Dalle nostre prigioni non impariamo niente di Luigi Manconi e Valentina Calderone La Repubblica, 10 luglio 2019 Sovraffollamento, dispositivi disumani e soprattutto l’assenza di un pensiero che riguardi la condizione dei detenuti. Una serie di saggi, a cominciare dal classico di Emmy Hennings, mettono a fuoco il fallimento dell’idea di rieducazione. Il sovraffollamento delle carceri italiane, dopo qualche anno di relativo sollievo, ha ripreso a crescere irresistibilmente. Rispetto alla capienza regolamentare di 50.700 unità, che comprende migliaia di posti disponibili solo sulla carta, si trovano reclusi 60.500 individui. Una condizione di promiscuità coatta che mortifica la dignità della persona all’interno di una macchina soffocante. Questo immane peso del carcere sul corpo inerme del carcerato è immediatamente percepibile: così come si avverte, quasi fisicamente, una sensazione di nudità davanti agli occhi dei custodi. È una delle molte emozioni che sollecita la lettura di Prigione di Emmy Hennings, edito in Germania nel 1919 e pubblicato in Italia solo quest’anno da L’Orma Editore. E, in effetti, l’idea del carcere si fonda su una irriducibile ambivalenza dello sguardo di chi lo osserva e su un conflitto insanabile tra il Vedere e il Non vedere. Nella lingua greca, optikon rimanda a tutto ciò che riguarda l’esperienza visiva. Di conseguenza, il panottico è una tipologia di costruzione destinata a prigione, di forma circolare, che permette a chi sorveglia, collocato al centro, di controllare l’interno delle celle, tutte disposte lungo il perimetro dell’edificio. Il dispositivo, elaborato nella Seconda metà del Diciottesimo secolo dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, aveva una duplice ambizione: osservare tutti i reclusi senza che gli osservati ne venissero a conoscenza, realizzando un luogo di privazione della libertà dove il ricorso a mezzi di repressione fisica viene accompagnato da penetranti strumenti di interferenza nella sfera personale. Allo stesso tempo, il panottico alludeva a una sorta di modello sociale: una distopia claustrofobica che intendeva sostituire al dispotismo della violenza di Stato i mezzi di una società dove dominerebbe un controllo invisibile e onnipervasivo. Questo possibile esito illumina anche il tragico paradosso di un grande pensatore liberale, come Bentham, che dedicò la propria vita alle battaglie per un riformismo radicale e libertario, ma che rimase come imprigionato dalla tentazione dell’ingegneria sociale. In ogni caso, la forma architettonica del panottico, offre una rappresentazione quanto mai puntuale della nostra concezione del sistema dell’esecuzione penale: la necessità di Vedere e controllare il male che aggredisce la convivenza sociale è costantemente insidiata dalla volontà di Non vedere perché ciò che l’occhio scorge può rappresentare un trauma. Se, da una parte, al fine di “sorvegliare e punire” si deve sviluppare al massimo la capacità di indagare negli spazi, anche i più intimi, del recluso, dall’altra, la rimozione rappresenta la sola strategia per difendersi dall’orrore che il carcere contiene, riproduce e proietta sulla società dei non carcerati. Il punto di partenza resta quello: la materialità della coazione fisica dei corpi contenuti in spazi angusti e opprimenti. Non a caso “ristretto” è un’altra delle definizioni di detenuto (e “Ristretti Orizzonti” è il nome dell’associazione che, come il Partito Radicale, Antigone e L’altro diritto, si batte per la loro tutela). Sandro Bonvissuto nel suo bellissimo Dentro del 2012 (Einaudi) ha raccontato la sensazione fisico-tattile di questa contraddizione tra la continua pressione di un’osservazione indagatrice, che arriva a “vedere” fin i bisogni fisiologici del detenuto, (liquidi, secrezioni, umori, eiezioni, sudori…), e il ritrovarsi invisibile, non guardato e non sentito, dalla comunità dalla quale la detenzione separa irreparabilmente. Emmy Hennings, fondatrice insieme a Hugo Ball del Cabaret Voltaire, attivo tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento del nazismo in Europa, viene arrestata per furto nel 1914. È l’occasione per raccontare il suo viaggio intimo (intimo: e qui sta la sua originalità) nelle paure e nelle angosce, nelle regole e nelle interdizioni, nell’irrazionale e nel paradosso della reclusione. Le domande che Hennings pone meriterebbero, ognuna, un approfondimento, ma sono i dettagli e gli aspetti in apparenza più banali a rivelare tutta la potenza del suo pensiero e della sua scrittura. Si avverte il suo stupore, come di bimba che guardi per la prima volta il mondo reale a bocca spalancata, quando osserva la mancanza di profondità, superficie, prospettiva degli ambienti del carcere. Non potrò mai perdonare le mani impietose che consapevolmente hanno costruito queste mura, scrive. Ed è proprio l’architettura del carcere, questo passaggio repentino dalla luce al buio e al freddo a non poter essere casuale. “Voi come l’avete pensata la prigione? E come vorreste la vedessi io? Non sono stata informata delle vostre intenzioni”. Ecco, ancora, la dimensione fisica della struttura carceraria e della sua massiccia immanenza, ovvero il carcere come materia costruita, come peso del cemento e della pietra, del ferro e dell’acciaio, che deprime umore e pensiero. E che grava soffocante su chi vi sconta una pena e su chi vi esercita una professione. È quanto si trova in un altro libro, uscito di recente, quello di Francesco Ceraudo, “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi”, (edizioni ETS). Leggendolo, a cento anni esatti dalle parole della Hennings, sembrerebbe proprio che il legislatore e l’ingegnere e l’architetto non abbiano tratto il benché minimo insegnamento da una lunghissima storia di sofferenze e di violazioni dei diritti fondamentali della persona: e ciò nonostante gli studi pioneristici di Giovanni Michelucci e quelli recenti di Luca Zevi. Un vero manuale di vita penitenziaria quello di Ceraudo, che propone una tesi tanto radicale quanto inconfutabile: il carcere è un luogo che ammala più spesso di quanto guarisca. L’intreccio tra salute e detenzione è strettissimo. Basti considerare il lungo percorso richiesto affinché i malati di Aids non concludessero la propria vita in carcere: dopo un primo positivo provvedimento, un tragico fatto di cronaca portò ad annullare la norma. Ci vollero molti anni e numerosi pazienti terminali condannati a morire in cella, per ripristinare quella elementare conquista di civiltà. Si conferma così, che oggi come ieri, ogni piccolo progresso può aprire la strada, allo stesso tempo, a una profonda regressione, l’elaborazione e l’impegno riformatore di anni rischiano costantemente di essere annullati da un singolo allarme sociale, dall’ingordigia dei media, dalla pavidità della classe politica. Allora diventa tanto più importante ricordare la determinazione di quegli operatori che, come Ceraudo, vivono quell’atroce esperienza da uomini liberi, sporcandosi le mani tra sangue asciugato, lembi di carne ricuciti, oggetti recuperati da stomaci tormentati, vite salvate e altre per le quali non si è arrivati in tempo. Durante la sua reclusione, la Hennings era incalzata da un dubbio: “Chi, tra le donne e gli uomini liberi pensa ai detenuti?”. Forse si può arrivare a dire che intorno al carcere non circoli alcun pensiero, se non così terribilmente minoritario da risultare flebile. Le responsabilità sono tante e di tanti, ma prevale la sensazione di una irriducibile ottusità del carcere come istituzione e come parte del sistema statuale. Il fatto, cioè, di non saper immaginare alternative a se stesso e all’abisso mentale e morale della cella chiusa (e della chiave “buttata via”). Giada Ceri, nel suo “La giusta quantità di dolore” (Exòrma, 2018) ci parla dell’assoluta incapacità del carcere di perseguire qualunque interesse pubblico, tanto meno il fine affermato dalla Costituzione (“tendere alla rieducazione del condannato”). Insomma il solo “pensiero” pensato dal carcere sembra essere la propria stessa perpetuazione e riproduzione. Forse il carcere è davvero ottuso. Oppure, il sistema penitenziario, ripensandosi, prova per sé un sentimento di vergogna, al quale, come sempre accade in questi casi, si tenta di sfuggire con l’occultamento, il nascondimento, la rimozione. Strategie dell’occhio e dell’anima. *Valentina Calderone è la direttrice dell’associazione “A buon diritto” “Bombarderemo gli italiani con i dati sulla tragedia dei detenuti” di Errico Novi Il Dubbio, 10 luglio 2019 “Ora anche noi garantisti lotteremo a colpi di slogan”, dice il Presidente dell’Ucpi Caiazza al convegno di Napoli con magistrati, giuristi e componenti degli “Stati generali”. Glauco Giostra personifica una grandezza e una delusione. La grandezza degli “Stati generali dell’esecuzione penale”, di cui è stato coordinatore, e la delusione per il nulla di fatto che ne è venuto. Così, la sua relazione all’evento nazionale dell’Ucpi sul carcere risente di un meditato pessimismo. “Dobbiamo procedere di bolina: sui diritti, e in particolare su un’idea di pena rispettosa della Costituzione, il vento non è favorevole”, ricorda. È molto applaudito, dagli avvocati accorsi all’auditorium del Palazzo di giustizia napoletano, che l’Unione Camere penali presieduta da Gian Domenico Caiazza ha scelto come luogo clou della propria astensione nazionale. Il titolo della manifestazione racchiude quella “frustrazione”, come la definisce affettuosamente Caiazza, del professor Giostra: “Emergenza carcere: riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale”. Finora si è mancato l’obiettivo. “Aver lasciato incompiute le proposte degli Stati generali è stato un atto di inaudita irresponsabilità politica”, dice il presidente dell’Ucpi, con riferimento sia all’attuale che al precedente governo. Ma la realtà va guardata in faccia. E ha i connotati di una “faglia culturale”, dice Giostra: “Da una parte la minoranza, la nostra, che vuole le garanzie, l’inclusione, i limiti al potere, ossia lo Stato di diritto, dall’altra la maggioranza che sceglie l’autocrazia, il populismo”. Si tratta, secondo il professore della Sapienza, di una “democrazia emotiva”. Il punto è che “bisogna accettarlo e cambiare il registro della nostra narrazione”. Come? “Anche noi che vogliamo affermare la legalità costituzionale nell’esecuzione della pena dobbiamo farlo in nome della sicurezza sociale. Dobbiamo ricordare che le misure alternative riducono la recidiva”, incalza Giostra, “ed enfatizzare il reato commesso da chi ha scontato la pena in cella fino all’ultimo giorno. La slogancrazia”, è la sfida del coordinatore degli Stati generali, “va combattuta con gli stessi mezzi: foto, Facebook, spot. Tutto, meno i discorsi da universitari che si rivolgono a chi è già convinto”. Nella strategia dei “garantisti”, in fondo, non è una rivoluzione. Proprio Caiazza ne aveva fatto un architrave al congresso delle Camere penali che lo ha eletto a ottobre. Non esita ad approfittare dell’assist di Giostra: “Dobbiamo bombardare l’opinione pubblica di informazioni su cosa avviene in carcere”. Il presidente dell’Ucpi cita anche la dirigente radicale Rita Bernardini, intervenuta un attimo prima: “Il buonismo non c’entra, dobbiamo far capire che l’obiettivo è abbattere la recidiva”, appunto. “Emergenza carcere” d’altra parte non è uno slogan. Caiazza ricorda: “Siamo all’ultimo tratto di una tragedia annunciata”, quella del sovraffollamento, attestato ormai oltre la soglia dei 60mila reclusi, quasi 15mila in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. “Tra poco sarà il principio di realtà a dare le carte, con l’ingigantirsi del disastro”, assicura il leader dei penalisti, “e noi non arretreremo di un passo. Anche perché l’attenzione dei media per l’attività dell’Ucpi dimostra il valore della nostra battaglia”. Oltretutto, come spiega proprio Bernardini, “bisogna smetterla di dare per scontato che, tanto, le persone non capiscono le cose... Cominciamo a spiegare che grazie ai tagli lineari della legge Madia, per esempio, gli educatori in carcere sono scesi da quota 1.376, ed erano già pochi, agli attuali effettivi 804. I misfatti vanno conosciuti”, insiste la dirigente del Partito radicale, “la nostra democrazia si degrada perché il diritto alla conoscenza è negato”. Un modo paradossale di essere ottimisti? Forse. Come quello interpretato da Riccardo Polidoro, che nell’Unione Camere penali guida l’osservatorio Carcere: “Negli ultimi giorni abbiamo contano almeno una decina di rivolte negli istituti: è un segnale importante, l’esasperazione spinge a gesti che hanno un prezzo alto in termini di trasferimenti e di liberazioni anticipate perdute”. Napoli, scelta non a caso per la manifestazione di ieri, con Poggioreale è forse l’epicentro di questa tensione. Ma le verità si possono raccontare anche con la pacatezza di Mauro Palma, presidente dell’Autorità garante dei detenuti, a sua volta applauditissimo: “Tra gli oltre 60mila reclusi attuali ce ne sono 5mila che scontano una pena, non un residuo, inferiore ai 2 anni: mancano interventi per evitare che si arrivi al carcere”. Aggiunge il Garante: “Oggi ci si concentra solo sul prima del detenuto, sul reato che ha commesso, e invece bisognerebbe focalizzarsi sul dopo”. Semplice. Ma il punto è trasferire il messaggio all’opinione pubblica. Ci si riesce con la “slogancrazia” rovesciata da Giostra. Combinata con l’esortazione di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti: “Ciascuno di noi, da solo, non può fare molto. Dobbiamo unire le forze, se vogliamo farci sentire”. Sui social battuti dai giustizialisti ma non solo su quelli, evidentemente. Il procuratore di Napoli Melillo: colpevole chi mostra indifferenza per i reclusi di Valentina Stella Il Dubbio, 10 luglio 2019 “Chi non ascolta le voci di chi è in carcere si macchia di gravi responsabilità”. È una affermazione forte, quella pronunciata ieri dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo all’evento voluto dall’Ucpi nel giorno dell’astensione per “l’emergenza carcere”. Chi si gira all’altra parte è dunque corresponsabile della deriva. La buona condotta richiede invece attenzione: “In occasione della rivolta a Poggioreale, due magistrati del mio ufficio”, ha aggiunto Melillo, “si sono recati ad ascoltare le ragioni esposte civilmente da due detenuti. La legalità non si arresta di fronte al cancello di un penitenziario. Chi in Procura lavora sul carcere incontra le Camere penali, il garante nazionale, e costruisce con loro azioni concrete”. Da qui il plauso all’iniziativa: “Ringrazio i penalisti napoletani e l’Ucpi per l’impegno sul tema e per aver organizzato l’evento. Ma credo anche che la magistratura debba assumere un più chiaro ruolo da protagonista nella tutela dei diritti all’interno del circuito penitenziario”. Il presidente della Camera penale di Napoli Ermanno Carnevale considera questi “riconoscimenti rivolti all’avvocatura napoletana dai vertici dei nostri uffici giudiziari” la naturale conseguenza “di una duplice condivisione: sui valori di fondo e sul piano organizzativo. La