Sovraffollamento: non si punta più alle misure alternative, ma a costruire nuove carceri di Elisa Benzoni alganews.it, 11 luglio 2019 i detenuti nelle carceri italiane sono 10 mila più del consentito. Il governo con Decreto Legge “Semplificazione” prende posizione definendo un approccio di discontinuità con il passato: non si punta più alle misure alternative e a far scontare la pena fuori dal carcere ma si prevedono ampliamenti edilizi delle carceri esistenti e la realizzazione di nuove. Che l’intervento edilizio, sia per quanto riguarda gli ampliamenti sia la riconversione di vecchi stabili, richieda tempo mentre siamo di fronte all’ossimoro della costanza dell’emergenza e a condizioni disumane, non è elemento che venga preso in considerazione. “Sulle nuove carceri - commenta Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere su Radio Radicale - ho difficoltà a capire le intenzioni del ministro Bonafede, visto che non ha ancora reso noto questo fantomatico piano carceri. Quanto alla riconversione di tre caserme, preoccupa il numero esiguo dei posti che si potranno ottenere rispetto al reale fabbisogno (già oggi circa 3.500 posti nelle carceri sono inutilizzabili) e preoccupano i tempi di realizzazione che non saranno rapidi. Il punto è che oggi nelle carceri c’è una vera e propria emergenza umanitaria che va affrontata subito e che non può attendere gli spot della politica”. Il carcere nasce tra Settecento e Ottocento per limitare l’utilizzo delle pene corporali, un modo insomma per rendere la punizione più umana. Poi assume, in alcune democrazie, diciamo, più evolute il compito di essere parte di un processo rieducativo che porterà il detenuto a ritrovarsi nella società consapevole e riabilitato, dopo aver scontato la pena. E questo è previsto, lo ricordiamo sommessamente, anche nella nostra Carta Costituzionale, quella più bella del mondo, e quella che sventoliamo alla bisogna. Ora siamo di fronte, da un lato, a un nuovo limite superato per il sovraffollamento carcerario con 61 mila ospiti in un contesto italiano in cui i reati, dall’altro lato, sono in diminuzione da anni a prescindere dalla percezione del fenomeno criminalità-sicurezza (dato e percezione in rapporto inversamente proporzionale). Un fenomeno che sembra essere lo stesso in tutta l’Unione Europea (in Francia i reclusi erano 48 mila nel 2000 e oggi sono 74 mila; nel Regno Unito si è passati da 64 mila a 82 mila…). Ci deve essere dunque qualcosa che non funziona in Europa e in Italia, nel sistema generale, e nel sistema particolare nell’esecuzione penale e nel comminamento delle pene. A dircelo sono banalmente i numeri e l’analisi logica di base: meno reati, più reclusi. Ragioniamo poi su altri due punti che devono necessariamente essere, esattamente come l’analisi logica, alla base dei nostri ragionamenti. Il primo ha a che fare con il numero di persone recluse per pene inferiori all’anno: sono attualmente 1800 a cui si aggiungono le circa 2 mila persone quelle che devono scontare tra 1 e 2 anni. Un dato significativo che spingerebbe all’utilizzo di pene alternative, spesso di difficile applicazione per mancanza di fissa dimora. Il secondo punto riguarda le recidive. Il 68 per cento di chi esce dal carcere torna a commettere reati; il 19 per cento per chi è affidato ai servizi sociali. Basterebbe questo. Mettere in fila i numeri dovrebbe essere automatico. Non è così. Intanto nel mondo e anche nel nostro paese si discute di abolizione delle carceri, ma il clima va in tutt’altra direzione. Sovraffollamento. Centinaia di ricorsi in tutta Italia per detenzione disumana di Mauro Lissia La Nuova Sardegna, 11 luglio 2019 Superato grazie a un pronunciamento favorevole della Corte di Cassazione lo scoglio della prescrizione. Condannati a pene durissime, ma non per questo destinati a soffrire dietro le sbarre oltre i limiti stabiliti dalle legge e dal rispetto dei diritti umani. L’orientamento dei giudici è chiaro, dopo il risarcimento riconosciuto all’anziano bandito ed ergastolano arzanese Piero Piras i tribunali sardi hanno dato ragione ad altri cinque ex detenuti e si preparano a valutare il ricorso dell’orunese Bernardino Ruiu, altro esponente di spicco dell’Anonima sequestri, colpevole del rapimento di Dino Mario Toniutti avvenuto il 26 dicembre 1978 e punito con 26 anni di carcere. Superato grazie a un pronunciamento favorevole della Corte di Cassazione lo scoglio della prescrizione, è stato ancora una volta l’avvocato Pierandrea Setzu a rivolgersi al tribunale civile di Cagliari per ottenere un risarcimento riferito alla violazione delle norme europee sui diritti umani e dell’ordinamento penitenziario, in termini economici otto euro per ogni giorno trascorso in carcere senza spazio e condizioni di vita sufficienti. Centomila euro. Il conto presentato al Ministero della Giustizia sfiora i 100 mila euro, la decisione del giudice arriverà in autunno ma non chiuderà il ciclo della protesta per vie giudiziarie: un altro centinaio di ricorsi sono stati depositati da Setzu in tutta Italia, 30 sono all’esame dei tribunali di Cagliari, Sassari e Nuoro a sostegno ideale di un’offensiva che si affianca alla recentissima protesta dell’Unione Camere penali contro il sovraffollamento carcerario in Italia e lo stop del governo alla parte di riforma che potenziava le misure alternative alla detenzione: “Finora le decisioni dei giudici civili sardi sono state tutte favorevoli agli ex detenuti - fa i conti il legale cagliaritano - e imperniate sul problema dello spazio netto all’interno delle celle, che non dev’essere inferiore ai tre metri. I problemi però sono anche altri, la mancanza di attività interne al carcere, l’igiene, i parassiti, la distanza fra il luogo di detenzione e la residenza dei familiari che rende difficili le visite. Sono situazioni incompatibili con l’obbligo di riconoscere ai detenuti condizioni di vita umane”. I numeri. Qualche numero aiuta a definire lo stato del sistema penitenziario in Italia e nell’isola: secondo il Ministero della Giustizia al 30 giugno scorso i detenuti nelle carceri italiane erano 60.522 a fronte di una capienza di 50.496. Secondo il responsabile sardo dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi - Unione Camere penali - l’avvocato Franco Villa, il dato non rende però l’idea della situazione: “Una buona parte delle celle disponibili fa parte di sezioni chiuse per manutenzione - spiega il legale - quindi il sovraffollamento va oltre le percentuali diffuse”. Carceri sarde. Meno preoccupante la situazione della Sardegna, dove i detenuti distribuiti a fine giugno nelle dieci strutture di reclusione erano 2189 su una capienza ufficiale di 2706 posti, col solo carcere di Uta - 586 su 561 - al di sopra dei limiti. I suicidi. Ma rispettare le capienze non basta: “Quello di Uta, per fare un esempio, è un penitenziario moderno, costruito di recente - avverte Villa - eppure si registra un numero abnorme di suicidi, legato non solo alle condizioni di detenzione ma soprattutto allo stato di salute psichica dei detenuti. Basta un dato, un terzo dei reclusi a Uta ha problemi psichici, il 35 per cento sono tossicodipendenti”. Allargando l’analisi alla penisola, secondo l’Ucpi nel 2018 sono morti in carcere 148 detenuti, i suicidi sono stati 67. Nel 2019 i morti sono finora 60 e i suicidi 20. Numeri a dir poco spaventosi. Misure alternative. Insomma, non è solo una questione di spazi e di affollamento: “Come Ucp abbiamo chiesto e continueremo a chiedere investimenti sulle misure alternative al carcere - insiste Villa - e la ragione della nostra richiesta è contenuta in un dato: il 68 per cento dei condannati che espiano la pena il carcere ritorna a delinquere, fra quelli che hanno beneficiato di una misura alternativa la recidiva cala al 19 per cento”. Come dire che il carcere non aiuta, non rieduca, produce soltanto sofferenza e costi sociali. “Eppure - sostiene l’avvocato Villa - i governi continuano a privilegiare gli interventi sulla sicurezza, piuttosto che quelli sul trattamento dei reclusi e sulla loro salute. L’ultima riforma purtroppo conferma questa tendenza, il cuore del testo, l’allargamento dell’accesso alle misure alternative, è stato affossato”. I risarcimenti. I risarcimenti economici sono quindi semplici palliativi, che però confermano l’esistenza di un problema sempre più grave che si stenta ad affrontare. Indagini, notifiche, abbreviato: per il processo penale arriva la riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2019 Privilegiato il rito abbreviato. Più chance di ammettere le prove. Dalle notifiche alle indagini preliminari, dai procedimenti speciali ai limiti all’appello, dalle condizioni di procedibilità al giudizio monocratico. Eccola qua la riforma del Codice di procedura penale messa a punto dal ministero della Giustizia e pronta per essere architrave del disegno di legge delega che verrà presentato a giorni in Consiglio dei ministri. Ne esce un modello con un’udienza preliminare vero filtro al dibattimento e un rito abbreviato notevolmente potenziato. Andiamo con ordine. Capitolo indagini preliminari, tra quelli più delicati e sul quale maggiore sarà la distanza con l’Associazione nazionale magistrati e tuttavia cruciale visto che il maggior numero di prescrizioni matura proprio in questa fase. Sarà possibile una sola proroga di 6 mesi rispetto a termini base modulati sulla gravità delle condotte. La durata standard delle indagini sarà di 6 mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a 3 anni sola o congiunta alla pena pecuniaria; 1 anno e 6 mesi dalla stessa data quando si procede per i delitti più gravi (quelli indicati nell’articolo 407, comma 2, del Codice di procedura penale; dalla mafia all’associazione criminale, al terrorismo, al traffico su larga scala di stupefacenti, al sequestro di persona, ai casi più gravi di estorsione, all’omicidio, alla violenza sessuale; 1 anno in tutti gli altri casi. Se poi il pm non provvede, entro termini diversi e modulati anche in questo caso sulla gravità dei reati (3, 5, 15 mesi) a notificare l’avviso di chiusura indagine oppure non chiede l’archiviazione, allora dovrà notificare all’indagato avviso del deposito presso la sua segreteria della documentazione sulle indagini svolte, permettendone un’ampia discovery. Se il pm trasgredirà per “dolo o negligenza inescusabile” queste prescrizioni sarà soggetto a illecito disciplinare. Medesima sorte potrà colpire il pm che, dopo la notifica dell’avviso di deposito, non provvede a esercitare l’azione penale oppure a chiedere l’archiviazione entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta del difensore. L’udienza preliminare dovrà servire a selezionare i rinvii a giudizio, limitandoli ai casi in cui gli elementi acquisiti permettono l’accoglimento del quadro accusatorio. Le Procure dovranno individuare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre; la sentenza di non luogo a procedere dovrà essere semplificata con il riferimento ai soli motivi imprescindibili su cui è fondata la decisione. Per quanto riguarda le notifiche, la bozza di legge delega stabilisce che tutte le comunicazioni all’imputato non detenuto successive alla prima dovranno essere effettuate attraverso consegna al difensore. La prima comunicazione dovrà contenere anche l’avviso esplicito che tutte le notifiche successive saranno effettuate all’avvocato difensore e che l’imputato ha il dovere di comunicare al suo legale il recapito dove andranno effettuate le comunicazioni. In ogni caso, a rendere meno indigesta la previsione per gli avvocati, è contemporaneamente previsto che l’omessa o ritardata comunicazione all’imputato, ascrivibile alla condotta di quest’ultimo, non costituisce inadempimento del mandato professionale. E, ancora, disposizioni specifiche sono dedicate al giudizio abbreviato (ammorbidendo l’ipotesi dell’integrazione probatoria), a quello immediato e al procedimento per decreto, nel tentativo di renderli un po’ più appetibili. Inappellabili, di norma, le sentenze di proscioglimento e non luogo a procedere per reati puniti con la pena pecuniaria e le sentenze di condanna a pena sostituita con lavoro di pubblica utilità. L’intervento è stato presentato ieri dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, alle rappresentanze dell’avvocatura e all’Anm. Da parte delle Camere penali, sottolinea il segretario Eriberto Rosso, c’è il riconoscimento per il metodo di confronto seguito, anche se le misure messe in campo non avranno verosimilmente l’effetto atteso di accelerazione dei giudizi e non fanno certo venire meno l’ostilità dei penalisti alla riforma della prescrizione. Il Cnf, invece, per bocca del presidente Andrea Mascherin ha espresso il massimo favore per l’allargamento delle ipotesi di definizione dei giudizi prima del dibattimento e per l’estensione delle facoltà difensive. Bozza riforma della giustizia, il Csm indicherà la priorità dell’azione penale ansa.it, 11 luglio 2019 Anm: “Si rischia di vanificare lotta a criminalità organizzata e terrorismo”. Sarà il Csm a indicare alle procure i criteri in base ai quali definire le priorità dell’ azione penale, cioè a quali reati dare la precedenza. Lo prevede la bozza sul processo penale contenuta nella riforma della giustizia, che il ministro