelatosi vero ingranaggio debole nell’argine al correntismo del Csm, fino allo splafonamento del caso Palamara. Se dunque sul processo si interviene con mano attenta, sull’ordinamento giudiziario il ministro Bonafede mostra una volontà di cambiamento persino inattesa. Tanto che la reazione tra il contrariato e lo smarrito dell’Anm è davvero il minimo che ci si potesse attendere. Non a caso, una figura come l’ex presidente del “sindacato” Eugenio Albamonte, altrettanto autorevole ma meno vincolata dall’aplomb istituzionale, arriva a scorgere nelle misure dell’esecutivo “un regolamento di conti nei confronti di noi magistrati”. Nel dettaglio, il sistema del sorteggio per l’elezione dei togati è concepito in realtà con una prima fase elettiva, ma molto allargata. Innanzitutto perché la legge messa a punto a via Arenula innalza il numero dei consiglieri togati da 16 a 20 (e quello dei laici da 8 a 10): può farlo perché la Costituzione indica solo la proporzione tra le due componenti (due terzi e un terzo) e non il numero esatto dei consiglieri. La seconda misura della rivoluzione è nel numero dei magistrati che, nella prima fase, dovranno essere eletti: saranno la bellezza di 100. Tra loro saranno poi sorteggiati i 20 componenti effettivi. Bonafede è certo di non incorrere nella sanzione di incostituzionalità: il testo parlerebbe di una prima fase “diretta a eleggere i magistrati destinati a far parte del Csm” e di una seconda “diretta a effettuare il sorteggio dei togati componenti il Csm”. Come se fossero, tutti e cento, “eletti potenziali”, con un quinto della platea poi effettivamente investito della rappresentanza a Palazzo dei Marescialli. I collegi sarebbero 20: uno è destinato alla Cassazione, gli altri 19 sono su base territoriale, composti da uno o più distretti di Corte d’appello, e risulterebbero “più piccoli degli attuali”, come nota il guardasigilli. In ciascuno dei collegi viene sorteggiato un solo dei 5 eletti, che andrà effettivamente al Csm: si attenua dunque pure la polarizzazione accentrata nelle sedi maggiori, ossia Roma, Milano e Napoli. Riguardo all’eleggibilità, si passa dal requisito dei 3 anni di anzianità a quello della terza valutazione di professionalità. Confermato anche il livellamento dell’indennità, di 240mila euro. Finita qui? Macché. Come annunciato sempre dal ministro, al Csm cambia anche la sezione disciplinare, “per creare un’autonomia di giudizio”. Chi ne farà parte non potrà entrare in alcuna delle altre commissioni. Sarà divisa in due mini- collegi composti da 3 consiglieri, che dunque passano a 6 complessivi rispetto ai 4 attuali. Confermato, per gli ex togati, il divieto di assumere immediatamente incarichi di vertice negli uffici giudiziari: era stato cancellato dalla Manovra firmata Gentiloni, viene addirittura inasprito rispetto alla legge istitutiva del Csm del 1958: da 2 a 4 anni di naftalina. Rientro in magistratura abolito per le toghe che si candidano in Parlamento: manterranno lo stipendio ma lavoreranno nell’amministrazione della Giustizia con altre funzioni. Una vera e propria raffica, con un colpo calibro 9: la definizione di tempi di fase rigorosi che i giudici, civili e penali, saranno chiamati a rispettare, pena il processo disciplinare qualora violassero i limiti per oltre il 30 per cento dei fascicoli loro assegnati. Avranno 4 anni per il primo grado, 3 anni per l’appello, 2 per la Cassazione. È, in parte, la soluzione sollecitata dal presidente del Cnf Mascherin per sterilizzare gli effetti dello stop alla prescrizione dopo il primo grado. Ma il vertice dell’avvocatura aveva chiesto, come sanzione, l’estinzione del processo. Il governo opta per quella disciplinare, seppur temperata dal presupposto del ritardo dovuto a “negligenza inescusabile”, vizio a sua volta da valutare “tenuto conto dei carichi di lavoro”. È comunque una svolta epocale, che forse l’Anm neppure ha avuto modo di analizzare, quando diffonde la nota sulla “palese dichiarazione di sfiducia nei confronti dei magistrati italiani”. In realtà, l’autore della svolta, Bonafede, assicura che “i capi delle nostre Procure sono persone qualificatissime” e che dunque “siamo in ottime mani”. Però infligge anche una frecciatina al curaro all’Anm, quando ricorda che avrebbe dovuto “ribellarsi di fronte all’accordo fra correnti che ha portato a 4 soli candidati al Csm, nella sezione pm, su 4 posti disponibili”. La scelta drastica del sorteggio viene anche da lì. Il dl sicurezza si sblocca, sulla polizia Fico cede Il Messaggero, 13 luglio 2019 Riammessi gli emendamenti leghisti prima giudicati non ricevibili, riparte la Commissione. Si sblocca l’iter del decreto sicurezza bis, fermo per il contrasto tra i due livelli in cui ha finora viaggiato: quello delle aule parlamentari e quello dello scontro su Facebook tra i due partiti della maggioranza. Mentre infatti nelle prima M5S e Lega hanno lavorato di comune accordo, sui social è andato in onda un botta e risposta, con il ministro Matteo Salvini pronto ad alzare la posta. Il decreto, all’esame delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera, era fermo da giovedì a causa di sei emendamenti riguardanti la polizia e i Vigili del fuoco (buoni pasto, divise, straordinari) presentati sia dalla Lega che dal Pd e dichiarati inammissibili per estraneità di materia dai presidenti delle Commissioni, come vuole il Regolamento. In mattinata, mentre il presidente della Camera Roberto Fico stava raccogliendo i ricorsi della Lega, Matteo Salvini alzava il livello dello scontro. Fico, accogliendo i ricorsi della Lega, ha rimesso in gioco gli emendamenti sulle forze di polizia, mentre su quello riguardante i Vigili del Fuoco si è trovata un’altra strada: grazie all’unanimità di tutti i gruppi, sollecitata dal presidente della Affari costituzionali Giuseppe Brescia (M5S), si è potuto derogare al principio del Regolamento che bloccava l’emendamento per estraneità della materia. Insomma il contrario della tensione che traspariva dalle dichiarazioni su social e media. Tanto è vero che il Pd ha parlato di “scena penosa” con Maurizio Martina e di “vergognoso teatrino” con Franco Mirabelli. Iniziato l’esame degli emendamenti M5s e Lega, con il sostegno di Fi e Fdi hanno respinto quelli di Pd, Leu e +Europa che cancellavano il primo articolo, quello che attribuisce al Viminale il potere di vietare alle navi delle Ong l’ingresso nelle acque territoriali. Dalla prossima settimana maratona sui restanti 280 emendamenti per arrivare in aula lunedì 22 luglio. Csm: “Sospeso Palamara, risiko giudiziario per i suoi interessi” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 13 luglio 2019 “Fatti gravi, compromessa la credibilità”, scrive la sezione disciplinare, che ha contestato all’ex pm di aver messo le sue funzioni di magistrato a disposizione dell’imprenditore Centofanti in cambio di viaggi e regali. Cade però l’accusa di aver avuto in dono anche un anello per un’amica. La Sezione disciplinare del Csm ha sospeso in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio il pm romano Luca Palamara, indagato a Perugia per corruzione. I fatti contestati, si legge nella motivazione, “appaiono oggettivamente e incontrovertibilmente gravi e tali da rendere incompatibile con gli stessi l’esercizio delle funzioni, perché idonei a compromettere irrimediabilmente, allo stato degli atti, la credibilità del magistrato, anche sotto il profilo dell’imparzialità e dell’equilibrio”. E sulle cene con i dem Luca Lotti e Cosimo Ferri e alcuni consiglieri Csm (ora dimessi o sospesi) censura il “risiko giudiziario” compiuto per suoi interessi personali. Si citano anche i 40mila euro che secondo la procura di Perugia avrebbe ricevuto per “agevolare e favorire Giancarlo Longo nell’ambito della nomina a Procuratore di gela”, oggetto ancora di indagine. Palamara: “Era prevedibile” - Il tribunale delle toghe ha così accolto la richiesta avanzata dal Pg della Cassazione Riccardo Fuzio. “Era prevedibile, sono sereno. Quello che mi interessa è difendermi nel processo”, ha commentato Palamara che di fronte alla sezione disciplinare aveva rivendicato la “libera manifestazione di idee e valutazioni personali”. La difesa, gli avvocati Luca e Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni, ha confermato che farà ricorso in Cassazione. Palamara era stato audito martedì a palazzo dei Marescialli e aveva respinto ogni accusa. Sui soggiorni pagati o prenotati da Centofanti, l’ex presidente Anm aveva detto: “Il pagamento del prezzo avveniva da parte sua e poi venivano restituiti i soldi”. Ma la contestazione si è appuntata su circa 6.600 euro residui, non giustificati. Quanto alle cene, Palamara aveva rivendicato una “libera manifestazione di idee e valutazioni personali”. “Con l’imputato Lotti programmava i propri obiettivi” - Nell’ordinanza la sezione disciplinare contesta la tesi delle libere valutazioni personali. Perché non c’erano “interlocutori occasionali”, ma “un soggetto indagato e poi imputato (l’on. Luca Lotti) da una delle procure in gioco (quella di Roma), da parte di un soggetto (l’incolpato) che afferma di essere stato sempre consapevole, dell’esistenza di indagini a suo carico da parte della procura di Perugia, anch’essa considerata nel “risiko giudiziario”)”. E c’era una “programmazione delle azioni ritenute necessarie ai propri obiettivi”. L’anello che non c’è più - A Palamara viene contestato di aver violato i suoi doveri di magistrato per le vicende al centro dell’inchiesta di Perugia, dove è accusato di aver messo le sue funzioni di magistrato a disposizione dell’imprenditore e suo amico Fabrizio Centofanti in cambio di viaggi e regali. Tra questi un anello che nella motivazione del provvedimento di sospensione, però, non c’è più. Il Csm scrive a tutte le Procure: “Non coprite le inchieste sui giudici” di Matteo Indice La Stampa, 13 luglio 2019 Nel pieno d’una delle peggiori tempeste della sua storia, il Csm dice ai magistrati di tutt’Italia che da quasi 25 anni tendono a nascondere le indagini sui loro colleghi e le comunicano con ritardo al Consiglio, impedendo così un’efficace azione disciplinare. Di più: l’organo di autogoverno, per sollecitare input sulle inchieste in cui inciampano altri giudici o pubblici ministeri, riesuma una circolare del 1995 dai toni piuttosto velenosi, lanciando implicitamente un duplice messaggio. Primo: tutti devono partecipare al restyling d’immagine delle toghe, devastata dal caso Palamara e dalle intercettazioni che hanno svelato le trame per pilotare le nomine sulle Procure di varie città con un corollario di dimissioni, autosospensioni e durissimi richiami del Presidente della Repubblica. Secondo: l’andazzo, sembra rimarcare oggi il Csm, si protrae da un quarto di secolo e non ci si può trincerare sempre e comunque dietro il segreto istruttorio. Il nuovo documento è firmato dal segretario generale Paola Piraccini, ha la data dell’8 luglio ed è indirizzato a tutti i procuratori generali, con l’indicazione di divulgarlo a loro volta alle Procure della Repubblica d’ogni provincia di competenza: “Rilevata la necessità - si legge nel carteggio - di garantire la tempestiva comunicazione delle notizie di reato a questo organo (il Csm appunto, ndr), il Comitato di presidenza ha deliberato di rinnovare la richiesta di puntuale osservanza della Circolare 13682 del 5 ottobre 1995”. Ciò che veniva scritto allora, è il diktat, dev’essere ripreso per buono e le