nostra Camera penale non manca mai di rendersi disponibile anche da questo secondo punto di vista”. La stessa sintonia tra le parti è stata sottolineata da Giuseppe De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli: “In un contesto in cui assistiamo pericolosamente a una deriva carcerocentrica, la tutela dei diritti deve unire magistrati e avvocati. È l’assetto costituzionale della giustizia che va difeso. Se fallisce il carcere fallisce tutto il sistema penale”, ricorda De Carolis. E di fallimento strutturale del sistema carcerario ha parlato Maria Luisa Palma, direttrice della casa circondariale di Poggioreale: “Il sovraffollamento è frutto di scelte politiche criminali. Noi ospitiamo 2.400 detenuti. Il numero regolamentare lo abbiamo potuto registrare solo nel mese successivo all’indulto. Per riportare l’esecuzione penale nella legalità non bastano i direttori delle carceri, gli agenti, gli educatori: devono essere la politica e la società civile a cambiare le cose”. Luigi Riello, procuratore generale di Napoli, spiega che la soluzione va cercata in particolare attraverso un equilibrio finora sfuggito: “Assistiamo spesso a un pendolarismo tra impulsi forcaioli e ipergarantisti. Invece il sistema dell’esecuzione va rivoluzionato nel codice penale, affinché la pena non equivalga solo alla reclusione ma anche a sanzioni alternative al carcere, che siamo allo stesso modo persuasive”. “L’aumento delle pene peserà anche sulle forze di polizia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2019 Le critiche del segretario Silp-Cgil al Decreto sicurezza bis. “L’aumento delle pene creeranno problemi al mondo carcerario e indirettamente peserà anche alla forze di polizia”. È il parere del Sindacato Italiano Lavoratori di Polizia (Silp) della Cgil espressa durante l’intervento al Parlamento del segretario generale Daniele Tissone. È stato ascoltato per un parere sul decreto sicurezza bis come prevede la procedura dalle Commissioni riunite degli affari costituzionali e Giustizia della Camera. Tissone non è stato tenero e ha affrontato molti temi e in particolare il moltiplicarsi di sanzioni e “costruzioni giuridiche che hanno come presupposto l’insicurezza, percepita e veicolata, in gran parte, da campagne propagandistiche che instillano le paure, mentre tutte le rilevazioni e i dati oggettivi indicano i vari fenomeni criminali in diminuzione o comunque, non rispondenti all’allarme sociale suscitato”. Il segretario del Silp ha stigmatizzato intanto la scelta del decreto come strumento scorciatoia: “Con amarezza assistiamo a una falsa quanto sfuggente rappresentazione della realtà in cui, invocando motivazioni di necessità e urgenza inesistenti, al Parlamento viene impedito di affrontare tematiche delicate attraverso la dialettica democratica del procedimento legislativo”. Secondo Tissone “Il proliferare di nuovi istituti sanzionatori e la dilatazione smisurata di quelli esistenti, comporta un indubbio aggravio di adempimenti per le Forze di Polizia, notoriamente gravate da carenze di organici che si sommano alla problematica dell’età anagrafica avanzata”. È entrato anche nel dettaglio del decreto e in particolare l’introduzione dell’articolo 4 che introduce lo strumento investigativo delle operazioni sotto copertura per le attività di contrasto del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “con le criticità, già evidenziate in occasione di altro testo altisonante, espressione del diritto penale emergenziale, lo “Spazza corrotti” (legge n. 3/ 2019), con rischio di snaturamento dell’operatore di polizia in agente provocatore, comportante l’eventualità di incorrere in condotte penalmente rilevanti in danno del medesimo operatore”. Il sindacalista della polizia quindi pone l’accento all’aumento delle fattispecie penali e l’aggravamento delle pene, “che contrastano con il principio che il ricorso alla sanzione penale, che oltre ad essere adeguata e proporzionata al caso concreto, deve costituire l’estrema ratio e comunque risultano in controtendenza con la ricerca del diritto penale minimo”. Ed ecco che ha sottolineato come tutto ciò, inevitabilmente, si “abbatterà sul “Pianeta Giustizia”, già gravato da un ingente numero di procedimenti e processi pendenti, che cresceranno per l’effetto domino dell’aumento delle pene e del blocco della prescrizione, nonché a seguire, sul mondo carcerario, ove sono ben note le carenze di spazi e le difficoltà vissute dai magistrati di sorveglianza e dagli operatori penitenziari”. Ha quindi sottolineato, sempre durante l’audizione in parlamento, che le eventuali misure alternative al regime carcerario “sposterebbe l’onere sulle Forze di Polizia e sui Servizi Sociali”. Tissone ha inoltre evidenziato che si assiste a una escalation della criminalizzazione delle condotte che è iniziata “dall’immigrazione, dalle frontiere, ed è giunta alle riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero nelle piazze cuore del paese e luoghi dove i cittadini esprimono opinioni”. Tutto ciò, sempre secondo il sindacato della polizia, “inasprisce la contrapposizione tra i cittadini dissenzienti, che vengono etichettati come nemici, e chi è deputato a far rispettare la legalità quindi a contemperare la difesa dei diritti di tutti, viene visto, a sua volta, come il nemico dei nemici”. Il timore espresso dal segretario Tissone è che tutto ciò potrebbe far apparire le forze dell’ordine come un braccio armato e violento dell’esecutivo del momento. “Il SILP, che si riconosce nel processo di cambiamento ed evoluzione della Polizia di Stato, avviato con la riforma attuata con la L. 121/81, che ha portato alla smilitarizzazione, si oppone a questo snaturamento della funzione democratica di tutela di tutte le persone e della civile convivenza, bene supremo per uno Stato ed il suo popolo nella più ampia accezione”, ha concluso il segretario generale del sindacato. “Carceri aperte” per garantire un legame tra i detenuti e i figli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2019 Decima edizione dell’iniziativa europea promossa da “Bambinisenzasbarre” con il Dap. Come ogni anno, dal mese di giugno, è in corso la campagna “carceri aperte”. Una iniziativa europea, quest’anno giunta alla decima edizione, promossa dall’associazione “Bambinisenzasbarre” in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Continua ancora adesso, tanto che all’associazione giungono tuttora le testimonianze da parte di numerosi istituti penitenziari. Ad esempio c’è il carcere sardo di Uta, che ha ottenuto un bel risultato attraverso il laboratorio creativo a cui hanno partecipato i bambini con i loro papà detenuti. Oppure c’è il carcere calabrese di Catanzaro, dove la direttrice Angela Paravati ha dice: “In primo luogo i bambini che hanno i genitori in carcere non hanno alcuna colpa eppure pagano una perdita inevitabile in termini di affetto e vicinanza in un’età in cui è più che mai importante la presenza quotidiana del genitore; in secondo luogo i figli sono il miglior motivo che può avere una persona che ha sbagliato per tornare ad essere una persona per bene. Avere un affetto “fuori” è uno stimolo continuo per i detenuti a studiare e a migliorarsi”. Ancora c’è il carcere romagnolo di Ravenna, dove è stata organizzata una festa assieme ai bambini, figli di detenuti, con tanto di gazebo e una piccola piscina. La campagna è attiva, negli istituti penitenziari, con eventi di sensibilizzazione al tema delle relazioni figli- genitori (conversazioni, mostre, rappresentazioni, feste, ecc.), dove “l’incontro” è lo strumento fondamentale per conoscere, capire, approfondire e acquisire consapevolezza. Obiettivo della campagna è focalizzare l’attenzione sul tema dei figli dei detenuti in Italia e in Europa, partendo dalle Convenzioni dell’Onu e dell’Ue, che sanciscono il diritto di ogni bambino a mantenere un legame continuativo con i propri genitori, anche se detenuti, perché tale legame è la base della crescita di ogni bambino. “Carceri aperte” si inscrive all’interno della campagna europea “Non un mio crimine, ma una mia condanna” (“Not my crime still my sentence”), promossa da Cope (Children of Prisoners Europe), un network di organizzazioni europee. Una “condanna” che vuol dire spesso emarginazione, angoscia, stigmatizzazione, da parte della società nei confronti dei bambini figli di detenuti (oltre centomila ogni anno in Italia e oltre 2,1 milioni nell’Europa dei 47 Paesi del Consiglio d’Europa). Sono 21 le organizzazioni che fanno parte della rete europea Cope: “Bambinisenzasbarre” è il rappresentante dell’Italia e fa parte anche del Board of Directors. A queste organizzazioni si aggiungono 20 “individual members”, 6 “applicant members” e 50 “affiliati” per un totale di quasi 100 soggetti. Fra gli obiettivi fondamentali della campagna la diffusione delle linee guida della “Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti”, creata (unica in Europa), firmata e rinnovata (già tre volte) da “Bambinisenzasbarre”, dal ministero di Giustizia e del Garante per l’infanzia e l’adolescenza. L’Associazione “Bambinisenzasbarre Onlus”, ricordiamo, è impegnata da oltre 15 anni per il mantenimento della relazione figlio genitore detenuto. È attiva in rete sul territorio nazionale con il modello di accoglienza Sistema Spazio Giallo e Campagne nazionali di informazione. Il modello di accoglienza rappresenta il punto di partenza per sviluppare un intervento organico di sostegno ai bambini e alle famiglie che entrano in carcere per incontrare il papà o la mamma, una pratica che sensibilizza la polizia penitenziaria, ogni giorno impegnata a ricevere i bambini che accedono in carcere riconoscendone i bisogni. A lezione di Costituzione in carcere di Valentina Stella left.it, 10 luglio 2019 Sette giudici della Corte Costituzionale (Lattanzi, Cartabia, Amato, Coraggio, De Pretis, Sciarra, Viganò) hanno incontrato i detenuti di sette istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile, il carcere minorile di Nisida. Per la prima volta da quando è entrata in funzione nel 1956, la sentinella che vigila sulle mura della Costituzione ha deciso di entrare in carcere. “La Corte ha avvertito l’esigenza di uscire dal Palazzo della Consulta, di conoscere e allo stesso tempo di farsi conoscere, di incontrare persone e di mettersi in discussione”, spiega il presidente Lattanzi nel docu-film “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media per la regia di Fabio Cavalli e trasmesso il 9 giugno su Rai Uno - pochi giorni prima era stato presentato in anteprima a Roma alla presenza del presidente Sergio Mattarella. Con questo docu-film il desiderio di saperne di più e il coraggio di dubitare delle proprie credenze in merito al carcere vengono trasferiti allo spettatore. Infatti, il carcere come non lo conosciamo è quel luogo nascosto da alte mura dove a fronte di una capienza regolamentare di 50.528 posti sono recluse 60.472 persone, dove nel 2018 si sono suicidati 64 detenuti, con una età media di 37 anni, e di cui 22 non condannati in via definitiva. È quel purgatorio giuridico dove in questo momento circa 10mila cittadini sono ancora in attesa del primo giudizio. Dietro a questi numeri, ci sono esseri umani, innocenti e colpevoli. Ma le loro storie di errori e riscatti sono in un cono d’ombra. Grazie a questo docu-film è stata data loro luce attraverso il singolare dialogo con i giudici delle leggi, che hanno toccato con mano una realtà che fino ad ora avevano interpretato solo attraverso la Carta costituzionale. “Non è un film sul carcere - ci spiega il regista Fabio Cavalli - ma una grande occasione di scoprire il valore della Costituzione”. Fabio Cavalli è attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario. Nel 2012 è stato l’autore della sceneggiatura di Cesare deve morire dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Orso d’oro alla 62esima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, candidato italiano agli Oscar 2012). Fondatore del Teatro libero di Rebibbia, dal 2003 ha realizzato una ventina di spettacoli con i detenuti-attori. Fabio Cavalli, cosa rappresenta questo docu-film? Una grande occasione per scoprire il valore della Costituzione, l’idea della forza positiva dello Stato democratico. Quello che il viaggio mi ha lasciato è la comprensione profonda, concreta, della Carta e di come essa incida sulle nostre vite: noi purtroppo, spesso, non apprezziamo quest’aspetto della legge fondamentale della Repubblica, che abbiamo ereditato dalle donne e dagli uomini dell’assemblea costituente. Questo intreccio fra carta e vita mi si è disvelato proprio accompagnando con le macchine da presa i giudici nelle prigioni. Lei ha conosciuto il mondo del carcere oltre venti anni fa, come regista. Come sintetizzerebbe il sentimento che si prova quando si varcano i cancelli? Ogni anno tengo un corso all’Università Roma Tre, dal titolo “Etica ed estetica del teatro in carcere”, e porto decine di studenti a fare tirocinio sul palcoscenico di Rebibbia, assieme ai detenuti-attori della mia compagnia. Pochi giorni fa, nella sua relazione finale, un’allieva ha scritto una frase che mi ha davvero sorpreso. La cito per intero: “Vi è una linea sottilissima che intercorre tra amore ed odio o tra questo ed umanità, e se per umanità intendiamo un sentimento il cui obiettivo è il benessere dell’altro, allora non c’è luogo più umano di un carcere e di chi per esso opera”. Questa ragazza di vent’anni ha riassunto magistralmente il sentimento che si prova entrando in contatto col carcere e con tutte le sue dolorose contraddizioni: la prevalenza dell’umano, la sua infinita ricchezza. Ciò che lei ha mostrato in questo docu-film... Ho provato a fare un film che raccontasse quello che ho visto: incontri di umanità, storie forti. Voglio sottolineare che questo non è un film sul carcere, ma un film sull’incontro tra due mondi, tra uno dei più bei palazzi d’Italia - quello della Consulta - e i luoghi più infimi della società, le celle di un carcere. È un film sulla necessità di incontrarsi, di conoscersi come appartenenti alla stessa società e coperti dallo stesso ombrello che si chiama Costituzione. Il carcere, il luogo in cui lo Stato esercita tutta la sua forza, ha entrambi i volti: il furore e la bellezza, “l’odio e l’umanità”. Ho voluto che l’umanità prendesse la forma bonaria di un vero e proprio Caronte, che accompagna i giudici e gli spettatori in questo viaggio quasi iniziatico verso l’abisso. È Sandro Pepe, agente di Polizia, di carnagione nera, nato in Africa, 140 kg di stazza, fermo e umano, come sempre dovrebbe essere il rappresentante di uno Stato democratico. Avete avuto massima libertà per le riprese? In uno Stato democratico, l’amministrazione penitenziaria autorizza a riprendere quasi ogni angolo dell’oscurità penitenziaria. Così è stato. Ho potuto filmare con la più ampia libertà, e nulla è stato nascosto agli occhi dei giudici della Corte. Come si colloca questa opera in un contesto dove uno degli slogan preferiti di qualche politico e di molte persone è “marcire in galera”? Mi occupo di carcere