La Cedu sanziona il 4bis, il Dap vorrebbe estenderlo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2019 Critiche dall’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali. Introdurre nuove aggravanti per la condotta del detenuto, con tanto di estensione del 4bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta la concessione di benefici. Sono queste le proposte avanzate la settimana scorsa dall’Amministrazione penitenziaria in merito alla conversione in legge del decreto sicurezza bis. Ne è venuta una dura presa di posizione da parte dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali, guidato da Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro. Nel documento approvato mercoledì, i penalisti stigmatizzano le richieste avanzate del Dap, perché “l’introduzione di una nuova fattispecie di reato proprio del detenuto, di una specifica aggravante e di un ampliamento degli ambiti punitivi della condotta, facendo, altresì, rientrare il tutto sotto l’ombrello della ostatività previsto dall’art. 4bis, è, non solo ingiustificato, ma certamente irresponsabile”. Per capire meglio, bisogna entrare nel dettaglio. Si propone di introdurre all’articolo 391bis c.p. - che sanziona la condotta di chi, in concreto, consente a un detenuto sottoposto al regime del 41bis “di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte” - la punizione con la reclusione da uno a quattro anni del “detenuto che venga trovato in possesso di apparato radiomobile o di strumento comunque idoneo a effettuare comunicazioni con l’esterno dell’istituto”. Analoga sanzione per chi “detiene, o comunque porta con sé all’interno di un istituto penitenziario apparato radiomobile o strumento idoneo ad effettuare comunicazioni con l’esterno al fine di cederlo” ad altri reclusi. Per l’Osservatorio Carcere delle Camere penali, la proposta non tiene conto della realtà, visto che gli stessi vertici del Dap, in audizione innanzi alla commissione Parlamentare Antimafia, su specifica domanda posta dai commissari circa il rinvenimento di “micro telefonini” introdotti abusivamente nelle sezioni 41bis, ha assicurato che “non si è mai registrato il caso di un telefonino in un reparto 41bis, telefonini all’interno di una sezione del 41bis non sono mai stati rinvenuti, per l’esistenza di vetro divisorio, per la rigidità delle perquisizioni, ancora a questo non ci siamo arrivati”. L’osservatorio Carcere quindi si chiede a cosa serva l’introduzione di questa specifica fattispecie. “Si intende forse estendere - chiedono i penalisti - la punibilità a tutte le categorie dei detenuti esorbitando dai limiti specifici dell’articolo 391bis codice penale?”. L’altra proposta avanzata dal Dap è l’introduzione di una specifica aggravante per fatti commessi in danno di personale in servizio presso gli istituti penitenziari. Rischia di essere, per i penalisti, “la codificazione di un desiderio dell’esercizio della forza brutale in occasione di aperte manifestazioni di dissenso nel segreto delle nostre carceri”. Il Dap propone l’allargamento delle maglie dell’ostatività prevista dall’articolo 4bis, inserendo sia la nuova fattispecie di reato proposta nel corpo dell’articolo 391 bis al comma 1 bis, sia il reato di lesioni personali, aggravato perché commesso in danno di personale all’interno degli istituti penitenziari. Secondo i penalisti questa estensione del 4bis non risponderebbe a criteri di “razionalità giuridica”, oltre a “porsi in evidente contrasto con le indicazioni della Cedu (con la ultima decisione sul caso Viola c. Italia) che invita il legislatore italiano a rivedere, attraverso l’ergastolo ostativo, l’impianto del 4bis Ordinamento penitenziario, che rischia di calpestare la fondamentale funzione risocializzante della pena detentiva”. Queste proposte, secondo i penalisti, non servono a superare la crisi del sistema carcere, ma la “normalizzano” e rischierebbero di diventare un “detonatore in una situazione già esplosiva”. “Marcire in carcere”, se questa è civiltà di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 12 luglio 2019 Far “marcire in carcere” le persone rende la società meno sicura. Non è solo una questione di linguaggio, ma di sostanza. La civiltà di un popolo non si misura solo dai suoi monumenti, dalle opere d’arte, dall’eredità di scrittori e da tradizioni virtuose, ma anche dal linguaggio. “Le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi” diceva Alessandro Manzoni. In questa epoca incattivita una parte dell’opinione pubblica ricorre all’espressione “marcire in carcere”, augurio rivolto a chi ha commesso reati contro la persona, ma non solo, in particolare se ledono la proprietà privata. Le parole hanno un significato e marcire rimanda alla decomposizione di un corpo. È un’espressione tremenda, se la si prende alla lettera. Ne fanno uso anche rappresentanti istituzionali, come il vice premier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il quale giustamente chiede che i magistrati non facciano politica, ma altrettanto giustamente dovrebbe astenersi dall’emettere sentenze, dal vestire i panni del giudice, tanto più ricorrendo a un tale gergo. Chi commette un reato deve affrontare un processo ed eventualmente la detenzione. Ma molte carceri italiane sono discariche umane, abitate anche da malati psichiatrici e tossicodipendenti che dovrebbero essere curati altrove. Inoltre è tornato il problema del sovraffollamento: a fronte di una capienza di 50.700 posti, ci sono 60.500 detenuti. Un caso unico in Europa: in Italia calano i reati però aumentano i carcerati. Ma torneremo su questa contraddizione. La prigione non è un luogo dove dimenticare i reclusi e uno Stato liberale deve garantire il beneficio effettivo dei diritti. La Costituzione dice che le pene “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha detto recentemente che in questo momento storico “l’Italia e l’Occidente stanno dando messaggi piuttosto “manettari”. I diritti sono un valore per tutti o una concessione per chi se li merita? Ora va molto la seconda idea ma una democrazia deve salvaguardarli come valore”. L’abolizione della prescrizione, la difesa sempre legittima, gli aumenti di pena danno il senso di un governo, il nostro, che ha dato una sterzata giustizialista in materia. Eppure non c’è un’emergenza criminalità. Lo dice la stessa relazione annuale del governo sulla sicurezza: nel 2017 i delitti sono scesi del 2,32% rispetto al 2016 e dell’8,3% nei primi nove mesi del 2018. Se in Europa al calare dei reati diminuisce pure il tasso di detenzione (meno 3,2% negli ultimi due anni), l’Italia è invece il Paese Ue in cui è aumentato di più (7,5%). Per gli esperti questa discrasia si spiega con il fatto di una diminuzione delle uscite corrispondente a un aumento delle pene, senza un parallelo aumento della gravità dei reati. Altra credenza da sfatare: non è vero che l’Italia è lassista con i criminali. Il 17% delle condanne va dai 10 ai 20 anni, la media europea è 11. Il 27% delle pene va dai 5 ai 10 anni: il 9% in più rispetto alla media dell’Unione. Inoltre gli stranieri in carcere sono diminuiti. Nel 2003 ogni cento stranieri regolarmente residenti in Italia, l’1,16% finiva in carcere, oggi è lo 0,36%, compresi gli irregolari, considerazione che avrebbe dovuto far aumentare la stima. Questi sono i numeri che dettagliano la realtà, poi c’è la percezione che gonfia i fenomeni, effetto anche di campagne mediatiche martellanti sui fatti di cronaca nera. Le Camere penali (anche a Bergamo) hanno aderito all’astensione contro la decisione del governo di abbandonare la riforma dell’ordinamento penitenziario (la risposta dell’esecutivo è la costruzione di nuove carceri, ma non c’è un progetto né si capisce con quali soldi) e di ridurre il ricorso alle misure alternative alla detenzione (come i domiciliari o la semilibertà). Molti Paesi europei invece hanno approvato norme e riforme che le aumentano. Perché le misure alternative riducono la recidiva, cioè il ritorno a compiere reati una volta espiata la condanna. La recidiva per chi sconta tutta la pena in carcere è dell’80%, per chi usufruisce di misure alternative è del 20%. Ancora più bassa per chi lavora, nei penitenziari o fuori. Le carceri sono spesso luoghi criminogeni. Ma questa evidenza non entra nel giudizio dell’opinione pubblica. Carcere e riscatto sociale: le birre italiane “inclusive” prodotte dai detenuti di Andrea Turco cronachedibirra.it, 12 luglio 2019 Uno degli aspetti poco conosciuti del mondo della birra è la sua forza inclusiva. Molti la associano al momento del consumo, magari nel pub di turno, quando è possibile avvertire nitidamente il potere socializzante di questa straordinaria bevanda millenaria. In realtà limitarne gli effetti alla parte finale della filiera è assolutamente riduttivo, poiché le sue ripercussioni sono rilevabili già in sala cottura. Anzi, la produzione brassicola in quanto tale è un’attività altamente inclusiva, tanto da essere al centro di numerosi progetti senza scopo di lucro che puntano al riscatto sociale di determinate categorie di persone svantaggiate. Una fattispecie molto interessante è rappresentata dalle birre prodotte all’interno delle carceri italiane o comunque con il contributo fattivo di detenuti. Queste iniziative cercano da un lato di fornire al singolo individuo uno strumento di reintegrazione nella società (ovviamente una volta scontata la pena), dall’altra di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema piuttosto spinoso, ma sempre sottovalutato: quello appunto del reinserimento degli ex carcerati nel mondo del lavoro. Nonostante progetti del genere non siano certo all’ordine del giorno, in Italia ne esistono alcuni sviluppatisi proprio all’interno del mondo della birra artigianale. A ben vedere si tratta di una costante del nostro settore, poiché casi del genere si ritrovano sin dalle origini (o quasi) del movimento nazionale. Oggi quindi possiamo contare birrifici “inclusivi” storici, altri nati in tempi più recenti e altri ancora sorti proprio negli ultimi mesi. La cooperativa Pausa Cafè nacque a metà degli anni 2000 con un obiettivo ben preciso: offrire percorsi di reinserimento sociale e lavorativo ai detenuti degli istituiti di pena italiani. La sua attività conquistò gli onori delle cronache grazie al lavoro compiuto con il caffè in Centro America, dove opera a fianco di comunità indigene storicamente escluse dai benefici del proprio impegno. Ma importantissimo è anche il coinvolgimento dei detenuti nelle funzioni dell’associazione: negli anni Pausa Cafè ha realizzato all’interno delle carceri di Torino, Saluzzo e Alessandria una torrefazione, un forno per la produzione di pane biologico a lievitazione naturale e - come potete immaginare - un birrificio. L’apertura del birrificio risale al 2008, opera all’interno dell’istituto penitenziario di Saluzzo (CN) e per molti anni si è avvalso della collaborazione del birraio Andrea Bertola. La gamma è incentrata su stili tradizionali come dimostrano la P.I.L.S. (realizzata con luppolo Saaz in fiore e tripla decozione) e la T.I.P.A (classica English IPA), ma tantissime sono le creazioni aromatizzate con ingredienti legati all’attività della cooperativa. Ad esempio la Chicca prevede l’aggiunta di caffè guatemalteco Huehuetenango, la Taquamari ricorre a un mix di tapioca, quinoa, amaranto e riso basmati, la Dui e Mes è speziata con zafferano di Taliouine e pepe nero di Rimbàs. È strettamente legato al carcere romano di Rebibbia il progetto di inclusione Vale La Pena, cofinanziato dal Ministero dell’Università e Ricerca e dal Ministero della Giustizia e realizzato dalla onlus Semi di Libertà. Come si può leggere sul relativo sito, l’opera di integrazione sociale non si limita solo ai detenuti di Rebibbia, ma coinvolge altri tipi di soggetti anche grazie alla collaborazione con associazioni del territorio. L’impianto è situato nei locali dell’Istituto Tecnico Agrario Emilio Sereni di Roma, i cui studenti partecipano con i detenuti alle attività formative sui temi della legalità e del consumo alcolico consapevole, oltre a venire introdotti ai valori dell’accoglienza e dell’inclusione. In aggiunta l’etichettatura delle bottiglie ed il packaging sono realizzati in team con dei ragazzi autistici. Interessante l’impostazione con cui Vale La Pena si presentò al pubblico nel 2014: una sorta di marchio “gipsy” le cui birre erano prodotte in collaborazione con alcuni importanti birrai italiani, che dunque finivano per ricoprire anche il ruolo di formatori: ricordiamo ad esempio il coinvolgimento di Valter Loverier (Loverbeer), Agostino Arioli (Birrificio Italiano), Luigi D’Amelio (Extraomnes) e molti altri. Le birre sono generalmente ispirate ai grandi stili classici europei