contromisure suggerite vanno messe in pratica. Si spiega in primis come già nel 1995 il Consiglio avesse “ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità del segreto investigativo… nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza”. Ma il bello viene dopo, ed è significativo che i passaggi della vecchia circolare siano allegati per intero all’attuale richiamo: “Si sono dovute riscontrare notevoli difficoltà di adempimento da parte di numerosi uffici. Talora sono del tutto mancate le dovute comunicazioni e il Consiglio ha dovuto prendere conoscenza attraverso la stampa di procedimenti riguardanti magistrati, addirittura già pervenuti alla conclusione dell’indagine preliminare”. Ancora: “Quasi mai gli uffici del pm provvedono a un’informativa sui fatti ai quali il procedimento si riferisce, né trasmettono di loro iniziativa gli atti conclusivi, né i provvedimenti di misura cautelare a carico di magistrati. Quasi sempre gli uffici trasmettono elenchi cumulativi di procedimenti privi d’indicazioni utili”. L’ultimo affondo, scritto sì 24 anni fa e però rilanciato dal Csm di oggi alle Procure, è il più duro: “Accade anche che le comunicazioni al Consiglio non siano al contempo inoltrate ai titolari dell’azione disciplinare, con evidente pregiudizio per l’esigenza di pronta informazione del ministro di Grazia e giustizia e del procuratore generale presso la Cassazione”. Il riferimento a quest’ultima figura suona tra l’altro come l’ennesimo cortocircuito: Riccardo Fuzio, Pg della Cassazione fino a pochi giorni fa, ha lasciato l’incarico ed è stato poi iscritto al registro degli indagati per rivelazione di segreto d’ufficio, con l’ipotesi che lui stesso avesse informato Palamara dei procedimenti a suo carico. Piano Condor, contro l’oblio di Luigi Manconi La Repubblica, 13 luglio 2019 Crimini che, in ragione della loro enormità morale “non possiamo né punire, né perdonare”: sono quelli che lo scorso 8 luglio, la Corte di Assise di Appello di Roma ha giudicato, riformando la sentenza di primo grado e condannando alla pena dell’ergastolo 24 persone (uno è stato assolto) per il reato di omicidio volontario pluriaggravato e continuato. Materia del processo il cosiddetto Piano Condor, definito dalla Corte interamericana dei diritti umani una “pratica sistematica di terrorismo di Stato”, che, a partire dagli anni 70, perseguì un programma di “contrasto al comunismo”, attraverso la cooperazione dei servizi segreti delle dittature di Argentina, Brasile, Cile, Bolivia, Perù, Paraguay e Uruguay. E con il sostegno più o meno diretto di apparati di sicurezza degli Stati Uniti. L’obiettivo era quello di eliminare le opposizioni politiche e sindacali e di diffondere un clima di paura; le modalità, pure differenziate, miravano tutte alla violazione dei diritti umani: sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, torture, omicidi. Si calcola che le vittime dirette delle sparizioni forzate nel corso dell’Operazione Condor siano state oltre 30 mila. È in questo contesto che va inserito lo sviluppo di movimenti, come quello delle Madri di Plaza de Mayo in Argentina che, nel reclamare verità e giustizia per gli scomparsi, tanto hanno contribuito a che il fenomeno delle sparizioni forzate, a opera degli apparati di Stato, emergesse in tutta la sua violenza. Ed è alla luce del carattere sistematico di tale pratica che sono stati interpretati anche i fatti oggetto della sentenza di Roma. Il processo si è potuto tenere in Italia perché, tra le vittime dei fatti giudicati, circa la metà era di origine italiana e perché tra gli accusati almeno uno aveva la doppia cittadinanza italo-uruguayana che lo rendeva penalmente perseguibile nel nostro Paese. Quest’ultimo dovrà scontare la pena in Italia, mentre gli altri già rispondono di precedenti crimini nei rispettivi Paesi. Nell’immediato si può notare che la sentenza è stata ignorata da gran parte dei media; e che in aula non era presente alcun esponente del governo, che pure nel 2013 si era costituito parte civile. E tuttavia si tratta di una vicenda di particolare rilievo, non solo simbolico. Siamo in presenza di quei crimini definiti, appunto, “non punibili e non perdonabili” da Antoine Garapon in quel libro imprescindibile. Reati, cioè, imprescrittibili, perché ledono non solo l’incolumità individuale, ma anche la vita collettiva, in quanto la lacerazione prodotta nel tessuto sociale è talmente profonda da non potersi ricucire. Mi riferisco a delitti quali la tortura, la sparizione forzata e il genocidio. Appunto, non punibili dal momento che qualunque pena, compreso l’ergastolo, che personalmente rifiuto, appare inadeguata rispetto alla incommensurabilità del crimine commesso. Non solo: la dismisura della pena risulta incongrua perché il carcere e la sanzione pecuniaria per i condannati appaiono lontanissimi dal costituire una qualunque forma di “risarcimento”. E ciò sia rispetto alla crudeltà delle sofferenze causate, sia rispetto alla loro assoluta irreparabilità. Non si dimentichi, infatti, un elemento terribilmente “aggravante”: parliamo di sparizioni forzate. In altre parole di corpi rapiti, torturati e cancellati. È come se i carnefici volessero aggiungere all’offesa della morte un oltraggio ancora più efferato, sottraendo ai sopravvissuti un cadavere da abbracciare e da onorare, una tomba su cui piangere, un sacrario a cui indirizzare pensieri e preghiere. Il corpo ucciso deve scomparire, affinché sia più agevole cancellarne la memoria. Per questo la sentenza è così importante. Alessandro Leogrande, bravissimo scrittore morto precocemente, curiosando tra le cose del mondo, apprende in Argentina la storia di un sacerdote italiano riconosciuto da alcune delle vittime come complice dei propri torturatori. Con grande fatica, contatta il sacerdote, nel frattempo rientrato anonimamente in Italia, ma questi alla fine si sottrae a ogni ulteriore scambio e incontro, rimanendo all’ombra di un qualche campanile in Emilia. È un vero peccato perché sarebbe stata un’occasione di grande qualità morale conoscere uno dei più indecifrabili “misteri del male”, che forse solo uno scrittore avrebbe potuto restituirci. P.S. La sentenza prevede tra le pene accessorie una provvisionale di un milione di euro da destinare a quella parte civile, rappresentata dalla presidenza del Consiglio italiana. La somma risulta concretamente riscuotibile dal momento che una normativa europea stabilisce strumenti specifici in materia di tutela della vittima derivanti da reati violenti intenzionali. Alcuni, tra i quali Eugenio Marino e Gianni Cuperlo, propongono che la somma venga destinata a un certo numero di borse di studio per giovani ricercatrici e ricercatori in materia dei diritti umani. Per contribuire a contrastare l’oblio. Tre anni in cella, ma non è lui il trafficante di Romina Marceca La Repubblica, 13 luglio 2019 Scagionato l’eritreo accusato di essere a capo della tratta. “Uno scambio di persona”. L’ultima beffa arriva alle 21,30, a sei ore da una sentenza che ammetteva l’errore di identità e disponeva l’immediata scarcerazione. Medhanie Tesfamariam Behre mostra le manette schiacciando i polsi contro il vetro della volante che lo sta portando via dal carcere Pagliarelli, il penitenziario dove è rimasto rinchiuso per tre anni e due mesi con l’accusa di essere uno tra i più spietati trafficanti di uomini, “il generale” Medhanie Yedhego Mered. La sorella Hiwet inizia a correre dietro a quella volante, il sogno di riabbracciarlo almeno per ora è svanito. “Nemmeno mi hanno detto dove lo stanno portando, forse in un Cie - dice l’avvocato Michele Calantropo, il suo difensore - ma non possono farlo. C’è una richiesta di asilo politico con domicilio indicato a Palermo”. Hiwet nel pomeriggio davanti al carcere aveva detto: “Adesso mi aspetto le scuse dalla magistratura italiana”. Dentro al penitenziario palermitano c’era ancora suo fratello, Medhanie, il falegname catturato in Sudan nel 2016 e presentato all’Italia come il trafficante Mered. Ma era un errore. In carcere era finito l’uomo sbagliato. Ieri, dopo quattro ore di camera di consiglio, a ripetere più volte, durante la lettura della sentenza, che si è trattato di “un errore di persona” è stato il presidente della seconda sezione della Corte d’Assise, Alfredo Montalto, lo stesso del processo Trattativa Stato-mafia. Ad equilibrare quello sbaglio è arrivata una condanna a cinque anni per favoreggiamento della immigrazione clandestina. In una chat l’eritreo avrebbe preso accordi per il viaggio in Europa di un suo cugino. Su questa condanna l’avvocato Michele Calantropo ieri ha avuto da ridire: “Uno di quei trafficanti in realtà non esiste”. Ma il capo della procura palermitana, Francesco Lo Voi, ha dichiarato: “La Corte ha riconosciuto che si tratta di una persona coinvolta nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Quindi non un povero falegname ingiustamente perseguitato. Per il resto leggeremo le motivazioni”. La capitana della battaglia per sciogliere i dubbi su quell’identità sbagliata è stata proprio lei, Hiwet, assistente per anziani in Norvegia. “Una sera ho visto in televisione mio fratello che saliva su un aereo in manette, tra due poliziotti. Al telegiornale dicevano un nome che non era il suo”, ha raccontato a Repubblica davanti al carcere, addosso una maglietta bianca con la foto di Medhanie e la frase “Free our innocent brother”. E poi quella foto di un uomo che al collo aveva un pesante crocifisso d’oro, le fattezze somiglianti a quelle di Medhanie. “Ma non era lui”. C’è voluto un processo lungo tre anni, tre Dna che lo scagionavano, perizie foniche, documenti e decine di testimoni. “A un certo punto - ha raccontato Hiwet - mi ero convinta che la giustizia italiana funzionava così”. Udienza dopo udienza però sono emersi i tasselli che hanno anche portato a un’ordinanza che ha disposto il cambio di generalità in tutti gli atti. “Ora voglio solo riabbracciarlo”, conclude emozionata. Ma poche ore è arrivata quella volante a portare via un’altra volta Medhanie. Ferrara: suicidi e falle nella sorveglianza in carcere, arrivano più agenti di Daniele Predieri La Nuova Ferrara, 13 luglio 2019 Le ultime settimane all’Arginone non sono state facili e il carcere è stato più volte citato negli articoli di cronaca per suicidi e tentati suicidi, episodi di violenza, danneggiamenti ed altre situazioni poco chiare, come il caso del detenuto che riusciva a chiamare l’ex moglie e a minacciarla usando il cellulare. Una vicenda che ha sollevato più di qualche perplessità tra gli osservatori, nelle istituzioni, tra le parti in causa e nei luoghi della politica proprio per la capacità dimostrata da una persona sottoposta a restrizione della libertà di aggirare la sorveglianza, che in un carcere si suppone applicata in modo rigido e capillare. Un quadro d’insieme alimentato anche da altri fatti, come i danni alle cose (piccoli incendi e tubi spaccati) e alle persone, con gli agenti contusi e costretti alle cure ospedaliere. Panorama complesso che richiede risposte urgenti, seguite però da un’azione più ampia e organizzata per individuare soluzioni efficaci ad un ventaglio di questioni. L’arrivo di 9 poliziotti penitenziari (otto uomini e una donna) rappresenta una boccata di ossigeno. A darne notizia è stato ieri il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi. “Gli agenti saranno operativi dopo il giuramento degli allievi del 175esimo corso, il 31 