e arte da venti anni e non ho notato grandi cambiamenti nel sentimento di fondo dell’opinione pubblica verso la questione penitenziaria. La popolazione non ne vuol sentir parlare, crede che occorra buttare la chiave e disinteressarsi dei criminali. Cambiano ministri e governi ma la visione popolare rispetto alla devianza, quella è stata e quella rimane, per mancanza totale di autentica informazione. Questo aspetto mi preoccupa fino ad un certo punto, perché si può comunque tentare ogni giorno di attuare l’articolo 27 della Costituzione, nonostante il pregiudizio: il compito del carcere è quello di risocializzare il condannato, e non di perseguitarlo. Ci può raccontare il suo incontro con il mondo penitenziario? Inizia molto tempo fa come spettatore di Armando Punzo nel carcere di Volterra, nel 1999. Ho incontrato quella realtà che poi è diventata parte di me quando per caso un amico mi ha chiesto di entrare a Rebibbia in un nuovo complesso dove un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza aveva voglia di fare teatro ma aveva difficoltà artistiche e organizzative. Quando sono arrivato, nel 2003 - direttore era Carmelo Cantone, un amico - ricordo che potevamo provare lo spettacolo per qualche ora a settimana, in una stanzetta, in 25 persone. Riuscimmo nel miracolo di debuttare con Napoli milionaria, di Eduardo. A quel tempo il palcoscenico di Rebibbia era più piccolo della metà. Oggi Rebibbia, con i suoi 340 posti, è una delle principali sale di Roma per affluenza di pubblico esterno. È dotata delle più aggiornate tecnologie di trasmissione per il live streaming in fibra ottica. Allestiamo spettacoli ed eventi e li riprendiamo in diretta per trasmetterli sul web e nei teatri italiani. O nelle carceri, come è accaduto per la partenza del Viaggio della Corte, il 5 ottobre dell’anno scorso. Erano collegati 120 carceri e migliaia di detenuti. Dal 2003 presso il Teatro libero di Rebibbia sono stati prodotti 40 spettacoli con oltre 300 alzate di sipario con un’affluenza di pubblico di oltre 60mila spettatori. Come descriverebbe il binomio teatro e carcere? Il teatro, come luogo dell’arte, è una zona franca. Si dice che solo il lavoro restituisca il recluso alla società, ma non è vero. L’arte lo fa sicuramente, il lavoro forse. Su 550 detenuti che ho incontrato dal 2003 a Rebibbia il tasso di recidiva è bassissimo: il 10 per cento contro il 67 della media nazionale. Provo a gridare ai quattro venti questo fatto, a raccontarlo in giro, ma pochi capiscono veramente questo concetto. È perché gli artisti non hanno voglia di far politica. L’arte ha una grande capacità di liberazione dal dolore. Imparare a memoria le parole altissime dei poeti - Dante, Shakespeare - e comprenderle e interpretarle nella recitazione, spalanca l’immaginazione. Noi siamo natura e cultura, le nostre esperienze ci trasformano, e in questo l’arte ha un ruolo fondamentale. L’esperienza teatrale costruisce nuovi sentieri, rispetto a quelli obbligati dal regime penitenziario. Certo, interpretare un personaggio è difficile, faticoso. Ci sono le regole ferree del teatro o del cinema da rispettare, è obbligatorio il gioco di squadra. Sul palco non si può sbagliare. Ma questo ostacolo, che l’arte mette di traverso all’abitudine del carcere, si supera: con l’applauso del pubblico. Che ripaga di ogni fatica e ci fa scoprire parti sconosciute di noi. Una detenuta di Rebibbia femminile sostiene in un’intervista nel film che nulla produce adrenalina come compiere azioni criminali. Lo dice perché non ha mai fatto teatro. I miei attori, dietro le quinte, alla prima dello spettacolo, mi confessano che la paura che provavano prima di una rapina in banca è meno forte di quella che provano entrando in scena. Riformare il processo per realizzare la sua ragionevole durata di Giunta dell’Ucpi camerepenali.it, 10 luglio 2019 Il lavoro del tavolo ministeriale non può essere trasformato in un contenitore indistinto di riforme. Sull’ordinamento giudiziario non sono consentite improvvisazioni. Gli stati generali, convocati da Ucpi, saranno l’occasione per un confronto aperto sulle prospettive di riforma dell’ordinamento giudiziario. Il documento della Giunta. 1. Entrato in vigore il codice di rito del 1988, in ogni legislatura degli ultimi trenta anni le maggioranze politiche che si sono succedute hanno approvato riforme più o meno significative del processo penale. Segno questo, di come la stagione culturale nella quale si era sviluppato il grande confronto giuridico che aveva portato alla adozione del codice accusatorio, nella originalità della declinazione voluta dai giuristi riuniti nella commissione di riforma, era definitivamente tramontata. La politica, subiti gli sconquassi giudiziari degli anni novanta, si rivelava incapace di nuovi equilibri, oscillando tra subalternità a logiche giudiziarie e capziosi tentativi di autodifesa. Derive emergenziali hanno da allora prevalso sulle opzioni culturali producendo norme e deroghe destinate all’erosione delle garanzie dei diritti della difesa e dei presidi del contraddittorio. Limitazione della collegialità, doppio binario, centralità dell’attività di investigazione a discapito del dibattimento, questi sono alcuni degli aspetti che hanno contribuito, unitamente a tante altre novelle, alla definizione di uno strumento processuale lontano dalla sua originaria ispirazione. L’adozione del nuovo articolo 111 della Costituzione, baluardo dei principi del giusto processo, non è stata sufficiente a fermarne la deriva. Anche nella scorsa Legislatura si è a lungo discusso della riforma del processo penale. La c.d. legge Orlando, che solo parzialmente ha realizzato quel progetto di riforma, assieme a qualche positivo aspetto di razionalizzazione, si è alla fine risolta anch’essa nella solita risposta demagogica, allungando i tempi della prescrizione, conculcando i diritti della difesa in materia di riti speciali e limitando l’ambito di operatività dell’intero sistema delle impugnazioni. La Magistratura italiana ha contribuito a tale cultura dei limiti delle garanzie, rivendicando efficientismo a discapito di garanzie. Sarebbe oggi necessaria una organica riforma del codice di procedura penale non certo per ridiscuterne l’opzione accusatoria, ma bensì per ripulire il reticolo delle garanzie dalle incrostazioni di passate riforme asistematiche, e consegnare nuovamente al dibattimento e al Giudice ruolo centrale nella formazione della prova e nella decisione. L’Unione ha recentemente ribadito, con il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo, gli irrinunciabili principi a cui deve uniformarsi il sistema penale così come voluto dalla nostra Costituzione. 2. Anche in questa Legislatura la maggioranza di Governo ha manifestato l’intenzione di porre mano alla riforma del processo penale. Inquietanti i dogmi richiamati: unica pena possibile quella del carcere, sostanziale svuotamento delle garanzie difensive, estensione delle ipotesi per le intercettazioni telefoniche, manomissione del diritto all’appello, via via specificando l’armamentario del nuovo giustizialismo imperante. Proposte che non hanno certo trovato l’opposizione della magistratura associata che anzi, in alcune prese di posizione, ha inteso darvi supporto tecnico; basti pensare alla proposta di abolizione del divieto di reformatio in peius nel grado di appello e all’estensione delle ipotesi di non ripetizione dell’attività istruttoria nel caso di mutamento del Giudice. Come è noto la Legislatura si è caratterizzata anche per altre regole destinate ad incidere sul ruolo della giurisdizione. Sfavore per ogni discrezionalità con il tentativo di limitare lo spazio del bilanciamento tra attenuanti e aggravanti in relazione a determinate tipologie di reato, limitazione dei casi di possibile ricorso al giudizio abbreviato, introduzione di nuove fattispecie di reato anche in violazione della riserva di codice, introduzione di presunzioni e preclusioni in materia di scriminanti, insomma il richiamo ad una idea illiberale e autoritaria dello Stato. Ferma censura merita la sostanziale abrogazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La fine di uno strumento di civiltà e pacificazione sociale, determinata da una norma incostituzionale che ha visto la rivolta compatta di tutta la comunità dei giuristi. La mancata riforma dell’Ordinamento penitenziario ha comportato ancor più drammatiche condizioni di vita nelle carceri. L’impressionante numero di suicidi e il degrado delle forme della detenzione richiedono una non più rinviabile assunzione di responsabilità. La denuncia e la protesta dei Penalisti italiani, anche di queste ore, siano di monito al potere politico. 3. Il Ministro della Giustizia, respinta la proposta dell’Unione delle Camere Penali di istituzione di una Commissione per discutere delle ipotesi della eventuale riforma del processo penale, ha inteso procedere, dal novembre 2018, alla semplice consultazione e all’ascolto delle rappresentanze di Accademia, Magistratura e Avvocatura. Il Ministro ha prospettato un intervento sui tempi del processo prima dell’operatività della nuova disciplina della prescrizione. È in questo contesto che nasce l’iniziativa politica di UCPI per giungere a quelle consultazioni con una proposta comune con la Magistratura associata. La sintesi condivisa è stata quella di indicare un intervento prioritario che contribuisca alla concreta realizzazione della ragionevole durata del processo. Tre le direttrici: A) una nuova regola per la definizione dell’udienza preliminare recuperandone la finalità di filtro, così da evitare il rinvio a giudizio in tutte quelle situazioni nelle quali la prova non mostri una capacità di tenuta tale da richiedere il dibattimento. B) L’estensione dei casi per i quali è possibile la definizione del procedimento nelle forme della pena concordata o del giudizio abbreviato. Abrogazione di ogni ostatività, definizione del criterio di rilevanza e specificità della prova richiesta nel giudizio abbreviato condizionato. C) Una nuova disciplina per la semplificazione del sistema sanzionatorio delle contravvenzioni, con la previsione di meccanismi di adesione. Nel corso delle consultazioni i punti di delega qui richiamati sono stati variamente specificati e dal Ministro condivisi. L’Unione a quel tavolo ha anche segnalato la necessità di un intervento sulla durata delle indagini, sui meccanismi di discovery per la decisione sulle eventuali proroghe, sul controllo giurisdizionale relativo ai tempi di iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato. il Ministro, che pure in diverse occasioni pubbliche ha dato atto degli approdi positivi del tavolo di consultazione a distanza di mesi non ha ancora presentato un testo. 4. La volontà di 72.000 cittadini, che hanno sottoscritto la proposta di legge di riforma Costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, ha fatto si che il Parlamento ne abbia calendarizzato i lavori. È nato un intergruppo composto da Deputati di tutte le forze politiche, impegnati in modo trasversale a mantenere l’attenzione sul percorso parlamentare della riforma. Si tratta di un primo grande risultato della nostra iniziativa per la separazione delle carriere volta a garantire la terzietà del Giudice e, al contempo, l’autonomia e l’indipendenza del Pubblico Ministero. L’ipotesi di riforma costituzionale arricchisce anche l’art. 112 della Costituzione, riservando alla legge ordinaria - e non alle circolari del Consiglio Superiore o ai Capi degli Uffici Giudiziari - la individuazione dei parametri per il temperamento della obbligatorietà dell’azione penale. La pubblicazione di brani di intercettazioni telefoniche e la solita informazione giudiziaria strillata, hanno fatto malamente cadere la foglia di fico. Si è scoperta l’acqua calda e cioè che le nomine dei Capi degli Uffici Giudiziari sono spesso il frutto di logiche correntizie che non disdegnano impropri rapporti con rappresentanti politici. Con logica gattopardesca, indignazione ed inquietudine però vengono riservate al singolo caso, pur inquietante nelle sue peculiarità. Debbono qui essere ribadite le analisi che da anni l’Unione delle Camere Penali propone a Politica e Magistratura. Non a caso la rappresentanza associativa dei magistrati italiani, uniti in un unico corpo é affidata a Pubblici Ministeri. Sono magistrati del Pubblico Ministero chiamati a decidere sul ruolo proprio e sulle progressioni di carriera dei Giudicanti. La presenza di 200 Magistrati c.d. “fuori ruolo”, designati dalle forze politiche a svolgere funzioni di direzione dei Ministeri - in totalità di quello della Giustizia -, delle diverse Autorità di Garanzia, degli Uffici legislativi, determina non solo che la Magistratura sia chiamata a svolgere funzioni che non le sono proprie, ma l’obbiettiva sottrazione di risorse alla giurisdizione e le condizioni per gli impropri rapporti tra politica e magistratura. La risposta a tutto questo non può limitarsi ad una rivisitazione dei collegi elettorali per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura o a improbabili proposte di sorteggio. Si dovrà prendere atto che solo Organi distinti per le carriere di P.M. e Giudici ed una loro diversa composizione, con maggiore spazio ai rappresentanti dell’Accademia, dell’Avvocatura e dei rappresentanti del Parlamento, potrà garantire trasparenza e obbiettività nelle decisioni. Ad una Magistratura associata oggi sofferente, in crisi di identità, l’Unione propone la grande iniziativa degli Stati Generali sull’Ordinamento Giudiziario. Discuteremo insieme non solo di separazione delle carriere, ma anche del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, di meccanismi elettorali, del ruolo dell’associazionismo nella magistratura, delle prerogative dei Capi degli Uffici; tutti temi che non appartengono in via esclusiva ai magistrati ma a tutta la comunità, poiché l’Ordinamento Giudiziario è parte essenziale delle regole del processo. 