e si contraddistinguono per i nomi a tema, decisamente simpatici: segnaliamo ad esempio la Gnente Grane (una Honey Beer senza glutine), la Buona Condotta (una IPA con solo 1,2% di contenuto alcolico) o la Chiave de Cioccolata (una Milk Chocolate Stout). Lo scorso anno Vale La Pena ha aperto un suo locale a Roma, definito spazio di “economia carceraria” per la presenza non solo di birra, ma anche di altri prodotti creati in carcere. È stato annunciato solo qualche giorno fa il progetto milanese Malnatt, che coinvolge gli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera e nasce dalla collaborazione con il birrificio agricolo La Morosina di Abbiategrasso. Sono una decina i detenuti provenienti dalle tre carceri che sono stati inseriti all’interno del processo produttivo, guidati dal mastro birraio Jens Berthelsen. Attualmente il marchio consta di tre birre, ognuna battezzata con il nome del carcere di riferimento: Malnatt San Vittore (5,5%) è una Belgian Blond Ale molto facile da bere; Malnatt Opera (5,5%) una Red Ale con aromi di frutti di bosco, caramello e liquirizia; Malnatt Bollate (5,2%) infine è una Weizen brassata sul tradizionale modello bavarese. Malnatt è una birra che impiega solo materie prime locali, poiché sia l’orzo che il luppolo sono coltivati da La Morosina. I prodotti sono disponibili da un paio di settimane in alcuni locali di Milano e del resto della Lombardia, rigorosamente in bottiglie da 33 cl. I fusti cominceranno a girare non prima di settembre. Se ne volete sapere di più potete consultare il sito di questa interessante iniziativa. Nel 2012 sarebbe dovuto partire nel carcere di Cerignola, in provincia di Foggia, il progetto Campus Felix: la creazione di un micro-birrificio all’interno dell’istituto penitenziario per la reintroduzione dei detenuti all’interno della società. Campus Felix avrebbe promosso anche corsi sulla filiera agricola, realizzazione di prodotti biologici e forme di imprenditoria sociale. Da allora però non si sono avute più notizie e l’impressione è che quella lodevole idea sia rimasta un progetto solo sulla carta. All’incirca nello stesso periodo fu presentata l’iniziativa Birra della legalità per la costruzione di un birrificio nel carcere di alta sicurezza di Carinola, in provincia di Caserta. Il progetto prevedeva di realizzare l’intero ciclo produttivo all’interno del carcere, grazie alla coltivazione biologica delle materie prime sui circa 35 mila metri quadrati di terreni adiacenti all’istituto penitenziario. Anche in questo caso non credo che l’idea abbia ancora trovato concretizzazione, nonostante prevedesse il supporto del già citato Andrea Bertola. Vale la pena però citare gli obiettivi del progetto, perché sono comuni alle fattispecie presentate in precedenza: Lo scopo è non solo ridurre le distanze tra la popolazione carceraria e la società civile favorendo il recupero sociale dei detenuti, ma soprattutto creare un’impresa che sia eco-sostenibile e costituisca per questo un antidoto all’impresa criminale. Un progetto che punta ad ampliare le già consolidate esperienze di recupero e assistenza dei soggetti svantaggiati condotte sui beni confiscati, coinvolgendo i detenuti e offrendo loro reali opportunità di riscatto sociale volti alla costruzione di percorsi di recupero non solo materiali, ma anche e soprattutto delle coscienze di quei tanti protagonisti di una criminalità organizzata che nel passato hanno devastato questo territorio. Franco Mussida: “Musica contro l’odio che inquina” di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 luglio 2019 Si è svolta ieri pomeriggio nella Casa circondariale di Monza la cerimonia conclusiva del progetto CO2: controllare l’odio ideato e realizzato da Franco Mussida, cofondatore e chitarrista, fino al 2016, della Premiata Forneria Marconi e oggi appassionato sperimentatore in campo musicale. Nel corso della manifestazione è stato presentato il libro “Il pianeta della musica; come dialoga con le nostre emozioni” (Salani editore), scritto da Mussida “per tutti gli ascoltatori, per chi fa musica e per chi la ama, per neofiti e professionisti, che vogliono imparare a sentire la musica perché sentire musica aiuta a cambiarci intimamente e, di conseguenza, a cambiare il mondo”. Il Progetto CO2, condotto in diverse carceri italiane, ha offerto ai detenuti un nuovo metodo per l’ascolto emotivo e consapevole della Musica. Il testo documenta l’esperienza dell’istituto di Monza dove è stato avviato nel 2014 e si è articolato in un percorso psico-sociologico mirato a promuovere una nuova sorta di “ecologia dei sentimenti” e controllare emozioni “inquinanti” come l’odio e la rabbia. Il titolo nasce infatti da una metafora: come le piante di notte, l’uomo emette ogni giorno un suo invisibile veleno, un’anidride carbonica (CO2) costituita dalle peggiori emozioni represse. La musica e il suo ascolto consapevole, secondo la teoria di Franco Mussida, possono aiutare a limitarne le emissioni e a rendere più salubre l’ambiente umano. Il Progetto, premiato con la medaglia della Presidenza della Repubblica, prevede la donazione di 12 audio-teche ad altrettanti istituti penitenziari intitolate a musicisti compositori “il cui impegno è stato speso per la divulgazione del linguaggio della Musica strumentale, o a figure che in quel territorio specifico si sono spese per crescere la cultura e preservare la dignità delle persone recluse”. Le audio-teche sono dotate di un database con migliaia di brani strumentali di ogni genere, colonne sonore, musica classica, pop rock, elettronica ed etnica, divisi per 9 macro famiglie emotive a loro volta suddivise in 27 varianti. L’ascoltatore è guidato attraverso scelte che possono intervenire nell’area affettiva individuale, ridurre ansia e conflitti. Dopo gli istituti di Venezia Santa Maria Maggiore, Alessandria, Roma Rebibbia Femminile, Napoli Secondigliano, Genova Marassi, Milano San Vittore, oggi anche la casa circondariale di Monza riceverà l’audioteca, intitolata all’Associazione Mozart e a Ezio Bosso.”Perché nell’accogliere e prendersi cura della propria fragilità, testimonia una delle massime espressioni della libertà interiore dell’uomo”. Riforma del processo, tempi certi dal giudice unico. Conciliazione depotenziata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2019 Un processo con tempi certi per le cause di competenza del giudice unico, e sono la maggioranza; una negoziazione assistita potenziata; una conciliazione indebolita; la soppressione del filtro in appello; l’avanzamento della digitalizzazione. Si completa il quadro della legge delega che il ministero della Giustizia intende portare in Consiglio dei ministri nei prossimi giorni. Al tassello dedicato all’ordinamento giudiziario (si veda “Il Sole 24 Ore” del 7 luglio) e a quello sulla procedura penale (anticipato sulle pagine di ieri) si aggiunge l’intervento sulla procedura civile. Il testo è stato presentato ieri dal ministro Alfonso Bonafede alle rappresentanze di avvocatura e magistratura. Per quanto riguarda il circuito alternativo di soluzione delle controversie, la conciliazione, che pure comprenderà i contratti di mandato, perde terreno, abbandonando le liti in materia di colpa medica e di contratti finanziari e bancari. Rafforzata invece la negoziazione assistita, che pure sarà esclusa dalla circolazione stradale: riprendendo quanto previsto anni fa per un breve periodo, anche le cause di lavoro potranno rientrare nel perimetro della negoziazione sia pure senza che venga considerata come condizione di procedibilità. Sul piano procedurale, detto che un modello standard di negoziazione dovrà essere individuato dal Cnf, prende corpo un’attività istruttoria interamente devoluta all’azione degli avvocati e fondata sull’assunzione di dichiarazioni da parte di terzi su fatti rilevanti e nella richiesta alla controparte di dichiarare per iscritto fatti a essa sfavorevoli. Le prove acquisite in questo modo, facilitate anche dalla introduzione di sanzioni penali per chi dichiara il falso e processuali per chi si sottrae all’interrogatorio, potranno poi avere diritto di cittadinanza anche nel successivo giudizio, dopo che si sarà esaurita la fase di negoziazione. A fare da incentivo alla istruzione stragiudiziale, la previsione di una maggiorazione del compenso per gli avvocati, nella misura del 30%, che vi faranno ricorso. Venendo al processo di cognizione, si punta a introdurre un rito semplificato per le controversie che si svolgono davanti al giudice unico. L’atto introduttivo sarà sempre nella forma del ricorso, l’udienza di prima comparizione dovrà essere fissata entro un termine comunque non superiore a quattro mesi e il termine di comparizione delle parti non dovrà andare oltre gli 80 giorni. Sparite sanzioni pecuniarie e poteri istruttori esercitabili d’ufficio, all’udienza di prima comparizione, il giudice, se richiesto, concederà alle parti un termine perentorio fino a 30 giorni per produrre documenti e per l’indicazione dei mezzi di prova dei fatti specificamente contestati e un ulteriore termine perentorio fino a 20 giorni per la sola indicazione di prova contraria, fissando udienza non oltre 60 giorni dalla scadenza dell’ultimo termine. Terminata tutta la fase istruttoria (scandita comunque da tempi certi, dall’ordinanza di ammissione delle prove all’indicazione dei chiarimenti ulteriori), il giudice inviterà le parti a precisare le conclusioni e alla discussione orale nel corso della stessa udienza, fissando, su richiesta, una nuova udienza con deposito di sintetiche note difensive non oltre 40 giorni prima. Rafforzata la fase istruttoria con la previsione di misure pecuniarie e sanzioni processuali per chi non permette di effettuare le ispezioni personali o su cose ritenute indispensabili dall’autorità giudiziaria e per chi non adempie all’ordine di esibizione di cose o documenti. Il deposito dei documenti e di tutti gli atti di parte dovrà avvenire esclusivamente con modalità telematiche e toccherà al capo dell’ufficio autorizzare il deposito con modalità non telematiche unicamente quando i sistemi informatici del dominio giustizia non funzionano o per situazioni d’urgenza. Quanto alle notifiche, il testo prevede, quando il destinatario è un soggetto per il quale la legge stabilisce l’obbligo di indirizzo di posta elettronica certificata, che la comunicazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale va eseguita dall’avvocato soltanto via pec. Quando la notificazione attraverso posta elettronica certificata non è possibile o non è andata a buon fine per causa imputabile al destinatario, l’avvocato provvederà alla notificazione esclusivamente mediante inserimento, a spese del richiedente, nell’area web riservata disciplinata dall’articolo 359 del Codice della crisi; in questo caso la notificazione sarà considerata eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento. Penalisti e Ocf: sul patteggiamento il Ddl tace. Anm: no alla stretta sui pm di Errico Novi Il Dubbio, 12 luglio 2019 Ci sono due espressioni chiave. Entrambe contenute nel comunicato diffuso, dopo il summit sulla riforma penale, dall’Organismo congressuale forense. La prima è “concertazione” : sia l’organismo politico degli avvocati sia le altre componenti intervenute mercoledì al “tavolo” con Bonafede riconoscono come positivo il “metodo del confronto” adottato dal guardasigilli. La seconda formula rivelatrice della nota di Ocf corrisponde, invece, agli obiettivi richiamati all’articolo 13 della legge delega illustrata dal ministro: “Semplificazione, speditezza e razionalizzazione”. Ecco: sulla funzionalità delle norme rispetto a tali esiti, arrivano varie obiezioni. Ma più che dal Cnf, dall’Aiga e dall’Ocf, nella cui valutazione pure non manca la richiesta di “adeguate modifiche” del testo “in sede di decretazione”, sono Unione Camere penali e Anm a esprimere le maggiori riserve. Nel primo caso, innanzitutto per la “rinuncia” all’estensione del patteggiamento, nel secondo per le “sanzioni” a carico dei pm tardivi nel chiudere l’inchiesta. I penalisti partono da un pregio del ddl: quello di “non avventurarsi su strade impervie di rivisitazione di istituti di garanzia”. Ciò detto, l’associazione presieduta da Gian Domenico Caiazza ricorda che “da un lato si accolgono le indicazioni per potenziare il ricorso all’abbreviato condizionato, positivamente modificando i parametri per l’ammissione delle prove”, ma “dall’altro inspiegabilmente si è rinunciato a qualsiasi intervento di estensione degli istituti per l’applicazione della pena concordata”, il patteggiamento appunto. E questo, prosegue la nota dell’Ucpi, “toglie qualità all’intervento”. L’origine del “compromesso” non è taciuta: è nella “avversione di