luglio”, ha annunciato. Nelle strutture carcerarie dell’Emilia- Romagna arriveranno 132 poliziotti in più, “oltre 1300 agenti di polizia penitenziaria in deroga, inoltre, saranno presto oggetto di definizione e invio sui territori, compresi quelli emiliani”, ha precisato l’esponente del governo. In concreto, “la violenza nei confronti degli agenti e gli episodi di tentato suicidio e suicidio devono essere affrontati. Per quanto riguarda gli ultimi però - ha proseguito Ferraresi - l’analisi non ha portato a ritenere che siano relativi a situazioni sistemiche della struttura dell’Arginone”. Ma questo non vuole dire, ha aggiunto il sottosegretario, che non ci siano criticità che vanno immediatamente affrontate e che sono in via di definizione. “La Direzione e il comandante - ha detto ancora l’esponente M5s - si sono impegnati fin da subito a operare i controlli necessari sulle linee telefoniche” danneggiate e che devono essere riparate. Ci sarà un interessamento “in particolare per l’implementazione dell’area sanitaria”. Si punta anche a “incentivare il lavoro come percorso rieducativo e formativo” con progetti che possano coinvolgere la società esterna. Sarà istituita una “task force sulle aggressioni” che “possa portare nel breve periodo a soluzioni per tutelare la sicurezza di chi lavora negli istituti penitenziari”. Giovanni Durante, rappresentante del Sappe, ha evidenziato che “l’arrivo degli agenti è una buona notizia, ma in futuro bisognerà agire su due fronti: rivedere, incrementandole, le piante organiche e rispondere all’esigenza di come trattare il disagio psichico. Noi non siamo preparati ad affrontare queste situazioni che richiedono risposte idonee e appropriate”. Il collega Lorenzo Bosco, del sindacato Osapp, sottolinea la necessità di ringiovanire il personale (“qui i più giovani hanno già più di 20 anni di servizio”) e di potenziare i sistemi di videosorveglianza e di allarme. Ieri in carcere si è svolto un incontro multidisciplinare incentrato sul problema del disagio psichico tra le mura degli istituti di pena. “Parliamo di persone che possono avere motivi diversi per tentare il suicidio, su questo siamo un po’ tutti d’accordo, ogni episodio fa storia a sé e il disagio psichico non è l’unica causa - ha spiegato Stefania Carnevale, garante dei detenuti - Purtroppo l’ultima riforma del carcere non ha affrontato questo tema ed è rimasto un vuoto normativo. Un vuoto da colmare, questa dovrebbe essere una delle risposte; tra le altre va bene potenziare il personale ma si deve anche pensare al riempimento dei tempi. Serviranno idee e risorse”. Lucera (Fg): il caso di Giuseppe Rotundo, picchiato in carcere ma condannato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2019 Il 13 gennaio del 2011 il sig. Giuseppe Rotundo, a quel tempo detenuto nel carcere di Lucera in provincia di Foggia, si reca in visita dalla psicologa, con cui aveva appuntamento da tempo. L’operatrice gli chiede di presentarsi. Eppure si conoscevano bene e si erano visti di recente. “Sono io, lo stesso di ieri”, risponde l’uomo. Lei lo guarda smarrita e scoppia a piangere. Il volto tumefatto e le ecchimosi lo avevano reso irriconoscibile. “Era la prima volta che vedevo una persona ridotta così”, dirà durante la sua deposizione in tribunale. Rotundo racconta che tre agenti di polizia penitenziaria lo avevano condotto in una cella di isolamento e lo avevano costretto a denudarsi. Dopodiché lo avevano picchiato. Lui si era difeso con tutte le sue forze, creando tra l’altro un danno fisico serio a uno dei tre poliziotti. Diversa la versione di questi ultimi: l’uomo li avrebbe aggrediti e loro, nel tentativo di farlo calmare, gli avrebbero provocato quei segni che lo avevano reso irriconoscibile. Partono dunque due procedimenti, unificati nello stesso, uno contro Rotundo e uno contro i tre poliziotti. L’associazione Antigone, con i suoi avvocati, segue il processo che deve giudicare sulle violenze subite dal detenuto. Si va per le lunghe, come troppo spesso accade. Solo ieri, 11 luglio 2019, arriva la sentenza: il giudice dichiara prescritto il reato per gli agenti penitenziari e condanna Rotundo, in quanto recidivo, a un anno e nove mesi di reclusione. Aspettiamo le motivazioni della sentenza per capire la ricostruzione dei fatti effettuata. Rimangono in ogni caso anni di inutili rinvii e udienze dilatate nel tempo che hanno portato a superare i termini di prescrizione per gli agenti. E ciò pur in presenza di gravissimi accadimenti denunciati, per i quali avremmo voluto un’assoluzione o una condanna ma non una prescrizione. Il processo per la morte di Stefano Cucchi ha per la prima volta portato all’attenzione dell’opinione pubblica di massa il tema della violenza subita in detenzione. Non più solo qualcosa contro cui si batte qualche avvocato temerario e su cui cerca di far luce qualche sporadica associazione a tutela dei diritti umani. Speriamo che quel processo riesca a capovolgere la convinzione che ancora residua in alcuni poliziotti di poter fare quel che vogliono perché tanto nulla può loro accadere. All’indomani del brutale pestaggio di massa dell’aprile 2000 avvenuto nel carcere San Sebastiano di Sassari, Adriano Sofri - alle cui riflessioni sono grata ora come allora - scriveva che “impressionante, in questi giorni, non è la solidarietà delle associazioni degli agenti, ma la loro sentita stupefazione per un’iniziativa giudiziaria di cui si capisce che non era nel loro conto. Che nel loro conto era l’impunità, per antica abitudine rinnovata dagli umori recenti dei media e della gente: cosicché ora se ne sentono traditi, e lo dicono. Preferite quei drogati!”. E aggiungeva: “il punto è nell’ammissione che la dignità degli agenti è legata alla dignità dei detenuti”. Ecco, il punto è lì. Non si tratta di mele marce. C’è un’indicazione culturale, un messaggio diffuso che ancora informa di sé una seppur piccola parte del corpo di polizia penitenziaria. Ci siamo noi e ci sono loro, e noi possiamo essere sopra la legge. Per fortuna la stragrande maggioranza degli agenti penitenziari è composta da persone che un simile messaggio non hanno mai voluto frequentarlo e che ogni giorno contribuiscono con dedizione e anche con passione a un’esecuzione penale rispettosa del dettato costituzionale. Ma fino a quando avremo prescrizioni come quella di ieri, il sistema giudiziario sarà complice di quella piccola parte che vive di arbitrio e di abusi. La prescrizione è sempre un fallimento della giustizia. Alla quale tuttavia, chi è certo della propria innocenza, può sempre rinunciare. *Coordinatrice associazione Antigone Frosinone: pesante criticità del servizio sanitario in carcere radiocassinostereo.com, 13 luglio 2019 Con una nota trasmessa a tutti gli enti ed autorità preposte, lo Snami, il Sindacato Nazionale dei Medici, ha posto risalto alla crisi del servizio sanitario in atto all’interno della Casa Circondariale di Frosinone. Una grave carenza della dotazione organica, riguardante il Personale Medico ed Infermieristico - scrive il presidente Giovanni Magnante - sta avendo “pesanti ripercussioni sulla sicurezza sul lavoro dello stesso personale. Per valutare le criticità occorre considerare che in tale penitenziario sono ristretti circa 630 detenuti, di cui una gran parte è affetto da gravi malattie”. Il carcere di Frosinone “è classificato dal punto di vista sanitario come Sai (servizio di assistenza sanitaria integrativa), ossia è equiparato ai vecchi Centri Clinici, dove sono allocati detenuti con gravi patologie e bisognosi di cure intensive (cardiopatici, diabetici, nefropatici, soggetti con epatopatie correlata a Hcv, Hiv, Hcv, pazienti psichiatrici ecc.). Facendo un raffronto con gli altri SAI, emerge che la dotazione infermieristica di Frosinone è gravemente deficitaria, poiché è inferiore di oltre un terzo rispetto alla dotazione dei restanti Istituti. A Frosinone ci sono solo quattro infermieri a turno la mattina, e spesso una unità è mancante e non viene neanche sostituita, tre infermieri il pomeriggio e due infermieri la notte. Con questi numeri è palesemente impossibile erogare una congrua assistenza infermieristica tenendo bene a mente che, solo per l’attività consueta, si deve preparare 2-3 volte al giorno la terapia a circa 450 pazienti in trattamento farmacologico, somministrare farmaci ai numerosi pazienti psichiatrici accertandosi a vista che vengano assunti al momento, effettuare il controllo della glicemia e le terapie insuliniche ai diabetici, controllare la pressione ai cardiopatici, i parametri vitali a chi rifiuta il vitto e la terapia salvavita”. Inoltre i pochi infermieri devono “supportare i numerosi specialisti che operano in sede, preparare le richieste dei farmaci per l’approvvigionamento alla farmacia interna ed esterna, collaborare con il medico Sias nelle emergenze/urgenze e nelle visite non differibili e con il medico incaricato nelle visite ordinarie giornaliere”. Non va meglio per la dotazione medica, “esiste solamente un medico incaricato, il quale è presente in Istituto solo tre ore al giorno, ed un solo medico Sias presente H24 nel vecchio padiglione, mentre nel nuovo padiglione, dove ci sono oltre 300 detenuti sin da quando è stato aperto, non vi è nessun medico in sede. È pressoché impossibile trovare un altro Istituto in Italia con un rapporto medici/detenuti così basso”. Lo Snami, ricordando che questa situazione permane ormai dal 2015, sollecita tutti i destinatari della nota, ciascuno per le proprie competenze, ad intervenire e “precisa che se nel frattempo dovessero insorgere o emergere patologie, infortuni, o incidenti vari collegabili o riconducibili anche in senso pregresso alla mancata applicazione del Dlgs 81-08, gli organi Asl di vertice in indirizzo, come soggetto datoriale, verranno ritenuti quali responsabili”. Forlì: attività in carcere per i detenuti, “laboratori strumenti di riscatto sociale” forlitoday.it, 13 luglio 2019 Si amplia la compagine dei firmatari ai Protocolli che danno vita ai tre laboratori nei quali lavorano quotidianamente detenuti della casa circondariale di Forlì. A sostegno delle attività ci sono Cgil, Cisl e Uil, l’impresa Cepi Spa, la Consigliera di Parità della Provincia di Forlì-Cesena e l’Inail. La firma è avvenuta venerdì mattina. Due laboratori sono interni ai locali del carcere (il laboratorio metalmeccanico Altremani e il laboratorio di cartiera Manolibera), mentre il laboratorio di recupero Raee (Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) è esterno. I laboratori, nati con il contributo del Fondo Sociale Europeo attraverso l’amministrazione provinciale di Forlì, sono coordinati da Techne, l’agenzia formativa pubblica di proprietà del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Romagna Holding Spa) e del Comune di Cesena, che all’interno dei Laboratori ha funzioni di regia, tutoraggio e monitoraggio. I Protocolli vedono tra i firmatari oltre ovviamente al carcere, enti locali, istituzioni ed aziende del territorio. “I tre laboratori - spiega il direttore del carcere Palma Mercurio - sono frutto della collaborazione dell’intero territorio, si dimostrano quotidianamente strumenti importanti di riscatto sociale per le persone in carcere, che si vedono offrire una seconda possibilità, imparano un mestiere e ritrovano il senso della legalità”. “Tali laboratori - chiarisce Gabriele Antonio Fratto, presidente della Provincia di Forlì-Cesena - dimostrano