5. Il Ministro della Giustizia ha repentinamente convocato il tavolo di consultazione per i prossimi giorni. All’autorità politica viene attribuito l’intento di trasformare il disegno di riforma in uno strumento omnibus, nel quale inserire qualche nuova regola per eleggere i rappresentanti dei Magistrati nel Consiglio Superiore della Magistratura, prevedere forme di sorteggio di secondo livello per i capi degli Uffici. Qualcuno propone che vi si inserisca anche qualche ritocco alla legge per i collaboratori di giustizia. L’operazione sarebbe inaccettabile. Ovviamente, il Ministro della Giustizia può avanzare i progetti di riforma che ritiene, ma se intende valorizzare politicamente il lavoro e l’apporto di quel tavolo, allora va ribadito che lì si è discusso dei tempi delle indagini e del processo, che lì si sono individuate direttrici di riforme condivise. Sarebbe politicamente miope, e comunque l’iniziativa troverebbe la decisa avversione delle Camere Penali, trasformare l’intervento in altra cosa non più coerente con il lavoro svolto. La riforma dell’Ordinamento Giudiziario deve muovere dalla Costituzione e rispondere all’iniziativa di 72.000 cittadini che hanno chiesto carriere separate dei Magistrati e di demandare soltanto alla legge la definizione di eventuali criteri di priorità degli affari penali. Gli Stati Generali dell’Ordinamento Giudiziario, convocati per il prossimo settembre 2019 dall’Unione delle Camere Penali Italiane, saranno senz’altro occasione per un ampio confronto utile per la credibilità della funzione giurisdizionale. Il processo-lumaca non dipende dalla “pigrizia” del magistrato ma dalle riforme sbagliate di Massimo Krogh Il Mattino, 10 luglio 2019 Non tutto ciò che abbiamo deriva dall’Italia, quasi tutto, le cose belle, i grandi tesori di cultura e d’arte provengono da Parthenope, dal Ducato di Napoli, dal Regno di Napoli, dal Regno delle Due Sicilie, dal Ducato di Mantova, da Lorenzo il Magnifico e così via. L’Italia come Nazione unita viene dopo portando solo guai. Si comincia con il delitto Matteotti, il fascismo, incertezze e incomprensioni, e pure intrighi, sul concetto di Nazione, prima Repubblica, seconda Repubblica, viavai di tangenti che s’incrociano e così via, in un percorso il cui traguardo è sotto gli occhi. Il servizio giustizia è agli ultimi posti del mondo per l’incredibile durata dei processi, di cui le prime vittime sono gli stessi giudici costretti a lavorare spesso per processi inutili sotto la spinta giustizialista che sale dalla gente, la quale per l’inefficienza dell’amministrazione pubblica trasforma tutto in denunce. Non parliamo della burocrazia, sistema di controllo del cittadino che in una democrazia sana non dovrebbe esistere, ogni pratica dovrebbe essere semplice e scorrevole. Da noi, che l’abbiamo ereditata dal fascismo, schiaccia il cittadino, sommerso da un mucchio di carte che coprono e spesso nascondono il fatto. Non occorre andare avanti, sappiamo che in Italia poco o niente funziona; ma poiché si torna a parlare della riforma della giustizia, non è superflua qualche riflessione sul tema. Vi sono state più di un centinaio di riforme della giustizia, sempre fallite negli scopi proposti. D’altra parte, non è riformabile ciò che non esiste. In Italia, la giustizia dei tribunali, per le sue disfunzioni, è praticamente inesistente. Le sentenze arrivano quando ormai non servono, ciò che giova ai colpevoli e agli inadempienti e che punisce le aspettative di chi sta nel giusto. In altre parole, un servizio che opera all’incontrario. Da noi l’esercizio dell’azione penale è obbligatorio e costituzionalmente stabilito. Siamo tra i pochi al mondo, ed infatti siamo tra i pochi ad avere processi penali eterni; per non parlare di quelli civili. Ancora. Con “Tangentopoli” fu messo sotto processo un intreccio corruttivo invasivo, ma piuttosto che rimuoverlo si è creata una supplenza giudiziaria di lunga durata e tale da creare lo stallo della giustizia; nel perdurare dell’infezione sociale. È legittimo pensare che il Paese non avesse la cultura istituzionale necessaria per il funzionamento del rito processuale accusatorio, introdotto nell’88. Permangono indagini preliminari lunghissime e coperte, che stravolgono l’essenza stessa di un giusto rito. Ora si parla d’intervenire normativamente per ridurle, si vedrà! Non molto tempo fa si accennava all’allungamento della prescrizione del reato, ora sembra che si adombri l’opportunità di fermarla dopo il giudizio di primo grado. In effetti, occorre capire che la prescrizione non è la causa ma la conseguenza della lunghezza del processo penale, difatti sia i giudici che gli avvocati operano sempre tenendo d’occhio la prescrizione. Bisogna ricordare che nell’area della Common Law la prescrizione del reato non esiste. Vi è la prescrizione del processo, il quale se eccede nel tempo si estingue. Cosa più logica, ed inoltre coerente con le origini. Dalle fonti storiche emerge che il seme della prescrizione risale alle ingiunzioni che gli antichi romani rivolgevano agli accusatori per spingerli ad una maggiore solerzia per accorciare i processi. Gli inglesi adottarono prima di noi le regole del diritto romano, sicché si spiega la presenza in Common Law della prescrizione del processo piuttosto che del reato. In effetti, la prescrizione del reato è un nostro “unicum” piuttosto stonato con lo Stato di diritto. Appare, logico che il decorso del tempo possa avere riflessi sulla durata di un processo, ma non è altrettanto logico trasformare direttamente in lecito ciò che sia nato come illecito. Nella riforma annunciata si anticipa che saranno sanzionati i giudici pigri che rendono il processo una “lumaca”, mentre saranno premiati, con incentivi professionali, i magistrati che rendessero più sollecito il percorso giudiziario. Questi annunci chiariscono, a chi non l’avesse ancora compreso, che spesso chi fa le leggi non ha il polso dei problemi; difatti, il processo “lumaca” non dipende dalla “pigrizia” del magistrato ma dallo stallo di un servizio reso stabile dai gravi errori commessi in sede di riforme ed interventi legislativi. In linea di massima, è culturalmente infantile attaccarsi a garanzie teoriche che il sistema non è in grado di rispettare. Nella società finanziaria, amplificata dalla globalizzazione, il dibattimento penale non può essere accessibile a tutti i contenziosi esistenti. È indispensabile trovare formule risolutive intermedie, nelle quali il ramo penale sia del tutto residuale e non primeggiare come oggi impropriamente primeggia. Bisogna comprendere che il penale quando arriva blocca tutto frenando il percorso del diritto e punendo le aspettative e i problemi della gente. Occorre capire che, piuttosto che correre dietro a garanzie teoriche e percorsi punitivi, in un Paese civile l’obiettivo deve essere quello di corrispondere ai bisogni dello stato sociale. La separazione delle carriere dei magistrati non è una ritorsione di Dimitri Buffa L’Opinione, 10 luglio 2019 La separazione delle carriere dei magistrati non è una ritorsione. I lettori dei giornali, quei pochi superstiti, si domanderanno come mai si parla e si scrive sempre di riforma della giustizia, di separazione delle carriere dei magistrati e dei criteri dell’obbligatorietà dell’azione penale, e poi, regolarmente, passa tutto in cavalleria. Almeno da trent’anni a questa parte. Oggi che i penalisti italiani si astengono dalle udienze per protestare contro lo Stato italiano per come osa da decenni tenere le proprie carceri sembra un buon giorno per riflettere sul perché di questo stallo. Ci sono due ragioni uguali e contrarie che spesso sembrano inscenare un balletto quando non un gioco delle parti. La prima è che i politici italiani si accorgono del problema giustizia, e di quello delle carceri, solo quando capita una disgrazia a qualcuno di loro. A quel punto vanno in tivù, o sui social, e promettono grandi riforme (“epocali”) della giustizia che appaiono ovviamente come una reazione ritorsiva per il callo pestato da un’inchiesta, da un giudice, da un provvedimento che non aggrada loro. E la frittata è fatta. La corporazione in toga, dominata dai pm, si chiude a riccio e la riforma, promessa o minacciata, non viene fatta. E il politico è costretto a ritirarsi in buon ordine con un brusio di pernacchie in sottofondo. La seconda ragione sta nell’imbarbarimento creato in Italia dalla mentalità vendicativa contro la classe dirigente generatasi da “Mani pulite” in poi. L’urlo “in galera” che prima apparteneva solo a Giorgio Bracardi, personaggio della banda di Renzo Arbore, è diventato uno slogan politico di tanti leader e di alcuni partiti, principalmente i Cinque stelle, parte della Lega, parte del Pd, buona parte di Fratelli d’Italia e altri ancora. Sempre con l’accortezza di urlare lo slogan quando riguarda gli avversari politici, riservando il garantismo a sé stessi e ai propri sodali di partito. A dire che certe riforme, a iniziare dalla separazione delle carriere tra pm e giudicanti, sono comunque sacrosante, rimangono solo gli idealisti in buona fede come i militanti del Partito radicale transnazionale, peraltro inattaccabili sotto il profilo penale e giudiziario. Che però hanno il torto di essere ancora pochini per smuovere un simile macigno che necessiterebbe anche di riforme costituzionali. Così, da tre decenni rimane tutto uguale e le riforme di quel settore, e di quello delle carceri - per il quale oggi scioperano i penalisti di tutta Italia - sono rimandate di volta in volta. È la fotografia di un paese di Pulcinella, che, esattamente come avviene per le riforme che andrebbero fatte nel settore economico per ridurre debito e spesa pubblica, oltre che tasse e burocrazia - e non “perché ce lo chiede l’Europa - rimanda di esecutivo in esecutivo la patata bollente. Ovviamente, chi gode in questo caos sono proprio coloro - magistrati della pubblica accusa auto politicizzatisi o burocrati della spesa pubblica - che avversano palesemente o in maniera sotterranea e subdola quelle riforme che spazzerebbero via il proprio potere e il proprio diritto di veto. Così l’Italia, in cui gli idioti chiedono la “certezza della pena” senza prima domandare la certezza dei diritti e dei doveri, rimane sempre uguale a sé stessa: feroce con i poveretti e inerme contro la prepotenza dei ducetti di turno. Un Paese in cui la Pubblica Amministrazione è inaffidabile e in cui si viene in vacanza, possibilmente a basso prezzo, ma da cui si scappa via il prima possibile. Quando Bettino Craxi, buonanima, sotto i colpi delle prime inchieste di fatto dirette esclusivamente a toglierlo di mezzo e a favorire il Pci-Pds di Occhetto, si lamentava non tanto per sé ma per quel che vedeva accadere intorno in tutto il Paese, dicendo “hanno creato un clima di odio”, non diceva una di quelle frasi di repertorio e di bassa propaganda cui ci hanno abituato i politici della Seconda Repubblica. Purtroppo per lui - e per noi - ci vedeva lungo, molto ma molto lungo. Quel clima di odio e invidia sociale è diventato adesso il cosiddetto “core business” di alcuni partiti e persino di alcuni governi. Napoli: la rivolta dei detenuti di Poggioreale “non è un carcere ma una sala mortuaria” di Oscar De Simone Il Mattino, 10 luglio 2019 Le proteste e le rivolte nel carcere di Poggioreale sono diventate frequenti. Alla base di tutto ci sarebbe il sovraffollamento delle celle e le richieste del supporto sanitario. Tutti argomenti di cui si è discusso tanto nelle ultime settimane e che restano al centro delle proteste dei familiari dei detenuti. “Siamo preoccupati per i nostri parenti - dichiara Anna - di cui non conosciamo le condizioni di salute. Mia cognata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, soffre di crisi epilettiche e viene semplicemente sedata. Il mio ex marito e mio nipote a Poggioreale, non sono seguiti dai sanitari e se si ammalano rischiano la vita. Questo carcere lo chiamiamo “sala mortuaria” perché registriamo continuamente decessi. Vogliamo più controlli”. Proprio i controlli ed una vigilanza adeguata, sono le richieste lanciate dell’associazione “ex detenuti organizzati” che da tempo chiede attenzione sulla tematica. “Le proteste continueranno - afferma il presidente dell’associazione Pietro Ioia - fin quando non saranno presi provvedimenti. Poggioreale ha un numero eccessivo di detenuti e poche guardie carcerarie. Si deve intervenire per riportare le cose ad una condizione accettabile ed utile alla sicurezza. Le cure mediche vanno implementate e nessuno deve essere abbandonato a se stesso. La salvaguardia della vita deve essere l’obiettivo primario per tutti”. Padova: i penalisti “carceri sovraffollate, vanno incoraggiate le pene alternative” di Alice Ferretti Il Mattino di Padova, 10 luglio 2019 Sovraffollamento, condizioni di vita sempre più difficili, suicidi. Sono alcune delle problematiche comuni a tutti i carceri d’Italia, a causa di una politica che, in materia di esecuzione penale, ha spesso privilegiato la detenzione alle pene alternative. Un sistema che non funziona, al quale hanno deciso di ribellarsi a livello nazionale gli avvocati penalisti, che hanno proclamato l’astensione per la giornata di ieri. E sempre ieri la Camera penale di Padova ha organizzato un incontro nella sala conferenza dell’ordine degli avvocati proprio per riflettere sulle tematiche oggetto della protesta. I numeri parlano chiaro: “Per quanto riguarda il Veneto i detenuti sono passati da 2.319 a 2.432”, ha detto l’avvocato Annamaria Alborghetti. “La metà di questi non sono definitivi e su 2.400 ci sono 1.400 stranieri per i quali viene adottata in automatico la custodia in carcere e che non riescono ad avere le misure: il motivo è quasi sempre la mancanza di un domicilio idoneo”. Padova si allinea a questa situazione generale di sovraffollamento. “Nella casa circondariale abbiamo 211 detenuti contro 171 posti e nella casa di reclusione 592 detenuti contro 438 posti”. Un problema, quello delle strutture di detenzione che straripano, che potrebbe essere risolto “utilizzando gli edifici dismessi che il governo vorrebbe trasformare in altre carceri e facendoli diventare case accoglienza”. E poi il problema dei suicidi, già 23 in Italia nel 2019, uno a Padova. “È evidente”, spiega sempre la Alborghetti, “che il quadro detentivo è tale da far ritenere che si stia violando quotidianamente la Carta Costituzionale”. Dunque ci vorrebbero più misure alternative oltre a rendere più vivibile la vita in carcere. “La conseguenza di tutto ciò è la rivolta nelle carceri italiane che, come si legge nella delibera dell’Unione delle Camere Penali Italiane, “dovrebbe far accendere i riflettori su un sistema marcio che deve immediatamente trovare la strada di una trasformazione costituzionalmente orientata”, ha aggiunto l’avvocato Gianni Morrone. Il comunicato della Camera Penale di Padova “Francesco de Castello” Ci risiamo! Ci risiamo con il sovraffollamento. Le cifre parlano chiaro. Dopo l’impennata dei 68.258 detenuti del 2010 che costò all’Italia la condanna di Strasburgo i numeri erano scesi fino ad arrivare ai 52.164 del 2015. Ma poi inesorabilmente sono tornati a salire e il 30 giugno di quest’anno siamo a 60.522. La riforma dell’ordinamento penitenziario, tesa a favorire l’accesso alle misure alternative, è stata affossata e al suo posto si sono approvate leggi che sempre di più chiedono carcere e bloccano l’accesso alle misure. Le condizioni di vita sono sempre più difficili, soprattutto in certi istituti, dove mancano le cose più elementari e normali come una regolare erogazione dell’acqua. Si parla di 10.000 detenuti in più rispetto ai posti regolamentari ma da quei posti regolamentari vanno tolte tutte le celle inagibili che sono oltre 3700! Le misure in essere sono poca cosa: 18.000 affidamenti, 11.000 in detenzione domiciliare. In carcere vi sono oltre 5.000 persone che scontano pene sotto i due anni o addirittura sotto un anno, persone che non riescono ad avere una misura perché molto spesso non hanno un domicilio idoneo. Ecco come si potrebbero utilizzare gli edifici dismessi che il ministro vorrebbe trasformare in altre carceri! Facciamole diventare case accoglienza, cominciamo col