Alfonso Bonafede si appresta a presentare al Consiglio dei ministri. “La rinuncia a qualsiasi ipotesi di allargamento del cosiddetto patteggiamento, la genericità dei punti di delega - affermano tra l’altro i penalisti - caratterizzano una proposta destinata a non incidere concretamente sulla durata dei tempi del processo”. “La sostanziale abrogazione della prescrizione - aggiungono - è norma incostituzionale che deve essere definitivamente superata”. Sarà il Csm a indicare alle procure i criteri in base ai quali definire le priorità dell’ azione penale, cioè a quali reati dare la precedenza. Lo prevede la bozza sul processo penale contenuta nella riforma della giustizia, che il ministro Alfonso Bonafede si appresta a presentare al Consiglio dei ministri. La riforma che il ministro Bonafede ha presentato oggi a magistrati e avvocati prevede che gli uffici del pubblico ministero “per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale selezionino le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e redatti periodicamente dai dirigenti degli uffici, sulla base dei principi dalle delibere del Consiglio Superiore della Magistratura”. E stabilisce che nella elaborazione dei criteri di priorità il procuratore abbia un’interlocuzione con il procuratore generale presso la Corte d’Appello e con il presidente del tribunale e tenga conto anche “delle risorse tecnologiche umane e finanziarie disponibili”. Testi sulla riforma del Csm non sono stati ancora presentati, ma resterebbe ferma l’ ipotesi di intervenire sul sistema elettorale con il sorteggio. È quanto si è appreso al termine dei tanti incontri che oggi il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha avuto con i rappresentanti dell’ avvocatura e della magistratura. “E’ del tutto inaccettabile voler rimettere al Consiglio Superiore della Magistratura in via originaria la individuazione dei criteri per la selezione delle notizie di reato. Si tratta di un intervento non compatibile con l’attuale disciplina contenuta nelle norme di attuazione del codice di procedura” Lo afferma in una nota l’ Unione delle Camere penali, secondo cui nel complesso la riforma del processo penale del ministro Bonafede non inciderà “concretamente sulla durata dei processi”. “Netta contrarietà” sulla nuova disciplina della durata delle indagini preliminari prevista dalla riforma del processo penale del ministro della Giustizia viene espressa dall’Associazione nazionale magistrati. E’ una “norma manifesto”, spiega l’Anm, che “rischia di vanificare il contrasto non solo alla criminalità organizzata ed al terrorismo ma anche alla criminalità economico-finanziaria e in materia di pubblica amministrazione”. Giustizia, le inchieste dureranno meno di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 11 luglio 2019 Per i reati di media gravità una sola proroga di 6 mesi. Sanzioni ai pm inadempienti. Sanzioni disciplinari per i pubblici ministeri che, per “dolo o negligenza inescusabile”, non dovessero rispettare i tempi stabiliti per la richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Ma anche un accorciamento dei tempi previsti per le indagini, che potranno essere prorogati solo una volta. Inoltre, sarà il Csm a indicare alle procure i criteri per definire le priorità dell’azione penale, ossia a quali reati dare precedenza. Sono alcune novità contenute nella bozza di riforma della giustizia che il Guardasigilli Alfonso Bonafede si appresta a presentare in Consiglio dei ministri. Il testo della legge delega di riforma, che potrebbe includere interventi sul processo civile e sul Csm (comprese le regole di elezione, con l’ipotesi di sorteggio dopo una prima votazione) non è ancora definitivo e potrebbe subire altri ritocchi prima di finire in Cdm. Ieri il Guardasigilli ha avuto un confronto in via Arenula con l’Associazione nazionale magistrati e altri rappresentanti del comparto giustizia. Con una nota diffusa in serata, la giunta dell’Anm espresso “netta contrarietà in relazione alla nuova disciplina della durata delle indagini preliminari”, definendola una “norma-manifesto” che non inciderà sui tempi delle inchieste, ma anzi rischierà di “vanificare il contrasto” a mafie, terrorismo e corruzione nella Pa. Invece, per il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, “il ddl Bonafede accoglie importanti soluzioni proposte dall’avvocatura”. Stando alla bozza, oltre alla stretta sulle proroghe di indagine, se entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo i pm dovessero restare inerti, dovranno depositare le carte svelando gli atti di indagine. Chi non lo farà, commetterà un illecito disciplinare. Per le indagini preliminari sarà consentita una sola proroga di 6 mesi, per tutti i tipi di reato. Attualmente sono possibili tre proroghe semestrali, che possono portare a 2 anni la durata delle indagini, anche per reati lievi. Se passasse la riforma, solo le inchieste su fatti efferati (come mafia, strage, omicidio, violenza sessuale) potranno raggiungere i due anni. Mentre le indagini sui reati “bagatellari” potrebbero durare 6 mesi, quelle su episodi di gravità “media” un anno. Finora il mancato rispetto dei termini massimi comportava soltanto l’inutilizzabilità degli atti compiuti. Ma con le nuove norme - come detto - ci saranno conseguenze più incisive: se entro 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari (che diventano 5 o 15 per i reati più gravi) il pm non avrà notificato l’avviso di conclusione delle indagini o richiesto l’archiviazione, dovrà depositare la documentazione e avvisare indagato e persona offesa della possibilità di visionarla. La violazione costituirà un illecito disciplinare, così come l’omesso deposito della richiesta d’archiviazione o il mancato esercizio dell’azione penale “entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa”. Nella bozza, sarebbero state inseriti anche paletti per rafforzare il ruolo di “filtro” dell’udienza preliminare, mentre non troverebbe posto un potenziamento del patteggiamento, auspicato da penalisti e magistrati ma che avrebbe avuto l’altolà della Lega. Riforma, sì degli avvocati. Ma sul patteggiamento l’intesa ancora non c’è di Errico Novi Il Dubbio, 11 luglio 2019 Bonafede presenta il ddl sul processo penale. Non ha mai favoleggiato di rivoluzioni, il ministro Alfonso Bonafede: ha sempre parlato di “un intervento per rendere più rapidi i processi penali”. Impegno mantenuto, da quanto emerso ieri alla riunione finale del tavolo con avvocati e magistrati, ai quali il guardasigilli ha presentato il testo della riforma. Niente aggressioni al diritto di difesa, come sarebbe avvenuto se fossero passate alcune ipotesi dell’Anm. Con un neo, dovuto al veto della Lega: dalla parte del ddl delega dedicato al penale scompaiono gli interventi sul patteggiamento. Ritenuti preziosi dall’avvocatura e dal le toghe. Ma il partito di Matteo Salvini teme che un potenziamento del più efficace tra i riti alternativi venga interpretato dagli elettori come un favore a chi si dichiara colpevole, giacché il patteggiamento implica sconti di pena. Un’occasione mancata che però non sorprende: proprio dalla Lega era venuta la legge che ha abolito l’abbreviato per i reati da ergastolo. I punti cardine - La riunione della verità sulla riforma penale si celebra come le altre a via Arenula. Da una parte le rappresentanze forensi - Cnf, Ocf, Aiga e, naturalmente, l’Unione Camere penali - dall’altra la delegazione dell’Anm guidata dal nuovo presidente Luca Poniz. Il guardasigilli illustra la parte del Ddl delega dedicato al processo penale (oggi pomeriggio è previsto il tavolo sul civile), un testo ormai pronto per il Consiglio dei ministri. Restano alcuni punti cardine: l’indicazione di termini per la durata delle indagini in parte più ampi ma assai meno “valicabili”, con l’introduzione di un nuovo, vero e proprio illecito disciplinare per il Pm che viola i limiti; il rafforzamento dei poteri di filtro del Gup e un analogo vincolo per lo stesso Pm a chiedere l’archiviazione nei casi in cui gli elementi raccolti non consentano di veder riconosciuta l’accusa al processo; fino all’intervento un po’ mutilato sui riti alternativi, che lascia intonso, come detto, il patteggiamento ma introduce novità estensive, e utili secondo l’avvocatura, per l’abbreviato condizionato. Una partita non chiusa, dal punto di vista dello stesso Guardasigilli, comunque soddisfatto del testo messo a punto. Caiazza e Vermiglio: evitate ipotesi hard - E c’è un motivo di compiacimento condiviso da tutte le rappresentanze forensi: l’assoluta esclusione di alcune ipotesi “hard” (e letali dal punto di vista del diritto di difesa) prospettate in un documento approvato un anno fa dall’Anm. “È importante”, per il presidente del Cnf Andrea Mascherin, “aver evitato soluzioni, a suo tempo ventilate da parte della magistratura, gravemente incidenti sul diritto alla difesa, come l’introduzione della reformatio in peius in sede di appello, mentre sono state accolte alcune importanti soluzioni proposte dall’avvocatura”. Allo stesso modo sia il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza che il vertice dell’Aiga Alberto Vermiglio ritengono “positivo” il fatto che “anche nella versione finale, la parte della delega dedicata al penale non abbia recepito le ipotesi ventilate dall’Anm, in particolare sulle impugnazioni”. Secondo il leader dei penalisti “va apprezzato che il testo sia fedele al lavoro condiviso al tavolo. Tranne”, ricorda Caiazza, “che su un punto essenziale qual è il patteggiamento: è davvero spiacevole che un intervento di riforma rivolto ad accelerare i tempi non preveda l’estensione del rito dotato della maggiore incidenza deflattiva”. Mascherin: norme utili su fase preliminare - Il nodo sarà affrontato probabilmente anche nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, che esamineranno sia il Ddl delega sia ovviamente i decreti legislativi (il testo illustrato ieri prevede possano essere emanati anche tra un anno, ma arriveranno assai prima per evitare il corto circuito con la “nuova” prescrizione). Mascherin rileva comunque come “i principi della delega, scaturiti dal confronto promosso dal ministro con avvocatura e magistratura” siano “utili a realizzare gli strumenti adatti a una definizione dei procedimenti nelle fasi antecedenti al dibattimento, sia ampliando alcune facoltà difensive, sia individuando percorsi più vincolati per il pubblico ministero e infine rafforzando i poteri decisionali dei giudici dell’udienza preliminare”. E infatti resta confermato l’obbligo, per il Pm, di mettere il fascicolo a disposizione della difesa qualora non abbia ancora notificato l’avviso di chiusura (o chiesto l’archiviazione) una volta trascorsi 90 giorni dalla scadenza del termine per le indagini. Termine che è stato rimodulato proprio secondo le richieste degli avvocati: 6 mesi per i reati puniti fino a 3 anni di carcere, 12 mesi per tutti gli altri reati, con la sola eccezione di quelli gravissimi, come mafia e terrorismo, per i quali il limite è di 18 mesi. Prima della scadenza del termine il Pm può chiedere una sola proroga, non superiore a 6 mesi. Confermata, come detto, anche l’introduzione di una nuova fattispecie di illecito disciplinare per il pubblico ministero che, una volta comunicata la chiusura delle indagini, tarda a chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Ma la violazione si configura solo se l’inerzia del magistrato è dovuta a negligenza inescusabile o addirittura a dolo. Prevista come illecita anche la condotta del pm che non mette il fascicolo a disposizione della difesa dopo i famosi 90 giorni. Va aggiunta l’accennata eliminazione del vincolo che ha finora falcidiato l’”abbreviato condizionato”, vale a dire la “compatibilità con l’economicità del processo”. Ora, la disponibilità dell’imputato ad accettare il rito abbreviato a patto di concedergli un’ integrazione probatoria è subordinata solo alla rilevanza e novità di tale nuova prova. “Si potrà lavorare a un ulteriore miglioramento del testo”, in Parlamento e in fase attuativa, “confidando che il metodo del confronto voluto dal ministro continui a essere coltivato”, osserva Mascherin. E vista l’apertura mostrata finora dal guardasigilli, non c’è motivo di dubitarne. Il “caso giustizia” e il bene perduto di Giuseppe Tesauro Il Mattino, 11 luglio 2019 Molti anni e ben tre edizioni (1935, 1954. 