quanto il carcere sia anche una comunità educante, rappresentando un passaggio fondamentale per un efficace reinserimento dei detenuti nella vita sociale e lavorativa”. Per Lia Benvenuti, direttore generale Techne, “l’estensione a nuovi firmatari di questi Protocolli è una importante vittoria per tutto il nostro territorio che si dimostra capace di lavorare in rete su un tema complesso come quello del carcere, ottenendo risultati concreti in termini di inserimenti occupazionali e obiettivi rieducativi”. Alla firma sono intervenuti anche Paola Casara, assessore alle politiche per l’impresa, servizi educativi, scuola e formazione del Comune di Forlì; Paolo Zoffoli, consigliere Regione Emilia Romagna; e Milena Garavini, sindaco di Forlimpopoli. I laboratori - Il laboratorio di metalmeccanica “Altremani”, nato nel 2006, si occupa di assemblaggio per conto di Mareco Luce, Vossloh Schwabe e Cepi Spa che, dimostrando una forte responsabilità sociale, forniscono importanti commesse indispensabili per la sostenibilità del laboratorio stesso. Il Laboratorio che occupa oggi 6 detenuti facenti capo alla Cooperativa Lavoro Con raggiunge quotidianamente indici produttivi soddisfacenti e una buona qualità nelle lavorazioni. Altremani rappresenta un’eccellenza a livello nazionale non solo per gli oltre 65 detenuti che in questi anni ha coinvolto, ma anche grazie all’autosufficienza economica raggiunta dal Laboratorio, superando le difficoltà strutturali, logistiche, normative e relazionali caratterizzanti le attività in carcere che spesso ne compromettono non solo l’autosufficienza economica ma la stessa sostenibilità. Il laboratorio di recupero Raee, nato nel 2009, si occupa del recupero di apparecchiature elettriche ed elettroniche che provengono dalle isole ecologiche del territorio. Il Laboratorio, gestito dalla Cooperativa sociale Formula Solidale, occupa 2 ex-detenuti e svolge le sue attività all’esterno del carcere nella sede di Vecchiazzano della cooperativa. Il laboratorio di cartiere “Manolibera”, nato nel gennaio 2011, produce carta artigianale realizzata secondo una tecnica di lavorazione arabo-cinese del tutto naturale che si basa sullo spappolamento e l’omogeneizzazione della carta di recupero. Ad oggi il laboratorio impegna 5 detenuti. Palermo: alcuni detenuti del carcere Pagliarelli saranno impiegati dal Comune di Martino Grasso lavocedibagheria.it, 13 luglio 2019 Alcuni detenuti del carcere dei Pagliarelli di Palermo lavoreranno presso il comune per lavori di pubblica utilità, come giardinaggio o pulizia dei locali comunali. La convenzione fra il carcere e l’amministrazione comunale è stata stipulata nei giorni scorsi fra il sindaco Salvatore Sanfilippo e la direttrice della casa circondariale di Palermo Francesca Vazzana. Il progetto prende il nome “mi riscatto per il comune di Santa Flavia” ed è finalizzato a “promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative da parte dei detenuti, condannati in via definitiva, a favore della collettività”. L’iniziativa prevede l’individuazione, in sinergia con la Magistratura di sorveglianza, di percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale con valenza di riparazione del danno conseguente alla commissione del reato. Saranno impiegate persone in base alle specifiche professionalità e attitudini lavorative, e verranno impiegate presso i servizi di pulizia, manutenzione e conservazione del verde pubblico e siti di interesse pubblico del Comune. Il progetto prenderà il via nei prossimi giorni. Saranno quattro le persone da impiegare, che saranno individuate dalla direzione del carcere dei Pagliarelli. E in ogni caso fra coloro che hanno dichiarato la volontà di espletare attività non retribuita, a favore della collettività. I detenuti verranno utilizzati per lavori di pulizia, manutenzione e conservazione del verde pubblico e siti di interesse pubblico e altre attività che saranno stabilite di volta in volta e concordate con la casa circondariale. Saranno i referenti indicati dal comune a coordinare i lavori. Soddisfatto per la stipula del protocollo d’intesa il sindaco Salvatore Sanfilippo: “queste persone saranno impiegate in servizi di pubblica utilità. Pensiamo ai lavori di giardinaggio nelle ville comunali, servizio attualmente carente”. Roma: oggi non parlo di scienza né di Pechino, ma delle mie prigioni di Andrea Aparo von Flüe Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2019 Parliamo di carcere. Ci sono stato in prigione. Anni fa. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Per tenere una conferenza ai detenuti dell’area del dissenso. Su richiesta del senatore Gino Giugni, padre dello Statuto dei Lavoratori. Un uomo grande che si occupava degli ex-terroristi, di destra e di sinistra, con condanne finali, nel migliore dei casi al carcere a vita, nonostante fosse stato gambizzato dalle Brigate Rosse nel 1983. Sapeva perdonare, senza dimenticare. Così un pomeriggio, poco dopo pranzo, mi hanno aperto i cancelli. Non ci sono porte. Solo cancelli. Non ci sono maniglie, solo chiavi. Corridoi interminabili dove l’unico suono è quello dei passi, del proprio respiro, il battito del cuore. Un universo a parte, il carcere. Ci sono centinaia di detenuti, ma regna un silenzio surreale. Il tempo è diverso. Relativo. Dilatato. Rallentato. Sei mesi “fuori” in cella sono sei giorni, sei ore. Ho iniziato la mia conferenza con la sala pressoché vuota. Il giudice di sorveglianza, leggermente imbarazzato, mi ha spiegato che aspettavano qualcuno di più importante per discutere di innovazione e tecnologia nei prossimi decenni, per cui erano rimasti in cella. Vero, ero un ripiego perché era stato sconsigliato al mio capo, mentore, maestro e presidente dell’Enea, il Prof. Umberto Colombo, altro grande, di venire. Mi ha chiesto di parlare al suo posto. Non gli ho mai disobbedito. Poco male, dico. Comincio a raccontare e mi perdo nella narrazione. Non so dopo quanto tempo, un rumore intenso, una sedia caduta, mi ha fatto recuperare il senso della realtà per scoprire che in sala non c’erano più posti a sedere. Piena. Prima della sessione domande e risposte, il giudice, sorridendo, mi ha detto che stavo facendo un buon lavoro. Il tamtam interno al carcere aveva detto che valeva la pena venirmi ad ascoltare. In carcere ci si muove in silenzio. Non mi ero accorto di nulla. Nell’ascoltare le domande ho scoperto che anche la lingua del carcere è diversa da quella di fuori. L’italiano che si parla è congelato al tempo dell’inizio della detenzione. All’esterno c’è evoluzione e cambiamento, all’interno no. Quando ho finito, era già notte, non riuscivo a trovare un taxi che mi venisse a prendere. Non appena dicevo che uscivo da Rebibbia erano tutti impegnatissimi. Nessuno vuole avere a che fare con chi esce dal carcere. Una realtà da ignorare, dimenticare, rimuovere. Volete farvi un’idea di quanto qui raccontato? Usate questo link (cliccando sull’aeroplanino in alto a destra trovate i vari codici html), mettetevi comodi e dedicate un po’ del vostro tempo a guardare il documentario Voci di dentro girato da Lucio Laugelli (prodotto da Stan Wood Studio e ICS Onlus nell’ambito del progetto Artiviamoci, con la partecipazione di Giulia Cantini, Stefano Careddu, Emilù Nizzo e, per la parte tecnica, Paolo Bernardotti e Federico Malandrino) nel carcere di San Michele di Alessandria. Scoprirete le sue mura, i corridoi, la luce. Sentirete le voci dei detenuti e scoprirete che sono persone “dentro” con i loro dubbi, errori, intelligenza, filosofia e con la saggezza amara di chi dallo Stato è stato punito per non averne rispettato le leggi. Uno Stato giusto, non giustizialista. Persone che parlano del passato e del perché; del presente e del come; del futuro e del forse. Persone come noi. Noi fuori. Loro dentro. Per favore guardatelo. “Voci di dentro” disturba, soprattutto nel finale. I titoli di coda sono altrettanti pugni nello stomaco. Il lavoro di Lucio e dei suoi intervistati sorprende, lascia un senso di amaro. Solleva molte domande e dubbi su una realtà che si vuole ignorare, rimuovere, dimenticare. “Voci di dentro” fa male. Fa pensare. Scusate se è poco. Roma: porto dentro i miei ragazzi, per evitare che ci finiscano di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 13 luglio 2019 Suor Amalia Cerullo accompagna i suoi alunni a visitare i carcerati. Raggiungere Via Colle della Madonella a Zagarolo, un comune in provincia di Roma a ridosso dei Monti Prenestini, non è stato facile. Ma è qui che ci ha fissato un appuntamento suor Amalia Cerullo, religiosa delle Figlie di Nostra Signora dell’Eucaristia, che accompagna i ragazzi delle scuole superiori in carcere per fargli conoscere la dura realtà della detenzione e consentirgli di parlare con chi ha sbagliato e oggi sta pagando. L’istituto dove risiedono le suore è isolato, difficile da individuare e quindi tentiamo di contattarle. Invano. I telefoni sono morti e la rete è inesistente. Da lontano una voce ci chiama, ci invita a seguire un sentiero sterrato e finalmente riusciamo a raggiungere la meta. La voce è quella di suor Amalia: “In questa zona gli smartphone non funzionano e, sinceramente, a noi non servono”. Ovviamente chiediamo lumi: “Qui viviamo pienamente il mistero dell’Eucaristia” ci spiega e aggiunge: “La nostra missione è quella di porre al centro della nostra vita, e quella dei fedeli, l’Eucaristia. Ci impegniamo soprattutto a incrementare l’adorazione sia tra i laici presso la nostra cappella, che nelle varie parrocchie italiane. Lo facciamo proponendo le settimane eucaristiche”. La congregazione ha una lunga storia che parte il 4 agosto 1948, data in cui la serva di Dio, madre Letizia Zagari, fonda l’istituto. “Qui a Zagarolo siamo dal 1988 e, oltre all’attività quotidiana, viviamo insieme alla comunità locale giornate di spiritualità e un appuntamento straordinario molto sentito e richiesto: l’adorazione notturna il primo sabato del mese. Ma immagino che siate arrivati fin qui per conoscere l’altra attività”. Suor Amalia anticipa le nostre domande e preferisce raccontare il suo servizio pastorale partendo da prospettive e angolature diverse, riflettendo su cause ed effetti e spiegando i particolari anche più di una volta. “Deformazione professionale. Sono una insegnante di religione nel Liceo scientifico del posto intitolato, non a caso, a Falcone e Borsellino”. Ma come nasce l’idea delle “uscite didattiche” in carcere? “Ogni volta che parlavo ai miei alunni del valore dell’onestà, veniva fuori il discorso del malfunzionamento della giustizia italiana e dei suoi ritardi. Inoltre i ragazzi erano soliti dire che “in Italia chi commette un reato fa poca galera e, comunque, dietro le sbarre si sta bene”. Di fronte a ripetute affermazioni del genere e alla convinzione di un sistema eccessivamente tollerante nei confronti dei malfattori, sarebbe stato difficile rispondere con una moderna lezione di “cittadinanza e Costituzione”. Anzi, piuttosto complicato soprattutto perché le questioni poste erano: Dove è la punizione? In che modo pagano queste persone per quello che hanno commesso? Inizialmente ho cercato di fargli capire che non è affatto vero che in carcere c’è benessere e, per quanto le condizioni possano essere (in rari casi) favorevoli, manca l’elemento essenziale, quello che non ha prezzo: la libertà”. “Ma - riprende la religiosa - far passare un concetto del genere a ragazzi e ragazze di 18 anni è una impresa