togliere quei 5.000 dalle carceri, anche perché fare in modo che queste persone, che tra non molto comunque saranno libere, passino attraverso una misura, questo sì vuol dire sicurezza. Quale la situazione nel Veneto e a Padova? Sicuramente la situazione non è quella drammatica di certi istituti. Anche da noi vi è stato un aumento e i detenuti sono passati da 2.319 a 2.432. La metà di questi non sono definitivi e su 2.400 ci sono 1.400 stranieri per i quali viene adottata in automatico la custodia in carcere e che non riescono ad avere misure e il motivo è quasi sempre la mancanza di un domicilio idoneo. A Padova nella CC abbiamo 211 detenuti contro 171 posti e alla CR 592 contro 438 posti. C’è un altro dato drammatico: le morti in carcere, o meglio, le morti di carcere, che si tratti di suicidi, o di morti per mancanza di assistenza sanitaria o per cause non chiare. Si tratta comunque di persone che avrebbero avuto bisogno di cure, di assistenza o, più semplicemente, di una misura che avrebbe loro consentito rapporti umani, familiari, che forse avrebbero evitato il suicidio. Negli anni peggiori del sovraffollamento avevamo avuto picchi altissimi arrivando a 185 morti di cui 66 suicidi nel 2010, poi c’era stato un leggero calo. Alla data del 2 luglio 2019 siamo già a 67 morti di cui 23 suicidi. E neppure Padova è rimasta indenne: il 23 aprile scorso si suicidava Yassin Ahmed, di anni 61. È evidente che il quadro detentivo è tale da far fondatamente ritenere che si stia violando quotidianamente la Carta Costituzionale. E questo devono aver pensato i Giudici della Corte Costituzionale quando hanno deciso di partire per il loro viaggio nelle carceri. Non l’incostituzionalità di una legge, di una norma, ma l’incostituzionalità di un sistema, di una “funzione” dello Stato, il diritto-dovere dello Stato di punire chi ha commesso dei reati osservando i principi imposti dalla nostra Carta. E hanno voluto vedere con i loro occhi. Infine: che fare? Sicuramente creare le condizioni per incrementare l’accesso alle misure alternative. La carenza della pianta organica è spaventosa: 930 assistenti sociali e 999 educatori per gli oltre 60000 detenuti. E quindi più educatori, più psicologi per effettuare le relazioni ma anche la ricerca di luoghi dove svolgere queste misure ed anche una minor rigidità nella concessione, perché comunque una misura svolta non benissimo darà dei risultati migliori, anche in termini di sicurezza, che non una pena eseguita in carcere fino all’ultimo giorno. E, ancora, fare in modo che la vita detentiva sia “la più simile possibile a quella della società esterna” come impongono le Regole Penitenziarie Europee. Facilitare il più possibile l’ingresso in carcere della società civile, del volontariato, delle cooperative. La risposta non può essere quella del Dap che con una circolare che sarebbe grottesca se non limitasse gravemente la libertà di informazione, dal titolo “Tutela della quiete notturna. Incentivazione a tenere salubri ritmi sonno-veglia” ha stabilito che deve essere garantita “una fascia di rispetto di 7 ore per notte durante la quale vengano spenti i televisori, gli apparecchi radio e le luci”. Possiamo solo augurarci che la sensibilità istituzionale espressa dai Giudici della Corte Costituzionale possa essere di esempio per tutti, politici, magistrati, funzionari, con l’auspicio che nessuno marcisca in galera ma, soprattutto, che nessuno auguri più a nessuno di marcire in galera. Venezia: “La città si allontana dal carcere. Meno lavoro per i nostri detenuti” Il Gazzettino, 10 luglio 2019 I problemi delle carceri veneziane peggiorano di mese in mese. Da un parte, il sovraffollamento di Santa Maria Maggiore, dove cadute dal letto e risse si moltiplicano. Dall’altra, la “normalizzazione” del carcere femminile della Giudecca che una nuova ispezione ministeriale è tornata a imporre. Il tutto mentre si vanno perdendo anche i rapporti con una “città sempre più in vendita”. L’analisi è stata fatta ieri, in Tribunale, dagli avvocati della Camera penale veneziana che hanno chiamato a raccolta anche il garante dei detenuti, Sergio Steffenoni, e i volontari delle associazioni che ogni giorno operano negli istituti carcerari di Venezia, dal Granello di Senape alle Convertite. Per i penalisti veneziani è stata anche una giornata di astensione dalle udienze, in adesione alla manifestazione di protesta indetta dall’Unione delle Camere penali proprio per la mancata riforma dell’ordinamento carcerario. “Stiamo assistendo a un’involuzione preoccupante nelle nostre carceri - ha denunciato la presidente della Camera penale veneziana, Annamaria Marin. E la tragicità del sovraffollamento e della mancata realizzazione del lavoro in carcere lo dimostrano”. Qualche numero sulla realtà veneziana l’ha fornita l’avvocato Massimiliano Cristofoli Prat: “A Santa Maria Maggiore la capienza è di cento detenuti in più rispetto al limite tollerato. Oggi siamo a 256, ma ad aprile eravamo arrivati anche a 288, quando dovrebbero fermarsi a 163. Si tratta del caso più eclatante di sovraffollamento, come lo ha definito lo stesso Tribunale di sorveglianza di Venezia”. Steffenoni ha riferito di tre, quattro sfollamenti dall’inizio dell’anno; di diverse cadute dai letti a castello (“Siamo arrivati alla terza branda a 40 centimetri dal soffitto, con questo caldo intollerabile”); di varie risse anche gravi. Non meno preoccupante la situazione del carcere femminile, dove di recente è stata inviata una nuova ispezione sempre con il compito di “normalizzare” un carcere che era ritenuto un modello. “Obbligano ad una divisione tra le detenute che fanno attività e chi non le fa - ha spiegato il garante - ma in questo modo sarà difficile fare attività”. Steffenoni si è detto preoccupato anche per la “perdita di rapporti con una Venezia in vendita. Molti alberghi non usano più la nostra lavanderia, preferendo altri canali, in questo settore c’è molto nero. La vendita del Bauer mette in discussione la vendita dei nostri prodotti cosmetici. Anche l’orto della Giudecca stava pendendo clientela. Si perdono rapporti e per il carcere è un’ulteriore segregazione”. Verona: allestita una cella a grandezza naturale contro l’emergenza-carceri di Laura Tedesco Corriere di Verona, 10 luglio 2019 I penalisti si chiudono in cella “Così vivono i carcerati”. Gli avvocati penalisti si sono rinchiusi dentro la riproduzione di una cella di Montorio che ora farà il giro d’Italia a testimoniare le condizioni dei detenuti. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri poiché è da essi - scriveva l’illuminato Voltaire - che si misura il grado di civiltà di una nazione”. E ieri, con una conferenza stampa che hanno voluto tenere “stando come detenuti”, rinchiusi dentro la riproduzione fedele di una cella del carcere, la Camera penale di Verona ha voluto denunciare all’opinione pubblica “come si è costretti a vivere, anzi a sopravvivere, stipati in una di quelle stanze, mediamente in tre, talvolta addirittura in quattro”. La protesta era stata indetta a livello nazionale dalla categoria “per richiamare l’attenzione contro la grave situazione dell’esecuzione penale e l’ormai intollerabile degrado del sistema carcerario italiano”. Anche la Camera penale scaligera si è astenuta dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per l’intera giornata, ma solo a Verona è andata in scena la protesta-choc inscenata in una cella di dimensioni reali. Ad allestirla sono stati gli operatori di “Lavoro è futuro”, mentre a commissionarla ci ha pensato l’associazione La Fraternità che da 52 anni si occupa di assistere i detenuti a Montorio. E infatti ieri la clamorosa conferenza stampa è avvenuta presso la sede dell’associazione alla presenza, oltre che del presidente della Camera penale di Verona Claudio Fiorini e della collega Barbara Sorgato, di Fra Beppe Prioli (anima de “La Fraternità”), del magistrato di Sorveglianza Vincenzo Semeraro del Tribunale scaligero e dell’avvocato Simone Bergamini, che fa parte dell’Osservatorio nazionale carceri. “Questa è la prima tappa della cella, l’idea è di esibirla in quante più città italiane possibili perché a Verona come in tutta Italia la situazione nei penitenziari sta diventando esplosiva. A Montorio, stando ai dati di 15 giorni fa, si contano 575 reclusi - enumera Bergamini - a fronte di una capienza massima prevista pari a 315. In media, all’interno di una cella come questa, stanno tre detenuti e gli spazi sono talmente angusti che, mentre in due mangiano, il terzo deve restare sul letto perché altrimenti non ci stanno. Per non parlare dell’igiene precaria, delle difficoltà di convivenza, delle sempre più variegate etnie con usi diversi, della presenza di tossicodipendenti e di soggetti con problemi psichici. Le cosiddette celle “aperte” non sono la soluzione, non è certo facendoli uscire in corridoio per qualche ora che si risolvono i problemi. Bisogna invece avviare attività di rieducazione e di lavoro per un futuro reinserimento nella società, ma da Roma sono stati tagliati tutti i fondi”. Anche il presidente dei penalisti non usa mezzi termini: “In nome della certezza della pena, intesa dall’attuale maggioranza come certezza del carcere - sostiene Avesani -, sono state sostanzialmente accantonate tutte le riforme pensate per dare all’esecuzione penale un volto umano e civile. Nel frattempo, la quasi totalità degli istituti penitenziari registra presenze oltre il livello di guardia e la media nazionale, in continuo aumento, sfiora i 130 per cento dei posti regolamentari”. E pensare che la Costituzione dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Bergamo: i penalisti sfidano il Governo “grave abbandonare la riforma delle carceri” di Maddalena Berbenni Corriere della Sera, 10 luglio 2019 Gli avvocati a Palazzo Frizzoni: “A Roma visione carcerocentrica, ma bisogna puntare sulle misure alternative”. Il sindaco: due bandi da 212 mila euro. In via Gleno, a marzo 2018, circa 240 detenuti avevano una pena residua inferiore ai tre anni. Significa che la metà della popolazione penitenziaria, almeno sulla carta, può usufruire di misure alternative. Partire da questo numero per raccontare l’iniziativa degli avvocati penalisti a Palazzo Frizzoni, con il sindaco Giorgio Gori e il vice, avvocato Sergio Gandi “con convinzione al loro fianco”, ha un senso. Le misure alternative potenzialmente abbassano la recidiva (lo indicano le statistiche) e danno un colpo al problema del sovraffollamento: le celle, a Bergamo, ospitano tra i 530 e i 550 detenuti per 321 posti. La Camera penale non perde occasione per battere sul tema. Con la giornata di astensione dalle udienze per denunciare la scelta del Governo di abbandonare il progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario, gli avvocati hanno condiviso in Comune dati, riflessioni, esperienze. Il sindaco Pd li sostiene. Ricorda la lunga tradizione di collaborazione con il carcere e le associazioni che gli ruotano attorno, il bando in scadenza (24 luglio) per la nomina del nuovo garante dei diritti dei detenuti e annuncia 212 mila euro conquistati per due bandi mirati a progetti per detenuti, anche minorenni. Tutto questo a fronte delle 1.800 persone, in tutta la provincia, che stanno scontando condanne attraverso misure alternative. “La Casa circondariale - sottolinea Gori - è un pezzo della città, noi così la consideriamo”. Per l’avvocato Carlo Cofini, referente della commissione Carcere, è “addirittura un quartiere, se consideriamo che 240 detenuti sono residenti in Bergamasca, tutte persone che un domani torneranno sul territorio”, sottolinea per dire quanto sia importante investire nel loro reinserimento sociale. E superare i falsi miti, per esempio legati alla sicurezza se è vero che nei primi sei mesi di quest’anno c’è stato un calo del 15% dei reati. “Abbiamo un Governo - attacca il presidente Riccardo Tropea - che ha deciso di abbandonare una riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata elaborata all’esito di un lungo lavoro e che ora torna a una visione carcerocentrica della pena e del trattamento sanzionatorio”. Mettendo in secondo piano le misure alternative, “sebbene - evidenzia Tropea - sia proprio l’accesso alle misure alternative a consentire l’abbassamento della recidiva”. E, in definitiva, a garantire maggiore sicurezza. L’altro fronte, per Tropea, riguarda le condizioni carcerarie. Sovraffollamento, strutture inadeguate, carenza di personale sono i problemi all’ordine del giorno: “Alla privazione della libertà si aggiunge così una compromissione dei diritti fondamentali, che porta a una maggiore afflittività della pena, che è ingiusta e anti costituzionale”. A Marialaura Andreucci, vice presidente, il compito di ricordare le iniziative concrete intraprese dalla Camera penale: dal laboratorio Nexus, un tavolo di lavoro permanente composto da soggetti che a vario titolo si occupano di esecuzione della pena, al tema del lavoro all’interno del carcere, fino alla sensibilizzazione culturale soprattutto rivolta alle nuove generazioni: “Vedere giovani ragazzi - sottolinea Andreucci - approcciarsi a qualcuno che in maniera significativa, concreta e positiva è riuscito a intraprendere un percorso di socializzazione, magari anche dopo avere commesso reati gravi, vedere il rapporto diretto, vale più di mille parole”. Trento: carcere, l’accusa di Fugatti “situazione esplosiva, i numeri vanno rispettati” di Marika Giovannini Corriere del Trentino, 10 luglio 2019 Definisce “esplosiva” la situazione “delle strutture carcerarie distribuite sul territorio nazionale”. Includendo nell’elenco anche la casa circondariale di Spini di Gardolo. E punta il dito, per la struttura trentina, sull’annoso problema del sovraffollamento. “È mia intenzione - sottolinea il governatore Maurizio Fugatti - provvedere nelle sedi opportune (in primis presso il ministero di grazie a giustizia)a promuovere un intervento teso a far rientrare i numeri della popolazione carceraria nei parametri sanciti dall’accordo di programma quadro”. Ossia 240 detenuti. A oltre cinque mesi dalla rivolta dei detenuti di Spini- avvenuta il 22 dicembre scorso - il presidente della Provincia torna ad affrontare i problemi del carcere. Fissando posizioni e obiettivi. A riportare la questione sul tavolo del governatore è un’interrogazione a risposta scritta dei consiglieri provinciali di Futura Paolo Ghezzi e Lucia Coppola: un documento presentato, a onore del vero, proprio a ridosso della rivolta di dicembre e che ha trovato risposta in questi giorni. A Fugatti, Ghezzi e Coppola chiedevano le intenzioni della giunta “per ripristinare una situazione di vivibilità nella casa circondariale di Spini”, chiedendo allo stesso tempo una “efficace revisione del sistema di assistenza sociale per abbassare il rischio che si ripetano gravissimi episodi come i suicidi e la rivolta dei detenuti e per tutelare i diritti umani e civili delle donne e degli uomini reclusi”. Da qui parte la risposta del presidente. “La gestione della casa circondariale di Trento - scrive Fugatti - ha evidenziato nel corso degli