1989) di sicuro successo dell’”Elogio dei giudici scritto da un avvocato” hanno offerto a lettori non necessariamente di cultura giuridica uno spaccato importante del sistema Giustizia. Non era un avvocato qualunque, ma Piero Calamandrei, giurista raffinato e libero. La sua monografia del 1936 sulle Misure cautelari ha contribuito ad ispirare nel 1990 la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue su quel tema. Impegnato nelle iniziative di riforma del processo civile ed anche penale già negli ultimi anni del ventennio, è stato membro protagonista e autorevole dell’Assemblea Costituente e della prima legislatura, per dieci anni, fino alla morte nel 1956, Presidente del Consiglio Nazionale Forense. Il libro è di agevole lettura, contiene una serie di aneddoti sul quotidiano rapporto di un avvocato con i giudici, tra il serio e l’ironico, ma sempre coglie nel segno; soprattutto, riesce a fare emergere l’elemento umano e al contempo rigoroso di una funzione complicata, svolta nella non beata solitudine di decisioni non facili, spesso demandate al giudice ma più correttamente da demandare al legislatore. In breve, ne consiglio vivamente la lettura, anche per arricchire il senno di poi e valutare al giusto accadimenti recenti. In queste settimane, infatti, il sistema Giustizia ha sofferto non poco, su due versanti. Quello dell’etica professionale dei magistrati, che per elezione si occupano della carriera e del comportamento dei colleghi, ha destato qualche malumore tra gli addetti ai lavori, soprattutto però tra i non addetti. La verità è che il compito non facile di quei magistrati investiti di una funzione rilevante non può non implicare scambi di punti di vista, di idee e di valutazioni, ivi comprese quelle comparative. E la circostanza che ciò accada fuori dalle stanze istituzionali o attraverso brevi o lunghe telefonate non mi pare di per sé un peccato grave, qualche volta è anzi necessario proprio per raggiungere dei risultati supportati da un consenso quanto più possibile largo. Semplificare tutto predicando che tali scambi di idee non sono a farsi o che addirittura non sono stati mai fatti è quasi ridicolo, in definitiva un’ipocrisia bella e buona. Peggio ancora è quando se ne fa un argomento della dialettica politica. Il male è semmai altrove: nel condizionamento dei meriti all’appartenenza a questa o quella consorteria o corrente che dir si voglia, nello scambio di favori giudiziari, peggio ancora nell’accompagnare i favori addirittura con qualcosa di inconfessabile o comunque di illecito. Ma questo male, tra l’altro tutto da verificare in concreto con i dovuti accertamenti rispettosi del principio di legalità, è limitato ad una percentuale davvero minima di magistrati: che vanno emarginati e all’occorrenza mandati via, ma che non possono e non devono essere confusi con la stragrande maggioranza di magistrati che lavorano bene e molto per la Giustizia con la G maiuscola e che soffrono anche, in particolare quanto alla irragionevole durata dei processi, soprattutto per ben altre responsabilità e colpevoli ritardi, principalmente un aggiornamento delle strutture, del personale, delle risorse dedicate. Il secondo versante di sofferenza del sistema sbattuto in prima pagina mi pare collegarsi alla critica o addirittura all’intolleranza che viene manifestata pubblicamente per sentenze che non piacciono. La critica del comune cittadino rispetto ad una decisione, magari per l’esito di un processo indiziario che occupa le prime pagine dei giornali per lungo tempo, rientra nell’abitudine, non solo italiana, di giudicare senza conoscere e comunque da inesperto. D’altra parte, il giurista operativo, avvocato o giudice non vanesio ma saggio e prudente, sa molto bene che il diritto lo si conosce veramente quando si apre, si legge e si digerisce il fascicolo. Viceversa, come siamo tutti commissari tecnici della nazionale di calcio e stiliamo la formazione ideale, così siamo tutti giudici del processo per l’omicidio efferato di Tizio o di Caio. E magari accettiamo anche l’invito di qualche trasmissione alla moda in Tv per scimmiottare i giudici del processo, quelli veri, trasmissione che per questo sarebbe meglio fosse vietata. La critica non del semplice cittadino ma del governante, quella di sicuro ha una valenza diversa, specie quando diventa solo l’occasione per scoprire l’esigenza di una urgente riforma della Giustizia. Che, si badi, va riformata, ma non certo nel senso di inventare un sistema per rivedere le sentenze non gradite o censurare chi le ha rese, magari un giudice che ha potuto anche sbagliare decisione, ma rispetto alla quale l’ordinamento contiene i rimedi per verificarne la fondatezza. Invocare la riforma solo per una sentenza che si ritiene sbagliata, in quanto contraria ad una posizione politica, è cosa non buona e giusta, ma fonte di sospetto: che cioè si ha voglia di toccare l’indipendenza dei giudici. E di questo c’è da preoccuparsi non poco, anche mettendo insieme non pochi tasselli che gli scenari attuali ci propongono con sempre maggiore evidenza e perfino senza giochi di parole. Vale la pena di segnalare anche una sentenza dello scorso giugno della Corte di giustizia dell’Unione Europea, resa all’esito di una procedura d’infrazione per violazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva e dell’indipendenza dei giudici, dove si legge che la Repubblica di Polonia, prevedendo, da un lato, l’abbassamento dell’età per il pensionamento dei giudici della Corte suprema, e attribuendo, dall’altro, al presidente della Repubblica il potere discrezionale di prorogare la funzione giudiziaria dei giudici di tale organo oltre l’età per il pensionamento di nuova fissazione, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in base al Trattato sull’Ue. E torno ad una frase di Calamandrei, scritta non ricordo dove: “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Anche noi napoletani ben conosciamo questo detto, che generalizziamo: “Tanno se chiagne o’bbene, quann’è perduto”. Dietro il ritorno alla giustizia “securitaria” c’è il mito medievale dell’uomo impiccato di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 11 luglio 2019 Al Palazzo Pubblico di Siena si può ammirare un famoso affresco del ‘ 300 dedicato agli “Effetti del buongoverno”. Oltre alle solite immagini allegoriche della Sapienza, della Concordia e della Giustizia, in alto, collocata proprio al di sopra del punto in cui le mura medievali della città separano simbolicamente i boschi e la campagna dall’ordine urbano delle case, c’è l’immagine di una donna nuda, alata e seducente: è l’allegoria della Sicurezza. La donna reca in una mano un cartiglio che promette la salvezza della collettività che non la rinneghi ma, nell’altra, l’immagine cruda di una forca con un uomo impiccato. Giustizia, sicurezza e penalità risultano dunque, in quel sistema medievale, strettamente connessi e legati a loro volta, in maniera tanto semplice quanto brutale, ad una immagine seducente. Era il tempo in cui si andava affermando il sistema inquisitorio, prendendo il posto del processo accusatorio, per rispondere alle esigenze del nuovo ordine comunale, quando la pressione criminale prodotta dalla rivoluzione dell’inurbamento veniva risolta con gli editti cittadini dei potestà di turno in chiave puramente repressiva. L’immagine della “Securitas” collocata lì in alto, nuda e cruda, con in mano il simbolo della penalità capitale stava dunque a ricordare la validità di una equazione “più pena più sicurezza” che nella complessità di una società moderna, ove le mura comunali sono state dissolte dal progresso tecnologico, non ha più alcuna legittimazione. Tornare alla primitive equazioni di secoli nei quali l’organizzazione sociale non aveva nulla di simile alla nostra significa fare un’operazione regressiva tanto inutile quanto pericolosa. La complessità del moderno mondo globalizzato non può trovare risposte nella seduzione securitaria propria di un mondo trapassato, la cui favola protettiva poteva risultare funzionale per i cittadini di una comunità di poco più di 50.000 anime (tante ne contava Siena in quegli anni). La questione sappiamo come si sia sviluppata nei secoli successivi, nei quali l’ordine promesso dalla sicurezza si è trasformato nella tutela dell’ordine sociale costituito, nel successivo tramonto delle libertà comunali, e nei quali la penalità è divenuta diffuso arbitrio e inumana e brutale esposizione dei supplizi, mentre il diritto criminale si è trasformato, come ricordava Beccaria nella prefazione della sua opera, in quell’insano intreccio di “opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi”. Ora che anche capi di Stato autoritari e sovranisti, dopo autorevoli giuristi nostrani, intonano il seducente motivo del tramonto dei miti del liberalismo e dell’illuminismo, dobbiamo riflettere sul fatto che l’indebolimento di quel fronte di princìpi e di tutele non abbia fatto altro che propiziare il ritorno agli ideali di quella barbarie. Una narrazione incolta, ma facile da svilupparsi nel linguaggio essoterico dei social media, costruisce l’immagine di una collettività insicura e incerta assetata di una nuova penalità, mutuando schemi paralogici tratti da una saga medievale da borgo assediato. La figura simbolica dell’impiccato torna così a dominare l’immaginario collettivo della “nuova” risposta criminale delle città contemporanee senza più mura. È da tempo che gli aspetti più ingenui e la base ideologica delle filosofie illuministe sono state svelate. Quel che ne resta è un nocciolo duro e insostituibile di princìpi, il risultato finale di una prova di resistenza che dura da un paio di secoli, e che rende insostituibile quel sistema di tutele e di garanzie volte a impedire che ogni cittadino e ogni essere umano venga trattato come un mezzo e non invece posto quale fine ultimo di ogni ordinamento che voglia dirsi civile. Si potrebbe dire, dunque, del “diritto penale liberale”, quel che Churcill diceva della democrazia parlamentare: essere il peggiore dei sistemi, ad eccezione di tutti gli altri. Se il tema della tutela delle libertà del singolo contro il potere dello Stato, che si racchiude in quella formula, può sembrare a qualcuno troppo vago, vale la pena di riflettere su questo aspetto e sui pericoli che un recupero di un diritto penale pre-liberale sta a significare. Non è quindi in gioco la questione assai banale del “chi sbaglia paga”, ma quella più interessante e complessa della moneta con la quale il prezzo della giustizia debba essere pagato, se con la moneta inflazionata, e dunque inutile, dei secoli passati ovvero con una moneta che invece sia utile all’intera collettività. Perché se ogni ideale filosofico e politico può essere sviluppato, modernizzato e può dunque trovare una sua applicazione innovativa e progressiva, quel che è certo che la critica attuale al pensiero penalistico liberale mira invece tout court a un ritorno al pensiero criminale del passato. E non è difficile svelare i prototipi assai risalenti di questa penalità primitiva ai cui fondamenti si è tornati a guardare. Il problema non è dunque quello di svelare le mitologie dei princìpi liberali sui quali le democrazie occidentali si fondano e dai quali traggono la loro stessa legittimazione, ma di svelare la natura antistorica degli ideali ai quali si ispirano le moderne utopie autoritarie e sovraniste, che su quei miti securitari medievali fondano la propria risibile mitologia. *Avvocato Sequestro, conto alla data del reato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2019 Corte di cassazione, sentenza 10 luglio 2019, n. 30414. Nei reati tributari è illegittimo il sequestro finalizzato alla confisca diretta sull’intera somma giacente sul conto del contribuente alla data del sequestro: il profitto sequestrabile è solo il saldo al momento della consumazione del delitto. A confermare questo principio è la Corte di Cassazione, con la sentenza 30414di ieri. Il legale rappresentante di una società veniva indagato per il reato dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2 Dlgs 74/2000). Il Gip disponeva il sequestro finalizzato alla confisca diretta sulle somme presenti sul conto corrente della società e, per l’eventuale differenza, per equivalente sulle disponibilità del legale rappresentante. Il provvedimento cautelare veniva confermato dal Tribunale del riesame e l’indagato ricorreva in Cassazione. Tra i diversi motivi, eccepiva l’illegittimità del sequestro operato anche sulle somme pervenute sui conti della società dopo l’emissione del decreto di sequestro. Questo denaro, infatti, non poteva rientrare nella nozione di profitto di reato, perché incassato in un momento successivo. La Corte, accogliendo questa eccezione, ha ricordato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta è possibile nei confronti della società solo su denaro o altri beni fungibili o direttamente riconducibili al profitto di reato commesso. La natura fungibile del denaro, però, non consente la confisca diretta delle somme, nel caso in cui si abbia la prova che queste non possano in alcun modo derivare dal reato e non costituiscano profitto dell’illecito. Il sequestro e la conseguente confisca diretta possono legittimamente avere ad oggetto un importo dell’entità esatta dell’imposta evasa, ma solo se tale somma era già presente sui conti correnti al momento di commissione del delitto o al suo accertamento. Per le somme confluite in epoca successiva, il sequestro è legittimo solo se è dimostrato che siano in un qualche modo collegabili al reato. L’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria dopo la realizzazione di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 10 luglio 2019 n. 30403. Il rilascio successivo dell’autorizzazione paesaggistica non sana il precedente reato paesaggistico. Di fronte a diversi capi di imputazione della Corte di appello di Caltanissetta ha proposto ricorso per Cassazione (sentenza n. 30403/19) l’imputato evidenziando in particolare come la Corte territoriale, nonostante specifico motivo d’appello, non avesse tenuto conto che il parere della Sovrintendenza aveva dato atto che le opere avevano determinato