titanica. Soprattutto ai giovani del nostro tempo che hanno sempre bisogno di toccare, vedere e verificare. Da qui l’idea di farli entrare per un confronto diretto”. Suor Amalia non si è fatta mettere all’angolo e ha risposto con un progetto che, all’inizio, ha fatto riflettere perfino i dirigenti scolastici. Il concetto era più o meno così articolato: si trattava di partire da chi aveva commesso crimini per comprendere la legalità. Esperienza utile a chi era dentro, per riattivare circuiti virtuosi con l’esterno, ma altrettanto forte per chi per la prima volta avrebbe avuto davanti a sé un essere umano e non il reato che aveva commesso. “Cominciai da sola perché anche io ero digiuna della materia” spiega suor Amalia. “Il mio primo accesso risale all’8 maggio di due anni fa. Quando si presentarono dinanzi ai miei occhi tutti quei ragazzi provai una forte emozione. Ho sentito immediatamente un trasporto verso di loro. Li ho trattati fin da subito con grande rispetto. Mi ricordo di avergli ripetutamente detto “Vi voglio bene”. Loro mi risposero con un grande applauso. Fu quello l’inizio del mio nuovo percorso vocazionale”. Un esordio favorevole, senza alcun dubbio. Ma poi come si fa a parlare di contemplazione, preghiera, meditazione e, soprattutto, di Eucaristia a detenuti che hanno storie criminali alle spalle? “Molto semplicemente gli ho spiegato che quella che avevano davanti agli occhi non era una statua, ma Gesù vivo e vero. Noi cristiani crediamo che in quell’ostia c’è veramente il corpo di Cristo. La contempliamo e davanti a essa apriamo il cuore alla preghiera. E così è stato. Ricordo che in una occasione uno di loro disse spontaneamente: “Gesù, ti chiedo perdono per tutto il male che ho fatto, per tutte le persone che ho ucciso, perdonami inoltre perché non ti ho pregato per tanto tempo”. Non c’è dubbio: l’Eucaristia davanti a loro faceva un grande effetto”. Suor Amalia ha studiato comportamenti e reazioni prima del passo successivo, quello appunto del coinvolgimento dei suoi studenti. “Ogni volta che andavo in carcere avviavo una piccola riflessione e poi accompagnavo gli ospiti a pregare in cappella. Ho sempre sentito attorno a me un grande affetto, un amore fraterno. Sono stata accolta con calore perché il loro desiderio più grande è quello di ascoltare la parola di Dio. Per loro è importante sentirsi amati, e soprattutto non giudicati. Stanno già pagando per quello che hanno commesso, non serve un’altra condanna”. La religiosa nel ricostruire il suo racconto fa spesso riferimento all’esempio di Papa Francesco: “Mi piace parlare della semplicità del Santo Padre che continua ad avere un’attenzione verso i detenuti perché crede nella redenzione anche dell’uomo che ha commesso crimini orrendi”. Poi il grande passo. “In principio fu Velletri, dove portai tutte le quinte classi del Liceo - racconta - Con la direttrice, gli educatori, il personale amministrativo e gli agenti di polizia penitenziaria trascorremmo la mattinata. Ognuno di loro ha spiegato ruoli e finalità. Poi passammo a visitare gli ambienti (la cucina, l’orto) e il reparto dei semi-liberi, ovvero coloro che uscivano la mattina per recarsi al lavoro e rientravano il pomeriggio”. Continua suor Amalia: “Fummo fortunati perché trovammo uno di loro che raccontò la sua vita. Disse ai miei ragazzi: “Non fate come me. Studiate e gettate le basi per un futuro. Io ho iniziato proprio con il disertare la scuola. Ai libri ho preferito lo spaccio della droga e per questo mi hanno arrestato. Oggi ho una moglie e due bambini e Dio solo sa quello che farei per stare con loro”“. Testimonianza choc che sconvolse letteralmente i maturandi spavaldi che pochi minuti prima di varcare le mura del carcere parlavano di “pena aspra necessaria e indispensabile”. Obiettivo centrato? Sorride suor Amalia, sapendo bene che la rotta era quella giusta e che avrebbe dovuto insistere anche se avrebbe preferito un impatto ancora più duro. “Visitare il carcere non vuol dire guardare le mura o dare un’occhiata qua e là agli ambienti, ma guardare gli ospiti negli occhi e confrontarsi con loro. Questo sì che ha un senso e fa cambiare idea ai nostri liceali. Dopo incontri del genere, avviene una trasformazione nel loro modo di giudicare i detenuti perché avvertono il loro desiderio di cambiare vita. Hanno capito che il passato non li ha portati a nulla e che la sofferenza è molto forte per quello che hanno compiuto e per il loro stato di detenzione”. L’ultima “uscita didattica” di suor Amalia risale al mese scorso: ha portato i maturandi nel carcere di massima sicurezza di Paliano, in provincia di Frosinone. “Gli ho fatto incontrare i collaboratori di giustizia. Un momento davvero emozionante. A distanza di tempo continuano a parlarne” rivela soddisfatta. Le chiediamo se l’invito a visitare il carcere è rivolto a tutti, oppure c’è una selezione preventiva. “Viene solo chi è spinto da un forte interesse e non chi è curioso di scoprire un luogo e incontrare persone, per così dire, particolari” risponde convinta. E il suo desiderio più grande? “Potete immaginarlo. L’adorazione notturna dell’Eucaristia in carcere con ospiti e alunni. La sintesi perfetta della mia vocazione”. Spoleto (Pg): premi ai detenuti-poeti del corso di scrittura creativa di Francesca Gosti umbriacronaca.it, 13 luglio 2019 La Consigliera provinciale con delega alle Pari opportunità, Erika Borghesi ha partecipato agli incontri organizzati nelle case di reclusione di Spoleto e Perugia per premiare i detenuti del carcere di Maiano e le detenute del carcere di Capanne che hanno frequentato il corso di scrittura creativa curato dalla poetessa Francesca Gosti e che hanno partecipato al concorso nazionale promosso dall’Associazione “Nel Nome del Rispetto” di cui sono rispettivamente presidente e vicepresidente Maria Cristina Zenobi e Cristina Viriili. L’incontro a Spoleto si è svolto ieri con la delegazione ricevuta dal Direttore Giuseppe Mazzini da febbraio alla guida del supercarcere, mentre questa mattina è stato il Direttore della Casa Circondariale di Perugia, Bernardina Di Mario a ricevere gli ospiti. “Queste persone vivono una situazione difficile - ha sottolineato Erika Borghesi - ma frequentare i corsi offre concrete possibilità di acquisire conoscenze e competenze utili anche una volta terminata la detenzione. Penso ai corsi di cucina, di sartoria e di altre attività che grazie alla sensibilità dei direttori delle strutture sono attivi nell’ambito delle professioni. Il corso di scrittura creativa ha il merito di riuscire a far esprimere emozioni a chi ha vissuto e vive esperienze dolorose e spesso difficili da esternare. Grazie quindi a Francesca Gosti e all’associazione nel Nome del Rispetto che ha portato il concorso in luoghi dove è importante non emarginare né giudicare all’insegna proprio delle pari opportunità”. “Nel nome del rispetto - ha sottolineato il direttore Di Mario - è la mia missione. Ringrazio l’associazione che porta avanti questi valori. Rispetto è una parola piccola, ma importante in ogni rapporto sia di amicizia che di semplice conoscenza, sia lavorativo che familiare; una parola anche difficile da applicare specie in questi momenti in cui poco si ascolta preferendo irrompere con le proprie idee senza la pazienza di ascoltare quelle degli altri. Questo corso è importante perché riesce a far uscire il meglio da ciascuno e spero che la collaborazione possa ancora proseguire”. Francesca Gosti, ha ringraziato i direttori delle strutture carcerarie e i loro collaboratori, ma in particolare coloro che nel frequentare il suo corso hanno profondamente messo in connessione cuore e mente donando a chi legge pagine di alta poesia che emozionano e offrono spunti di riflessione. “Dalle loro poesie - ha spiegato - emergono tanta sofferenza, voglia di cambiare, desiderio di riscatto e di abbattere i pregiudizi”. Cristina Virili, nel consegnare una targa ricordo dell’Associazione “Nel Nome del Rispetto” ai direttori Mazzini e Di Mario, ha spiegato come il concorso, nato esclusivamente per le scuole, da quest’anno è stato aperto anche alle strutture carcerarie, anche minorili che hanno risposto in maniera massiccia presentando da tutta Italia oltre 120 elaborati di grande spessore umano e artistico. Padova: la Corale di Parè al carcere Due Palazzi Il Gazzettino, 13 luglio 2019 È nata un’amicizia tra la Corale di Parè e i detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Due domeniche fa la formazione diretta da Rosemarie Richebuono ha animato la messa all’interno del penitenziario padovano. Una trasferta nata quasi per caso, come ricorda il presidente della corale Giacomino Dal Mas: “Lo scorso inverno don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, ha concelebrato nella chiesa di Parè il funerale del parente di un detenuto. Al termine del rito ho chiesto a don Pozza se un giorno la nostra corale avrebbe potuto animare una messa al Due Palazzi. Un paio di domeniche fa l’opportunità si è concretizzata e in pullman una trentina di noi ha raggiunto Padova. Abbiamo animato la messa nel carcere e dopo la celebrazione siamo rimasti un paio d’ore a parlare con alcuni dei circa 200 detenuti, tutti uomini, presenti alla messa che avevano seguito con attenzione e partecipazione, ascoltando le loro storie. Ci hanno accolti molto bene, donandoci anche dei pasticcini fatti da loro. Non escludo che torneremo a trovarli” dice Dal Mas. Che la visita della Corale di Parè al carcere padovano abbia dato buoni frutti lo testimonia anche la lettera di ringraziamento di don Pozza, conosciuto anche per la sua attività di giornalista e scrittore, pubblicata sul foglio parrocchiale di Parè: “La nostra è una piccola comunità cristiana che, in condizioni molto particolari, cerca di mettersi alla ricerca del volto del Signore. Auguriamo anche a voi di non perdere mai il gusto di ammirare lo spettacolo più bello che la storia abbia mai mandato in onda: quello di un uomo, di una donna che, caduti per terra, si rialzano e tornano a camminare. Meno perfetti, più veri” il succo della lettera di don Pozza, che si conclude con “un immenso grazie per le vostre voci”. “Diversamente vivo, lettere dal nulla del 41bis” recensione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2019 Francesca De Carolis e Pino Roveredo hanno raccolto gli scritti di Davide Emanuello, da 22 anni al “carcere duro”. “Caro fratello noi prigionieri in fondo possiamo definirci “diversamente in vita” o “diversamente liberi”, e snaturati dal vivere e privati della libertà siamo stati dai giusti giustiziati nell’essenza di esistere. In noi ormai l’esserci non ha più dimora nella parola; esistiamo perché presenti in quanto corpi, e proprio perché ridotti a sola materia, non comunichiamo più attraverso la parola quell’esserci nel mondo in quanto presenza pensante”. È un passaggio di una delle tante lettere scritte da un ergastolano al 41 bis. Si chiama Davide Emmanuello, nato nel 1964 a Gela, boss mafioso. In carcere dal 1993, ha a suo carico tre condanne all’ergastolo per omicidio. Di ventisei anni di carcere, ne ha trascorsi finora ventidue in 41 bis, regime al quale è tuttora sottoposto. Di tutte queste lettere, scritte quando era al super carcere sardo di Bancali, ne sono state fatte una raccolta e pubblicate in un libro edito da “Libriliberi Editore” e curato dalla giornalista Francesca de Carolis, sempre in prima fila per i diritti dei detenuti e in particolare