anni rilevanti criticità, con riferimento sia alle difficili condizioni lavorative del corpo di polizia penitenziaria che al ben noto problema del sovraffollamento dei detenuti e ai loro conseguenti risvolti”. Elemento cruciale, per quest’ultimo aspetto, è proprio l’accordo di programma quadro sottoscritto nel 2002 tra Provincia, Comune e governo (aggiornato poi nel 2008), che fissava la capienza massima di detenuti a quota 240. “Numero - prosegue il presidente - che doveva, secondo quanto sancito da questa disposizione, tendenzialmente essere rispettato, salvo in presenza di circostanze eccezionali e imprevedibili, comunque contenute in un tempo strettamente necessario a superare la situazione di emergenza venutasi a creare”. Ma così non è stato: “I numerosi inviti al rispetto di questo limite, rivolti dall’amministrazione che mi ha preceduto al ministro della giustizia, sono rimasti disattesi”. E “la necessità di un bilanciamento delle presenze detentive in ambito intra-distrettuale, quale condizione eccezionale e temporanea che ha giustificato il superamento del limite di capienza convenuto, è divenuto ormai ordinarietà”. È contro quest’”ordinarietà” che ora Fugatti spiega di voler intervenire. Per riportare i numeri al livello dell’accordo del 2002. “Il sovraffollamento del carcere, unito alla carenza di personale - sottolinea il governatore - determina gravi lacune alla garanzia di sicurezza, non solo nei momenti tipici della vita carceraria, ma anche nel corso delle attività culturali e ricreative che richiedono particolare e attenta vigilanza”. La critica del presidente è rivolta ai governi passati: a determinare le situazioni “esplosive” nelle carceri italiane, secondo Fugatti, sono state anche “politiche inadeguate: basti pensare all’operazione celle aperte del 2013 che ha inevitabilmente creato momenti di ingovernabilità, esponendo il sistema penitenziario fuori dal controllo della polizia penitenziaria e degli organi preposti”. Di qui la riflessione conclusiva. “Non è mia intenzione sostenere che il problema non sia complesso e di difficile soluzione, tuttavia è necessario affrontarlo prendendo in considerazione ogni aspetto coinvolto, sia con riguardo agli ospiti della struttura che a quello del personale deputato alla sua gestione”. In questo senso, Fugatti annuncia che l’Azienda sanitaria ha avviato uno studio “per la revisione dell’attuale modello organizzativo”, per assicurare la copertura medica nel corso delle 24 ore in carcere”. Infine si sta lavorando per la proposta di intesa tra Provincia, Regione e ministero relativa alle “attività trattamentali sociali” e alle “disponibilità del personale provinciale all’amministrazione penitenziaria”. Trento: “solo attraverso la rieducazione contrasteremo i tassi di recidiva” di Erica Ferro Corriere del Trentino, 10 luglio 2019 Intervista al presidente dell’Ordine degli avvocati, De Bertolini. La percentuale di coloro che, una volta espiata la pena, torna a delinquere nella società si aggira intorno al 70%. Se, tuttavia, “si dà sostanza al principio della rieducazione della pena la percentuale di recidiva si abbassa - evidenzia il presidente dell’ordine degli avvocati di Trento Andrea de Bertolini - le statistiche lo dimostrano in maniera oggettiva”. Su questo tema, in ogni caso, è indispensabile un surplus di confronto, altrimenti - rimarca de Bertolini - il carcere “rimarrà un luogo criminogenico che in termini concreti non consentirà di attuare il dettato costituzionale”. Avvocato, per abbassare la recidiva è importante attuare misure come l’accesso al lavoro? “La considerazione di partenza è che, piaccia o meno, la pena non può che essere intesa come un’occasione di risocializzazione. È indiscutibile che le opportunità di lavoro siano uno fra i più importanti strumenti per risocializzare le persone che possano avere sbagliato e che per questo siano state condannate e scontino una pena. È altrettanto vero che sotto questo profilo le carenze non mancano”. Sono dovute alle difficoltà che l’intero mondo del lavoro sta attraversando? “Anche, ma non si esauriscono solo in questo. Ci sono carenze obiettive che non rendono possibile ai detenuti accedere a dei percorsi professionali o di inserimento professionale”. Cosa si dovrebbe fare? “È indispensabile che tutti gli operatori che hanno a che fare con il sistema penitenziario si confrontino su questo tema: trincerarsi dietro alla mancanza di disponibilità è insufficiente perché questo significa che il percorso di risocializzazione per molti detenuti non si compirà e quindi vuol dire che il carcere rimarrà un luogo criminogenico, che in termini concreti non consente di attuare il dettato costituzionale”. Tutto ciò in che modo si sostanzia? “Nell’alimentare nel medio-lungo periodo circuiti di insalubrità sociale, perché se dal carcere escono persone che non si sono risocializzate la probabilità di una recidiva è certamente più ampia. Se si dà autenticamente sostanza al principio della rieducazione della pena certamente la recidiva si abbassa, le statistiche lo dimostrano in maniera oggettiva”. Tutto ciò vale anche per la casa circondariale di Spini di Gardolo? “Sì. Quello di Spini è un carcere che sotto il profilo spaziale possiede disponibilità importanti di luoghi che secondo me potrebbero essere utilizzati in maniera più concreta per dare forma a una pianificazione rispetto all’inserimento professionale dei detenuti e alle occasioni di lavoro. Certo non è semplice da attuare, ma la potenzialità spaziale di quel luogo è frustrata nella logica in cui non c’è una grande attività che lo riempia”. Per quale ragione le attività lavorative sono così importanti nel processo di risocializzazione? “Perché il lavoro è una delle attività che consentono all’essere umano di realizzare le proprie ambizioni e aspettative, di avere e dare al proprio tempo un contenuto che sia poi remunerato e dimostri che attraverso quella remunerazione uno possa godere e vivere di fonti di reddito lecite. É un veicolo di soddisfazione e di alleggerimento delle proprie frustrazioni. Certo, lavorare è faticoso, complicato, alienante a volte, ma ciò non toglie il significato autentico per cui il lavoro è una delle attività umane che consente di realizzarsi e permette a chi ha sbagliato di potersi inserire in un contesto sociale in cui tutti si riconoscono per ciò che fanno e non per ciò che hanno fatto in passato o sono stati. È un elemento che in qualche modo evolve la persona, la rende socialmente integrata, la fa sentir parte di un sistema umano e la fa in qualche maniera evitare con probabilità enormemente maggiore di deviare e quindi ricommettere condotte illecite”. Novara: penalisti in agitazione contro il sovraffollamento nelle carceri di Marco Benvenuti La Stampa, 10 luglio 2019 “Da troppo tempo si registra nel nostro paese una bieca visione “carcerocentrica” (icasticamente rappresentata dall’augurio di “marcire in galera”) del tutto avulsa dai principi costituzionali, per i quali il carcere non è l’unica sanzione penale prevista dall’ordinamento e la pena deve comunque avere funzione rieducativi”. Questo il messaggio che la Camera Penale di Novara ha diffuso aderendo in modo convinto all’astensione dalle udienze deliberata per la giornata di oggi dall’Unione camere penali italiane. Anche in tribunale a Novara è saltata la quasi totalità dei processi in calendario. La protesta ha per oggetto la tematica dell’esecuzione penale e del carcere, “argomenti - dicono dal direttivo novaresi dei penalisti - del tutto tralasciati dall’attuale governo ad onta del drammatico sovraffollamento degli istituti penitenziari, dei continui richiami sovranazionali per l’adeguamento del regime carcerario ai dettami delle convenzioni internazionali, di condizioni (anche igieniche) spesso precarie degli istituti e di un tasso di suicidi in carcere a dir poco inquietante: 67 suicidi nel 2018”. Di fronte ad una situazione confusa riguardo alle riforme, e a statistiche per le quali coloro che scontano la pena in modo alternativo rispetto alla detenzione carceraria (ad esempio in affidamento in prova ai servizi sociali) difficilmente tornano a delinquere, secondo gli avvocati novaresi “la risposta è meno, e non più, carcere”. Infatti, “il tasso di recidiva è molto alto per coloro che hanno scontato la pena interamente in carcere”. Modena: penalisti in sciopero per la mancata riforma delle carceri lapressa.it Astensione dalle udienze con presidio davanti al tribunale. Visione carcerocentrica limita l’accesso a pene alternative e percorsi di rieducazione. L’appello degli avvocati penalisti a Modena riuniti nella Camera Penale Carlo Alberto Perroux e lanciato nel maggio del 2018 per chiedere la riforma dell’ordinamento penitenziario, è rimasto di fatto lettera morta nelle stanze del parlamento ed è così che per oggi le camere penali italiane hanno indetto una giornata di astensione dalle udienze per denunciare la mancata riforma, ma non solo: gli avvocati denunciano che alcune varate dal parlamento a maggioranza Lega-M5S limitano ulteriormente il già difficile accesso alle misure alternative alla detenzione, riflettendosi in negativo sia sulle garanzie ed i diritti dei detenuti sia sul sovraffollamento delle carceri, con conseguenze anche drammatiche confermate dagli atti di suicidio o autolesionismo. È l’avvocato Sara Pavone ad illustrare, nel presidio organizzato questa mattina davanti al tribunale di Modena, i numeri dell’emergenza. “A livello locale il problema del sovraffollamento può definirsi cronico: alla data del 30.6.2019 presso la Casa Circondariale di Modena - afferma Pavone - vi erano 492 detenuti su 369 posti regolamentari, un sovraffollamento pari al 33,3%. Inoltre nell’anno 2018 sono stati registrati n. 208 casi di autolesionismo e n. 18 tentativi di suicidio. La situazione presso la Casa di reclusione di Castelfranco Emilia è altrettanto allarmante considerato che su una media annua di 100 reclusi, con una percentuale di affollamento pari al 44,3%, 34 sono stati i gesti di autolesionismo e 8 i tentativi di suicidio”. “La soluzione a questi problemi - afferma a nome della Camera Penale di Modena, Sara Pavone - non può essere individuata nella costruzione di altri istituti penitenziari, come pare essere la volontà del governo, e non può essere quella di comprimere la discrezionalità dei magistrati di sorveglianza incrementando i reati ostativi alle misure alternative alla detenzione. La soluzione dev’essere quella di adottare scelte legislative lungimiranti e rispettose del perimetro tracciato dalla Costituzione oltre che dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Per risolvere questi problemi la volontà del governo di costruire nuove carceri per i penalisti non è la strada giusta”. “L’art. 27 della Costituzione prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione. La reclusione consiste nella privazione della libertà ma tale privazione - concludono gli avvocati della Camera Penale di Modena - non può trasformarsi in una compressione dei diritti inviolabili dell’uomo quali, solo per citarne alcuni, quello alla dignità, alla salute, al mantenimento dei rapporti familiari e, naturalmente, ad ottenere un trattamento rieducativo personalizzato”. Cremona: riforma dell’Ordinamento penitenziario, gli avvocati incrociano le braccia Cremona Oggi, 10 luglio 2019 Avvocati penalisti in sciopero nella giornata di oggi per protesta contro la condizione carceraria del Paese. L’astensione è stata decisa dalla Giunta dell’Unione delle Camere Penali (Ucpi) con delibera del 20 giugno scorso. Ecco il testo inviato dalla Camera Penale della Lombardia Orientale, di cui fa parte la Camera Penale di Cremona e Crema “Sandro Bocchi”: L’esecuzione penale in Italia ha imboccato una strada buia e senza uscita, costellata da sistematiche violazioni dei diritti umani. L’attuale Governo dimostra uno stato confusionale e distruttivo sui temi della detenzione che desta allarme e preoccupazione, perché in totale contrasto con i principi costituzionali e con le più elementari regole di un Paese civile. In nome di una idea sgrammaticata di “certezza della pena”, si insegue un consenso popolare costruito sulla sollecitazione delle emotività più rozze e violente della pubblica opinione: il detenuto “marcisca in carcere”. Una vocazione “carcero-centrica” in spregio della Costituzione, che non certo a caso fa riferimento alle “pene” (art. 27) e non alla “pena”: dunque non solo carcere, ma anche altre sanzioni e misure che possano responsabilizzare il condannato in un percorso punitivo-rieducativo che consenta il suo recupero. La Riforma dell’Ordinamento Penitenziario, chiesta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza “pilota-Torreggiani” dell’8 gennaio 2013 e declinata con specificità dei temi da affrontare e rivalutare con la Legge Delega N.103/2017, dopo l’irresponsabile battuta d’arresto impressa dal precedente Governo, è stata definitivamente affossata dall’attuale maggioranza. I Decreti Legislativi emanati hanno reso operativa solo una minima parte del lavoro delle Commissioni Ministeriali chiamate ad indicare percorsi di modernizzazione del sistema detentivo. E quel poco che è rimasto non potrà trovare concreta applicazione perché non si è intervenuti per eliminare l’ingravescente sovraffollamento. Non si è voluto mettere mano all’anacronistico sistema delle ostatività, al contrario implementandolo, così comprimendo la discrezionalità dei Magistrati di Sorveglianza nella concessione di misure alternative. Ed ancora, non si è voluta realizzare la riforma sull’”affettività”, che avrebbe consentito una detenzione più serena e rispettosa di elementari diritti del detenuto e dei suoi familiari. Alla decisione politica di sminuire, attraverso l’emanazione dei decreti delegati, la portata della Legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario varata nella precedente legislatura è corrisposta l’introduzione di nuove ostatività (c.d. Spazza-corrotti) e l’inasprimento irrazionale delle pene (decreto sicurezza e decreto sicurezza bis, voto di scambio). Un sistema tutto incentrato sul reato e non sulla persona, come se dentro le carceri non vi fosse un essere umano, ma solo un’astratta fattispecie di reato. I dati statistici del Ministero della Giustizia ci rendono un quadro impietoso. La quasi totalità degli istituti penitenziari presenta un sovraffollamento oltre il livello di guardia. La media nazionale, in continuo aumento, sfiora il 130%. Un solo medico di base ogni 315 detenuti invece di un medico ogni 150. Piante organiche del tutto insufficienti con solo 930 assistenti sociali e 999 educatori per circa 60.000 detenuti. Sono cifre allarmanti che denunciano la materiale impossibilità di assicurare quel trattamento individualizzato che deve consentire il reinserimento sociale del condannato. Quanto viene annunciato sia dal Ministro della Giustizia che dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nelle loro linee programmatiche e nei loro interventi pubblici -più carcere, meno misure alternative -è dunque contrario al percorso di