una componente della maggioranza alle riduzioni premiali di pena”. È la Lega, infatti, ad aver chiesto di eliminare il loro allargamento. Un versante sul quale per ora risulta esclusa anche una proposta, rilanciata all’incontro di mercoledì, da coordinatore e tesoriere di Ocf, Giovanni Malinconico e Alessandro Vaccaro: modificare le norme sul patteggiamento “onde consentire al giudice di applicare la misura alternativa” prevista dall’ordinamento penitenziario, “con evidente diminuzione delle impugnazioni e dei procedimenti a carico del Tribunale di Sorveglianza”, ricorda l’Organismo. Le Camere penali segnalano a loro volta altre due “note dolenti”. Da una parte, la scelta di “rimettere al Csm, in via originaria” la fissazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale, che oltretutto, fa notare l’Ucpi “è di segno opposto” a quanto previsto dal ddl sulla separazione delle carriere. Dall’altra parte si ricorda che “non vi può essere correlazione” tra la riforma penale e la “nuova” prescrizione, “contro la quale deve continuare la battaglia”, promettono i penalisti. Obiezioni di segno diverso da parte dell’Anm. Che riconosce, sì, come “quello del tavolo tecnico” sia stato “un percorso innovativo e virtuoso nel metodo del confronto”. Ma poi manifesta “netta contrarietà in relazione alla nuova disciplina della durata delle indagini che, senza tenere adeguatamente conto delle ragioni strutturali del carico di procedimenti e, al contempo, della notevole complessità delle attività investigative, prevede una generalizzata sanzione consistente nel disvelamento degli atti e prospetta sanzioni disciplinari per i magistrati”. La “discovery” in caso di chiusura tardiva dell’inchiesta e il possibile illecito contestabile al pm “negligente” sarebbero, secondo l’Anm, destinati a “non incidere sui tempi delle indagini” e a “vanificare il contrasto ai reati”, da quelli di “criminalità organizzata e terrorismo” fino alla corruzione. Perciò l’associazione presieduta da Luca Poniz arriva a parlare di “ennesima norma-manifesto che individua senza adeguata analisi un problema e costruisce su un’incompleta valutazione una apparente soluzione”. Csm, il sorteggio non può garantire il pluralismo di Giulia Marzia Locati* Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2019 In quest’ultimo periodo si è giustamente parlato di una “questione morale” della magistratura. Al di là delle responsabilità penali e disciplinari - da accertare nelle sedi a ciò deputate - i fatti emersi dall’indagine di Perugia devono essere presi sul serio in tutta la loro portata per poter essere un’occasione di riflessione sullo stato di salute del Csm. La degenerazione torrentizia, che certamente ha portato all’affermazione di gruppi clientelari e territoriali di potere che gestiscono interessi, esiste e deve essere denunciata. Si tratta di gruppi trasversali alle correnti e che vedono il coinvolgimento di parte della politica: ma ciò avviene non nei luoghi istituzionali, ma in circoli opachi e non trasparenti. Tutto questo non può essere tollerato. Dalla risposta che la magistratura saprà dare e dalle soluzioni che sarà in grado di elaborare dipenderà la tipologia di magistrato che si affermerà negli anni a venire. In questo contesto il sorteggio dei membri del Csm, lungi dall’essere la soluzione, rischia di acuire il problema. Uno dei modi per arginare le derive clientelari e corporative è infatti quello di palesare e prendere sul serio l’esistenza di un pluralismo culturale all’interno della magistratura: non si può pensare - e non ci si deve nemmeno augurare - che i magistrati non siano in grado di confrontarsi sulle diverse opzioni ideali e valoriali da cui sono animati. Prendere atto dell’esistenza di queste differenze e rivendicarne pubblicamente l’importanza per la ricchezza della magistratura è ciò che ne evita l’appiattimento e la burocratizzazione. Infatti, il governo autonomo della magistratura non chiama il Consiglio superiore a scelte puramente tecniche o a interpretazioni insensibili a opzioni culturali di fondo: penso alla potestà del Csm di dettare regole sul funzionamento degli uffici giudiziari. Dunque, solo una reale possibilità di scelta dei membri del Csm consente di preservare la sua capacità di rappresentatività. Rappresentatività che ha permesso il compimento di alcune tappe fondamentali per l’evoluzione del diritto, che sono state possibili proprio grazie al confronto che ha reso il giudice consapevole dell’importanza, per esempio, di interpretare la legge conformemente alla Costituzione. Il sorteggio, al contrario, negando questo dato di fatto o facendo finta che sia irrilevante per l’esercizio della giurisdizione, finisce per veicolare l’immagine di un’istituzione composta da persone che non rispondono a nessuno (se non alla sorte) e - temo - condurrà a una visione burocratizzata del lavoro del magistrato. Se la crisi attuale deriva allora, più che da una forza, da una debolezza delle correnti, l’antidoto non può che essere quello di recuperare la loro funzione originaria di luogo di discussione trasparente e di pubblico confronto, il cui buono stato di salute è importante non solo per l’attività giurisdizionale, ma anche per la vita civile del Paese. Ne è stato un esempio l’apporto che Magistratura Democratica ha dato in occasione della battaglia per il No al referendum costituzionale nel 2016. Consapevole del fatto che imparzialità significa non parteggiare per uno degli attori processuali, ma non indifferenza rispetto alle questioni di fondo che animano il dibattito culturale e politico, MD ha offerto il proprio contributo al dibattito, impegnandosi non solo per la difesa ma anche per la realizzazione dei diritti, delle libertà e delle garanzie della Costituzione. Questo contributo sarebbe stato impossibile senza l’elaborazione ideale e culturale che negli anni MD ha portato avanti, nella consapevolezza che l’indifferenza verso dinamiche partitiche e politiche in senso stretto deve essere accompagnata, come diceva Marco Ramat, all’attenzione e all’impegno nella “grande politica della Costituzione”. *Giudice del Tribunale di Torino - Esecutivo Nazionale di Magistratura Democratica Non è con le trovate di Bonafede che si aggiusta la giustizia di Mauro Mellini L’Opinione, 12 luglio 2019 L’ho detto, l’ho scritto e lo ripeto. Una riforma della giustizia, in sé difficilissima, perché deve essere vera “riforma” e fare che la giustizia ne risulti almeno un po’ più “giustamente” realizzata (usiamo pure questa parola un po’ esagerata) da questa gente, da un Alfonso Bonafede (quand’anche lo sia veramente) e da quella muta di cani arrabbiati che abbaiano e poi si mordono tra loro, che si è costretti a considerare il nostro Governo e la sua maggioranza parlamentare, è cosa che mi fa paura più della giustizia così com’è. Un branco di cultori dell’ignoranza e della faciloneria, che non riesco a definire meglio che come la platea degli amici del bar dello sport, con il loro sapere di tutto e di più con la loro supponenza di volerlo imporre come la via facile per salvare l’umanità, è un branco che “dove tocca, brucia”. Senza nemmeno, con ciò, liberarci dei rottami. Pensavo a tutto ciò ed alla difficoltà di riassumerlo in poche righe l’altra sera, per rispondere ad un mio caro amico e collega che dagli Stati Uniti d’America, dove si trova, spero, godendosi una bella vacanza (ma credo abbia motivi di lavoro!), mi ha scritto chiedendomi che cosa ne penso della proposta di Bonafede di istituire “una piattaforma web dove poter segnalare comportamenti scorretti dei magistrati, aperta a soggetti qualificati”. È incredibile come la speranza, che è una virtù che quando c’era la religione cattolica mi pare si dovesse definire “virtù teologale”, sarà pure teologale, ma non è davvero razionale. L’ottimismo aiuta a vivere bene o quasi, ma è spesso la strada delle nostre peggiori fesserie (scusa Ciccio). “Aperta” a “soggetti qualificati”. Non per difendere la mia qualità di soggetto inevitabilmente squalificato, ma ve lo immaginate voi l’”albo” dei soggetti qualificati istituito, scritto ed aggiornato da questi discepoli di Bonafede già pronti ad escludersene reciprocamente? E, poi, l’essere “qualificato” non dovrebbe significare essere “selezionato”? Posso, poi, immaginare quali sarebbero le doglianze che vi sarebbero registrate. Della massa delle porcherie che macchiano la giustizia del nostro Paese (e prima ancora le intelligenze e le coscienze) finirebbero in questa sentina degli orrori telematica non certo le porcherie più vere e più gravi. Non voglio essere, al contrario di Ciccio, un pessimista quasi menagramo, ma credo che vi finirebbero iscritti assai di più casi semplicemente mal compresi da Parti ed Avvocati. E intanto, altre cento e passa leggi e regolamenti. E, poi, al solito che se ne farebbe di quella grossa pattumiera, ammettendo che riuscisse ad essere tale? A vagliarne l’attendibilità delle lamentele quanti Palamara occuperebbero stabilmente poltrone e strapuntini lottizzati per “correnti” della “indipendenza” della Magistratura? Certo, un ennesimo ente inutile. Il difetto sta nel manico. Non è con le trovate di un Bonafede (se anche in buona fede) che si rimedia alle nostre sciagure. Gino Bartali (in questi giorni si è tirato fuori, invece, Fausto Coppi per paragonarlo non so se con Salvini) diceva “l’è tutto da rifare”. Purtroppo è così. L’autogoverno ribelle ed astioso della Magistratura è fallito. È una sommatoria di bugie capaci solo di opprimere ancor più l’indipendenza della ragione, della scienza, della coscienza. Quella dei singoli giudici. Ce ne saranno pure che non ne sono privi. La giustizia mediatica colpisce ancora di Claudio Romiti L’Opinione, 12 luglio 2019 Dunque la suprema Corte di Cassazione ha confermato la condanna di vent’anni ai danni di Antonio Logli reo, secondo la verità processuale, di aver ucciso la moglie Roberta Ragusa e di averne distrutto il corpo. Giustizia è fatta? Personalmente non credo proprio, almeno nel senso di una giustizia in grado di superare con prove schiaccianti ogni ragionevole dubbio. Anche perché prove in questa ennesima vicenda finita sotto i riflettori deformanti dei media si fa veramente fatica a trovarne, se non quelle considerate tali dai numerosi adoratori di un colpevolismo a prescindere. Tant’è, mi permetto di ricordare ai più distratti, che lo stesso Logli fu inizialmente prosciolto dal Giudice per le indagini preliminari in forza di un impianto accusatorio che sembrava francamente inconsistente. Ma in seguito, sebbene non siano emersi elementi tali da giustificare una condanna, ripeto, oltre ogni ragionevole dubbio, l’imputato è entrato in quel ben conosciuto tunnel mediatico-giudiziario alla fine del quale, come accaduto nella stragrande maggioranza dei casi finiti nel tritacarne dei citati media, c’era il vicolo cieco di una condanna certa. A questo proposito risultano molto illuminanti le profetiche dichiarazioni (dato che sono state rilasciate qualche ora prima del pronunciamento della Cassazione) espresse in merito dall’illustre criminologo e psichiatra, Alessandro Meluzzi: “Nonostante non ci sia alcun elemento di prova determinante, non ci dovrebbero essere dubbi circa la conferma della condanna. Si tratta di un altro ed ennesimo caso di condanna utile senza alternative. Non essendo stato possibile ricostruire una narrazione diversa, alla fine ci si è rifugiati nel solito “non può che essere stato lui”. Salvo un ripensamento, Logli sarà condannato in assenza di un vero elemento di prova come è stato con Bossetti, nel caso di Erba e tanti altri”. Ed in questa, a mio avviso, poco esaltante pagina di giustizia un contributo importante lo ha fornito il programma di Rai 3 “Chi l’ha visto?”