sul tema dell’ergastolo e il 41 bis. Temi impopolari, ma dove ultimamente, grazie alle recenti sentenze della Corte europea dei diritti umani e della Cassazione, si sta aprendo uno squarcio di luce. De Carolis racconta che di Davide Emmanuello ha iniziato ad interessarsi dopo una notizia che allora le sembrò “bizzarra”. “A Emmanuello - racconta la giornalista - era stata vietata la lettura del romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”. Libro ritenuto “pericoloso per l’ordine e la sicurezza”“. Dal carcere di Ascoli Piceno, nel quale allora Emmanuello si trovava, è in seguito arrivata una vaga smentita, e l’ipotesi di un possibile divieto motivato dalla pericolosità “materiale” del libro (nei regimi differenziati non entrano libri con copertina rigida) piuttosto che da pericolosità dei contenuti. Sempre De Carolis ha cominciato ad interessarsi, all’epoca, della realtà del 41 bis. Le 23 ore di isolamento al giorno, la sola ora d’aria (e le tre persone al massimo con cui è possibile parlare in quell’ora), le finestre delle celle schermate, la sola ora al mese di colloquio con familiari (e con vetro divisorio) alternativa a dieci minuti di telefonata, il divieto di cucinare cibi, la censura di posta e libri, ai quali è stata data ultimamente un’ulteriore stretta. “Se i libri rimangono l’unica forma di “resistenza” alla deprivazione sensoriale a cui si è sottoposti - spiega sempre De Carolis, ho provato a immaginare cosa sono, a cosa servono e dove possono portare, diciotto anni di nulla”. Alcune immagini di questo inferno sono svelate con lettere che Emmanuello ha scritto negli ultimi anni. Lettere tremende - tutte regolarmente passate al vaglio della censura - come questa e raccolta nel libro: “Continua il mio viaggio nelle viscere degli inferi. Sono rassegnato e consapevole che questo luogo voluto per l’annientamento non sopprimerà il mio corpo, ma agirà sulla psiche e attraverso la coscienza farà dell’anima l’inferno del corpo. L’istituto è moderno, non in senso illuminato, ma di nuova riproposizione oscurantista del supplizio come pena. In pratica un “ecomostro” per soggetti trattati al di fuori dei canoni dell’esperienza etica della libertà e dei diritti umani. L’apparente agibilità estetica del nuovo nasconde lo squallore degli spazi ridotti e claustrofobici, ordinati in senso verticale cosicché allo sguardo è tolto ogni orizzonte così come alla speranza di libertà la pena ostativa ha posto la parola fine. Ho solo un piccolo cielo che dal sotterraneo intravedo alzando lo sguardo in verticale: il cielo del passeggio”. Le lettere di Emmanuello non potevano restare sulla scrivania di De Carolis. Per questo le aveva spedite a Pino Roveredo, oltre che scrittore, Garante dei detenuti del Friuli Venezia Giulia. Se ne è lasciato straziare e a queste lettere le ha risposto con la potente scrittura di cui è capace. Così ne è nato il libro a loro firma. “Diversamente vivo, lettere dal nulla del 41bis”, di Davide Emmanuello e Pino Roveredo. Edito da Libri Liberi, casa editrice fiorentina. Il decreto sicurezza al servizio della paura e dell’economia illegale recensione di Adriano Sofri Il Foglio, 13 luglio 2019 “Prima le persone”. Enrico Rossi e Giovanni Maria Flick hanno appena pubblicato un libro con questo titolo a cura di Pasquale Terracciano. Il libro racconta il ricorso della Regione Toscana contro il decreto Salvini. Il ricorso non è stato ammesso in via preliminare e senza valutazione di merito, con la motivazione che quella migratoria non è materia regionale (e siamo in tempi di autonomismo spinto e differenzista). Il libro illustra anche i contenuti di una legge regionale, “samaritana” (per alcuni un proposito, per altri un insulto), che vuole garantire su base regionale i servizi e i diritti che il decreto sicurezza ostacola: scuola, casa, assistenza sanitaria. Enrico Rossi pensa a una politica come arte del rimedio di fronte alle irrazionali e irascibili azioni legislative del governo. Flick ricorda che la Costituzione (art. 3 e art. 10) ha come obiettivo fondamentale la pari dignità sociale di tutti, cittadini e stranieri. Prima del decreto Salvini una persona straniera giunta in Italia in fuga da guerre e dittature poteva chiedere allo stato italiano e ottenere da esso tre tipi di protezione: asilo politico, protezione sussidiaria e protezione umanitaria. Salvini ha abolito l’ultima delle tre, in aperto conflitto col Testo Unico sull’immigrazione (comma 3 art. 10) che la prevede. Sempre il Testo Unico stabilisce che tanto il cittadino straniero quanto quello regolarmente soggiornante abbiano diritto all’iscrizione anagrafica, per consentire ai comuni di fornire servizi e registrare le presenze. La cattiveria si insinua nei dettagli. Il decreto Salvini (art. 13) impone invece che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non sia più valido per l’iscrizione anagrafica. Sabino Cassese ha rilevato la contraddizione fra le norme. Solo in Toscana si stima che, a causa di questo cavillo sovranista, almeno cinquemila persone diverranno invisibili cadendo nel circuito dell’illegalità e della marginalità. Dove andranno a finire? Chi si occuperà di loro? Per il governo vanno chiusi i porti come le case e le strutture d’accoglienza. Va negato il soccorso in mare e in terra. Qualcuno ci guadagna, caporali o latifondisti davanti ai quali si allunga la fila dei lavoratori al nero. Campagne, risaie, agrumeti, vigneti e campi di meloni e pomodori vanno avanti a colpi di lavoratori sfruttati, umiliati, invisibili. Il decreto sicurezza servitore di due padroni: la rendita elettorale della paura e la rendita criminale dell’economia illegale. La Regione Toscana ha avuto la sua legge, per la prima assistenza e il contrasto alla povertà assoluta. Rossi raccomanda di non intenderla in chiave etnicista, nel senso opposto alla chiave razzista con cui legiferano Salvini, Di Maio e Conte: è una legge per tutti. Con questo atto, anche grazie a una copertura di 4 milioni di euro oltre all’assistenza sanitaria (già assicurata da una legge del Rossi assessore che Berlusconi premier impugnò, perdendo), ci sarà certezza per le campagne vaccinali, per l’accesso ai nidi della prima infanzia e l’iscrizione scolastica, l’iscrizione alle graduatorie per l’assegnazione delle case e ai centri per la formazione e la ricerca di lavoro. Grande scandalo dei prima i leghisti, quelli dell’indipendenza del Lombardo-Veneto dagli italiani poveri, cui pretendono di aggiungere il nazionalismo. C’è un federalismo e un regionalismo buono, illuminato, la Toscana ne fu la culla. Se lo ricorda ancora. Mancano norme per regolare la detenzione dei migranti recensione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2019 Presentato a Torino “Norme e normalità”, il volume del Garante nazionale sui Cpr. “Sono Bruno Mellano, garante dei detenuti della regione Piemonte, diciamo in un linguaggio più semplificato, ma anche più sbagliato perché non ci occupiamo esattamente solo dei diritti delle persone ristrette in carcere”. Così il garante regionale ha aperto il convengo di mercoledì scorso organizzato per presentare il volume del Garante nazionale “Norme e normalità”, dedicato alle persone migranti ristrette in strutture di tipo non penale. “Un tema - ha spiegato Mellano - quanto mai attuale, delicato e soprattutto complicato”. Tema sempre più predominante, visto che il convegno è stato organizzato proprio all’indomani della morte ancora da accertare del migrante originario del Bangladesh, Sahid Mnazi, recluso nel centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di corso Brunelleschi, a Torino. Gli ha fatto eco Massimiliano Bagaglini, il responsabile dell’unità migranti del garante nazionale, che illustrando il volume, ha ricordato che “negli ultimi due mesi abbiamo registrato una rivolta nel Cpr di Ponte Galeria, un decesso a quello di Torino le cui cause ancora devono essere accertate e un suicidio al Cpr di Brindisi”. Bagaglini ha sottolineato come sostanzialmente le principali criticità dei centri sono “le condizioni materiali e igieniche che mediamente sono al di sotto degli standard di accettabilità e, a differenza del sistema penitenziario, non esiste una registrazione degli eventi critici”. L’altra problematica riscontrata, ha spiegato sempre Bagaglini, è “la scarsa permeabilità tra l’esterno e l’interno delle strutture, dove sostanzialmente possono entrate pochissime organizzazioni non governative o di volontariato”. È intervenuta anche Emilia Rossi, membro del collegio nazionale del Garante, sottolineando che il Garante nazionale delle persone private della libertà fonda la propria competenza e i propri poteri non soltanto nella legge nazionale istitutiva del 2013, ma sulle fonti normative sovranazionali, prima di tutte il protocollo convenzionale contro la tortura. “Ed è quella la prima fonte - ha spiegato Emilia Rossi - che dà al Garante l’obbligo e il potere di intervento su tutti i luoghi di privazione della libertà di diritto o di fatto, sia se si tratti di una privazione della libertà in campo penale, sia se si tratti di una privazione al confine tra il penale e la salute come le Rems, oppure la detenzione amministrativa dei migranti come i Cpr e anche coloro che sono ospitati presso strutture sanitarie come i pronto soccorso psichiatrici”. Emilia Rossi del collegio del Garante ha ricordato che il volume “Norme e normalità” dedicato alle persone migranti nasce “dall’osservazione diretta delle strutture e delle situazioni che nei tre anni di attività il Garante nazionale ha svolto”. In relazione ad ognuna delle situazioni critiche che il Garante nazionale ha osservato, hanno così formulato delle raccomandazioni rispetto a profili di criticità. “Le raccomandazioni - ha precisato sempre Emilia Rossi - sono dei suggerimenti che intanto sono operativi perché condivisi con gli interlocutori istituzionali e la società civile”. Un volume che ha come scopo il delineare delle linee guida, degli standard, entro le quali dovrebbe essere orientata la detenzione amministrativa. “Gli standard - ha aggiunto Emilia Rossi - sono importanti anche per il valore culturale, perché trasmettono principi tutti guardati sotto la lente del rispetto dei diritti umani”. Sono interventi anche Laura Scomparin, ordinaria di Diritto processuale penale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino e Guido Savio, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). Entrambi hanno evidenziato l’assenza di una norma giuridica che regoli la detenzione dei migranti. Tutto funziona attraverso circolari amministrative, senza considerare la legge primaria e imposta dalla nostra carta costituzionale. I migranti, l’ipocrisia e le vere soluzioni di Luca Ricolfi Il Mattino, 13 luglio 2019 Non ha convinto quasi nessuno, nelle sue prime dichiarazioni, Ursula von der Leyen, la candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea. E la ragione di ciò è piuttosto semplice: le forze politiche tradizionali, presunte vincitrici delle ultime elezioni europee, sono in grave disaccordo fra loro su molte questioni cruciali dell’Unione, fra le quali quella migratoria. Se si esaminano attentamente le sue dichiarazioni si capisce, facilmente, anche perché. Come spesso accade ai governanti europei, la loro preoccupazione centrale è l’affermazione di principi astratti che possano raccogliere il più ampio consenso possibile, ma la loro attenzione alla soluzione concreta