un carico volumetrico minore rispetto alle opere autorizzate e che, quindi, il fatto contestato non sussisteva. La Cassazione ha accolto solo parzialmente l’appello in quanto ha evidenziato come i giudici di merito avessero omesso di motivare in ordine alla valutazione dell’accertamento di compatibilità paesaggistica, limitandosi a richiamare il principio generale secondo cui il rilascio postumo dell’autorizzazione paesaggistica non estingue il reato paesaggistico. Ricorda la Cassazione che il rilascio postumo dell’autorizzazione paesaggistica da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è ipotesi diversa dal cosiddetto accertamento di compatibilità paesaggistica, introdotto per alcuni interventi minori dall’articolo 1, comma 36, della legge 308/2004. Niente deroga in sanatoria. E la deroga al principio generale per il quale l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione anche parziale degli interventi è limitata agli interventi minori individuati dall’articolo 181, comma 1-ter del Dlgs 42/2004, soltanto per i quali, ferme restando le sanzioni amministrative, non si applicano le sanzioni penali previste dal comma 1 dell’articolo 181 del medesimo Dlgs. Lazio: disturbi mentali, approvata la mozione che prevede cure terapeutiche per i detenuti ilgiornalenuovo.it, 11 luglio 2019 Ciani (Demos): decisione fondamentale in un tempo difficile per caldo e sovraffollamento. Il Consiglio regionale del Lazio ha approvato la mozione del vicepresidente della Commissione Sanità Paolo Ciani, che prevede cure terapeutiche individualizzate per i detenuti affetti da disturbi mentali. La mozione ha avuto parere favorevole dell’assessore competente e a breve sarà tramesso alle ASL. “Chiunque conosca l’universo del carcere sa che il tema della salute mentale è fondamentale per tutti”. È quanto dichiara Ciani, che è consigliere regionale di Democrazia Solidale - Demos. “In un tempo difficile per il pianeta carcere - per il caldo, per il continuo aumento della popolazione detenuta (il Lazio è la terza regione per numero di detenuti presenti in Italia) il sovraffollamento, la percentuale degli uomini e delle donne che transitano per il carcere affetti da patologie psichiatriche, polidipendenze, in condizioni di fragilità e marginalità sociale - l’approvazione in Consiglio Regionale della mozione per predisporre percorsi riabilitativi terapeutici individualizzati entro 90 giorni per i detenuti affetti da problematiche di salute mentale è un passaggio importante per garantire una omogeneità delle procedure della presa in carico dei servizi di salute mentale presenti nelle carceri del Lazio e continuità assistenziale. È uno dei segni di prossimità e di attenzione al tema della salute mentale. Sarà l’Osservatorio regionale per la salute in carcere, istituito dalla Regione a monitorare le fasi di questo percorso”, conclude Ciani. Lombardia: lo sport fa bene e in carcere fa anche meglio Il Giornale, 11 luglio 2019 Coni e Regione con il progetto “sport out” che coinvolge 18 istituti di pena. Lo sport fa bene ma in carcere fa meglio. Perché è strumento perfetto per trasmettere i valori fondamentali del vivere civile, il rispetto delle regole, per convogliare energie in direzione positiva. L’unico limite è coniugare l’attività sportiva con e le misure di sicurezza. In questa direzione ci si muove da tempo e proprio con queste finalità c’è stata ieri la visita al Beccaria dell’assessore regionale allo Sport e giovani, Martina Cambiaghi, che ha consegnato le attrezzature sportive del progetto “Sportout”. La delegazione formata dai membri del Coni Lombardia, il presidente Oreste Perri, il vice presidente Alessandro Vanoi, il consigliere Claudio Pedrazzini e Claudia Giordani, delegato di Milano, è stata ricevuta da Cosima Buccoliero, direttore dell’Istituto minorile milanese, e dal responsabile della Polizia Penitenziaria, Marco Casella. Giunto alla seconda edizione, il progetto “SportOut” di Regione Lombardia in collaborazione con Coni Lombardia è finalizzato a incentivare la pratica motoria su tutto il territorio lombardo con uno stanziamento complessivo di 183 mila euro (140 mila euro di Regione e 43 mila del Coni). L’iniziativa si articola su quattro punti e prevede, oltre all’attività nei 18 istituti di pena lombardi, anche la mappatura dello sport regionale, il finanziamento dei 18 licei sportivi lombardi e la valorizzazione delle periferie attraverso l’attività fisica. Nelle ultime settimane sono state consegnati in tutti i 18 istituti di pena lombardi le attrezzature per il cardiofitness (bici da spinning cyclette e step) per incentivare la pratica di tipo aerobico. Un modo per stimolare movimento, attività sportiva e benessere psicofisico all’interno degli istituti penitenziari; fattori che giocano un ruolo significativo per favorire modelli relazionali positivi in vista di un futuro percorso di reinserimento sociale. “E’ unanimemente riconosciuta la valenza sociale ed educativa dello sport. Per questo motivo Regione Lombardia e Coni si impegnano affinché la pratica sportiva sia sempre più diffusa - ha spiegato l’assessore Cambiaghi - così come quella nelle carceri è finalizzata a canalizzare l’energia fisica verso uno sbocco non violento utile dal punto di vista relazionale ma soprattutto fortemente educativo”. Ferrara: suicidio in carcere, detenuto si impicca in cella teleromagna24.it, 11 luglio 2019 Un detenuto nel carcere di Ferrara si è suicidato impiccandosi nella sua cella. Ne dà notizia il sindacato Sappe, con Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto e Francesco Campobasso, segretario nazionale: “Il carcere di Ferrara è ormai al collasso. Continuano gli eventi critici, ai quali ormai il personale di polizia penitenziaria fa fatica a far fronte”, dicono. Un altro detenuto, con problemi psichiatrici, ha sfasciato la stanza, rompendo i tubi di scarico. “Si tratta di una situazione drammatica ormai insostenibile. È necessario un intervento politico che affronti il problema del disagio psichiatrico in carcere. Purtroppo, come spesso accade in Italia, piuttosto che migliorare ciò che non funziona bene, si preferisce distruggere l’esistente, in nome di un presunto e fuorviante principio di tutela della dignità della persona”, prosegue il Sappe. “Chi ha fatto chiudere gli ospedali psichiatrici dovrebbe verificare il danno causato all’organizzazione delle carceri, ormai piene di gente con gravi disagi psichici, ingestibili all’interno delle nostre strutture”. Trento: il Sottosegretario Morrone rassicura “il carcere avrà più agenti” di Donatello Baldo Corriere del Trentino, 11 luglio 2019 Scandurra (Antigone): “A Spini un eccesso di automazione che toglie umanità”. Nuovi agenti di Polizia penitenziaria in arrivo per il carcere di Trento. Lo annuncia Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia nel governo Conte, a fronte delle preoccupazioni di Maurizio Fugatti circa la carenza di personale nella casa circondariale di Trento. “Fra le nuove forze - assicura - saranno previsti certamente agenti per la casa circondariale di Trento”. Ma per Alessio Scandurra, responsabile nazionale dell’Osservatorio detenzione dell’associazione Antigone “la priorità è la mancanza di educatori: esiste un eccesso di automazione che toglie umanità”. La “situazione esplosiva” del carcere di Spini di Gardolo, così definita dal governatore Maurizio Fugatti, non deriva dal sovraffollamento o dalla carenza di personale della Polizia penitenziaria. Ne è convinto Alessio Scandurra, responsabile nazionale dell’Osservatorio Detenzione dell’associazione Antigone, che bolla come “scemenza” la ricetta di aumentare gli agenti per risolvere i problemi della Casa circondariale del capoluogo: “Ogni volta che succede qualcosa si alza la voce dei sindacati di polizia che invocano un aumento degli organici. Ma in Italia abbiamo un rapporto detenuto-agente tra i più alti del mondo, sicuramente il più alto d’Europa”. “La media delle ultime rilevazioni è di un agente ogni 1,9 detenuti, in Trentino siamo a 1,7, meglio che altrove. È pur vero che gli agenti di polizia penitenziaria devono occuparsi anche di mansioni non pertinenti - osserva Scandurra - perché fanno un po’ di tutto, persino i magazzinieri e i baristi all’interno degli istituti. Ma la soluzione non è certo un aumento degli organici, piuttosto una riorganizzazione. Magazzinieri e baristi costerebbero meno allo Stato se non fossero agenti penitenziari”. Semmai, come sottolinea anche la Garante dei detenuti Antonia Menghini, i problemi di organico sono nell’area educativa, dove si riscontra “la situazione più critica”. Nella relazione annuale presentata negli scorsi giorni, si evidenzia che “la pianta organica, predisposta sulla base delle originarie 240 presenze, prevedrebbe 6 funzionari, più una figura di supporto. Attualmente, e praticamente da sempre, a causa di assenze o distacchi, gli operatori presenti sono 3. Il rapporto tra numero di educatori e numero di detenuti appare dunque largamente deficitario”. Non sono però soltanto i numeri che fanno la qualità della detenzione: “Ci sono realtà con sovraffollamento importante che riescono a mettere in campo azioni positive - osserva Scandurrra - anche se non c’è dubbio che numeri adeguati alla dimensione degli spazi sia da tenere in altissima considerazione”. Ma, come detto, non è il caso di Trento: “Le criticità di Spini sono da ricercare altrove”, anche in un cambio di atteggiamento dell’amministrazione penitenziaria: “È così ovunque - osserva Scandurra - in molte realtà sta aumentando la tensione in conseguenza all’aumento della rigidità imposta alla detenzione: stanno prevalendo le posizioni retrograde, che ci sono sempre state ma che grazie al nuovo corso politico si sentono legittimate”. Oltre il quadro nazionale “sempre più ostile”, c’è il quadro locale da tenere in considerazione: “La struttura di Spini è di nuova generazione, l’impressione che abbiamo raccolto nelle visite effettuate all’interno dell’istituto non è stata positiva. Tutt’altro - puntualizza l’esponente di Antigone - perché a fronte a un livello elevato di automazione, con citofono e interfono per comunicare con i detenuti, il risultato è quello di una solitudine palpabile, di una distanza di umanità evidente”. La comunicazione interna, la possibilità di interazione, svolgono un ruolo fondamentale durante la detenzione: “La persona detenuta ha un sacco di problemi, ha difficoltà a relazionarsi con l’esterno, anche attraverso i canali burocratici ufficiali. Cerca informazioni, cerca risposta alle mille domande sulla sua situazione, sui problemi di salute. La vicinanza è importane, anche psicologicamente, quindi se questa distanza aumenta, con le persone che si sentono sole e isolate, di conseguenza aumenta la tensione”, e non sarà l’interfono di ultima generazione a colmare il senso di solitudine e isolamento. A Trento, nella Casa Circondariale di Spini di Gardolo, che dal 2011 è nella nuova sede alla periferia della città, la percentuale di stranieri detenuti è tra le più alte d’Italia: “Questo è un problema che si deve gestire - afferma Scandurra - anche attraverso la possibilità di misure alternative alla detenzione”. Ma un problema minore rispetto alla mancanza di continuità nella gestione interna della struttura: “Il carcere è una struttura amministrativa complessa - ricorda Alessio Scandurra - e se i direttori sono a scavalco con altri istituti, spesso sostituiti o trasferiti, le criticità aumentano a causa di un’incapacità organizzativa e gestionale”. La semplice “ricetta” di aumentare gli organici di polizia penitenziaria si rivela un pannicello caldo, un intervento, da solo, inadeguato e palliativo: “In un istituto di detenzione i problemi sono molti, diversi per ogni realtà. Le risposte, di conseguenza, devono essere puntuali e diversificate”. Ascoli Piceno: il Garante “al carcere di Marino spazi di accoglienza non adeguati” consiglio.marche.it, 11 luglio 2019 Nuovo sopralluogo nel carcere ascolano, anche alla luce di alcune segnalazioni pervenute all’Autorità di garanzia. La criticità maggiore riguarda la vivibilità dei luoghi non ancora pienamente ripristinata nonostante che dal 2018 non esista più la sezione di massima sicurezza. Nell’ambito dell’ulteriore azione di monitoraggio messa in atto nei giorni scorsi ed alla luce di alcune segnalazioni, il Garante dei diritti, Andrea Nobili, torna a visitare il carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno. Una delle maggiori criticità riscontrate riguarda il mancato adeguamento della struttura all’accoglienza di detenuti aventi caratteristiche sostanzialmente diverse da quelli in regime di 41 Bis, sezione che è rimasta operativa dagli anni ‘80 fino al 2018, quando ne è stata disposta la chiusura “Un problema - sottolinea Nobili - che avevamo già riscontrato a marzo, nel corso di un nostro sopralluogo, e per il quale avevamo allertato gli organismi competenti. Oggi verifichiamo che la situazione non si è ancora normalizzata, con tutte le ripercussioni del caso, soprattutto in relazione alla vivibilità dei luoghi”. In particolare, vengono palesate l’inadeguatezza degli spazi nelle camere di pernottamento, adibite anche a usufrutto multiplo e con grate alle finestre, che si assommano alle sbarre creando problemi