. Un programma spesso incisivo nella sua ragione sociale di occuparsi delle persone scomparse, ma altrettanto spesso meritevole di biasimo quando mostra un evidente accanimento colpevolista ai danni dell’imputato di turno. Tanto da travalicare ampiamente i confini di una moderna concezione del diritto, arrivando a sostenere indirettamente una barbarica inversione della prova. Una dimostrazione di ciò l’ha ampiamente fornita in diretta Paola Grauso, inviata della popolare trasmissione che si è sempre occupata del caso, allorché si è permessa di contestare agli avvocati del Logli, usciti piuttosto sconvolti dal “Palazzaccio”, il fatto che questi ultimi non sarebbero riusciti a produrre una convincente ricostruzione alternativa rispetto a quella proposta dall’accusa. Dunque, dobbiamo concluderne che per questa esimia giornalista l’onere di dimostrare la propria innocenza grava sull’imputato, secondo un modello inquisitorio che ci riporta ai fasti dell’ordalia medievale. Ma quando in un Paese si fa strada questa cultura, obiettivamente regressiva, della giustizia, basata su ancestrali e rassicuranti bisogni di cercare “un” colpevole, anziché “il” colpevole, per noi inguaribili garantisti la pervasiva sensazione di essere un po’ tutti in libertà vigilata diventa quasi ossessiva. Norme e sentenze, la retroattività si fa strada di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2019 Corte costituzionale, sentenza 10 luglio 2019, n. 173. Quando una legge è retroattiva, sorgono seri dubbi sulla lealtà dello Stato: la legge può disporre solo “per l’avvenire” (articolo 11 delle Disposizioni preliminari al Codice civile), non per ciò che è già avvenuto. Il principio è granitico per le sanzioni penali, ma diventa elastico per molti divieti della vita quotidiana, civile, amministrativa, fiscale. L’ultimo caso riguarda gli avvocati. Per gli eletti negli Ordini locali, la Corte costituzionale (sentenza 173 / 2019) ha fatto l’altro ieri, 10 luglio, un passo indietro non solo nel tempo (ammettendo la retroattività), ma anche nella logica e credibilità delle leggi. Il caso deciso era banale: gli avvocati che abbiano già svolto due mandati quali eletti nell’Ordine, non possono (articolo 3, legge 12/2019) candidarsi per un terzo mandato. Il divieto opera dalla data di entrata in vigore della legge (febbraio 2019), ma valuta circostanze che, all’epoca in cui si erano verificate (circa 10 anni prima) erano prive di conseguenze. Prima del 2019, infatti, si poteva essere rieletti anche più volte. Quindi, circostanze risalenti a diversi anni prima (i due mandati elettivi), generano dal 2019 preclusioni (un terzo mandato), anche se tale preclusione non era prevedibile all’epoca in cui erano stati svolti i due precedenti incarichi. Dice la Corte: la preclusione ad un terzo mandato non deriva dalla retroattività della legge del 2019, ma dall’efficacia (nel 2019) di fatti e circostanze avvenuti anni prima. L’applicazione di un eguale principio in altri campi della pubblica amministrazione o in campo fiscale, potrebbe essere dirompente: tutto può essere esaltato o condannato. Si possono accordare benefici o imporre prestazioni a situazioni che, all’epoca in cui si sono manifestate, non erano a rischio. Esaminando la legge Severino (che imponeva limiti a candidati con situazioni ostative penali), è stato applicato un principio analogo (Corte costituzionale, sentenze 36/2019 e 276/2016). Ma oggi la retroattività sta avanzando verso situazioni civili e di amministrazione quotidiana. Anche la vicenda Ilva lotta contro l’orologio, nel senso che gli eventi passati sono rimessi in discussione, rielaborando la situazione che ha generato l’accordo. Il rispetto dei patti non è più affidato alla credibilità, ma diventa una sorta di beneficio: per non essere condannati nel futuro, non basta invocare l’irretroattività delle leggi, ma occorre ottenere uno scudo o un’immunità. Un’altra prova è nella legge sblocca cantieri (articolo 4, legge 55/2019) che prevede l’immunità da danni erariali dei funzionari che firmeranno eventuali revoche di concessioni autostradali. Non interessa più tanto la revoca del contratto (della quale non si discute), ma si presta attenzione agli atti esecutivi della revoca stessa, se e quando il Governo riterrà di imporre ai suoi dirigenti di firmarla. Ai dirigenti si offre uno scudo, confermando una prassi di cautele ed immunità che non a caso (legge 24/2017) si fa strada anche nella sanità. La cannabis è illegale anche se light di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2019 Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza 10 luglio 2019, n. 30475. La “liberalizzazione” della cannabis light riguarda solo gli usi agroalimentari, per gli altri prevale il principio di offensività. Perciò le Sezioni unite della Cassazione hanno ritenuto illegale la vendita dello stupefacente anche quando ha una bassa concentrazione di principio attivo. Una decisione che, per le sue implicazioni sulla filiera creata dopo le aperture previste dalla legge 242/2016, aveva sollevato clamore a fine maggio, quando era stata presa. Ieri sono state depositate le motivazioni, scritte nelle 19 pagine della sentenza 30475/2019. La pronuncia chiarisce che esiste una sola possibile eccezione: il caso in cui il contenuto di principio attivo sia talmente irrilevante da non produrre alcun concreto effetto drogante. Questo proprio in virtù del principio di offensività, che impone al giudice di verificare sempre sul caso concreto. Secondo uno dei tre filoni interpretativi apertisi anche in Cassazione in seguito alla legge 242, il principio di offensività verrebbe soppiantato dal fatto che la norma consente di produrre legalmente e senza autorizzazione cannabis con quota di tetraidrocannabinolo (Thc) contenuta entro lo 0,6% (sentenza 4920/2018). Le Sezioni unite, invece, partono dalla lettura della legge 242 per concludere che essa si applica solo agli usi agroalimentari. Tra le argomentazioni, il fatto che la norma all’articolo 1 aveva dichiaratamente la finalità di sostenere e promuovere la coltivazione della canapa in quanto più sostenibile rispetto ad altre forme di agricoltura e all’articolo 2 elenca i prodotti ottenibili da essa la cui commercializzazione è ammessa: alimenti, cosmetici, semilavorati, materiali per bioingegneria, depurazioni, florovivaismo eccetera. Dunque, la cannabis per altri impieghi ricade ancora sotto i divieti imposti dal Testo unico sugli stupefacenti (Dpr 309/1990). L’articolo 73, osservano le Sezioni unite, “incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina derivati dalla cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di Thc”. Stabilito che si applica il Testo unico e quindi si tratta di droghe a tutti gli effetti, occorre applicare il principio di concreta offensività stabilito in materia dalle stesse Sezioni unite (sentenza 47472/2007), secondo cui non è rilevante il superamento della dose media giornaliera ma l’effetto drogante per ogni singola assunzione. L’unica apertura che sembra venire dalla sentenza depositata ieri per escludere la punibilità dei rivenditori di cannabis light è la possibilità di configurare l’errore inevitabile, dovuto a “criteri oggettivi, quali l’assoluta oscurità del testo” di legge. Ma i giudici non affermano espressamente che ciò ricorre nel caso della cannabis light. Forse anche per questo la Coldiretti ha commentato la sentenza chiedendo una nuova legge che faccia chiarezza. “Sempre reato vendere cannabis light”: la Cassazione chiarisce i divieti di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 12 luglio 2019 Depositate le motivazioni del verdetto di maggio: resine, olio e infiorescenze sono proibite anche se il contenuto di thc è sotto lo 0,6%, Consentiti solo cosmetici, prodotti alimentari o altri derivati. Vendere cannabis è sempre reato, anche se “light” e la percentuale di principio “drogante” è al di sotto dello 0,6%. la Corte di cassazione ha depositato le motivazioni con la quale lo scorso 30 maggio aveva stabilito i limiti entro i quali posso lavorare i negozi di prodotti derivati dalla cannabis. Via dagli scaffali, dunque, olio, resina o infiorescenze di marijuana, sì soltanto ad altri derivati come cosmetici o prodotti alimentari. I prodotti sempre vietati - A maggio la sentenza dei supremi giudici aveva stabilito che il commercio della cannabis e dei suoi derivati è consentito a meno che i prodotti abbiano “effetto drogante”. Il dispositivo non chiariva cosa fosse di preciso questo concetto e d è stato necessario attendere le motivazioni. Che hanno chiarito quanto segue: è proibita sempre la cessione di marijuana, anche nei negozi autorizzati sotto forma di infiorescenze, resine, olio; questo indipendentemente dal contenuto di principio attivo (che secondo la legge del 2016 è pari allo 0,6%). Se il reato è tenue, niente condanna. Su come debbano essere sanzionate le violazioni, tuttavia, la cassazione apre uno spazio di discrezionalità. “Occorre verificare l’idoneità in concreto a produrre un effetto drogante” dice la sentenza emessa a sezioni unite. Questo significa che il fatto è particolarmente tenue, viene meno anche la sua punibilità. La valutazione, caso per caso, sarà affidata al giudice. Questo criterio potrebbe tradursi in un “salvacondotto” per i titolari di molti shop di cannabis light. La norma per i coltivatori - La sentenza mette dei punti fermi anche a riguardo della coltivazione e lavorazione della canapa. “La coltivazione - è scritto nelle motivazioni - è consentita senza necessità di autorizzazione ma possono essere ottenuti esclusivamente prodotti tassativamente elencati dalla legge: possono ricavarsi alimenti, fibre e carburanti ma non hashish e marijuana”. La Cassazione richiama la disciplina europea, dalla quale quest’ultima legge deriva, che - precisa - riguarda il solo ambito “agroindustriale”. Pertanto la coltivazione “connessa e funzionale alla produzione di sostanze stupefacenti, rientra certamente tra le condotte che gli Stati membri sono chiamati a reprimere”. Lecce: tavolo paritetico permanente per la prevenzione del rischio suicidario in carcere comune.lecce.it, 12 luglio 2019 Il giorno 5 luglio 2019, presso la Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce, la Garante per i diritti delle persone private della libertà personale ha partecipato alla prima riunione del Tavolo paritetico permanente per la prevenzione del rischio suicidario, istituito presso il carcere sulla base della Circolare Dap del 2 Maggio 2019 su “Interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico” Accanto alla Direttrice del carcere dott.ssa Rita Russo e al Capo Area trattamentale dott. Fabio Zacheo, hanno partecipato all’incontro la Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dott.ssa Silvia Dominioni, la Magistrata di sorveglianza dott.ssa Ines Casciaro; la dott. Cinzia Vergine, Coordinatrice Ufficio Gip; il Dirigente del Dsm, dott. Serafino De Giorgi; il dott. Giuseppe Gennaro e la dott.ssa Cristina Mendrano, responsabili dell’ambulatorio psichiatrico dell’Area Sanitaria Penitenziaria; i dott. Antonio Santoro e Gianpaolo Mastropasqua, medici della Atsm (Articolazione per la tutela della salute mentale); la dott.ssa Paola Ruggeri, Direttrice dell’Udepe di Lecce, la dott.ssa Cinzia Conte, referente dell’area educativa. Il tavolo è chiamato a riflettere sul tema della salute mentale in carcere in un momento particolarmente difficile per la vita carceraria, per i tassi di sovraffollamento in ascesa, per l’aumento dei suicidi di detenuti e degli atti di aggressività e violenza sia nei confronti di altri detenuti che degli operatori di polizia penitenziaria. Ciò richiama l’attenzione sulle condizioni generali di vita delle persone in detenzione, sul fatto che la carcerazione per sua natura, comprimendo profondamente i diritti individuali fondamentali e in particolare il diritto alla salute, compromette fortemente la salute mentale dei detenuti, fino a divenire essa stessa generatrice di forme più o meno gravi di disagio psichico. La chiusura degli Opg è, in realtà, avvenuta in assenza di un progetto globale di trattamento dei pazienti autori di reato e non è stata accompagnata da un’adeguata revisione delle normative che finiscono per condizionare la possibilità di realizzare adeguati percorsi di cura. Dal tavolo sono emerse le molteplici problematiche che riguardano la salute mentale dei detenuti, fortemente compromessa dalle condizioni di vita detentiva, e le grandi difficoltà che il sistema carcerario e sanitario incontrano nell’affrontarle. Se pur da posizioni differenti tutti i partecipanti al tavolo hanno espresso il grande disagio e le notevoli difficoltà per i tanti ostacoli che ne impediscono il corretto funzionamento. Nella Casa Circondariale sono presenti una Sezione intramuraria psichiatrica, unica in Puglia, nata dall’accordo tra il Dsm dell’Asl di Lecce e l’Amministrazione penitenziaria, dotata di 20 posti letto destinati a coloro che prima della riforma erano destinati agli Opg, e di un Servizio di psichiatria penitenziaria che svolge la sua attività all’interno delle sezioni detentive. Paradossalmente il Carcere di Lecce, proprio il suo essere un carcere da tempo attrezzato e attento ai problemi della psichiatria penitenziaria, sconta le carenze di un sistema più ampio che finisce per scaricare le sue inadempienze su chi è già impegnato nell’affrontare i tanti problemi legati alla salute mentale in carcere. Proprio per la presenza di una sezione psichiatrica intramuraria da tempo, afferma la dott.ssa Russo, vengono inviati a Lecce detenuti con gravi patologie che, non potendo essere accolti nell’Atsm ormai al completo, devono essere tenuti nelle sezioni