riforma che si era intrapreso e che ci veniva chiesta dall’Europa. La proposta sbandierata della costruzione di nuove carceri, come risposta al sovraffollamento, non solo è ideologicamente errata, ma certamente non è attuabile in tempi brevi, necessita di risorse enormi che notoriamente non ci sono e soprattutto non risulta nemmeno genericamente abbozzata dal Governo. L’Unione Camere Penali Italiane, con l’Osservatorio Carcere, ha più volte denunciato -inascoltata-la disastrosa ed esplosiva condizione carceraria del Paese. Nel 2018 sono morti 148 detenuti, tra questi ben 67 suicidi. Nel 2019, ad oggi, 60 morti, tra questi 20 suicidi. La media è quella di un decesso ogni 3 giorni. L’assistenza sanitaria è negata quasi dovunque e per i ricoveri urgenti in ospedale spesso non vi è possibilità di effettuare le traduzioni. La forzata convivenza di più persone in piccoli ambienti umidi, malsani, in pessime condizioni igieniche, alimenta virus e malattie, che con l’attuale caldo estivo trovano ulteriore possibilità di propagarsi mentre il Dap si preoccupa di diramare una circolare sull’uso della televisione (7 ore per notte), che tuteli la quiete negli istituti penitenziari per incentivare “salubri ritmi sonno-veglia”. Se la pena deve consistere quasi esclusivamente nella perdita o nella drastica riduzione della libertà, essa non può certo pregiudicare la dignità, il diritto alla salute ed il diritto alla vita del detenuto, quale che sia la gravità del delitto commesso, come ribadito di recente dalla sentenza “Viola c. Italia” della Cedu sull’abnormità dell’ergastolo ostativo. La situazione attuale e la scomparsa di qualsiasi speranza in un pur minimo cambiamento è sfociata in rivolte all’interno di numerosi istituti di pena. Trento, Rieti, Sanremo, Spoleto, Campobasso, Agrigento, Trapani, Barcellona, Poggioreale rappresentano gli ultimi rintocchi della campanella di allarme: un suono inascoltato che scuote, da Nord a Sud, l’intero Paese. I detenuti, pur assuefatti a condizioni di vita disumane, ma esasperati per la mancanza di acqua o per il mancato soccorso ad un malato grave, hanno violentemente protestato, spesso devastando interi padiglioni e/o appiccando incendi. Azioni che vanno certamente non condivise, ma che dovrebbero far accendere i riflettori su un sistema marcio, che deve immediatamente trovare la strada di una trasformazione costituzionalmente orientata e che non può essere risolto con l’immediato trasferimento dei rivoltosi in strutture punitive. Occorre al più presto metter mano ad una serie di iniziative in grado di umanizzare la pena e di riportare l’esecuzione penale nella legalità costituzionale come ci viene richiesto anche dalle giurisdizioni sovranazionali. Cosenza: i detenuti scrivono al Presidente Mattarella contro la chiusura delle scuole di Emilio Enzo Quintieri cosenzaduepuntozero.it, 10 luglio 2019 Tutti i detenuti ristretti nella Casa circondariale di Cosenza, con atto trasmesso dalla Direzione dell’Istituto, hanno scritto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per protestare contro la soppressione dei corsi di istruzione secondaria superiore attivi all’interno del carcere. La Segreteria del Quirinale ha risposto con una breve nota di non avere alcuna competenza al riguardo e che avrebbe inviato la lettera dei detenuti di Cosenza alle Autorità competenti. Probabilmente, al Quirinale, non sanno che (anche) il Presidente della Repubblica è competente a ricevere i reclami dei detenuti, come prevede l’Art. 35 dell’Ordinamento Penitenziario (Legge n. 354/1975). L’Art. 34 c. 1 della Costituzione afferma che: “La scuola è aperta a tutti”, riconoscendo in modo chiaro che il diritto all’istruzione è di tutti, indipendente dalle condizioni di ciascuno, per cui il Presidente della Repubblica, anziché limitarsi a dire di non avere competenze, avrebbe potuto accogliere il reclamo dei detenuti, raccomandando alle Autorità Scolastiche di rivedere le decisioni intraprese, perché la Costituzione di cui Egli è garante prevede che ogni cittadino, anche quello privato della libertà personale, abbia il diritto di poter frequentare una scuola e di studiare, soprattutto per dare concreta attuazione a quanto stabilito dall’Art. 27 della Costituzione che sancisce la finalità rieducativa della pena, per favorire il progressivo reinserimento dei condannati nella Società, eliminando o riducendo al minimo il rischio che loro tornino a delinquere. Chiudere le Scuole in carcere significa negare ai detenuti il diritto costituzionale all’istruzione. Non sono cittadini liberi che, chiusa una Scuola, possono sceglierne un’altra da frequentare. Possibile che chi di competenza non lo riesca a capire ? *Già Consigliere Nazionale di Radicali italiani Oristano: dieci detenuti di Massama diplomati in Finanza e Marketing di Giovanni Vito Distefano linkoristano.it, 10 luglio 2019 Tra loro uno dei pochi 100 dell’anno scolastico. Collaborazione con l’Istituto Mossa. Dieci detenuti del carcere di alta sicurezza di Oristano - Massama si sono diplomati con successo in “Amministrazione Finanza Marketing”, corso organizzato nella casa di reclusione dall’Istituto tecnico “Mossa”. Tra i neodiplomati anche uno dei pochi “cento” dell’intero istituto tecnico. L’attività nella Casa circondariale è cominciata per l’Istituto Tecnico Lorenzo Mossa cinque anni fa, e dall’anno scolastico 2017/2018 hanno conseguito il diploma di studi superiore due classi quinte della Ragioneria. “Ancora una volta”, commenta la dirigente scolastica Marillina Meloni, “grazie alla collaborazione della Dirigenza e dei docenti impegnati in questa importante mission educativa è stato raggiunto questo importante risultato”. “Tutto questo è possibile”, aggiunge la dirigente Meloni, “grazie alla collaborazione tra scuola, la direzione, il corpo di polizia penitenziaria e l’area educativa della casa di reclusione. La soddisfazione è grande, ma nessuno ha intenzione di crogiolarsi negli allori. Settembre incalza e con le sue nuove cinque classi il corso per adulti del carcere di Massama dell’Istituto Tecnico Mossa già non vede l’ora di ricominciare”. Catanzaro: firmato a protocollo per il reinserimento dei detenuti lametino.it, 10 luglio 2019 È stato sottoscritto un protocollo di intesa tra la Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, diretta da Angela Paravati, e la sezione locale dell’associazione di promozione sociale Consolidal, presieduta Teresa Gualtieri. “Dopo una collaborazione in atto già da alcuni anni - si legge in un comunicato - il protocollo mira a realizzare attività a sostegno della persona detenuta e della genitorialità in carcere, alla luce del principio di umanizzazione della pena, nonché a sensibilizzare il territorio su questi temi”. Erano presenti alla firma del protocollo anche Antonio Nania, vice presidente nazionale della Consolidal e Luigi Bulotta, segretario nazionale. Diversi gli ambiti di intervento: dalla promozione di progetti in favore dei detenuti all’attivazione di percorsi di educazione alla legalità attraverso lo sport, lo spettacolo, la cultura per favorire il diritto/dovere all’istruzione e conseguentemente il reinserimento sociale e prelavorativo dei detenuti. “La direttrice Angela Paravati - si legge - ha ringraziato espressamente la Consolidal, che recentemente, ha anche messo a disposizione un notaio, socio della stessa associazione che, senza alcun compenso, provvede ad alcuni adempimenti richiesti dai detenuti che necessitano del ministero notarile”. “Ci saranno interventi progettuali diretti a particolari categorie di soggetti (detenuti immigrati, detenuti con prole), iniziative di aiuto e sostegno morale, di sensibilizzazione e di educazione alla legalità e alla solidarietà, attività di utilità alla persona attraverso incontri e iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione. Saranno programmati incontri specifici tra i rappresentanti della Consolidal e della Casa Circondariale per concordare attività, iniziative e progetti da intraprendere, definendone i contenuti e gli aspetti operativi”. Soddisfazione per la firma del protocollo è stata espressa da Teresa Gualtieri, che ha rivolto un particolare ringraziamento alla direttrice Angela Paravati “per la grande disponibilità e sensibilità che ha sempre dimostrato favorendo la realizzazione di varie iniziative, segno tangibile degli effetti positivi della collaborazione sinergica tra pubblico e privato”. Tra le iniziative già in atto il concorso “Natale, fraternità senza barriere” giunto ormai alla quarta edizione, con la premiazione di artistici presepi realizzati dai detenuti e la realizzazione di una saletta, appositamente arredata, per consentire ai detenuti genitori di poter accogliere i loro figli in un ambiente che riproduce quello familiare. Torino: migrante morto nel Cpr, interviene il Garante dei detenuti di Davide Falcioni fanpage.it, 10 luglio 2019 “Si chiarisca. Vogliamo vedere cartelle cliniche”. “Vogliamo che su questa morte venga fatta la massima chiarezza e per questo chiederemo di vedere le cartelle cliniche per capire se sono state ignorate delle patologie o se non sono state curate in maniera adeguata”. Nel frattempo la polizia smentisce che il 32enne sia stato in passato vittima di una violenza sessuale all’interno del Cpr. Si chiama Faisal Hossai, e non Sahid Mnazi come emerso in un primo momento, il trentaduenne bengalese trovato morto ieri mattina in una stanza del Centro di Permanenza e Rimpatrio di Torino. Secondo il medico legale che ha effettuato l’ispezione sul cadavere non sarebbero evidenti segni di violenza e il decesso sarebbe avvenuto per cause naturali: il pm Valerio Longi, titolare dell’inchiesta sul caso, ha comunque disposto un’autopsia per chiarire definitivamente se siano stati commessi abusi ed eventualmente di quale natura. Nella giornata di ieri era infatti emersa l’ipotesi che il ragazzo fosse stato violentato alla fine di giugno da altri due ospiti della struttura, anche se la polizia si era affrettata a smentire sostenendo che non era mai stata sporta nessuna denuncia al riguardo e lasciando intendere che a subire lo stupro fosse stata un’altra persona. Faisal Hossai era detenuto nel Cpr di Torino da cinque mesi, da quando cioè era stato colpito da un decreto di espulsione dal territorio italiano a causa di alcuni precedenti penali. Da alcune settimane era stato posto in “isolamento”, a quanto pare non per ragioni sanitarie bensì comportamentali. La sua morte ieri mattina ha incendiato gli animi all’interno della struttura, teatro poi per tutta la giornata di rivolte e proteste da parte degli altri detenuti, stremati per le condizioni di detenzione e - sostengono - per le sistematiche violenze che sarebbero costretti a subire da parte della polizia. Del trentaduenne a lungo si era detto che fosse stato violentato e poi “abbandonato” nel Cpr senza adeguate cure mediche, circostanza smentita dalla polizia. In serata anche molti attivisti torinesi hanno manifestato all’esterno del Centro di Permanenza e Rimpatrio di corso Brunelleschi. Sulle cause del decesso del 32enne, che almeno all’apparenza non aveva problemi di salute, sarà l’autopsia a fare chiarezza. Sulla vicenda nel frattempo sono intervenuti Monica Gallo e Bruno Mellano, rispettivamente garanti dei detenuti di Torino e del Piemonte: “Vogliamo che su questa morte venga fatta la massima chiarezza e per questo chiederemo di vedere le cartelle cliniche per capire se sono state ignorate delle patologie o se non sono state curate in maniera adeguata”. Nelle prossime ore potrebbe effettuare un’ispezione della struttura un parlamentare, mentre ieri pomeriggio ha tentato di farlo il consigliere regionale Marco Grimaldi (Liberi uguali e verdi): “Solo i parlamentari possono entrare non annunciati in questi luoghi, che si cerca in ogni modo di rendere invisibili e incontrollabili, ragione per cui dovrò attendere affinché mi lascino visitare il centro ha chiarito il politico. Ancora non sappiamo come il giovane sia morto, ma sappiamo da tempo che in queste terre di nessuno sottratte al controllo, alla trasparenza e alla tutela dei più elementari diritti umani, far sentire la voce di chi è detenuto è praticamente impossibile”. Padova: cose buone dal carcere di Pietro Piccinini tempi.it, 10 luglio 2019 Viaggio nella Pasticceria Giotto, nel cuore del penitenziario Due Palazzi di Padova. Dove si sfornano grandissimi panettoni artigianali ma soprattutto uomini nuovi. Il signore che gira da stamane con il trapano in mano per riparare tutto quel che traballa nel laboratorio, e che brandisce l’acuminato attrezzo con la spensieratezza del manovale che sa il fatto suo, libero di utilizzarlo come meglio crede e sa, beh, quello ha ucciso due persone. Bisogna guardare cose del genere, per cominciare a rendersi conto davvero di quale sia la portata di redenzione di un’opera come la Pasticceria Giotto. E che razza di coraggio e di stima verso gli uomini ci voglia per portarla avanti qui, nel cuore del carcere Due Palazzi di Padova. Bisogna guardare il signore con il trapano in mano tenendo a mente che uno così, in un altro qualsiasi dei 200 nostri penitenziari, vivrebbe come vivono praticamente tutti i 60 mila detenuti in Italia: 22 ore al giorno in una cella di tre metri per tre, facendo a turno con gli altri tre compagni per stare in piedi nell’unico fazzoletto di pavimento non occupato dalle brande, a fare niente; e poi 2 ore d’aria, una la mattina, una il pomeriggio, stipati con tutti gli altri carcerati dentro a gabbie all’aperto che sembrano voliere da zoo, e nemmeno delle più grandi. A passare anni così - anni - si fa presto a perdere la cognizione di sé e di quel che si è fatto, e allora il male compiuto prende a non esistere più, esiste solo l’ingiustizia di essere costretti in quella condizione, e magari la voglia di fargliela vedere, allo Stato, agli sbirri, alla legge. E di occasioni per imparare a fare altro male, peggiore di quello già fatto, non ne mancano quando si è sbarrati in una cella per tutto il giorno in mezzo a criminali. Ma qui al Due Palazzi non è detto che debba andare così. Almeno per il signore con il trapano e altri quaranta detenuti c’è una chance. Un’alternativa al “master in delinquenza” o all’annichilimento totale di sé. La Pasticceria Giotto, appunto. I panettoni della Pasticceria Giotto nel carcere di Padova - Work Crossing è una cooperativa sociale padovana specializzata in “pasti veicolati”, gestione cucine di fabbriche, scuole, strutture sanitarie, alberghi, e ristorazione. Nel carcere della città ci è entrata 15 anni fa proprio per occuparsi della cucina. L’invito a provarci veniva da Nicola Boscoletto, che con la sua Cooperativa Giotto offriva già lavoro ai detenuti del Due Palazzi come giardinieri e operatori di call center (altro opera coraggiosa, altra storia). Di lì a poco Work Crossing lascerà la cucina, ma nel frattempo era saltata fuori l’idea di portare in prigione il laboratorio dei dolci. “Abbiamo cominciato con cinquemila panettoni e altrettanti dubbi”, racconta Roberto Polito, direttore marketing della Pasticceria Giotto. “Non sapevamo come avrebbe reagito la gente all’idea che fossero fatti dai detenuti. L’avrebbe presa bene? Si sarebbe preoccupata per l’igiene? Nessuno si aspettava che i nostri prodotti avrebbero avuto il successo che hanno oggi”. Polito ci viene spesso al Due Palazzi e infatti non è tenuto a sottoporsi ai controlli che toccano agli altri visitatori: “Io sono già schedato”, dice ridendo. È lui che guida Tempi all’interno della prigione fino ai locali della pasticceria. Superate diverse sbarre e porte di ferro aperte e subito richiuse dai secondini, si arriva in un corridoio tutto tappezzato, sulla destra, delle foto gigantografiche delle tante personalità che negli anni hanno incontrato la Giotto: stelle del cinema come Maria Grazia Cucinotta, musicisti come Blue Lou Marini, giornalisti come Giovanni Minoli, celebrità della gastronomia come il grande chef di Barcellona che ai pasticcieri della Giotto confessò di essere stato anche lui “strappato alla strada dalla pasticceria”. E poi naturalmente i vari esponenti politici, tra cui diversi ministri della Giustizia (Paola Severino e Annamaria Cancellieri si sono particolarmente affezionate all’opera). La dignità dei padri - Ma quella su cui si sofferma Polito è una foto di gruppo scattata al Meeting di Rimini del 2008, quando quelli di Work Crossing caricarono armi e bagagli e detenuti e li buttarono in mezzo alla gente in fiera. Donne, bambini, anziani. “Questo è Franco”, spiega Polito indicando un volto nel gruppo. “Cento novantotto anni di pena. Stava facendo da guida alla mostra che avevamo allestito e raccontava di sé, quando una bimba si avvicina e gli chiede: “Ma non potevi pensarci due volte prima di sparare?”