alla vista, nonché l’inappropriata disposizione della sala colloqui, ancora provvista delle caratteristiche riservate agli ex detenuti appartenenti al circuito di massima sicurezza. Dal sopralluogo è emerso anche che l’utilizzo della zona verde presente nel carcere risulta essere estremamente contingentato, con evidenti problemi soprattutto nel periodo estivo, e che ormai da mesi il campo da calcio è inutilizzabile. Nella precedente visita, il Garante aveva anche segnalato una scarsa valutazione del percorso trattamentale, “la cui offerta - ribadisce oggi - è esigua rispetto alle esigenze della popolazione carceraria presente a Marino del Tronto. Come non si riscontra attività di tipo scolastico che sappiamo essere allo stesso modo importante”. Torino: visita al Cpr “condizioni inaccettabili, peggiori rispetto alle carceri” torinoggi.it, 11 luglio 2019 Il Consigliere regionale Grimaldi (Luv), insieme ai due deputati Pd Gribaudo e Rizzo Nervo, ha effettuato un sopralluogo nella struttura dove bei giorni scorsi è morto Hossain Faisal. “Gli operatori fanno quello che possono, ma bisogna superare e chiudere queste realtà. Non si può morire in una struttura pubblica”. Una visita per verificare la situazione all’interno della struttura del Cpr di corso Brunelleschi, alla luce dei tagli recenti voluti dal Governo e dopo la morte di Hossain Faisal, avvenuta nei giorni scorsi. Con risultati preoccupanti. “Sono presenti 158 ospiti su 161 di capienza massima. In inverno la caldaia era rotta e ora è invece l’impianto di raffrescamento a essere spento e lo sarà ancora per i prossimi giorni. Spesso la gente dorme fuori, di giorno, le ore che non sono riusciti a dormire di notte”. Così Marco Grimaldi, consigliere regionale di Liberi Uguali e Verdi. Con lui, anche Chiara Gribaudo, vicecapogruppo del Pd alla Camera e Luca Rizzo Nervo, sempre del Pd. “Ma c’è di peggio, perché queste strutture offrono condizioni anche peggiori rispetto alle carceri. Non ci sono bagni per disabili, ma ci hanno detto che addirittura il sistema di allarme e di richiesta di aiuto non funzionano, sono stati rotti e mai sostituiti e se gli operatori, che fanno quello che possono, non si accorgono che in quel momento che sta succedendo qualcosa, si rischia di non accorgersi dell’emergenza”. “Siamo per il superamento di queste strutture e per la loro chiusura, perché la situazione è inaccettabile”. E si parla anche della necessità di reintrodurre una commissione che monitori le situazioni in strutture come queste. “Mi recherò in procura per condividere elementi che mi sembrano importanti - conclude Grimaldi -. In queste ore si è parlato molto di quel che è successo collegandolo a possibili abusi, colluttazioni o elementi medici non rilevati. Ma se il caso non rientrasse in nessuno di questi tre ambiti, è comunque grave. Non è accettabile morire in una struttura pubblica”. Alba (Cn): agricoltura, menzione d’onore a progetto sociale Valelapena ansa.it, 11 luglio 2019 E’ stato premiato con la Menzione d’Onore “Valelapena”, progetto di agricoltura sociale nato dalla collaborazione tra il ministero della Giustizia, la Casa di Reclusione d’Alba, l’Istituto “Umberto I” - Scuola Enologica di Alba, il Comune di Alba e l’azienda Syngenta. Il riconoscimento è avvenuto nell’ambito della prima edizione dell’Ethical Food Design, appuntamento dell’Associazione Culturale Plana e Aida Partners con l’obiettivo di contribuire alla costruzione di un futuro etico per il mondo del food. L’iniziativa premia le aziende del settore alimentare che, per principi, servizi, filiere e produzioni di prodotti, hanno vocazione e attenzione all’etica. Il progetto Valelapena- spiega una nota- dal 2006 coinvolge ogni anno un gruppo di detenuti del carcere di Alba in attività di formazione specifica, nella cura del vigneto interno al carcere e nella produzione dell’omonimo vino con la finalità di contribuire alla loro riabilitazione sociale e professionale, fornendo le competenze e l’esperienza necessarie per trovare impiego presso le aziende del territorio, una volta scontata la pena. “Sono orgoglioso - commenta l’external communications & partnership manager di Syngenta Italia Vincenzo Merante - di ritirare questo riconoscimento che dedico ai detenuti del carcere d’Alba e a tutte le persone che in questi anni hanno collaborato al progetto. In Syngenta, crediamo fortemente nel ruolo educativo dell’agricoltura e nella sua importanza per la nostra economia e per il nostro tessuto sociale. Per questo siamo convinti che questa esperienza possa rappresentare una concreta occasione di riscatto per chi ha perso temporaneamente la rotta e rischia di restare ai limiti della società”. Roma: a Rebibbia si diventa dottori grazie agli avvocati tutor di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2019 Il progetto “Conoscenza è libertà” del Coa di Roma e della scuola forense Vittorio Emanuele Orlando. L’università e il carcere potrebbero apparire due istituzioni lontane tra loro. Ma se l’evoluzione del sistema penitenziario passa attraverso una serie di riforme storiche, da istituto di mero e provvisorio contenimento a luogo dove vengono progressivamente introdotte misure di trattamento finalizzate alla risocializzazione e al reinserimento del reo, ecco che questi due mondi appaiono invece non solo vicini, ma in collaborazione tra di loro. Non è un caso che tra i 18 tavoli tematici dei passati Stati Generali dell’esecuzione penale, che hanno affrontato una serie di questioni, dal lavoro agli spazi all’affettività, il Tavolo 9 si era misurato con il tema dell’istruzione e della formazione universitaria, evidenziando in particolare il ruolo che la cultura riveste rispetto al “tempo” in carcere, per tramutarlo in strumento utile all’acquisizione di elementi positivi per la propria soggettività e per un reale percorso di reinserimento sociale. In tale processo l’avvocatura è scesa da tempo in campo. Abbiamo l’esempio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, in prima fila per questo impegno sociale. Sono 37 i detenuti che frequentano corsi universitari nel Carcere di Rebibbia. Di questi, 10 sono studenti iscritti alle facoltà di giurisprudenza dei tre poli universitari romani, 10 alle facoltà di scienze motorie, 12 a lettere, 5 a scienze politiche. Fra i laureati, uno in giurisprudenza, 3 in lettere e uno in sociologia, c’è anche un detenuto condannato all’ergastolo che ha vinto un dottorato di ricerca. Numeri importanti, questi, - evidenzia il comunicato stampa del consiglio dell’ordine degli avvocati di Roma - che danno sostanza al dettato costituzionale secondo cui “la pena tende alla rieducazione del condannato”. E se pure altri numeri, ad esempio quelli del sovraffollamento carcerario, a volte sembrano mettere in discussione questo nobile principio, esistono fortunate iniziative, come il progetto “Conoscenza è libertà” dell’Ordine degli Avvocati di Roma e della Scuola Forense Vittorio Emanuele Orlando, organizzato ovviamente in collaborazione con l’istituto di Rebibbia, che rincuorano gli osservatori. Ad oggi, gli studenti seguiti dai volontari del progetto - docenti universitari e giovani avvocati - hanno già sostenuto numerosi esami della facoltà di giurisprudenza dell’Università La Sapienza: diritto pubblico, diritto costituzionale, diritto privato, diritto civile 1, diritto civile 2, diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritto Ue, diritto internazionale pubblico, diritto romano, diritto commerciale. Nei giorni scorsi in particolare, quattro detenuti hanno sostenuto gli esami di diritto civile alla presenza del Presidente del Coa Roma, Antonino Galletti: “Negli occhi di questi quattro eccezionali studenti detenuti ho letto la speranza di un futuro migliore - spiega Galletti. Da loro sono stato ringraziato calorosamente, mentre sono io che ringrazio loro per avere condiviso con me un’esperienza indimenticabile. L’intera avvocatura romana dovrebbe rendere omaggio a questa iniziativa per l’opera silenziosa di rilancio dell’immagine e della funzione sociale di noi tutti. Ricordando sempre che la cultura e la legalità sono l’ultimo baluardo a garanzia di chi non ha nulla, neppure la libertà”. Coordinatore del progetto per la Scuola Forense è l’avvocato Marina Binda che spiega come “si è iniziato un percorso formativo con i detenuti interessati, partendo dal primo anno di università e continuando anche negli anni successivi. Si è costituito un calendario di incontri per ogni mese, secondo il quale i tutors, a rotazione, si recano a Rebibbia per svolgere i corsi ed assistere i detenuti”. Commenta anche il direttore di Rebibbia, Rosella Santoro: “Il progetto si inserisce in un percorso di recupero del detenuto che vede nella cultura un elemento trainante ma che non viene da questa esaurito. Penso ai corsi di scrittura creativa, al reinserimento sociale dei detenuti nella cura del verde pubblico, a quello lavorativo con i corsi di sartoria o torrefazione. Altrettante iniziative che regalano una speranza a chi ha deciso di cambiare strada. C’è vita oltre le sbarre”. “Il codice del disonore”, di Dina Lauricella recensione di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 11 luglio 2019 Madri e figlie, il nervo scoperto della ‘ndrangheta. La letteratura sulla criminalità organizzata si basa prevalentemente su approcci di tipo “macro”: la natura dei gruppi criminali, la loro struttura organizzativa, i rapporti con la sfera legale, hanno appassionato studiosi, cronisti e attivisti. Lavori di diversa qualità, hanno privilegiato un approccio di tipo esterno, che dà per scontata l’esistenza di una compattezza interna da parte delle organizzazioni criminali, a partire dalla quale se ne misurano la pericolosità, la pervasività, la durata. IL LIBRO di Dina Lauricella, “Il codice del disonore (Einaudi, pp. 184, euro 17), frutto di un’inchiesta giornalistica tra le donne della ‘ndrangheta calabrese che hanno collaborato con la giustizia, si connota per la sua originalità rispetto agli approcci prevalenti. Senza alcuna pretesa di proporre uno studio sociologico, l’autrice sembra muoversi secondo i dettami foucaultiani di un’analisi microfisica delle relazioni di potere, condotta nello specifico tra gli interstizi dei rapporti tra i sessi. Della ‘ndrangheta calabrese si dice che sia l’organizzazione criminale più potente del mondo, che si mimetizzi abilmente tra le pieghe della società ufficiale, che inglobi nel suo universo arcaico le sfide della società contemporanea. Soprattutto, si dice che sia compatta e impenetrabile. Lauricella scardina le visioni dominanti, scavando nella quotidianità della criminalità organizzata calabrese. Gli ‘ndranghetisti si propongono come portatori di valori immutabili nel tempo, fondati sulla consanguineità e l’onore, in grado di resistere alle sfide esterne. In un contesto simile, le donne occupano una posizione svantaggiata: intrappolate all’interno di un denso reticolo relazionale-funzionale, dove i matrimoni servono a rinsaldare le alleanze tra ‘ndrine o a suggellare una pace, le donne possono solo accettare e trasmettere alle loro figlie la sottomissione. Da questo contesto, l’individualità è bandita: nessuna aspirazione diversa dalle aspettative familiari è possibile, nemmeno per i maschi, che debbono conformarsi ai codici di sangue e vendetta che ne preparano l’ascesa criminale. Eppure, all’interno della ‘ndrangheta i rapporti interpersonali non scorrono senza produrre conflitti e risentimenti. Le donne, in quanto depositarie dei codici culturali e principali educatrici dei figli, negli ultimi anni hanno rappresentato il nervo scoperto della violenza ‘ndranghetista. Costrette ai matrimoni combinati, abusate sessualmente dai parenti col tacito consenso (o con la paura) di madri, nonne e zie, imbevute di una cultura della sopraffazione che dà per scontato che debbano andare in spose ai fratelli dei mariti uccisi, le donne di ‘ndrangheta cominciano a cercare una via d’uscita. Le nuove generazioni, viceversa, possono avvalersi di due canali per rivalersi della loro dignità violata: uno è quello del programma di protezione dei collaboratori di giustizia, attraverso il quale possono chiamare le loro famiglie a rendere conto della loro responsabilità. La collaborazione, tuttavia, si rivela un percorso impervio, in quanto costituisce una scelta individuale, solitaria, che spesso scatena l’ostilità dei figli stessi, strappati dal contesto originario, e favorisce i ricatti morali delle famiglie d’origine, che ottengono spesso il risultato di far ritrattare le dichiarazioni e attuare ritorsioni che spaziano dalla segregazione all’omicidio. Altre volte, come il caso di Alba A., che chiede all’autrice 100mila euro per un’intervista, più che di una vera e propria scelta di vita, si tratta del tentativo di tirarsi fuori da situazioni pericolose senza abiurare al proprio sistema valoriale. Il secondo canale di fuga è quello della tecnologia. Molte donne di ‘ndrangheta usano i social network per esplorare un mondo che non gli è permesso conoscere. Spesso ne consegue la conoscenza di uomini esterni al loro universo criminale, i quali, sebbene virtuali, assecondano la loro voglia di venire fuori dal contesto sanguinario in cui sono cresciute, e le spingono a opporsi apertamente ai diktat ‘ndranghetisti, anche a costo della vita. È il contatto con l’esterno, con altri mondi, che le donne necessitano. La combinazione tra femminilità, individualità e tecnologia, sembra suggerire l’autrice, può mettere in crisi la ‘ndrangheta più di migliaia di blitz e processi. Si tratta di non lasciarle sole, di creare appigli duraturi, di aprire percorsi di emancipazione dai valori mafiosi. Una strada impervia, ma che esiste, e va esplorata. La cattiveria è una creatura mostruosa, pronta a esplodere di Onofrio Dispenza globalist.it, 11 luglio 2019 Siamo già oltre l’indifferenza, siamo nel piano dell’accanimento, dei sassi appuntiti contro ogni debole, profugo, senza tetto, carcerato. Paura che la povertà possa inghiottirci. Convinti che il muro possa salvarci. Ieri alla radio si discuteva un tema estremamente drammatico, la condizione carceraria. La notizia era di tre suicidi in cella in pochi giorni. Il carcere è una pena, come è giusto che sia, ma spesso commina pene accessorie pesantissime che la condanna, le leggi e il diritto non prevedono. In Italia, carceri che rispettino l’uomo si possono contare con un paio di dita. Carcerati e agenti penitenziari spesso si ritrovano dalla stessa parte, a condividere una situazione drammatica, pesante, insopportabile, esecrabile. Dicevo, si parlava dei suicidi in carcere, tema apprezzabile, offerto in una stagione che tende a distrarre un modo che tende sempre più a voltarsi altrove. Se non sbaglio, se ne parlava nell’approfondimento del mattino dell’amica Eleonora Belviso. Tema scomodo. Ebbene, quello che mi ha colpito è stato il messaggio di un ascoltatore. Sostanzialmente diceva: “Pure Giuda, che aveva tradito Gesù, si impiccò…!”