ordinarie con tutti i problemi, a volte gravissimi, che ne derivano. Tutto questo a fronte di una carenza di risorse, in particolare di tipo medico psichiatrico (i bandi pubblici per la selezione di psichiatri vanno spesso deserti), che non consente di gestire la complessità della situazione e i tanti eventi critici continuamente presenti. Da tempo, ha affermato il dott. De Giorgi, si chiede alla sanità pubblica, in particolare all’area di psichiatria penitenziaria, di garantire di più con sempre meno risorse, facendo ricadere sul sistema psichiatrico penitenziario problemi e difficoltà di altra natura. In realtà, come ha recentemente affermato il Comitato nazionale per la bioetica della presidenza del Consiglio nella sua relazione su Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere (Marzo 2019), il carcere e la salute mentale sono incompatibili e la presa in carico delle persone ristrette con disturbo psichiatrico dovrebbe avvenire al di fuori del carcere, nel territorio, limitando la cura psichiatrica in carcere alle persone con disturbi minori o al ristretto numero di coloro per cui non sia possibile applicare un’alternativa alla carcerazione a fine terapeutico. Si veda a questo proposto la recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter.” (Sentenza n. 99, 19/4/2019) Diventa perciò particolarmente rilevante continuare ad evidenziare da una parte la necessità di migliorare la qualità di vita delle persone detenute anche attraverso una più efficace assistenza psichiatrica, trattando la malattia mentale alla stessa stregua di quella fisica e dall’altra lavorare nella direzione di un potenziamento di progetti e percorsi terapeutici alternativi al carcere che garantiscono in modo più efficace il diritto fondamentale alla salute, anche mentale, dei detenuti e contribuiscono in modo determinante alla prevenzione del rischio di recidiva. Trento: a Spini ci sono troppi detenuti, Fugatti scrive al Ministro della Giustizia ildolomiti.it, 12 luglio 2019 Il presidente della provincia ha scritto una lettera al ministro della Giustizia sulla situazione del carcere di Spini di Gardolo. La deputata Rossini: “ Serve colmare la carenza di personale dedito ai servizi educativi”. Un rapporto completo sulla situazione del carcere, sia per quanto riguarda il numero di detenuti che di guardie. Questo quanto ha chiesto il presidente della Provincia Maurizio Fugatti attraverso una lettera inviata al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede in relazione al carcere di Spini di Gardolo. “La gestione della Casa circondariale di Trento - viene scritto nella lettera - ha evidenziato nel corso degli anni notevoli criticità, sia rispetto alle condizioni lavorative del Corpo di Polizia penitenziaria, sia al ben noto problema del sovraffollamento della struttura”. Nella lettera Fugatti ricorda il grave episodio di violenza e devastazione che si è verificato lo scorso dicembre a seguito del suicidio di un detenuto. L’impegno è quello di garantire un costante monitoraggio presso le sedi competenti sugli aspetti di criticità gestionale, a partire dal numero di detenuti, superiore a quello concordato nell’Accordo di programma quadro fra Provincia, Comune di Trento e Governo, sottoscritto nel 2002 e aggiornato, successivamente, nel 2008. “Pertanto - scrive il presidente al ministro - al fine di corrispondere alle istanze provenienti dagli organi istituzionali del territorio e dagli operatori che si rapportano con la struttura, le rappresento la necessità di disporre di un rapporto completo ed aggiornato sulla situazione gestionale del carcere, sia in riferimento al numero dei detenuti che alla situazione dell’organico del Corpo di Polizia penitenziaria”. A parlare di sostegno alle forze di polizia penitenziaria è stata anche la deputata del Patt, Emanuela Rossini. “Ci dobbiamo impegnare, ciascuno nei ruoli che gli competono, di assicurare al Corpo di Polizia Penitenziaria, il sostegno che merita, in primis colmando la carenza di personale dedito ai servizi educativi, oggi carente a Spini di Gardolo, che sono indispensabili sia per non rendere il corpo di polizia l’unico elemento di tramite con i detenuti, caricandolo così eccessivamente sul piano psicologico, sia perché il carcere svolga un ruolo rieducativo capace di orientare chi esce dal carcere a una vita nuova”. Crotone: visita del Garante nazionale dei diritti dei detenuti ilcirotano.it, 12 luglio 2019 Il prof. Mauro Palma, presidente dell’Autorità Nazionale del Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, accogliendo l’invito del Garante comunale avv. Federico Ferraro, è in visita istituzionale alla città di Crotone. L’altro ieri sera il sindaco Ugo Pugliese, nella casa comunale, ha dato al prof. Palma il benvenuto in città. Successivamente il garante ha anche avuto modo di visitare la città ed in particolare il Museo Archeologico e la basilica Cattedrale. Questa mattina, prima della visita alla Casa Circondariale di Crotone, il prof. Palma con l’avvocato Ferraro ha incontrato i giornalisti A portare il saluto dell’amministrazione Comunale la consigliera comunale Anna Maria Oppido. L’avv.to Ferraro ha avuto modo di illustrare al prof. Palma le attività che sono state messe in campo. A seguito della legge regionale del 2018, Crotone e Reggio Calabria sono gli unici comuni calabresi che si sono dotati dell’autorità di garanzia dei detenuti. Come ha evidenziato l’avv.to Ferraro, Crotone in questo settore è all’avanguardia e va dato atto all’Amministrazione ed al Consiglio Comunale per l’attenzione verso i problemi dei detenuti. In particolare il Garante comunale si è occupato di attività di formazione e cura della personalità e delle potenzialità dei detenuti, promuovendo anche iniziative di carattere culturale e di coinvolgimento degli stessi detenuti. Recentemente è stato istituito il tavolo istituzionali con le associazioni di categoria per il reinserimento socio - lavorativo dei detenuti. Il prof. Palma si è soffermato sul ruolo del garante nazionale, un organismo indipendente in grado di monitorare i luoghi di detenzione ma anche i centri per gli immigrati, le residente per le misure di sicurezza, i reparti dove si effettuano i trattamenti sanitari obbligatori Lo scopo delle visite effettuate dall’organismo è quello di individuare eventuali criticità ed in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzione per risolverle. Dopo ogni visita il garante nazionale redige un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni e lo inoltra all’autorità competente. Il garante nazionale ha inoltre ulteriori compiti assegnati dalla legge come il monitoraggio dei rimpatri e quello delle strutture per persone anziane o con disabilità. Sulla situazione della struttura penitenziaria crotonese il prof. Palma ha detto che non ci sono particolari criticità apprezzando il lavoro che si sta compiendo in sinergia tra il garante comunale e l’amministrazione penitenziaria. Ferrara: carcere, stonato il richiamo agli Opg di Ilaria Baraldi* estense.com, 12 luglio 2019 In merito alle dichiarazioni del sindacato Sappe sulla situazione del carcere di Ferrara. La situazione delle carceri in Italia, non solo a Ferrara, torna ad essere oggetto di attenzione solo quando dalla conclamata difficoltà strutturale si generano episodi drammatici come il suicidio di un detenuto. Purtroppo non è un caso che ciò avvenga d’estate, nel periodo più caldo dell’anno, quando le celle di pochi metri quadrati e i corridoi delle sezioni diventano forni, per i detenuti la pena diventa afflizione e le condizioni lavorative del personale penitenziario diventano ancora più difficili. Inascoltati restano gli appelli di chi ricorda che il sovraffollamento delle carceri e le condizioni di detenzione (quindi le condizioni di chi lavora nelle carceri) rappresentano un problema per l’intera società e che il rispetto della dignità umana è l’indice del grado di democrazia di un paese. Senza citare le tante condanne all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere i detenuti, è certamente segno dei tempi il fatto che la riforma dell’ordinamento penitenziario entrata in vigore lo scorso novembre sotto il governo Lega-5 Stelle abbia mantenuto nella versione definitiva ben poco dello slancio innovatore che l’avevano ispirata a partire dagli Stati Generali dell’esecuzione penale promossi dall’ex ministro Orlando. La legge delega del 2017 aveva l’ambizione non solo di modificare la legge 1975 ma l’approccio all’esecuzione della pena, caratterizzato dal rifiuto di considerare il periodo della detenzione unicamente come una parentesi afflittiva: un’esecuzione penale orientata al rispetto della dignità umana, informata ai valori costituzionali e in linea con le risoluzioni internazionali. Una delle poche occasioni normative per contrastare la manipolazione delle paure e la creazione artificiosa di fobie di insicurezza, oggi molto in voga. Una riforma che tentava di realizzare i due principi del finalismo rieducativo e dell’umanizzazione delle pena dell’articolo 27 Costituzione: l’istanza personalistica (principio di umanità) e quella solidaristica (principio rieducativo). Dell’ispirazione di quella legge delega è rimasto ben poco. Ferisce la rimozione integrale della parte relativa alle misure alternative ed ai requisiti per l’accesso alle stesse (con l’eliminazione delle preclusioni e degli automatismi), ivi compresa la nuova disciplina della liberazione condizionale che rende molte delle novità introdotte comunque di difficile attuazione. Mancano anche quelle parti della riforma che affrontavano il tema dell’infermità psichica: l’estensione dell’istituto del differimento della pena ex articolo 147 cp anche alla salute “psichica” e non solo “fisica”; la previsione di apposite “sezioni per detenuti con infermità” a prevalente (o esclusiva) gestione sanitaria; la previsione di una nuova misura terapeutica per l’affidamento in prova dei condannati affetti da infermità psichica. Suonano pertanto stonate le parole dei sindacalisti del Sappe che per richiamare - giustamente - la politica al dovere di attenzione sul tema del disagio psichiatrico in carcere, lo fanno accusando la chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) definiti dal Presidente Napolitano “un autentico orrore indegno di un paese appena civile”, avvenuta in via definitiva nel febbraio del 2017. Sono stonate perché la dignità delle persone con disagi mentali non si assicura in carcere o in strutture vergognose come gli Opg ma in strutture adeguate a farlo come le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive) laddove ricorrano le condizioni per l’accesso. Sono stonate perché spesso le forme di autolesionismo e i suicidi in carcere non dipendono da una situazione di instabilità psichica precedente alla detenzione o tale da essere assunta clinicamente ma dipendono dalla condizione stessa che le persone si trovano a vivere nel periodo della loro detenzione ed è quindi su tali cause esogene che occorre lavorare. Sono stonate, infine, perché l’unica seria riforma che avrebbe consentito di migliorare le condizioni che anche il Sappe lamenta è stata di fatto castrata dall’attuale governo a trazione Lega. Piuttosto che riesumare orrori come gli Opg, la cui chiusura è una conquista di civiltà, serve lavorare sul funzionamento delle norme che regolano l’ingresso e la permanenza in carcere e le lagnanze vanno indirizzate semmai alle forze politiche che hanno vanificato l’unica seria proposta in tal senso. Di slogan accusatori che non trovano riscontro in alcuna reale proposta politica ne abbiamo davvero abbastanza. *Consigliera comunale PD Catania: muoiono la madre e la moglie, gli negano la possibilità di vederle di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2019 Il carcere può anche infliggere senza giustificato motivo una doppia e tripla pena. Ti recidono gli affetti, ma può accadere che ti muoia una persona cara e, nonostante l’autorizzazione del giudice, non fai in tempo a vederla l’ultima volta. Ma solo in foto, quella sulla lapide. Questa è una storia, atroce, che è capitata esattamente un anno fa a Salvatore Proietto, detenuto nel carcere catanese di Piazza Lanza per una condanna a più di due anni per il possesso di 72 grammi di marijuana. Proietto ha scritto una lettera, dolorosa, a Rita Bernardini del Partito Radicale, perché “io so chi lei - scrive -, si batte per i diritti umani”. Ora è in detenzione domiciliare e forse, se tutto andrà bene e gli sottrarranno i mesi che gli spettano, potrebbe uscire a dicembre. Salvatore ha 40 anni e quando nei primi mesi del luglio del 2018 era ristretto in quel carcere catanese - talmente superaffollato da ritrovarsi addirittura in sei dentro una