dei problemi è minima. Di qui la curiosa diffusione in Europa di una retorica, quella del “ma-anchismo” (voglio A, ma anche B), di cui erroneamente avevamo attribuito l’esclusiva a Walter Veltroni, ai tempi in cui stoicamente tentava di dare una guida alla sinistra italiana. Oggi il ma-anchismo si ripresenta nelle parole della von der Leyen: difendere i confini, “ma anche” rafforzare i salvataggi in mare; non lasciare sola l’Italia “ma anche” non obbligare gli altri Paesi europei a prendere chi sbarca in Italia; no agli scafisti “ma anche” no ai porti chiusi. Che così dicendo la candidata alla Presidenza della Commissione rischi di scontentare tutti è meno grave del fatto che il ma-anchismo non sia una politica. Una vera politica dovrebbe, per cominciare, offrire un’analisi convincente di come le cose effettivamente funzionano, ed accettare il dato di fatto che, per determinati tipi di problemi, non esistono soluzioni in grado di rispettare tutti i nobili principi cui i politici amano richiamarsi. L’importante è che almeno i problemi risolvibili vengano risolti, e su quelli irrisolvibili ci sia un’assunzione di responsabilità, che inevitabilmente significa avere il coraggio di scegliere, quasi mai fra il male e il bene, e quasi sempre fra un male e un male minore. Fra i problemi risolvibili vi è quello di sostenere davvero, e non solo a parole, l’Unhcr (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) nel suo lavoro di trasferimento in Europa delle persone che riesce a liberare dai campi libici e che hanno diritto allo status di rifugiato. È oltre un anno che l’Unhcr insiste sul fatto che in Africa (in particolare in Niger e in Libia) ci sono già alcuni centri nei quali l’Unhcr stessa riesce a raccogliere i soggetti più vulnerabili e ad effettuare i colloqui necessari per accertare il diritto alla protezione internazionale, ma tutto si scontra con la lentezza e l’opportunismo dei governi europei, che sulla carta promettono posti (4.000) ma poi sono lentissimi nel rendere effettivi i trasferimenti in Europa. Voglio dire che il problema dei corridoi umanitari non è la loro inesistenza, ma il fatto che quei pochi che esistono e potrebbero funzionare ad alto regime (primo fra tutti quello che parte dal Niger) si scontrano con l’inerzia e la lentezza dell’Europa. È importante sottolineare che stiamo comunque parlando di numeri piccoli (4.000 posti promessi da Unione Europea, Norvegia e Canada), e di un problema risolvibilissimo solo che lo si voglia affrontare. È noto che i soggetti che hanno diritto allo status di rifugiato, e di cui specificamente si occupa l’Unhcr, sono una piccola frazione del totale dei soggetti in movimento. Anche in Africa il problema più grosso non sono i richiedenti asilo che ne hanno diritto, ma sono gli sfollati delle zone di guerra (in particolare in Libia), e i migranti economici di cui si occupa soprattutto l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), con programmi di rientro assistito (ed economicamente incentivato) nei Paesi di partenza. Ci sono poi i problemi irrisolvibili, o meglio risolvibili solo pagando un prezzo che pochi politici sarebbero disposti a pagare. Il principale di tali problemi è quello del traffico di esseri umani in Africa, un traffico che non è fatto solo di scafisti, ma di campi di prigionia legali e illegali, con bande armate che spadroneggiano nel territorio macchiandosi dei peggiori crimini: torture, violenze sessuali, umiliazioni, estorsione di denaro, lavori forzati, vendita come schiavi. È il caso di notare che buona parte del problema sta nel business dei guerriglieri che, nel sud della Libia, intercettano le persone in transito per imbarcarsi in Europa. Un’altra parte del problema è costituita dal fatto che i migranti sfuggiti ai campi di prigionia dei signori della guerra spesso, essendo entrati illegalmente in Libia, vengono rinchiusi (in condizioni disumane) nei campi di prigionia governativi, dove fioriscono due ulteriori business, quello della liberazione a pagamento, e quello del trasbordo (sempre a pagamento) su un’imbarcazione diretta in Europa. Si può fare qualcosa di risolutivo contro questo inferno in terra? Se escludiamo (e facciamo bene...) l’ennesimo intervento militare occidentale più o meno mascherato da missione umanitaria, l’unica strada efficace che resta aperta è quella di stroncare il traffico di esseri umani rendendolo non profittevole. Sfortunatamente, l’unico modo per renderlo non profittevole è quello di affermare, e mettere fermamente in pratica, il principio che in Europa si entra solo per via legale. Finché l’Europa consente, e per certi versi incentiva, gli ingressi via mare, il progetto di stroncare il traffico di esseri umani resta del tutto velleitario. È qui che nascono i problemi. Per impedire gli ingressi illegali occorrerebbe allargare i canali di ingresso regolari sia per i richiedenti asilo (corridoi umanitari) sia per i migranti economici (sistema di quote), ma al tempo stesso, una volta assicurata la possibilità di entrare legalmente in Europa, occorrerebbe difendere i confini con risolutezza. Questi due gesti, grazie alla velocità del tam tam nell’era di internet, sarebbero un colpo durissimo per i trafficanti, esattamente come lo sarebbe la droga di Stato per gli spacciatori (a proposito, perché i radicali non fanno il medesimo ragionamento pro-legalità quando si tratta di traffico di persone?). Quello di cui sarebbe ora di prendere atto è che, per quanto scaldi i cuori e faccia la felicità dei media, ogni sbarco irregolare riuscito, che avvenga in Italia o altrove, che sia gestito da una Ong o da uno scafista, è di fatto un formidabile incentivo al business che si dice di voler stroncare. È terribile dirlo, ma l’inferno libico è anche la conseguenza della speranza di riuscire a entrare in qualche modo in Europa che un po’ tutti contribuiamo a tener viva, spesso con le migliori intenzioni. Migranti. Naufragio al largo della Tunisia, almeno 70 vittime Avvenire, 13 luglio 2019 Potrebbe rivelarsi una delle tragedie peggiori del Mediterraneo: il bilancio delle vittime è salito nelle ultime ore a 72 annegati. Tra i corpi ritrovati quello di una donna incinta e di un bambino. Potrebbe rivelarsi una delle tragedie peggiori del Mediterraneo: il bilancio delle vittime è salito nelle ultime ore a circa 72 morti annegati, dopo che oggi - a dieci giorni dal naufragio - il mare ha riconsegnato altri 38 corpi alle spiagge tunisine. Mentre agli altri cadaveri erano stati ritrovati già nei giorni scorsi. Le tre persone che sono sopravvissute al naufragio hanno raccontato di essere state a bordo con almeno altre 86 persone migranti su un gommone poi affondato. “Hanno detto che la loro barca non era lontana dalla città di Zarzis quando si è capovolta” ha riferito Mongi Slim, un funzionario della Mezzaluna Rossa. “Mentre dei quattro superstiti, un ivoriano, è morto in ospedale”, ha aggiunto a InfoMigrants il pescatore tunisino e volontario della Croce Rossa Chamesddine Marzoug. È stato lui - il pescatore di migranti che da anni dà sepoltura ai corpi restituiti dal mare nel cimitero degli sconosciuti a Zarzis - a fornire le prime notizie della tragedia in mare avvenuta presumibilmente lo scorso 2 luglio. I primissimi corpi erano stati rinvenuti sulla costa dell’isola di Djerba, nel sud della Tunisia; mentre alcune altre decine di cadaveri erano stati recuperati dalla Guardia costiera tunisina direttamente in mare. Il corpo di un’altra donna è stato trovato poi nella spiaggia del porto di Zarzis, esattamente dove oggi sono stati ritrovati una quarantina di altri corpi, tra cui anche quello di una donna incinta e di un bambino. La Mezzaluna Rossa ha aggiornato il bilancio delle vittime ipotizzando che altri cadaveri possano ancora essere restituiti dal mare. Al momento risultano disperse in mare ancora 23 persone. Inoltre secondo le prime ricostruzioni il barcone era partito da Zuwara, a ovest di Tripoli, in Libia, ed era diretto in Italia. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni “chiedono che i 5.600 rifugiati e migranti attualmente detenuti nei diversi centri della Libia siano rilasciati in modo coordinato e che ne sia garantita la protezione, oppure che siano evacuati verso altri Paesi dai quali sarà necessario reinsediarli con procedura accelerata”: lo affermano oggi le due organizzazioni in un comunicato congiunto. “A tale proposito, è necessario che i Paesi acconsentano a un numero maggiore di evacuazioni e mettano a disposizione posti per il reinsediamento - prosegue la nota. Inoltre, ai migranti che desiderano fare ritorno nei propri Paesi di origine dovrebbero essere garantite le condizioni per poter continuare a farlo. Risorse supplementari sono parimenti necessarie”. L’Acnur e l’Oim sottolineano che “la detenzione di quanti sono fatti sbarcare in Libia dopo essere stati soccorsi in mare deve terminare. Esistono alternative pratiche: dovrebbe essere consentito loro di vivere nelle comunità locali o in centri di accoglienza aperti e si dovrebbero stabilire le relative modalità di registrazione”. Cannabis light “vietata”? Regna il caos di Claudio Rinaldi Corriere della Sera, 13 luglio 2019 Secondo sentenza la vendita del prodotto è proibita, ma molti negozi hanno riaperto. “Finché qualcuno non ci obbliga a chiudere, resteremo aperti e continueremo a vendere i nostri prodotti. Non facciamo nulla di male”. Quaranta giorni dopo la pronuncia delle sezioni unite della Cassazione che sembrava chiudere definitivamente la saracinesca dei negozi di canapa light, vengono pubblicate le motivazioni della sentenza, ma gli store nella Capitale restano aperti. Il dispositivo del 30 maggio da un lato vietava la vendita di alcuni prodotti derivati dalla cannabis Sativa: foglie, inflorescenze, olio e resine. Dall’altro lasciava campo libero agli articoli in concreto privi di “efficacia drogante”, senza però definirne i parametri. Non veniva infatti indicato il limite di Thc ammesso. Una soglia che proprio la Cassazione, in una sentenza di febbraio, aveva individuato allo 0,6%. Si pensava dunque che le motivazioni potessero svelare l’arcano e invece così non è. I proprietari dei negozi vanno avanti come se nulla fosse, ma i dubbi restano. “Non sembra ci sia alcun divieto, questa decisione aggiunge solo confusione”, afferma Lorenzo Felli, dipendente dell’Erba Voglio, store nel rione Monti che aveva chiuso dopo l’uscita del dispositivo per poi riaprire dopo pochi giorni. “Per paura all’inizio avevamo preso questa decisione ma poi, confrontandoci con i nostri legali, abbiamo capito che per adesso non cambia assolutamente nulla”. Il negozio dunque oggi è regolarmente aperto, tra l’altro - dice Felli - “abbiamo le stesse preoccupazioni di un anno e mezzo fa, di fatto non ci sono state evoluzioni rispetto a quando abbiamo deciso di intraprendere questa attività”. Le motivazioni della sentenza infatti confermano l’illiceità di alcuni prodotti indipendentemente dal contenuto di Thc, stabilendo dunque che anche articoli con un principio attivo inferiore allo 0,6% possono avere “efficacia drogante”. Ma ricordano che “l’offensività delle singole condotte” potrà essere sanzionata solo dopo “puntuale verifica”. Tradotto: la sentenza non decreta la fine dei negozi di cannabis light, almeno non nell’immediato, e lascia alla discrezionalità del magistrato, caso per caso, la valutazione “sull’efficacia drogante” della merce. Con che criteri