. Come a dire, perché mai dovremmo preoccuparci della “scelta” tragica di un detenuto, di uno che ha sbagliato e che in carcere deve starci. Che pure ci muoia, è nelle cose. Lo sappiamo, il nostro è un tempo segnato da una gara continua, nervosa, spasmodica e paranoica alla cattiveria. Tutti in gara, guai a restare indietro. Se il tuo vicino di social è cattivo, tu devi dare prova di una cattiveria più spinta. Non si può restare indietro, la soddisfazione è guardarsi allo specchio e vedersi ai lati delle bocca il sangue colare, dopo aver azzannato il primo che ti passava davanti. Naturalmente essere cattivi con chi è più debole di noi è assai più facile, la Storia ci ha avvertito che essere spietati coi potenti può avere un costo, anche pesante. Quindi, meglio dedicarsi a quelli che sono in affanno. E sappiamo di questi tempi cosa si mette a tavola per soddisfare le nostre fauci, come alimentare la nostra logorroica, ma anche concreta, cattiveria, come segnarla su una tastiera è buttarla dai gradoni del Colosseo sulla polvere dell’anfiteatro. Un amico, Giandomenico Vivacqua proprio oggi mi segnala una considerazione di Massimo Cacciari, che condivido e qui ripeto: “E’ in corso una mutazione di natura antropologia, perché se 20 anni fa a qualcuno di noi avessero raccontato che si sarebbe restati indifferenti di fronte a donne e bambini che muoiono annegati per fuggire da miseria e guerra, non c’avremmo creduto”. Di più, caro professore, aggiungo io, siamo già oltre l’indifferenza, siamo nel piano dell’accanimento, dei sassi pesanti e appuntiti contro ogni debole, profugo, senza tetto, carcerato, comunque appartenente ad un mondo sofferente che temiamo possa inghiottirci. Paura che la povertà e la miseria possano inghiottirci. Convinti che il muro possa salvarci. Torniamo al messaggio iniziale alla radio e che la radio ci ha riferito, quello su Giuda che il suicidio se lo cercò e se lo meritò, come se lo cercano quanti sbagliano e finiscono in galera. Si, perché in questa cattiveria dilagante ed estrema il carcere diventa condizione che ovviamente dovrebbe non finire mai, mai dovrebbe recuperare. La cattiveria che ci ha preso suggerisce continuamente di chiudere la cella e gettare in mare le chiavi. E se chi in carcere ci è finito e tira le cuoia prima, tanto di risparmiato. Ebbene, nel sentire riferito quel messaggio, mi sono chiesto: è giusto che si riprenda e si rilanci con un eco vasto, ogni piccola o grande goccia di questo nuovo distillato che è l’odio? “Siamo tutti sotto inchiesta”, recita una strillata trasmissione radio. Siamo tutti davvero sotto inchiesta, tutti a doverci fare un esame: media, giornali, radio, tv, animatori famelici, noi, dei social. Dobbiamo interrogarci se è giusto imboccare la cattiveria, farla crescere oltre ogni limite fino a farne una creatura paurosamente obesa, pronta ad esplodere.. Eraldo Affinati: “L’istruzione è lo specchio dell’ingiustizia sociale” di Francesco Lo Dico Il Dubbio, 11 luglio 2019 “Noi, nonostante le tante battaglie che sono state fatte, siamo rimasti ancora il Paese di Pierino e Gianni, i due studenti simbolo di don Lorenzo Milani: il primo privilegiato, il secondo svantaggiato, a causa dell’origine sociale da cui provengono. Ma ora il regionalismo differenziato rischia di penalizzare ancora di più i giovani che vivono nelle aree più svantaggiate del Paese”. Scrittore, saggista, editorialista, già finalista al Premio Strega 2016 con il romanzo L’uomo del futuro incentrato sulla figura di don Milani, Eraldo Affinati è fondatore insieme alla moglie della Penny Wirton, una scuola gratuita di insegnamento di italiano per italiani e stranieri. Professore, le prove Invalsi raccontano un sistema scolastico nazionale in forte sofferenza, nel quale il gap tra Nord e Sud si accentua man mano che i ragazzi proseguono con gli studi. Addirittura, tra gli studenti di terza media, uno su due in Calabria non è in grado di comprendere adeguatamente un testo di italiano. Qualcosa si è definitivamente rotto nel nostro sistema educativo? “A mio avviso molto dipende dalla rivoluzione informatica che stiamo vivendo: i ragazzi leggono sugli schermi, in modo più frammentario, sebbene non meno qualitativo, rispetto al passato. Il rapporto col testo innesca nuovi meccanismi logico- percettivi. La scuola non sempre si è adeguata a questo cambiamento epocale”. Persino alle elementari, un tempo fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, la forbice territoriale si amplia. Al Nord funzionano, al Sud sempre meno. Problemi di metodo, di insegnanti, di modelli educativi? “Questi risultati confermano uno scarto fra nord e sud che purtroppo penalizza i ragazzi meridionali, non per loro incapacità, quanto piuttosto a causa delle minori opportunità strutturali di cui dispongono. C’è un problema di giustizia sociale da ripristinare, impiegando più risorse nei luoghi del Paese con maggiori difficoltà”. L’altro dato Invalsi profondamente significativo è che i risultati scolastici variano sensibilmente in base al censo. La maggior parte dei giovani che hanno uno status socio- economico basso non raggiungono risultati adeguati nei test. È il sintomo di fenomeno più ampio che racconta come l’ascensore sociale si è definitivamente guastato? Di una società contemporanea profondamente ingiusta che non riesce più a offrire pari opportunità neppure ai bambini? “È questo l’aspetto che più di tutti mi addolora. Noi, nonostante le tante battaglie che sono state fatte, siamo rimasti ancora il Paese di Pierino e Gianni, i due studenti simbolo di don Lorenzo Milani: il primo privilegiato, il secondo svantaggiato, a causa dell’origine sociale da cui provengono. La mitica professoressa - oggi incarnata dagli standard di valutazione oggettivi - continua a fare le parti uguali fra diseguali, considerando solo le competenze raggiunte, senza calcolare il diverso percorso compiuto. E invece dovremmo premiare il movimento registrato dallo studente, oltre al traguardo raggiunto, anche perché ci sono tempi e forme diverse dell’apprendimento. Insomma la famosa uguaglianza delle posizioni di partenza, chiesta dalla Costituzione, è ancora non pienamente garantita. Il che la dice lunga sul lavoro da fare”. I risultati Invalsi sembrano raccontare una profonda necessità: servono investimenti in educazione a favore dei ceti più deboli sempre più soli. È così? “È così, ma questi investimenti andrebbero monitorati e calibrati con più efficacia di quanto finora accaduto. Troppo spesso i fondi finiscono in progetti che non incidono come dovrebbero. E questo non ce lo possiamo permettere. Inoltre oggi la scuola si trova in una condizione di solitudine mai avuta in passato perché deve tappare i buchi aperti altrove: in famiglia, nella politica, nella cosiddetta società culturale. Ciò rende quasi eroico il comportamento di certi docenti che cercano di realizzare, coi pochi mezzi di cui dispongono, nuclei di resistenza etica nel mezzo del frantume in cui si trovano”. Le cattive notizie che ci consegna oggi l’Invalsi hanno un valore altamente simbolico, alla luce delle forti inquietudini che accompagnano il varo delle autonomie del Nord. Un sistema scolastico regionalizzato come quello preteso da Veneto e Lombardia rischia di accentuare ancora di più la forbice culturale che divide in due il Paese? “Un conto è l’autonomia, che andrebbe potenziata ma anche ricalibrata secondo criteri di giustizia sociale, un altro la regionalizzazione che penalizzerebbe proprio le zone più bisognose. È dalla straordinaria spesso inespressa potenza del sud che invece dovremmo ripartire: là dove le energie dei più giovani vengono mortificate. Infine, non solo i deboli hanno bisogno dei forti, vale anche il contrario. Questo è vero quando si deve creare un gruppo coeso, ma diventa ancora più importante nel momento in cui stiamo parlando dell’intero Paese”. Quali conseguenze produrrebbe un sistema scolastico frammentato e delocalizzato, che istituisce curricula e ruoli autonomi per le regioni che pretendono il regionalismo rafforzato? Sarebbe una sorta di secessione culturale, oltre che economica? “Il risultato sarebbe quello di incrementare ancora di più la fuga dei nostri giovani migliori verso le regioni del nord se non addirittura all’estero. Inoltre le famiglie benestanti sarebbero comunque in grado di garantire un futuro ai loro figli, mentre quelle più povere avrebbero difficoltà a sottrarli al degrado. Tenendo anche presente che la povertà educativa che abbiamo in Italia è spesso molto difficile da individuare perché può albergare anche nelle famiglie ricche. E perfino nei ragazzi che sono andati bene nei test Invalsi: io, nel mio ultimo libro, Via dalla pazza classe, la chiamo la maschera della risposta esatta. E il valore - da riscoprire - di quella sbagliata”. Servizi psichiatrici: manca il personale e si rischia l’utilizzo della contenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2019 Il Garante ha visitato l’Spdc di Colleferro, in provincia di Roma. Un collegamento tra la carenza di personale e il rischio di utilizzo della contenzione. Questo è ciò che emerso dalle visite del Garante nazionale delle persone private della libertà ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc). In particolare ha reso pubblico il rapporto sull’Spdc di Colleferro, in provincia di Roma. Trattandosi della sua prima visita in un Spdc, il Garante nazionale ha deciso, contrariamente alla propria prassi, di comunicare preventivamente il proprio arrivo alla Direzione della struttura. Nel corso della visita la struttura è apparsa adatta alla sua funzione dal punto di vista degli ambienti e degli arredi e gli operatori sanitari hanno prestato la massima collaborazione. Tuttavia, sia il personale medico che quello infermieristico, sono risultati sotto organico. A questo proposito, il Garante nazionale nota che nel corso delle visite finora effettuate ha riscontrato un collegamento fra la carenza di personale e il rischio di utilizzo della contenzione. Il Garante ribadisce quello che ha evidenziato nelle Relazioni al Parlamento 2018 e 2019, e cioè che la contenzione non deve essere mai considerata come un atto medico trattamentale e deve essere utilizzata sempre come extrema ratio. Per quanto riguarda il servizio di Collefferro, nel giorno della visita, lo staff impiegato nel reparto era di numero inferiore a quello previsto nella pianta organica del servizio. Nel rapporto si legge, infatti, che erano previsti 8 medici (di quali uno assente per maternità), 1 psicologo, 15 infermieri, 1 caposala, 2 operatori socio sanitari a fronte di una pianta organica di 9 medici, 2 psicologi, 20 infermieri, 1 assistente sociale, 4 operatori socio sanitari, 4 terapisti di riabilitazione. Nel rapporto, quindi, il Garante sottolinea che “non può non evidenziarsi che l’adeguamento numerico del personale rispetto agli ospiti delle strutture residenziali è uno degli elementi necessari per garantire in pieno la sostenibilità del lavoro nelle sue molteplici sfaccettature (gestione, cura e riabilitazione del paziente, turnazione del personale)”. Per questo si evidenzia che “l’insufficienza numerica del personale è, del resto, una delle situazioni che espongono l’Amministrazione al rischio di: a) insorgenza della sindrome di burn-aut negli operatori sovraccaricati di lavoro, b) aumento delle probabilità che si verifichino incidenti sul lavoro, c) aumento del rischio di configurazione di situazioni di restrizione della libertà de facto per il paziente”. Inoltre, in talune situazioni il Garante ha osservato una