cella -, gli è arrivata una notizia del tutto inaspettata. La madre, affetta da demenza senile, muore improvvisamente. Il suo avvocato difensore ha subito fatto istanza al giudice e quest’ultimo prontamente ha emesso l’autorizzazione. Tre i permessi, con tanto di scorta. Il primo per recarsi a casa il giorno stesso della morte della madre (4 luglio), il secondo per il funerale (5 luglio), il terzo per andare al cimitero nel luogo dove avveniva la tumulazione. Salvatore era quindi in attesa per essere scortato in paese, per poter vedere la madre, poterla piangere e guardarla per l’ultima volta. Ma nulla da fare. I giorni passavano e ha perso ogni speranza. Solo il 7 luglio finalmente l’hanno preso e potuto scortare fino al cimitero, quando oramai la madre era stata già tumulata. E solo per mezz’ora. Eppure, anche i mafiosi al 41 bis hanno la possibilità, con un permesso di necessità, di poter abbracciare per l’ultima volta i proprio cari. Ma per Salvatore nulla. “Questa è una cosa disumana e un’ingiustizia atroce”, ha scritto nella lettera indirizzata a Rita Bernardini. Ma non finisce qui. Come detto, Salvatore è riuscito ad ottenere la detenzione domiciliare. Ma ad una condizione: quella di dimorare presso un’altra abitazione visto che il reato di spaccio l’aveva commesso nella sua casa. La sorella è riuscita trovargli un’altra sistemazione, una casa di fortuna, vecchia e senza riscaldamento funzionante, tanto da aver dovuto affrontare un gelido inverno insieme a sua moglie. Quest’ultima, proprio a maggio di quest’anno, si è ammalata gravemente. La portano in ospedale e finisce in terapia intensiva. Salvatore, essendo in detenzione domiciliare e quindi con tutte le restrizioni che ha un detenuto, non può andarla a trovare. Per questo motivo, tramite l’avvocato, fa istanza al magistrato di sorveglianza per chiedere un permesso. Nessuna riposta e la moglie nel frattempo muore, senza che Salvatore possa vederla e assisterla in ospedale. Un’altra sofferenza atroce che inevitabilmente ha una ripercussione nella psiche. Salvatore è finito in una spirale di depressione, una punizione che nessuna sentenza ha emanato. Ma evidentemente non è bastato nemmeno questo. Se da una parte è riuscito almeno ad avere l’autorizzazione per poter scontare la sua pena finalmente nella sua casa d’origine, dall’altra parte gli è stato negato l’affidamento in prova, uno strumento prezioso e indispensabile per potergli permettere di reinserirsi finalmente nella società. È riuscito perfino a trovare un’azienda disposto ad assumerlo. Ma nulla, il tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza di concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova. Salvatore, prima dell’arresto, era già sotto cura per ansia e depressione. Ora inevitabilmente è peggiorato e sta malissimo. Potrà mai ottenere una riparazione del danno psicologico subito? Ora a difenderlo è l’avvocato Baldassarre Lauria, dell’associazione Progetto Innocenti, noto per essersi occupato di far riaprire il processo di Giuseppe Gulotta, colui che scontò ingiustamente l’ergastolo. Bergamo: il Sindaco Gori si affianca alla protesta della Camera penale di Gaetano Costa Italia Oggi, 12 luglio 2019 Gli avvocati si sono astenuti dalle udienze per la mancata riforma carceraria. Il carcere come un quartiere. “La casa circondariale è un pezzo della città. E noi così la consideriamo”. Il sindaco Pd di Bergamo, Giorgio Gori, affianca la protesta della Camera penale, con gli avvocati che lo scorso martedì si sono astenuti dalle udienze per denunciare la scelta del governo di abbandonare il progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario. Le celle del carcere di Bergamo, in via Gleno, ospitano tra i 530 e i 550 detenuti per 321 posti. Nell’intera provincia, invece, le persone che stanno scontando condanne attraverso misure alternative sono 1.800. Gori, accanto ai legali, ha ricordato la collaborazione con la casa circondariale e con le associazioni che si occupano dei detenuti. Il sindaco, inoltre, ha annunciato di aver ricevuto un finanziamento di 212 mila euro per due bandi dedicati ai progetti per detenuti, anche minorenni. È stato il referente della commissione Carcere, l’avvocato Carlo Cofini, a definire la casa di detenzione di via Gleno “un quartiere, se consideriamo che 240 detenuti sono residenti nella Bergamasca, tutte persone che un domani torneranno sul territorio”. La protesta dei legali penalisti ha riguardato varie città sul territorio italiano. Con Bergamo e Gori in prima fila per denunciare il sovraffollamento delle carceri. I dati, a livello nazionale, registrano un affollamento intorno al 130%, un solo medico di base ogni 350 detenuti e piante organiche insufficienti sia a livello di assistenti sociali, sia di educatori. “I tassi di recidiva da parte dei soggetti che possono entrare nelle misure alternative sono nettamente più bassi rispetto a chi resta chiuso in carcere”, ha sottolineato Cofini. “A Bergamo, sino a poco tempo fa, c’erano 240 persone con pena residua inferiore ai tre anni, che quindi potevano sfruttare le misure alternative. Sarebbe stato fondamentale per loro, per reinserirsi nella società, e per il carcere stesso, che ha bisogno di abbassare il numero dei detenuti al suo interno”. “Abbiamo un governo che ha deciso di abbandonare una riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata elaborata all’esito di un lungo lavoro e che ora torna a una visione carcerocentrica della pena e del trattamento sanzionatorio”, ha detto al Corriere di Bergamo il presidente della Camera penale della città lombarda, Riccardo Tropea. “Il nostro”, ha aggiunto, “vuole essere un grido d’allarme. I provvedimenti legislativi dimostrano che si vuole puntare tutto sulla pena carceraria abbandonando le misure alternative che, statistiche alla mano, si dimostrano essere il più grande sistema per far abbassare il rischio della recidiva. Alla privazione della libertà si aggiunge una compromissione dei diritti fondamentali, che porta a una maggiore afflittività della pena, che è ingiusta e anti costituzionale”. Il vicepresidente della Camera penale di Bergamo, Marialaura Andreucci, ha ricordato le iniziative intraprese dall’organo giuridico locale. “Su tutti, ci tengo a sottolineare il tavolo di lavoro che da tre anni portiamo avanti insieme con enti, istituzioni, terzo settore e volontariato per parlare di problematiche legate al carcere e per cercare soluzioni per i detenuti”. Torino: nel Centro Rimpatri negate le cure ai malati. Il 118: “lì non possiamo entrare” di Alessio Viscardi fanpage.it, 12 luglio 2019 Le registrazioni delle telefonate al 118 di uno dei detenuti del Cpr di Torino con importanti problemi di salute, e la risposta dell’operatore che rifiuta di inviare un’ambulanza. Nel Centro di Permanenza e Rimpatrio anche ammalarsi è vietato. Nel frattempo i parlamentari chiedono che venga istituita una commissione parlamentare d’inchiesta. “Noi nel Cpr di Torino non possiamo entrare, deve farsi visitare dal personale sanitario all’interno della struttura”. È la risposta data da un operatore del 118 a J.N., tunisino di 29 anni da più di tre mesi detenuto nel Centro di Permanenza e Rimpatrio di Torino in attesa di essere espulso dall’Italia. La storia di J.N. ve l’abbiamo raccontata ieri: dopo un grave incidente stradale è rimasto in coma per 41 giorni ed è stato sottoposto a interventi chirurgici al femore, all’omero e - dopo sei mesi con la sacca per stomia - a una ricanalizzazione chirurgica dell’intestino, anch’esso gravemente lesionato dall’incidente. È proprio quest’ultima la problematica più importante e delicata. J.N. infatti convive con dolori pressoché costanti, a tratti molto intensi, ed ha serie difficoltà persino a recarsi al gabinetto: “Nel Cpr ci sono bagni alla turca e per non rischiare di cadere sono costretto ogni volta a legarmi una corda alla vita che mi consenta di chinarmi e rimanere sospeso”, racconta. J.N., tuttavia, come tutti gli altri 158 ospiti della struttura al suo ingresso è stato sottoposto a una visita medica. Il personale sanitario, al quale ha fatto presente le sue problematiche di salute, l’ha ugualmente ritenuto idoneo alla permanenza nel Cpr. Il 29enne tuttavia dovrebbe seguire delle terapie mediche specifiche, una dieta particolare e personalizzata e anche una riabilitazione motoria. Non può farlo, però, in una struttura come il Centro di Permanenza e Rimpatrio carente di personale specializzato e con forti criticità anche dal punto di vista igienico sanitario. Pisa: “Oltre Il Muro”, oltre 600 carcerati ed ex detenuti incontrati in vent’anni pisanews.net, 12 luglio 2019 Seicento diciassette differenti persone incontrate in venti anni di attività, 27 solo nel 2018. Sono i numeri di “Oltre Il Muro”, il progetto promosso dalla Società della Salute della Zona Pisana e gestito dalla Cooperativa sociale “Arnera” per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, permettendo l’accesso alle misure alternative, o di coloro che sono appena usciti dal carcere e hanno bisogno di supporto e accompagnamento in quanto non residenti nel territorio o, se residenti, in condizioni economiche e sociali tali da rendere difficoltoso l’affidamento nella loro abitazione. Il progetto è strutturato in tre moduli operativi (uno sportello d’ascolto, il lavoro di rete e la casa d’accoglienza) e il “cuore” è in Piazza Toniolo 13, nel centralissimo quartiere di San Martino che ospita proprio la sede operativa e la struttura d’accoglienza, una casa vera e propria, che può ospitare fino ad un massimo di otto persone e improntata ad una progressiva acquisizione di autonomia e autosufficienza, allo scopo di far recuperare agli ospiti un ritmo di vita normale, scandito da regole, spazi, orari, impegni e attività del tempo libero. È qui che nei giorni scorsi la Presidente della Società della Salute Pisana Gianna Gambaccini, insieme alla responsabile dell’unità funzionale socio-assistenziale della Zona Pisana Maria Atzeni, ai referenti dell’area Alta Marginalità della SdS e agli operatori della struttura, ha incontrato il Garante per le persone private della libertà personale del Comune di Pisa Alberto Marchesi, in carica dall’inizio di aprile e che, in questi mesi, sta visitando tutte le strutture e progetti che sul territorio si occupano di persone detenute. “È stato un incontro proficuo, utile anche per gettare le basi per future collaborazioni - ha detto la Presidente Gambaccini: “Oltre Il Muro”, da questo punto di vista, è sicuramente un punto di riferimento, sia per il lavoro svolto in tanti anni, sia per l’integrazione con il quartiere dato che, ormai, è presente nel cuore del centro storico da molti anni senza che vi sia mai stato alcun problema di coesistenza”. Milano: la seconda vita dei Raee inizia in prigione di Mariella Caruso wisesociety.it, 12 luglio 2019 Nel carcere di Bollate inaugurato l’impianto di trattamento all’insegna dell’economia circolare. Si scrive Raee, si legge rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Si tratta di tutti gli apparecchi ormai di uso comune che gettiamo via, dai telefonini ai computer, dai rasoi ai giochi fino ai piccoli elettrodomestici casalinghi, che devono essere smaltiti in maniera specifica. Non solo per evitare danni ambientali ma, nell’ottica di una economia circolare, per recuperare i materiali - anche preziosi - con cui sono costruiti. Per farlo occorrono impianti dedicati. Uno di questi è stato realizzato all’interno del carcere di Bollate, un istituto a vocazione trattamentale che porta avanti un progetto a custodia attenuata volto alla graduale inclusione sociale dei detenuti attraverso il lavoro. Il trattamento dei rifiuti speciali da parte dei detenuti rientra nelle svariate attività lavorative organizzate all’interno della casa di detenzione che comprendono, tra le altre, anche il ristorante In Galera aperto al pubblico, un vivaio e una sartoria. Attualmente sono 5 i detenuti al lavoro nel nuovo impianto che può trattare fino a 3000 tonnellate di rifiuti elettronici all’anno. L’impianto, appena presentato, è all’avanguardia e realizzato all’insegna della sostenibilità. Ad alimentarlo, infatti, è un impianto fotovoltaico per l’autoproduzione di energia green. “Si tratta anche di un progetto virtuoso che unisce l’attenzione all’ambiente al terzo settore, dimostrando come una proficua collaborazione tra pubblico e privato possa, come fine ultimo, approdare all’inclusione sociale in un’ottica di vera sostenibilità”, ha spiegato il direttore aggiunto della Casa di Reclusione Cosima Buccoliero. La collaborazione cui fa riferimento è quella con A2A, Comune di Milano e Syndial, società ambientale di Eni, i cui rappresentanti hanno partecipato alla