sarà stabilità? Mistero. “Questo vuol dire che dovranno sequestrare tutti i prodotti?”, si chiede Fabrizio del Cannabis Shop di San Lorenzo, anch’esso prima chiuso e poi riaperto. “L’unica cosa che può fare chiarezza è un intervento legislativo ma, al di là degli slogan, non sembra faccia comodo a qualcuno”. “La nostra è una battaglia culturale”, spiega Andrea Batticani, trentenne che, con il fratello Enrico, ha aperto due negozi e altri quattro in franchising. “Prima o poi la cannabis diventerà legale anche in Italia, è un processo inevitabile. Ne sono convinto”. I fratelli Batticani sono i promotori, con la collaborazione della Luiss, di un incubatore per start up che vogliano investire nel settore. “E un mercato in crescita. Se dovessero procedere con sequestri o con altre azioni di repressione, scenderemo in piazza a manifestare tutto il nostro dissenso”. Stati Uniti. Il braccialetto elettronico è diventato un lusso: o lo paghi o resti in cella di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 13 luglio 2019 Come rivela il “New York Times” la società Emmass gestisce la sorveglianza al prezzo di 10 dollari al giorno con interessi da usura. Le carceri americane sono uno “Stato nello Stato”, una macchina mostruosa che costa all’erario 87 miliardi (dati del 2015 ndr) di dollari l’anno e che conta una popolazione di 2,5 milioni di individui; in proporzione è il numero più alto del pianeta, in cifre assolute secondo solo alla Cina che però è quattro volte più popolosa degli Stati Uniti. Praticamente un detenuto su quattro nel mondo è ospite di una prigione americana (750 ogni 100mila abitanti). Una progressione inarrestabile che negli ultimi 40 anni ha visto aumentare del 500% il numero di persone private della libertà. Ma anche un’escalation paradossale considerato che il numero dei reati è in costante calo dagli inizi degli anni 90. Di fronte all’aumento esponenziale della popolazione carceraria, oltre alla costruzione di nuove strutture, le forze politiche sono concordi sul promuovere misure alternative alla detenzione, in particolare il braccialetto elettronico. Negli ultimi 5 anni le persone che hanno beneficiato del dispositivo sono passate da 50mila a 125mila. Il che permette alle amministrazioni locali di fare grandi economie: se lo Stato federale si fa carico di alcuni servizi di sorveglianza i municipi coprono circa il 90% delle spese penitenziarie. Per fare un esempio: la prigione di Saint Louis (Missouri) spende per il singolo detenuto 90 dollari al giorno per una media di 291 giorni di permanenza, una delle più alte di tutti gli States. Il ricorso al braccialetto, oltre ad alleviare la condizione umana di migliaia di persone fa respirare le casse degli Stati. Ma c’è un problema: il braccialetto elettronico è interamente a carico del detenuto; in altri termini se puoi pagartelo torni a casa e aspetti processo, altrimenti rimani a marcire in carcere. Come spiega il New York Times quello della sorveglianza gps è un businnes in rapida espansione il penitenziario di Saint Louis ha appaltato la gestione dei dispositivi alla Eastern Missouri Alternative Sentencing Services (Emmass) che ha stabilito il prezzo spropositato di 10 dollari al giorno per la posa dell’apparecchio e la sorveglianza elettronica al quale si aggiungono 50 dollari di costo di “installazione”. Una cifra che migliaia detenuti in attesa di giudizio non possono permettersi. Spinti dall’entusiasmo in molti hanno infatti pagato la somma iniziale ma poi sono stati costretti a tornare dietro le sbarre perché gli interessi di mora stabiliti da Emmas sono a tassi da usura. Peraltro nella catena vessatoria anche lo Stato gioca la sua parte: chi è indietro con il pagamento delle tasse di sole tre settimane deve restituire i braccialetti e ritrovare immediatamente il carcere. Mali. Jihad e tribù, facile morire dove non c’è più Stato di Pietro Del Re La Repubblica, 13 luglio 2019 I gruppi terroristici del Sahel soffiano sul fuoco del conflitto fra etnie che nel 2018 ha causato 1.754 vittime. L’ordine di al-Baghdadi: “Intensificare gli attacchi contro Bamako per colpire la Francia e i suoi alleati”. Ousmane ha la testa fasciata, un occhio incerottato e l’altro appena aperto. Quand’è arrivato all’ospedale Gabriel Touré della capitale Bamako era così gravemente ustionato che i medici hanno dovuto amputargli braccia e gambe. L’incontriamo in uno stanzone pieno di mosche che funge da reparto post-operatorio. Il trentaquattrenne è uno dei pochi sopravvissuti all’ultimo massacro tribale compiuto nel centro del Mali, quello del 9 giugno a Sobame Da, villaggio che contava trecento anime. “Sono arrivati dopo il tramonto e hanno cominciato a sparare contro chiunque. Hanno poi rubato le nostre capre e dato fuoco alle case. All’alba, sotto la cenere, sono stati ritrovati 35 cadaveri”, ricorda Ousmane, che appartiene all’etnia dei Dogon, composta soprattutto da agricoltori. Con la medesima ferocia, il 23 marzo scorso, nel villaggio di Ogossagou sono state ammazzate 162 persone, tutte Peul, etnia rivale dei Dogon e formata per lo più da pastori. Le immagini delle donne incinte, degli anziani e bambini sgozzati o bruciati vivi durante queste stragi sono state immediatamente pubblicate in rete da chi le ha commesse, il che dimostra che a fomentare tanta violenza c’è un’atroce volontà di pulizia etnica. Solo nel 2018 gli attacchi messi a segno dalle milizie di queste due etnie hanno provocato 1754 vittime e dall’inizio di quest’anno la fuga dai loro villaggi di 200mila persone. “Ciò accade in un Paese già funestato da una decina di gruppi jihadisti affiliati a Boko Haram, ad Al Qaeda e più recentemente allo Stato islamico, che nella regione è sempre più potente”, spiega Jonas Tape, addetto alla sicurezza della Minusma, la missione di pace Onu in Mali. Liberi di muoversi indisturbati perché nella regione lo Stato è totalmente assente, per estendere il loro potere i gruppi terroristi del Sahel hanno cominciato a soffiare sul fuoco dei conflitti inter-etnici, esacerbando le antiche faide tra agricoltori e allevatori. Alcuni jihadisti, come quelli della Katiba Macina, hanno arruolato dei giovani Peul, il che, per reazione, ha fatto nascere bande di auto-difesa Dogon e di conseguenza moltiplicato gli scontri e le rappresaglie tra le due etnie. “Nel centro, nel nord e nell’est del Paese non c’è né esercito né polizia, e per migliaia di chilometri nessuno controlla le frontiere con la Mauritania, l’Algeria, il Níger e il Burkina Faso”, dice ancora Tape. Ora, è proprio contro il Mali che in aprile il sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi ha chiesto “d’intensificare gli attacchi per colpire la Francia crociata e i suoi alleati”. Qui, l’esercito di Parigi è presente dal 2013, quando l’ex presidente Framois Hollande inviò i suoi elicotteri da combattimento per fermare l’offensiva jihadista contro Bamako. Le legioni islamiste avrebbero facilmente sgominato le truppe maliane e fu necessaria tutta la potenza di fuoco dei francesi per sconfiggere chi voleva creare un nuovo califfato. Da allora, gli effettivi di Parigi dell’operazione Serval, poi diventata operazione Barkhane, sono cresciuti fino a 4500 unità, e controllano una superficie vasta come l’Europa intervenendo sul terreno soprattutto con i droni e i corpi speciali. “Nell’ultimo anno, gli attentati sono aumentati del 68% e i francesi hanno neutralizzato più di 600 terroristi. Il problema è che i loro blitz provocano molte morti “collaterali”, con ognuna di queste crea nuovi miliziani”, spiega Ibrahim Traoré, ricercatore dell’Institut d’études de sécurité di Bamako, secondo cui questa strategia anti-terrorista è controproducente perché non fa altro che generare altra violenza. “E poi è dal 2013 che i francesi hanno chiesto al governo di imporre un coprifuoco che ha distrutto l’economia di gran parte del Paese, lasciando i traffici commerciali nelle mani dell’esercito maliano o di quelle dei terroristi”. Ogni giorno, racconta Juan Carlos Cano, coordinatore locale di Medici Senza Frontiere, negli ospedali che gestisce nel centro del Paese arrivano morti e feriti da armi da fuoco: “Un caos dovuto ai troppi gruppi armati presenti, dai tuareg indipendentisti alle fazioni tribali, dai jihadisti ai gruppi di auto- difesa, dalla Minusma alle truppe del Mali e all’esercito francese, quest’ultimo considerato sempre di più come “invasore”. Oggi, nessuna area è sicura in Mali, neanche Bamako, dove si contano diverse cellule “dormienti” in grado di compiere attacchi micidiali nei ristoranti e negli alberghi per stranieri, come all’Hotel Radisson del 2015, dove morirono 20 persone”. Secondo il ministro dell’agricoltura Moulaye Ahmed Boubacar, il destino dei giovani maliani è drammaticamente segnato dalla povertà. “O emigrano e rischiano la vita nel Mediterraneo o si lasciano arruolare per pochi soldi dalla jihad”, ci dice. “Dobbiamo fare di più per strapparli dalle grinfie dei terroristi e per evitare che si suicidino in mare”. Ad aiutare alcuni di questi giovani ha cominciato Gilbert Fossoun Houngbo, ex primo ministro del Togo e oggi presidente del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo dell’Onu (Ifad), che incontriamo un centinaio di chilometri a sud di Bamako. In questa savana dove assieme agli anacardi crescono arance e banane dolcissime, la sua organizzazione ha fornito prestiti a seicento ragazzi affinché potessero acquistare fazzoletti di terra e gli attrezzi per lavorarla. “Prima d’intervenire in un Paese, l’Ifad ne valuta le debolezze. Ebbene, in Mali la prima di queste è la vulnerabilità provocata dal terrorismo”, spiega Houngbo. Ora, tra mortai e mine anticarro, i gruppi jihadisti posseggono armi sempre più potenti. “Gli manca soltanto l’aviazione”, sorride il ricercatore Ibrahim Traoré. “Non dico che bisogna smettere di combattere il nemico, ma è necessario cambiare metodo perché l’opzione puramente militare ha fallito. Soltanto il dialogo può fermare la spirale di violenza”. Ma quando chiediamo a Ousmane come giudica questa proposta, lui risponde: “No, nessuna pietà. Gli assassini voglio vederli tutti morti”. Somalia. Uccisa Hodan Naleye, simbolo di rinascita Corriere della Sera, 13 luglio 2019 Hodan Naleye aveva 43 anni e due figli. Aspettava il terzo. Era scappata in Canada da bambina, con quattro fratelli e sette sorelle per sfuggire alla guerra civile. Aveva studiato Arte e Comunicazione, aveva un lavoro sicuro nel commercio, a Toronto. Ma aveva deciso di tornare in Somalia dopo che gli estremisti di al-Shabaab, affiliati di Al Qaeda, erano stati cacciati da Mogadiscio nel 2011. Voleva partecipare alla rinascita, raccontare storie belle con il “Somali Refugee Awareness Project”. Ieri Naleye è morta in un attentato a Kismayo, con altre io persone almeno. La presidente della Cultural Integration Agency è morta accanto al marito, quando nel tardo pomeriggio un’autobomba ha fatto breccia nel popolare albergo Medina. “Un’esplosione enorme, tanti morti sul pavimento”, ha raccontato un giornalista locale. I terroristi hanno preso d’assalto l’hotel, ingaggiando una battaglia con la polizia fino a notte fonda. Hodan Naleye era parte vibrante di quella diaspora somala che negli ultimi anni era tornata a casa. Aveva appena postato sui social immagini di natura incontaminata. Ma la Somalia è anche un nido di guerra. Chi era tornato, chi se ne va: l’Onu ha appena annunciato il ritiro di mille Caschi Blu.