correlazione tra l’insufficienza di personale e il ricorso a forme, più o meno prolungate, di contenzione meccanica o farmacologica. Una situazione che il Garante stigmatizza, ritendo importante sottolineare che “il ricorso alla contenzione quale forma suppletiva di difficoltà di applicazione del personale è inaccettabile e altresì rammentare che la contenzione non può essere mai proposta come atto medico trattamentale”. Fra le raccomandazioni contenute nel Rapporto, la necessità di fornire informazioni esaurienti alle persone ricoverate e ai loro parenti, in merito al significato dei Tso, i trattamenti sanitari obbligatori, e alle regole della struttura, possibilmente da formalizzare tramite un atto amministrativo. Questo perché la conoscenza delle regole e la possibilità di avere certezze su cosa sia permesso e cosa sia proibito nella propria quotidianità è uno dei diritti fondamentali di ogni persona che vive, anche per un breve periodo di tempo, in una struttura residenziale. Da ricordare che l’attenzione alle condizioni delle persone sottoposte a trattamento contro la propria volontà fa parte del mandato istituzionale del Garante Nazionale delle persone private della libertà, compresi i Garanti regionali. Tuttavia è rimasto un ambito ancora troppo in ombra, e anche poco conosciuto rispetto al mandato principale di controllo delle condizioni dei detenuti nelle carceri. Conte: “Sui migranti nessuno può fare da solo, nemmeno Salvini” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 11 luglio 2019 Il premier: “Non è in questione la capacità delle persone. Il ministro dell’Interno è persona determinata ma lui stesso ha evocato l’aiuto di tutti”. Sul fronte delle grandi migrazioni, che vede al centro l’Italia e le sue coste, “nessuno può fare da solo”. Prima di entrare al vertice di Palazzo Chigi, il premier Giuseppe Conte si appella ai nuovi vertici dell’Europa e richiama all’ordine la squadra di governo: “L’immigrazione è un fenomeno complesso, nessuno può pretendere di avere l’idea risolutiva”. Il premier ha letto con attenzione l’inchiesta di Rinaldo Frignani sul Corriere di ieri ed è rimasto colpito dai numeri delle “imbarcazioni fantasma”, che dall’inizio del 2019 hanno traghettato in Italia 2486 persone. Negli stessi sei mesi i migranti soccorsi dalle organizzazioni non governative, prese a bersaglio dalla Lega, sono stati meno di 600, un quarto rispetto a quelli arrivati a bordo di motoscafi, gommoni, vele, gozzi. Ed è alla luce di questi dati che Conte annuncia l’intenzione di rivedere le strategie del governo: “Il problema non si limita solo agli sbarchi delle ong. Adesso ci stiamo confrontando col fenomeno delle piccole imbarcazioni, che sono ancora più insidiose da contrastare, perché si tratta di sbarchi illegali”. Siamo di fronte, continua il premier, a un fenomeno “governato dalla criminalità organizzata, che studia sempre nuove modalità per i suoi affari”. Se il Pd imputa al ministro dell’Interno le responsabilità di questo stillicidio di piccoli sbarchi, Conte comprensibilmente è molto più cauto, ma non schiva il tema quando gli si chiede se il presidio delle coste dovrebbe essere più efficace: “È evidente che il problema delle piccole imbarcazioni è più complicato. Dobbiamo aggiornare tutte le nostre iniziative in materia di cooperazione con i Paesi da cui originano i flussi”. E soprattutto, ecco il concetto chiave che ritorna nei ragionamenti del premier, “serve coordinamento per gestire le operazioni di controllo delle nostre acque e delle nostre coste e per rendere efficaci i meccanismi di redistribuzione, nei Paesi europei, dei migranti che riescono a sbarcare”. C’è un altro aspetto, politicamente delicato, su cui ammette che l’Italia potrebbe fare di più ed è il rimpatrio degli irregolari. I dati raccontano che il Viminale fatica a tenere fede alla promessa elettorale di Salvini, di riempire gli aerei di migranti per riportarli a casa loro. E Conte sprona a far meglio: “Dobbiamo rendere più incisiva l’iniziativa in materia di rimpatri”. Salvini non fa abbastanza? “Sono questioni complesse e nessuno può pensare di poterle risolvere da solo una volta per tutte. Il fenomeno dell’immigrazione richiede l’azione coordinata di tutto il governo e il ricorso a tutte le competenze. I Paesi europei ci contestano il problema dei movimenti secondari e anche questo è un aspetto da non trascurare”. E qui Conte chiama in causa l’Ue, che scarica su Roma una tragedia epocale. “Sono sempre più convinto che il fenomeno dell’immigrazione vada affrontato in sede europea, attraverso meccanismi europei. È impensabile che un Paese come il nostro, che abbia dei confini soprattutto marittimi, possa fare da solo di fronte a emergenze del genere”. Non è la prima volta che Conte sprona Bruxelles, ma ora si rivolge alla presidente designata dei Ventotto, Ursula von der Leyen - con la quale è in contatto - e ai capi di governo: “Occorre quella solidarietà europea che ho invocato da subito. Adesso che le istituzioni Ue rinnovano i vertici, dovremo tornare a insistere coordinandoci più che mai per perseguire l’obiettivo di una gestione europea dei flussi”. Poi l’attenzione del professore torna al braccio di ferro parlamentare tra Lega e M5S sul decreto sicurezza-bis. Si può risolvere il dramma dei migranti con le multe fino a un milione alle ong, invocate da Salvini, o con i superpoteri al Viminale, bocciati dal M5S? “No - è lo stop di Conte -. Assolutamente no”. Sono le sette di sera. Il premier deve salire al Quirinale e poi rientrare per il vertice a Palazzo Chigi, convocato anche per mediare tra Salvini ed Elisabetta Trenta dopo le furibonde polemiche seguite al caso della comandante Carola Rackete. Per la ministra della Difesa è stato un errore uscire dalla missione Sophia. Chi ha ragione, lei o Salvini? “Non faccio riunioni per stabilire chi ha ragione - glissa Conte -. Le faccio per assicurare un più efficace coordinamento delle iniziative di governo”. È un richiamo a Salvini? “Qui non è in questione la capacità delle persone. Il ministro dell’Interno è persona determinata e capace, ma lui stesso ha evocato un aiuto da parte di tutti. Ha sollecitato il coinvolgimento di tutto il governo, quindi evidentemente ha riconosciuto che il problema non lo può risolvere da solo”. Iran e Libia, il bombardamento mediatico e la disinformazione di Alberto Negri Il Manifesto, 11 luglio 2019 Ecco chi ci minaccia davvero: le bufale dell’informazione manipolata. Se ne sono accorti anche i maggiori giornali americani, non i nostri. Oggi paghiamo pesantemente il prezzo dei nostri errori: ma i nostri media fanno finta di ignorarli. Alla fine la gente ci crede pure che sia l’Iran ad avere violato l’accordo sul nucleare del 2015. Come ripetono ogni giorno tv e giornali in un bombardamento mediatico pari a quello che investe la tragedia libica dei migranti con affermazioni tendenziose. Teheran ha violato ora l’intesa in maniera quasi simbolica - dopo anni in cui 15 rapporti dell’Aiea ne hanno confermato la piena adesione - per lanciare un avvertimento all’Europa che lascia colpevolmente nelle mani di Trump le chiavi della pace e della guerra. L’insostenibile leggerezza dei media è inaccettabile. L’Iran minaccia di uscire dell’accordo sul nucleare: questo è il ritornello. È stato Donald Trump non solo a rendere carta straccia l’accordo ma anche ad applicare sanzioni all’Europa e a tutti coloro che commerciano con Teheran. All’Iran hanno fatto la guerra nel 1980 (un milione di morti) e quando nel 2014 è comparso l’Isis a combattere i jihadisti in Siria e Iraq c’erano gli iraniani (e i curdi) non gli americani e gli europei che con le monarchie del Golfo usavano gli estremisti contro Assad. Chi ha fatto gli attentati in Europa? Non gli iraniani ma i jihadisti ispirati dall’ideologia retrograda degli alleati dell’Occidente. E ora per coprire questi fallimenti e tenere in piedi le monarchie del Golfo e Israele bisogna fare la guerra all’Iran. Ecco chi ci minaccia davvero: le bufale dell’informazione manipolata. Se ne sono accorti anche i maggiori giornali americani, non i nostri. “Vista la politica americana degli ultimi decenni i leader iraniani sono stati matti a non sviluppare un armamento nucleare come deterrenza”, scrive sul New York Times John Mearsheimer, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, conosciuto per un saggio sulla lobby israeliana negli Stati uniti e per un altro dedicato alla grande illusione del liberismo. In realtà oggi Trump e il suo cerchio magico, il segretario di Stato Pompeo e quello alla sicurezza Bolton, stanno minacciando l’esistenza stessa dell’Iran come stato sovrano, scrive Mearsheimer. Mentre lo strangolano economicamente e impongono a tutto il mondo le sanzioni contro Teheran, i bravi ragazzi della Casa Bianca si vantano di negoziare con la Corea del Nord e Trump, attraversando il confine del 38° parallelo, non ha fatto altro che legittimare l’arsenale atomico di Kim Jong-un. Una mossa che serve a un’altra legittimazione: quella per l’Arabia saudita del principe assassino Mohammed bin Salman di possedere la sua atomica, un arsenale limitato ma di “prestigio” da far convivere accanto alle testate di Israele. È lo schema di “pace” cui vogliono arrivare gli Stati uniti: un terrore generalizzato sui cui regnare sovrani. In fondo alla scala, ultime ruote del carro, vengono i sovranisti italiani, cittadini di un protettorato americano che promette di durare all’infinito. Sono i più beceri di tutti perché si stanno allineando sulle posizioni Usa contro l’Iran dopo che Teheran aveva promesso nel 2015 30 miliardi di euro di commesse all’Italia. L’idea è che gli Stati uniti di Trump li sosterranno in Europa se schiereremo le navi militari a “difesa” dei porti. Anche se tutti ritengono assai improbabile che affonderemo gommoni di migranti e navi delle Ong. I nostri militari non sono così stupidi. Paghiamo però pesantemente il prezzo dei nostri errori. Ma i nostri media fanno finta di ignorarli. All’errore di non dissociarsi dal bombardamento contro Gheddafi nel 2011 ne abbiamo aggiunto un altro ancora più esiziale. Abbiamo concesso le nostre basi a francesi, inglesi e americani e poi ci siamo uniti ai raid. Bombardavamo il nostro maggiore alleato, sperando forse che gli altri, come accadde già nei Balcani nel 1999, non se ne accorgessero: stavamo andando incontro alla peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale con un altro storico tradimento. La decisione fu presa dal presidente Napolitano mentre il premier Berlusconi, allora indebolito e incerto, si affidò al Quirinale. La guerra a Gheddafi ha avuto due conseguenze. La prima è che nessuno stato europeo e del Mediterraneo ha più creduto a una sola parola dell’Italia in politica estera: abbiamo perso ogni credibilità. E infatti ci hanno trattato a pesci in faccia, dalla Francia all’Egitto, agli Usa. La seconda conseguenza è stata che in sede internazionale non abbiamo potuto reclamare ad alta voce contro i responsabili della disgregazione della Libia. Mentre la Germania, dopo avere accolto un milione di profughi siriani, spingeva l’Europa a pagare Erdogan per tenersi 3 milioni di rifugiati, la Libia veniva lasciata nel caos. Quindi abbiamo subito un altro contraccolpo. I nostri alleati hanno sostenuto il generale Haftar che si oppone al governo di Tripoli: un’altra fregatura perché di fatto l’Italia appoggia i Fratelli Musulmani che tutti osteggiano, tranne Turchia e Qatar. Altro che navi da guerra, è venuta l’ora di autoaffondarci nel Mediterraneo in un dignitoso silenzio dei politici e dei media. Libia tra caos e intrighi di Nello Scavo Avvenire, 11 luglio 2019 Centinaia di migranti in fuga. Parigi ammette di aver passato bombe ad Haftar. Attacchi da server russi alle Ong: “Lo fanno per impedire le donazioni dei cittadini”. Mentre in Libia non si fermano gli scontri e vi sono molte incertezze sui migranti sopravvissuti al massacro della prigione di Tajoura, arrivano nuove conferme del sostegno straniero alle fazioni armate. Un grande risiko giocato anche con armi informatiche: un “filo russo” lega i sovranisti italiani ai postcomunisti del nuovo potere moscovita. Al centro, ancora una volta la Libia e chi si occupa dei migranti. A Tripoli la situazione resta caotica. Le autorità libiche martedì hanno permesso ai migranti rinchiusi nel centro di detenzione di Tajoura di lasciare la struttura, colpita una settimana fa da un raid aereo che ha ucciso 53 persone e ne ha ferite oltre 130. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, in una nota diffusa da un portavoce, lo ha fatto sapere precisando che i 55 “profughi più vulnerabili, tra cui donne, bambini, famiglie e minori non accompagnati”, sono stati destinati al centro di assistenza dell’Acnur in vista del trasferimento fuori dalla Libia. Tuttavia, si legge nella nota, le altre persone nel centro cui è stato proposto di uscire dalla struttura per ricevere aiuto e sostegno “hanno impedito il trasferimento” dei migranti vulnerabili: “Chiedevano che tutti a Tajoura fossero evacuati in un terzo Paese sicuro”, e non solo i 55 indicati inizialmente. Molti migranti vengono segnalati in fuga tra i tuguri nei sobborghi della capitale, dove rischiano di venire deportati nelle prigioni dei trafficanti di uomini. Le fazioni non si danno tregua e ieri il presidente del fragile governo riconosciuto, al-Sarraj, ha minacciato la definitiva chiusura dell’unico aeroporto funzionante, quello di Mitiga, periodicamente bersagliato dall’artiglieria del nemico giurato, il generale Haftar. Proprio in uno dei campi battuti dai miliziani vicini all’uomo forte della Cirenaica, erano stati rinvenuti ad aprile armamenti di produzione Usa ma adoperati dalle forze francesi. Ieri Parigi ha ammesso che i quattro missili anti-carro del tipo “Javelin” trovati a Gharian, appartenevano alle sue forze, ma non ha voluto spiegare come siano finiti nelle mani degli uomini del generale. Un anno fa Haftar, gravemente ammalato, venne portato in Francia e curato in un ospedale militare fino al pieno ristabilimento. Circostanza che, insieme ai rapporti e agli interessi politici ed energetici, ha rafforzato il patto tra Parigi e il generale. E a scappare, sempre più spesso, sono i libici. Come la famiglia di 12 persone arrivata ieri a Lampedusa sotto gli occhi della Guardia di finanza. Valigie ricolme di effetti personali, ricordi fotografici, perfino un’anguria. Sull’imbarcazione di 7 metri avevano sistemato di tutto. Gli investigatori stanno cercando di capire chi sia esattamente l’uomo arrivato con due mogli, una terza donna e gli otto figli. E se soprattutto il gruppo, a tutti gli effetti profughi di guerra, abbia notizie di altri connazionali prossimi alla fuga via mare. Ma non c’è solo il fronte in mare. la battaglia politica viene combattuta con armi non convenzionali. Dalla foto segnaletica di Carola Rackete, scattata da un ignoto funzionario all’interno della caserma di Lampedusa ma fatta arrivare a un social network russo che l’ha poi messa in circolazione, fino ai sabotatori informatici che hanno preso d’assalto il sito di Mediterranea. La piattaforma Mediterranea ha denunciato che il suo sito web “ha subito innumerevoli attacchi informatici in prevalenza da server russi, cinesi e indiani, allo scopo di impedire le donazioni”. Ombre lontane che si allungano mentre in un “gruppo segreto” su Facebook, con circa 14mila iscritti e dedicato esclusivamente a militari della Guardia di finanza, decine di militari inneggiano alla violenza contro la “capitana”, auspicando un bagno di sangue durante le operazioni di salvataggio dei migranti, e invocando un colpo di stato. Il Comando generale ha immediatamente informato “la Procura perché avvii un’indagine tempestiva”. Gli autori degli “esecrabili commenti sono circa 80” e “una volta accertate le responsabilità, si procederà nei loro confronti con il massimo rigore”. Libia. Si conferma la soluzione Onu per i migranti detenuti di Francesco Bussoletti difesaesicurezza.com, 11 luglio 2019 In Libia si opta per la soluzione “Onu” in relazione ai migranti detenuti: evacuazione dai centri di Tripoli a gruppi. Tramonta l’ipotesi del Gna di Sarraj di rilasciarli tutti. Troppi i rischi per loro e vantaggi per Haftar. Confermata in Libia la soluzione Onu sui migranti detenuti nell’ovest. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ne ha evacuati circa 350 da Tajoura, attaccata dagli alleati di Khalifa Haftar il 2 luglio. Il gruppo è stato ricollocato in Niger presso un centro “sicuro” e “dignitoso”. In precedenza era avvenuto un provvedimento analogo a Gharyan, appena riconquistata dalle forze di Fayez Sarraj. Nei prossimi giorni potrebbero esserci ulteriori trasferimenti, sempre da centri siti a Tripoli verso paesi terzi. Tramonta così definitivamente l’ipotesi del GNA di rilasciare tutti i migranti prigionieri nelle strutture che si trovano nella prima linea del conflitto con l’LNA. Adottare un provvedimento simile avrebbe fornito al Generale un indebito vantaggio, senza contare che li avrebbe esposti ad alti rischi per la loro incolumità e sicurezza. Con questa soluzione, invece, si spostano piccoli gruppi in maniera coordinata e ordinata, lasciando invariati gli equilibri nella nazione africana. Imbarazzo per la Francia sui missili Javelin trovati a Gharyan. Parigi ammette che erano suoi, ma smentisce di averli ceduti all’LNA. Le dichiarazioni, però, aprono alcune domande Intanto, la Francia ammette che erano suoi i 4 missili anti-carro FGM-148 Javelin sequestrati dalle forze del GNA alle truppe di Haftar a Gharyan. Parigi, confermando di averli acquisiti dagli Usa, però, sottolinea di non averli mai consegnati al Generale, violando l’embargo ONU. Secondo il ministero della Difesa d’oltralpe erano in dotazione delle forze speciali per compiti di intelligence e anti-terrorismo ma, ormai inservibili, erano stati stoccati in un deposito in attesa della loro distruzione. L’LNA, infine li aveva trovati e presi “in consegna”. Nonostante la spiegazione, ci sono alcune domande che circolano nella comunità internazionale. Innanzitutto perché i commandos di Parigi, che tradizionalmente operano a Est in Libia, si trovavano invece a sud di Tripoli? Spiavano i movimenti delle forze di Sarraj? Inoltre, a cosa servivano i Javelin, che hanno massimo 3 chilometri di autonomia, in una città sita su un altopiano? Servivano a difenderla? La caduta-lampo delle truppe del Generale a Gharyan sostiene la tesi della Francia. Ma ce ne è anche una alternativa. Inoltre, i missili sono gli unici presenti in Libia o ce ne sono altri? A sostegno della tesi francese va detto che durante l’offensiva a sorpresa di Sarraj a Gharyan, i Javelin non sono stati usati. Lo conferma la velocità con cui le truppe di Haftar sono collassate. Ciò farebbe pensare che effettivamente gli ordigni non funzionassero. C’è però anche una tesi alternativa: che i soldati dell’LNA non sapessero usarli. Inoltre, c’è il capitolo dei lanciatori, trovati insieme agli ordigni. Anche questi erano fuori uso? Infine, Il materiale ritrovato è l’unico presente in Libia o ce ne è dell’altro? In questo caso da dove proviene e a chi è stato consegnato? Altri partner internazionali del Generale, infatti, hanno acquisito negli anni gli stessi sistemi. Sul caso sono state aperte alcune indagini, anche con la collaborazione di Tripoli, da cui potrebbero emergere presto ulteriori elementi. Bosnia. Srebrenica, 24 anni fa il genocidio più veloce della storia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 luglio 2019 In meno di una settimana, a partire dall’11 luglio 1995, nel cuore dell’Europa vennero uccise oltre 10.000 persone: musulmani bosniaci, per lo più maschi ritenuti in età da combattimento, civili in ogni caso, cittadini di Srebrenica o lì riparati perché la città era stata dichiarata dalle Nazioni Unite “zona protetta”. Un genocidio, per di più in una “zona protetta”, compiuto da una “impresa criminale” (nelle parole di una sentenza) composta da soldataglia, miliziani e criminali comuni serbo-bosniaci, aiutati da un po’ di mercenari dell’estrema destra europea. Srebrenica era un’anomalia: un’enclave a maggioranza musulmana in quella parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata” a colpi di massacri e trasferimenti forzati di popolazioni a partire dal 1992. Per far aderire sul campo i confini della “nuova” Bosnia disegnati sulle mappe dei “negoziatori” e che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Un genocidio come merce di scambio. A distanza di 24 anni, le donne di Srebrenica continuano a piangere i loro morti, a seppellirne sempre meno resti (quest’anno, solo 33). Mancano all’appello oltre 2000 scomparsi. Dopo la sepoltura individuale n. 9999 ci si fermerà. Il decimillesimo resto varrà per tutti gli altri che ancora mancheranno. I sopravvissuti, come Hasan Hasanovic, rivivono quotidianamente quella settimana di quasi un quarto di secolo fa. La giustizia internazionale ha chiuso i suoi lavori con le condanne all’ergastolo di Ratko Mladic e Radovan Karadzic, rispettivamente capo militare e leader politico dei serbi di Bosnia. L’Europa tace e il fronte filo-serbo guidato dalla Russia fa opera di negazionismo. A Sarajevo, i governi di Turchia e Arabia Saudita cercano di radicalizzare un Islam storicamente del tutto pacifico e tollerante. Dopo 24 anni non esiste una memoria di Srebrenica che sia, se non condivisa, almeno rispettata. Sin da piccoli, la storia jugoslava e poi ex jugoslava degli anni Novanta si studia su manuali che, a seconda delle convenienze nazionalistiche, esaltano i gesti e cancellano le sofferenze, occultano le proprie vergogne ed evidenziano quelle altrui. Tra ciò che non è stato ancora sepolto c’è sicuramente l’odio. Iraq. Oltre cinquantamila carcerati, molti non ci dovrebbero stare di Maddalena Ingrao agcnews.eu, 11 luglio 2019 All’ordine del giorno della politica irachena, nella sfera social media, è tornata nuovamente la corruzione. Secondo un gruppo di deputati, il Primo Ministro e il Parlamento sono responsabili della corruzione all’interno del ministero della Salute, il più grande caso di corruzione negli organi statali; inoltre il comitato di pianificazione parlamentare ha accusato il ministro delle Finanze Fuad Hussein di aver falsificato i dati di bilancio dell’economia irachena. Ad esempio, nella provincia di Karbala, alcune fonti social confermano la presenza di circa 7 mila malati di cancro che soffrono a causa della scarsità di medicine, causata proprio dalla corruzione nel sistema sanitario del paese. Torna a far discutere la denuncia delle organizzazioni umanitarie sul sovraffollamento delle carceri. Secondo l’Alta Commissione per i diritti umani vi sarebbero 55mila prigionieri in Iraq. Per tale ragione la commissione ha avanzato delle proposte per alleggerire l’eccessivo affollamento nelle prigioni irachene, quali l’adozione di braccialetti elettronici e il pagamento dell’indennità per il rilascio di una certa classe di prigionieri. Fonti social locali hanno rivelato inoltre la presenza di almeno 800 donne con i loro figli, accusate di terrorismo e condannate a morte o all’ergastolo. Il sovraffollamento nelle prigioni, soprattutto nella provincia di Ninive, sarebbe stato causato dalla somiglianza dei nomi e la presenza nella popolazione carceraria del governatorato di 70000 sembra a molti una esagerazione. Proseguono poi nel paese gli incendi: un incendio è divampato ad Al Zab nel Kirkuk, un altro nella base aerea di Spyker a nord di Tikrit, mentre un terzo incendio ha distrutto diversi negozi ad Al-Watan street a Bassora. La Protezione Civile ha annunciato di aver domato tre incendi in parti diverse di Baghdad. A complicare le cose ci si è messo anche un evento sismico: un terremoto di magnitudo 5.7 della scala Richter ha colpito Bassora, Misan e Sharq al-Ahwaz. Fonti social locali hanno confermato il verificarsi di scosse di assestamento vicino ai confini di Bassora. Ulteriore conferma ufficiale è venuta da parte dell’Autorità generale per la meteorologia e il monitoraggio sismico in Iraq, che ha registrato 29 scosse di assestamento tra l’8 e il 9 luglio nella provincia di Bassora. Afghanistan. Più guerra per la pace, un pericolo la strategia talebana di Franco Venturini Corriere della Sera, 11 luglio 2019 La guerriglia fondamentalista colpisce come e più di prima in ogni angolo del Paese, fa strage con le autobombe, dimostra di poter agire anche nelle zone più blindate di Kabul. Fate l’amore non fate la guerra, gridavano cinquant’anni fa i ragazzi di Woodstock per celebrare gli hippie e dimenticare il Vietnam. Mezzo secolo dopo gli americani sono di nuovo in guerra, la più lunga della loro storia. E nel lontano Afghanistan scoprono che il dogma di quella favolosa festa del 1969 è stato aggiornato a suon di bombe dai guerriglieri talebani: fate la guerra se volete la pace. La pace Trump la vuole, eccome. Se possibile prima delle elezioni afghane di settembre, di sicuro in tempo per riportare a casa i boys prima delle elezioni per la Casa Bianca del novembre 2020. Per questo l’inviato di Washington tratta con i guerriglieri in Qatar, si mostra ottimista e prevede un imminente e “positivo” annuncio. Ma il problema è che anche i talebani hanno capito la fretta Usa. E allora colpiscono come e più di prima in ogni angolo del Paese, fanno strage con le autobombe, dimostrano di poter agire anche nelle zone più blindate di Kabul. Dobbiamo mostrarci forti per trovare un accordo, dicono, altrimenti l’America non accetterà di fare concessioni e addio pace. Sarà, ma a noi pare più convincente la vecchia formula di Woodstock. In Qatar ha preso forma uno scambio: gli americani si impegno a ritirarsi, e i talebani si impegnano ad impedire che l’Afghanistan possa ridiventare base di lancio di azioni terroristiche contro gli Usa, come avvenne nel 2001 per le Torri Gemelle. Ma il valore delle due promesse sarebbe davvero equivalente? Che fine farebbero le forze armate afghane che oggi appoggiano il presidente Ghani, alleato dell’Occidente e disprezzato dai talebani ? Non scoppierà una nuova guerra civile? E la società, e le donne che tra il 1996 e il 2001 i talebani ridussero in semi-schiavitù islamica ben al di là del celebre burqa? Molti, forse troppi dubbi restano sul modo e sul calendario Usa, non sulla opportunità di chiudere con le dovute garanzie una guerra che non sarà mai vinta. E in Afghanistan siamo anche noi italiani con 800 militari e 54 morti alle spalle, ricordiamolo. In attesa di notizie sulle intenzioni di Trump.