presentazione dell’impianto. I 5 detenuti impiegati lavorano a due linee di smontaggio. Nella prima dedicata Raee R2 e R3, vengono trattati tv, monitor e grandi elettrodomestici; nella seconda destinata ai Raee R4, invece, a essere smontati sono i piccoli elettrodomestici tra cui telefoni cellulari, personal computer, apparecchiature audio e video, utensili e giocattoli elettrici. Dal trattamento dei rifiuti Raee di entrambe le linee vengono recuperati svariate categorie di materiali destinati al riutilizzo, tra questi rame, ottone, bronzo, stagno, polimeri plastici, gomma e anche componenti informatici come schede elettroniche, hard disk, processori e alimentatori che contribuiscono a innescare un processo virtuoso di economia circolare. “Questo progetto è uno dei tanti tasselli del modello A2A per l’economia circolare basato sulla gestione integrata dell’intera catena ambientale, dalla raccolta al trattamento, e che prevede che tutti i rifiuti siano avviati a recupero di materia o energia evitando così il ricorso alla discarica”, sottolinea infatti Luca Valerio Camerano, amministratore delegato della multi-utility locale che, oltre alla produzione, distribuzione e vendita di energia elettrica, gas, lavora nei servizi ambientali e nei servizi di efficienza energetica, mobilità elettrica e smart city. Roma: Comunità di Sant’Egidio, campagna di solidarietà e sostegno nelle carceri santegidio.org, 12 luglio 2019 Nelle carceri, mondo chiuso per antonomasia, l’estate è tra i momenti più difficili dell’anno. Alla solitudine, condizione permanente soprattutto per chi non riceve visite da parenti e amici - come ad esempio molti stranieri - si aggiungono il caldo e la riduzione di iniziative interne alle strutture. La Comunità di Sant’Egidio, che da anni visita con regolarità numerosi istituti penitenziari, lancia per l’estate una campagna di solidarietà e di sostegno. Si parte da Roma, dove dal 15 al 19 luglio, si farà festa nelle carceri di Rebibbia e di Regina Coeli: una “cocomerata di solidarietà” per rompere l’isolamento e contribuire al recupero e al reinserimento nel tessuto sociale dei detenuti. La visita in carcere, effettuata dai volontari durante tutto l’anno, è espressione di una vicinanza, soprattutto per coloro che non hanno nessuno che li vada a trovare. Oltre ai colloqui e alle visite, l’organizzazione di momenti di festa e di socializzazione, come le cocomerate estive, esprimono il rifiuto di ogni isolamento e emarginazione e fanno circolare un’aria più serena. Gli appuntamenti per la “cocomerata di solidarietà” sono il 15 luglio alle 15 alla Casa Circondariale Rebibbia Femminile, il 17 luglio alle 16 e il 18 luglio alle 9,30 e alle 16 alla Casa Circondariale Regina Coeli, il 19 luglio pomeriggio alla Casa Circondariale Rebibbia Maschile. La Comunità di Sant’Egidio ringrazia il Car (Centro Agroalimentare Roma) che con la sua fornitura, insieme ai volontari e ai detenuti, ha permesso di realizzare questa festa estiva e altre che seguiranno durante l’estate. Cosenza, cronache mafiose di una provincia alla ricerca della libertà di Silvio Messinetti Il Manifesto, 12 luglio 2019 “L’evaso” di Claudio Dionesalvi e Francesco Pezzulli per Sensibili alle foglie. La storia di Franco detto lo “Smilzo” e della sua fuga rocambolesca durata 12 giorni. Non è una provincia “babba” quella cosentina. C’è la mafia a Cosenza, eccome. Non ha la potenza di fuoco e le ammazzatine dell’Aspromonte, del Vibonese, del marchesato di Crotone, non ha i riflettori dei media puntati addosso, ma la criminalità è ramificata, penetra i gangli della politica, droga l’economia. Claudio Dionesalvi ritorna a parlarne dopo 8 anni da Za Peppa. Come nasce una mafia (Coessenza). E lo fa con un romanzo scritto a quattro mani con lo stesso protagonista dell’evasione che si narra, Francesco Pezzulli. “L’evaso. Partite a bocce con la libertà” (Sensibili alle foglie, pp. 112, euro 12), è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, avvincente, elettrizzante. “Laddove c’era una possibilità di fuga restarono tutti nel carcere. La possibilità di fuggire era una libertà che nessuno voleva perdere”, scrive l’autore noir finlandese Gosta Agren. E la possibilità dell’evasione lo Smilzo la colse in un attimo. D’altronde, per citare Charles Bukowski: “Tutti noi abbiamo bisogno di un’evasione. Le ore sono lunghe e bisogna riempirle in un modo o nell’altro fino alla morte. E, semplicemente, non si trovano tante soddisfazioni e tante emozioni in giro. Le cose diventano quasi subito piatte e insopportabili”. C’è la mafia a Cosenza, eccome. E nel territorio bruzio ci fu anche una guerra di mafia proprio come a Palermo nei primi anni Ottanta. Attraverso la storia di Smilzo, e della sua clamorosa rocambolesca evasione dall’ex bocciodromo, sede del maxi processo è raccontata la prima guerra di mafia cosentina tra le due ‘ndrine rivali, il clan Pino-Sena e il clan Perna-Pranno, che si fronteggiarono tra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta, a seguito dell’omicidio di Luigi Palermo, detto Zorro, fino a quel momento boss indiscusso della città. Smilzo, allora, creò con i suoi compari, il cosiddetto Terzo Gruppo, fazione scissionista dalle bande che rivaleggiavano. Franco, detto lo Smilzo, in seguito finì in carcere. E il 25 febbraio 1997, circondato da filo spinato e tenuto a vista da centinaia di secondini, riuscì ad evadere. Senza alcun aiuto esterno, passando scaltramente tra carabinieri, poliziotti e burocrazie del tribunale, “perché gli sguardi di costoro, ciechi alle persone, vedono soltanto gli abiti identitari che l’istituzione ha cucito addosso”. Libero dall’istituto concentrazionario, nei 12 lunghi giorni della latitanza, Franco detto lo Smilzo ebbe la possibilità di rielaborare il cammino che lo condusse nei reticoli della malavita. Ricostruì le strategie di chi ha trascinato lui e tanti giovani nella guerra di mafia. Chiunque abbia in questo territorio le sue origini ha ascoltato le narrazioni dei tempi in cui “bastava essere notato insieme agli uomini del clan rivale ed era sufficiente bere un caffè nel bar sbagliato, per beccarsi una sventagliata di mitra o una supposta di piombo sulla nuca”, scrivono gli autori. È una storia di finzione ma solo in apparenza. Dionesalvi adopera pseudonimi per identificare il boss pentito “dritto e medaglione” che tenne al laccio processo e città con le sue dichiarazioni, il capo della Mobile, “il commissario Auricchio”, che tiene la schiena dritta solo verso gli antagonisti. Tutti i personaggi sono riconoscibili a chi li conosce ma non con il loro nome e il resto è autentico. A cominciare dalla storia dell’evasione, dall’anelito di libertà che spinge Franco ad evadere, “perché non c’è alcuna azione da compiere fuori da una galera, che valga un solo giorno da trascorrere dentro”. Migranti. Bankitalia: “non tolgono lavoro agli italiani” di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2019 Secondo Luigi Cannari, vicecapo dipartimento economia e statistica di via Nazionale, “i lavoratori stranieri tendono a svolgere attività diverse da quelle dei residenti, che tendono a spostarsi su impieghi con un maggior grado di qualificazione”. Definitivo: i migranti non tolgono lavoro agli italiani. Se a sostenerlo in pubblico con dovizia di argomenti è un dirigente della Banca d’Italia, c’è poco da discutere. Il tema emerge al convegno “Perché ci conviene-nuovi strumenti per la promozione del lavoro e dell’inclusione della popolazione straniera in Italia”. Si è svolto oggi a Montecitorio, organizzato dai promotori del progetto di legge di iniziativa popolare “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, relatore in commissione Affari costituzionali Riccardo Magi (+Europa). Osserva Magi: “Nel nostro paese la regolamentazione dei flussi migratori non ha mai coinciso con i fabbisogni produttivi”. Gli effetti della denatalità sui conti pubblici - Il primo relatore al convegno è Luigi Cannari, vicecapo del dipartimento economia e statistica della Banca d’Italia. Si parte dagli effetti preoccupanti del calo demografico sull’economia. “Perché ci preoccupa il crollo della popolazione? È legato agli equilibri delle nostre finanze pubbliche. La sostenibilità del debito pubblico dipende da quanto siamo in grado di produrre come Paese” ricorda Cannari. “Se il debito resta elevato ma il prodotto interno lordo si riduce perché diminuisce il numero delle persone che lavorano, il rapporto debito/pil tende ad aumentare e la sua sostenibilità può essere messa a rischio”. Il rischio dell’azzeramento dei flussi migratori - Con le attuali tendenze demografiche “avremmo un calo del pil da qui al 2060 dell’11,5%, il rapporto tra debito e pil ovviamente aumenterebbe di conseguenza”. Certo, osserva il dirigente di via Nazionale, “se la produttività dovesse crescere, per compensare questo andamento demografico, dovrebbe avere un incremento dello 0,3% all’anno per stabilizzare il pil. Non è tanto in assoluto ma - sottolinea - è abbastanza rispetto all’esperienza italiana degli ultimi venti anni”. Poi c’è uno scenario peggiore, pur evocato e sollecitato da alcuni: l’azzeramento dei flussi migratori. “Con un saldo migratorio zero l’incremento della produttività del lavoro dovrebbe essere tre volte superiore allo 0,3% l’anno per compensare il maggior calo della popolazione”. Produttività così in aumento è uno scenario proprio improbabile. Nessun “effetto spiazzamento” degli stranieri sul lavoro degli italiani - “Si può obiettare che l’immigrazione non aiuta se spiazza il lavoro degli italiani” afferma con pacatezza Cannari “ipotesi valida se il lavoro degli immigrati è aggiuntivo”. È vero tuttavia il contrario: “Gli studi condotti in parte da Banca d’Italia, università e centri di ricerca ci dicono che questo fenomeno non accade: gli immigrati tendono a svolgere - spiega il dirigente di Bankitalia - attività lavorative diverse da quelle che svolgono i lavoratori nativi che tendono a spostarsi su lavori che hanno un maggiore grado di qualificazione”. Gli effetti positivi prevalgono - Non solo, dunque, “non c’è uno spiazzamento, nel senso che il lavoro degli immigrati riduce il lavoro dei nativi. In alcune situazioni - rammenta il relatore - in particolare per le donne, l’ingresso di popolazione straniera può addirittura favorire la maggiore partecipazione al mercato del lavoro”. Perché se è vero che “gli immigrati sono in taluni casi specializzati in certi tipi di attività, come quelle domestiche o i servizi di cura agli anziani, ciò può avere un effetto positivo sulle donne native italiane che si immettono sul mercato del lavoro”. La questione migranti non è solo economica, certo. Ma l’autorevolezza di queste considerazioni deve far riflettere molti. Migranti. L’Onu insiste: “Non penalizzare chi salva vite in mare” globalist.it, 12 luglio 2019 L’Onu e L’Oim hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui si chiede di non penalizzare le Ong. È solo un parlare al vento, visto che il razzismo e la xenofobia pagano elettoralmente. Almeno di questi tempi: dalle Nazioni unite è arrivato oggi un appello a non ostacolare il lavoro delle organizzazioni non governative che si occupano del salvataggio in mare dei migranti, dopo le polemiche che hanno visto protagonista il vicepremier italiano Matteo Salvini. L’Alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Grandi e il direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) Antonio Vitorino hanno firmato una dichiarazione congiunta nella quale si chiede che le Ong non vengano “penalizzate per aver salvato vite” in pericolo in mare. I due alti funzionari onusiani hanno inoltre chiesto che i migranti salvati non vengano più messi su navi commerciali e “rinviati in Libia”, dove vengono detenuti. “Ogni aiuto e responsabilità assegnati alle entità libiche interessate dovrebbero essere subordinati alla condizione che nessuno sia arbitrariamente arrestato dopo essere stato soccorso e che il rispetto delle norme relative ai diritti umani venga garantito”, continua la dichiarazione congiunta. I due alti funzionari dell’Onu, inoltre, hanno chiesto che “i 5.600 rifugiati e migranti attualmente detenuti in centri in Libia siano liberati”, ricordando quanto accaduto a Tajoura, dove in un attacco ereo all’inizio di questo mese sono morti più di 50 migranti detenuti in un centro di detenzione. Stati Uniti. Continuano a diminuire i prigionieri del braccio della morte nessunotocchicaino.it, 12 luglio 2019 Pubblicata l’ultima edizione di “Death Row Usa” aggiornata al 1° aprile 2019. A quella data, nei bracci della morte degli Stati Uniti (30 stati, più 2 giurisdizioni: il braccio della morte federale e quello militare) c’erano 2.673 persone, 17 in meno rispetto a tre mesi prima. L’ormai tradizionale rapporto trimestrale curato dal Legal Defense Fund del Naacp (National Association for the Advancement of Colored People), pubblicato per la prima volta nel 2000, conferma la graduale, costante diminuzione dei detenuti nei bracci della morte. Rispetto alla stessa data di 1 anno fa si registra un calo del 2,6%. Rispetto alla stessa data di 10 anni fa, nel 2009, quando i detenuti del braccio della morte erano 3284, la diminuzione è stata del 18,6%. Se in 10 anni il braccio della morte è calato di 611 unità, nello stesso arco di tempo le esecuzioni sono state 344. Questo significa che, considerando le nuove condanne a morte emesse nel frattempo, sono quasi 1000 le persone uscite dal braccio della morte per altre cause: annullamenti, commutazioni, proscioglimenti, morte naturale o suicidio. In un caso si è verificato anche un omicidio all’interno del braccio della morte della California (ottobre 2018). Quindi, per ogni persona giustiziata nell’ultimo decennio, quasi 3 sono uscite dal braccio della morte per “altri motivi”. Nel suo conteggio “Death Row Usa” include 230 persone la cui condanna a morte al momento è annullata, ma questi annullamenti non sono definitivi, e le condanne potrebbero essere riemesse al termine di un nuovo processo o di un ricorso della pubblica accusa. Le altre 2.443 persone hanno quella che viene definita “una condanna a morte attiva”. Dopo che la pena di morte negli Stati Uniti era stata dichiarata incostituzionale nel 1972 e i bracci della morte si erano quasi svuotati (arrivando a 134 detenuti nel 1973), i condannati a morte avevano iniziato a ricrescere dopo la reintroduzione della pena di morte nel 1976. Erano aumentate fino a un massimo di 3593 nel 2000, e sono scese sotto i 2.500 nell’aprile 2018. In questo rapporto per la prima volta vengono conteggiati anche i condannati a morte di stati nei quali è in vigore una moratoria decisa dal Governatore: California, Colorado, Oregon, e Pennsylvania. Si tratta di 923 condannati a morte per i quali, allo stato attuale, i rispettivi governatori non sono disposti a firmare un mandato di esecuzione. Sottraendo anche questi, i detenuti con una condanna a morte “attiva” sarebbero solo 1.570. Il braccio della morte più popoloso rimane, come ormai da moltissimi anni, quello della California, lo stato più popoloso degli Usa ma anche uno stato che non effettua esecuzioni da 12 anni (733). I bracci della morte che hanno più di 100 detenuti sono quelli della Florida (349), del Texas (225), dell’Alabama (181) e della Pennsylvania (155), il North Carolina (143), l’Ohio (141), e l’Arizona (121). Alcuni bracci della morte hanno pochissimi detenuti: 1 in New Hampshire e Wyoming, 2 in Montana, New Mexico, South Dakota, 3 in Colorado, e Virginia, 4 nel braccio della morte militare. 60 uomini ed 1 donna sono detenuti nel braccio della morte federale. Divisi per razze, nei bracci della morte ci sono 41,98% bianchi (1.122), 41,68% neri (1.114), 13,43 % ispanici (359), 1,83% asiatici (49), 1,05% pellerossa (28), più un detenuto del quale non è determinata la razza. Divisi per sesso, nei bracci della morte ci sono 2.619 uomini (97,98%) e 54 donne (2,02%). Dal 1976 al 1° gennaio 2019 sono state giustiziate 1.493 persone: 832 bianchi, 512 neri, 126 ispanici, 16 pellerossa, 7 asiatici. In totale, 1.474 uomini e 16 donne (1,07 % del totale). “Death Row USA” registra anche la razza e il sesso delle vittime relative alle esecuzioni effettuate. Le 1493 persone giustiziate erano accusate di aver ucciso un totale di 2182 persone. Divise per razza le vittime erano 1648 bianche (75,53%), 335 nere (15,35%), 153 ispaniche (7,01%), 41 asiatiche (1,88%), e 5 pellerossa (0,23%). Divise per sesso le vittime erano 1.113 maschi (50,99%), e 1.067 femmine (49,99%). Il 10% delle persone giustiziate (148) aveva rinunciato volontariamente a presentare appello. Dal 1977 ad oggi, e prima che nel 2005 la Corte Suprema vietasse le esecuzioni di minorenni, 23 persone erano state giustiziate per reati commessi da minorenni. Norvegia. La detenzione finalizzata al reinserimento sociale di Vittorio Musca periodicodaily.com, 12 luglio 2019 Il sistema penitenziario norvegese, visitato nei giorni scorsi da alcuni giornalisti della Bbc, ha offerto non poche sorprese agli inglesi che aveva interesse a verificare affinità e differenze tra il metodo d’organizzazione delle carceri in Gran Bretagna e nel paese scandinavo. Le impressioni dei giornalisti al loro arrivo - Sin dall’arrivo l’impressione di non entrare in una prigione è stata subito molto forte. Nella loro visita al penitenziario di Halden i reporter si sono trovati ad attraversare un immenso parco recintato da un muro alto circa nove metri, senza filo spinato o reti elettrificate. I detenuti, 258 in tutto, vivono in camere singole con doccia privata e a mensa mangiano insieme alle guardie. Il primo incontro con i carcerati è avvenuto durante una lezione di yoga. “Serve a mantenere queste persone calme e a fargli vivere appieno le esperienze che svolgeranno durante la giornata”, la quale si svolge nel seguente modo. La giornata tipo dei detenuti - La sveglia è fissata alle 7:30. alle 8.15 i “prigionieri” della prigione (che non sarebbe sbagliato neanche chiamare “ospiti”) cominciano a lavorare. Le attività che possono svolgere sono le più varie: ci sono meccanici, uomini e donne che cuciono a macchina dei vestiti, c’è chi si occupa del parco. Ciascun lavoro, sorvegliato dagli ufficiali carcerari in maniera discreta e senza mai far pesare la loro presenza alle persone impegnate al lavoro, si svolge in un clima rilassato, ma al tempo stesso dimostrando anche una certa abilità ed efficienza degli uomini impegnati. La mission della prigione di Halden - “Qui non abbiamo a che fare con criminali da punire” ci ha tenuto a sottolineare il comandante delle guardie penitenziarie “qui il nostro compito e seguire in un percorso di crescita, consapevolezza e responsabilità, delle persone che hanno commesso degli errori nella loro vita, ma che un giorno usciranno da qui e diventeranno i nostri vicini.” Lo scopo della prigione, infatti, secondo il modello norvegese, non è quello di rappresentare la vendetta della società offesa da chi ha commesso un reato, ma quello di lavorare insieme a delle persone, che una volta tornate in libertà, potranno dare il loro contributo per il benessere della collettività. Un weekend in famiglia - Nella loro visita, i reporter hanno notato anche la presenza di librerie e di aree dedicate a famiglie con bambini. Sono Hoidal, governatore della prigione, ha spiegato che per qui detenuti meritevoli di un premio, per l’impegno dimostrato nelle attività da loro svolte, per la condotta e per il lavoro fatto su se stessi in relazione al crimine commesso, è prevista la possibilità di “invitare” la propria famiglia all’interno della struttura, trascorrere due o tre giorni con moglie e figli e poter così, in qualche modo mantenere un contatto continuo con quella che, prima di entrare in prigione, era la loro quotidianità. “Lo scopo della prigione è togliere la libertà ad una persona per punirla della sua colpa. Ma questo principio non deve spingersi mai fino al punto di offendere la dignità della stessa.” L’attività formativa di detenuti e guardie - Oltre ad una variegata offerta lavorativa, all’interno della struttura, i detenuti possono anche seguire corsi di formazione. C’è chi spera di poter lavorare come grafico una volta scontata la pena, chi segue corsi di cucina, chi studia le lingue per avere maggiori possibilità di trovare un lavoro in Norvegia o all’estero. La formazione non riguarda, però, solo i detenuti. Per poter lavorare come guardie all’interno delle prigioni norvegesi che più fortemente puntano su un’impostazione dell’istituzione carceraria che abbia finalità educative, è necessario studiare dai due ai tre anni (contro le dodici settimane sufficienti nel Regno Unito); le materie oggetto di studio sono tra le più varie e vanno dall’inglese all’apprendimento di metodologie e filosofie didattiche. La presenza delle donne - Un altro aspetto molto importante, che ha subito attirato l’attenzione dei giornalisti, è stata l’elevata presenza di donne tra gli agenti. In Norvegia non è insolito trovare una donna impegnata in attività che, in molti altri paesi, vengono ancora visti come prettamente maschili, che si tratti di poliziotte, ma anche di autiste di camion o muratrici. La presenza femminile nel carcere di Halden ha avuto un impatto molto positivo sulla vita all’interno dello stesso. Sono gli stessi detenuti intervistati, che hanno sottolineato come la presenza delle donne in parte attenui il distacco dal mondo “fuori” e dall’altro mantenga bassa la tensione tra detenuti e guardie. Nel paese scandivano anche quando in strada c’è una lite o un principio di rissa, sono spesso le donne ad intervenire per prime per parlamentare. Così in carcere, un detenuto, che vedesse di fronte a sé un uomo in divisa che gli ordini qualcosa o lo rimproveri per una mancanza, potrebbe molto più facilmente cercare lo scontro con questo, che se non a fargli gli stessi richiami fosse una donna. Nessun caso di violenza - A sorprendere i giornalisti inglesi è stato anche l’aver scoperto che negli ultimi anni in Norvegia, non si sono verificati atti di violenza tra i detenuti o tra questi e le guardie, se si escludono alcuni episodi nei quali alcuni prigionieri avrebbero sputato in faccia ad alcuni agenti. Le ragioni di questa convivenza pacifica tra criminali e forze dell’ordine è da ricercarsi, ancora una volta, nella rinuncia da parte delle autorità, di qualunque atteggiamento repressivo che leda la dignità della persona. Questo modo di pensare è anche alla base della scelta delle forze di polizia, di non dare in dotazione agli agenti armi da fuoco, se non in casi eccezionali. Alcuni studi sociologici hanno, infatti, evidenziato una proporzione diretta tra il tasso di criminalità di un paese ed il fatto che la polizia disponga o meno di pistole. La Norvegia è, ad oggi, uno dei paesi più sicuri al mondo, con appena 63 detenuti ogni 100.000 abitanti. Una visione d’insieme - Nel trarre delle valutazioni o nell’esprimere delle opinioni su questi dati, è tuttavia importante fare almeno un paio di considerazioni. Innanzitutto, la bassissima densità della popolazione, di appena 5 milioni e mezzo di abitanti, distribuiti su 300.000 km quadrati circa (un territorio grande quasi quanto quello italiano). L’alto tenore di vita, redditi medi molto al di sopra della media europea, uno stato sociale finanziato con le infinite risorse di cui dispone il paese, rendono determinate politiche più facili d’attuare nel paese scandinavo rispetto a quanto è, invece possibile fare nel nostro o nella stessa Inghilterra. Chiedendo maggiori informazioni ai responsabili dell’istituto, i reporter hanno scoperto che l’intera area utilizzata a scopi detentivi è costata 138 milioni di sterline, una cifra inimmaginabile per una prigione inglese, che debba per altro “ospitare” meno di 300 detenuti. Il governo norvegese è stato quindi agevolato, al momento della scelta delle politiche sociali da seguire, dall’enorme disponibilità di risorse cui poter attingere e per questo ha potuto negli ultimi 50 anni investire tantissimo nel welfare, non escludendo da questo nemmeno il sistema carcerario, il quale ha ricevuto, per la qualità del servizio offerto, in molti casi come in quello di Halden, numerosi riconoscimenti e premi. Il caso Breivik - Considerato quanto sopra, si possono (anche se con enorme fatica) comprendere alcune scelte della magistratura norvegese negli ultimi anni, come, ad esempio, nel caso di Breivik, responsabile nel 2011 del massacro di Utoya a Oslo. Come previsto dal codice penale della Norvegia, lo stragista è stato condannato al massimo della pena, ossia 21 anni (periodo questo che potrà essere prolungato di ulteriori 5 anni nel caso in cui il detenuto non venisse ritenuto ancora pronto per tornare in società. Breivik, dopo essere entrato in carcere, ha denunciato, tramite i suoi avvocati, lo Stato norvegese, reo, a suo dire, di aver violato i suoi diritti come persona e di aver dimostrato nei suoi confronti un accanimento eccessivo, manifestatosi soprattutto con l’imposizione allo stesso di un “troppo lungo periodo d’isolamento”. Ebbene, il detenuto Breivik ha vinto la sua causa contro lo Stato che ha dovuto subito rimediare a questo suo errore tanto da fornire allo stesso, una palestra in camera ed altri comfort richiesti dallo stesso. Se il metodo norvegese dovesse funzionare anche in questo caso specifico, forse sarebbe opportuno studiarlo e valutarne, anche in altri paesi, Italia inclusa, l’applicazione.