. Lui incassa ma non smaltisce. Poco dopo, sul retro dello stand, dice: “Riportatemi in carcere, non posso più starci qui”. Si era già fatto 10 anni in prigione, ma per la prima volta qualcuno lo aveva obbligato a prendere coscienza del fatto che aveva ucciso. Da allora è cambiato completamente”. I detenuti del Due Palazzi hanno pene dai 6-7 anni in su, tutte definitive. Ci sono 350 celle da uno, adibite a celle da due per evitare l’effetto isolamento. Oggi sono circa 600 gli “inquilini”, ma negli anni dell’emergenza sovraffollamento sono arrivati a essere anche più di 800. Come detto, nelle galere italiane non si esce da quei buchi che sono le celle nemmeno per i pasti. Se sono fortunati, durante il giorno i detenuti possono ciondolare un po’ nel piano di pertinenza. Si capisce perché è un privilegio lavorare alla Pasticceria Giotto, dove c’è perfino la mensa per i dipendenti. Ma privilegio non è la parola giusta: è proprio l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non essere risucchiati nel nulla con la propria umanità. I pasticcieri della Giotto sanno di essere fortunati ed è per questo che “finora non è mai successo nulla di grave, anche se girano con i coltelli in mano”. Qui i carcerati “hanno un lavoro vero, non un lavoro forzato”. Sono regolarmente assunti e retribuiti, così possono mandare qualche soldo a casa senza costringere le famiglie a mettersi nelle mani di chissà chi. Scoprono la dignità di padri che alcuni non si erano mai resi conto di avere. Trovano la forza di dire ai figli di non prendere brutte strade senza doversi vergognare. La Giotto impiega 40 detenuti con orari per lo più part time, un po’ per poter offrire un maggior numero di occasioni di lavoro, un po’ perché si fatica a reggere la giornata intera, quando si sono passati anni sdraiati in una cella a fare letteralmente niente. “Alcuni, quando iniziano, hanno addirittura i movimenti rallentati”. Si comincia alle 4 del mattino con le brioche e si lavora fino alle 18. Alle 19 sotto Natale. Nei locali del laboratorio si trovano fino a 20 detenuti tutti insieme, più i “civili”: il responsabile della produzione, tre maestri pasticceri, l’uomo del controllo qualità, l’economo che fa gli acquisti, lo specialista in logistica. Vanno e vengono diversi trasportatori. Il “boss” che diventa apprendista - Una volta entrati alla Giotto, sono poche le cose che ricordano al visitatore di essere in un carcere. È un gran bel laboratorio artigianale. A parte il profumino di impasti e farciture (da svenire), colpiscono subito la pulizia, la serietà, la concentrazione, il silenzio. La cura dell’igiene è folle, come a esorcizzare i dubbi che hanno accompagnato l’impresa fin dall’inizio. Obbligatorio indossare camice e cuffia usa e getta, altrimenti non si può fare un passo. Tutto sembra filare alla massima perfezione professionale, e questo non è affatto banale, visto che c’è gente in questo posto che non aveva mai lavorato in vita sua. “Qui capita che il “boss del piano” si ritrovi a fare l’apprendista dell’ultimo scippatore, quello che in cella magari gli pulisce le scarpe, ma che in cucina gli bagna il naso in quanto a manualità”. Si rovescia tutto. Compresa la famigerata “recidiva”: normalmente il 70 per cento dei detenuti in Italia, una volta rimessi in libertà, tornano a delinquere; ma per quelli che in carcere vengono coinvolti in progetti di lavoro come la Giotto, la recidiva precipita al 5 per cento. Per lo Stato il costo è zero, al netto degli sgravi fiscali concessi alle cooperative. Eppure in tutto il paese sono meno di mille i carcerati che lavorano e possono così provare a reinserirsi nella società. Non bisogna credere al ministero quando sostiene che i detenuti lavoratori sono 17 mila: nelle statistiche ufficiali infilano anche quelli che fanno i cosiddetti lavori intramurari. Faccende da scopino in mano, peraltro non retribuite e dunque svolte di malavoglia. Il lavoro nella Pasticceria Giotto nel carcere di Padova - L’altra cosa che si nota subito nella pasticceria è l’assenza delle guardie. Perché tutto qui, spiegano alla Giotto, si basa sulla fiducia reciproca. Serve fiducia, molta fiducia, perché non solo sopravviva, ma fiorisca un’opera che per natura è a rischio permanente: basterebbe un incidente, una rissa, un’intemperanza, un tentativo di fuga, anche solo la luna storta del direttore del carcere per distruggere tutto in un attimo. Il premio più ambito. La linea della Giotto è rigore disciplinare assoluto (chi ruba un candito è fuori: su certe cose non si può transigere) e un’unica rigidità quasi “ideologica”: “Nessuna, ma proprio nessuna produzione di dolci a marchio Giotto avviene all’esterno”, dice Polito. Tutto si fa rigorosamente in carcere e poi viene portato fuori (in alberghi, negozi, mense, scuole, ospedali), nonostante l’handicap notevole di un’ora e mezza di scrupolosi controlli dei secondini su ogni camion che va o che viene. Eppure i successi ottenuti dalla Giotto sono clamorosi. Miglior pasticceria d’Italia nel 2013. Soprattutto, un panettone ormai famosissimo, scelto come regalo di Natale da ben due papi e moltissime aziende. “Ci piace tenere l’asticella alta”, si vanta Polito. Oggi la Giotto sforna circa 70 mila panettoni l’anno, “tutti fatti a mano, uno per uno. Le altre pasticcerie artigianali neanche si avvicinano a questi numeri. Quando arriva a 10 mila ordini, un pasticciere normale inizia a comprarsi le macchine”. Ma i numeri sono frutto di capacità e qualità. E quest’ultima alla Giotto è un culto. Spiega un maestro pasticciere: “Per fare i nostri panettoni ci vogliono 72 ore, dalla farina al sacchetto alimentare, di cui 24 di lievitazione. Per capirci: nelle industrie top ci mettono tre ore in tutto”. C’è un motivo, insomma, se Giotto è da dieci anni nella top ten del Gambero rosso, nella crème della classifica dei 100 migliori panettoni italiani, degustati “al buio”. Ma al di là dei riconoscimenti, il premio più ambito per l’impegno di Work Crossing è la rinascita dei detenuti. Il siciliano che sta nel reparto cioccolata illustra ai visitatori tutta la procedura di produzione con precisione e passione tali che mentre parla sembra di vederla, la cascata bruna che cola sul ripieno del bonbon. Poi sfodera il “vassoio degli assaggi” e si inorgoglisce illustrando tutti i cioccolatini, azzardati e ricercati e raffinati e squisiti come sono. “Qui abbiamo aceto balsamico e lavanda, qui miele e rosmarino: questo va moltissimo”. (L’elenco sarebbe lungo, ci limitiamo a citare i gusti provati da Tempi con piena soddisfazione). Ogni volta ricominciare da zero - Nella sala dove si tirano gli impasti e si preparano le basi dei dolci un americano si presenta: “Sono qui da lunedì!”, esclama entusiasta. È un nero grande e grosso e tatuato, ma stende la crema chantilly come un maître pâtissier parigino, attento, preciso, soddisfatto. Gli brillano gli occhi. L’esperienza della Giotto lascia addosso a questi uomini - e per molti di loro è una vera scoperta - il senso di bellezza e di dignità che c’è nel guadagnarsi da vivere col proprio sudore, facendo qualcosa di utile e di buono per il mondo, prima ancora che per sé. È questo il seme della redenzione che trasforma la pena in possibilità di ricominciare. Qualcuno di loro, una volta fuori, ha pure fatto un discreto successo rimanendo nel settore e aprendo un locale nella sua città. “Lui ha appena preso 24 in Storia medievale”, dice Roberto Fabbris, responsabile della produzione, indicando un anziano detenuto che passa davanti al suo ufficio. “È dentro da 14 anni e per questo esame si è studiato quattro libri: a volte sono io che mi vergogno”, scherza. Fabbris racconta che la selezione dei detenuti avviene tramite agenti, educatori e amministratori del carcere: sono loro a proporre una lista di nomi, dopo di che ci sono i colloqui con l’ufficio sociale. Chi viene assunto ha sei mesi di tirocinio formativo con tanto di attestati. La fatica più grande? Fabbris la sintetizza così: “Solo negli ultimi tre mesi abbiamo dovuto sostituire 10 persone, fra trasferimenti e scarcerazioni. È sempre così. E ogni volta si ricomincia da zero!”. Le quote del Principale - Se c’è una certezza alla Giotto, insomma, è l’imprevisto. Un ostacolo non da poco alla proliferazione di progetti analoghi. Dice Matteo Marchetto, il presidente della cooperativa Work Crossing: “Attualmente in tutta Italia ci sono soltanto una decina di cooperative che fanno lavorare i detenuti come noi”. E il motivo è chiaro: “Perché si devono avverare tre condizioni per poter avviare un’impresa così: serve spazio nel carcere; ci vuole la disponibilità dell’amministrazione del penitenziario; infine occorre un’impresa disposta a rischiare. Soprattutto quest’ultima condizione manca”. Del resto non è nemmeno evidente il guadagno che si può portare a casa imbarcandosi in una simile avventura. “Non è certo il profitto”, spiega Marchetto, quanto “il ritorno in termini di esperienza”. Dice il presidente di Work Crossing: “Questo è al fondo il risvolto più interessante, la possibilità di scoprire, vedere, che i desideri del cuore dell’uomo sono davvero gli stessi per tutti. Per noi che siamo liberi come per loro che stanno dietro le sbarre”. E come mai lo Stato, alla luce dei risultati, sembra non darsi troppo da fare per moltiplicare i casi Giotto? “Se nel pavimento ci sono 99 piastrelle annerite dalla sporcizia e una solo bianca splendente, è più facile annerire l’unica bianca che pulire tutte le altre”. Mettersi a pulire, riflette Marchetto, costa fatica ed è un rischio che non tutti sono pronti a prendersi. “Noi accettiamo di correrlo perché sappiamo che una quota sociale ce l’ha il Principale: ogni giorno, da 15 anni, può succedere un casino che ci costringa a chiudere. Se finora non è successo, è tutto merito Suo”. Torte, biscotti, cioccolato, torroni, focacce veneziane, grissini e altre leccornie. Oltre, ovviamente, ai celebri panettoni artigianali che hanno conquistato prima papa Bendetto XVI e poi papa Francesco. I cesti e i bauletti della Pasticceria Giotto sono stati più volte il regalo di Natale “ufficiale” scelto dai due pontefici per amici e collaborati. Dei 70 mila panettoni sfornati ogni anno dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, circa la metà infatti è venduto direttamente ad aziende di tutte le dimensioni che ne fanno incetta per il tradizionale pensiero natalizio destinato a clienti e dipendenti. Il resto passa attraverso i canali dell’e-commerce (6-7.000 i panettoni venduti online) e dei 250 rivenditori autorizzati, tra i quali spiccano i due negozi monomarca Giotto a Padova. Roma: a Rebibbia il progetto “Ricuciamolo insieme” con l’Accademia dei sarti di Federica Rinaudo Il Messaggero, 10 luglio 2019 Si accendono le luci sulla passerella. La sfilata sta per avere inizio. Nessuna location mozzafiato o scenografie tipiche da fashion show ma tanta semplicità e la voglia di realizzare un sogno. Prende vita così, nell’area verde dell’Istituto penitenziario di Rebibbia, la seconda edizione di “Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme”, l’evento ideato dall’Accademia Nazionale dei Sartori, in collaborazione con la stessa casa circondariale e sostenuto dalla Bmw Roma, che ha finanziato l’acquisto di materiale didattico ed attrezzature, e da Drapers, fornitore dei tessuti, che coinvolge in un percorso formativo i detenuti che vogliono imparare un mestiere, quello del sarto, all’insegna dell’artigianalità. Un percorso formativo di tre anni al termine del quale i partecipanti sono pronti per il lavoro e il reinserimento sociale. Dedicata alla memoria di Ilario Piscioneri, lo stilista che per primo ha creduto nelle potenzialità del progetto, la serata è stata un turbinio di emozioni. Non solo quelle dei detenuti-sarti, pronti a sfilare con i modelli creati da loro, ma anche quelle dei presenti, tra gli altri: i fratelli Piscioneri, Daniele, Manuel e Alessandro, la direttrice della casa circondariale Rosella Santoro, i conduttori della kermesse Paolo Cecinelli e Francesca Mercatini, Gianluca Durante, ad di Bmw Roma, numerosi imprenditori e vertici amministrativi di Rebibbia. Applausi generosi della platea per i sette modelli speciali, tra cui Manuel Zumpano, 32 enne di grande talento, e speranzoso di cambiare il suo futuro seguendo la passione per “ago e filo”. Gorizia: il teatro entra in carcere e trasforma la vita dei detenuti di Luisa Pozzar Avvenire, 10 luglio 2019 Il teatro che entra nelle carceri per costruire una relazione tra ‘fuori” e “dentro”, tra società e detenuti. È il “Teatro delle ceneri”, nato dall’arte e dalla scelta di vita di Elisa Menon, attrice di teatro sociale, regista e danzatrice che ha scelto di dedicarsi al futuro dei detenuti, partendo da Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, con la compagnia teatrale “Fierascena” fondata nel 2010. È un progetto tra il passato e il presente, al di là del muro, attraverso la lente del “noi”. Nel 2017 i detenuti della casa circondariale di Gorizia raccontarono, dopo un lavoro di diversi mesi, un’Odissea al contrario, nella quale una caramella divenuta simbolicamente il cavallo di Troia della situazione offra uno spaccato sulla routine del carcere, sulla mancanza lacerante degli affetti più cari, sulla colpa che pesa come una pietra sul cuore di ogni detenuto e sul bisogno estremo di essere visti come persone. A giugno 2019 ecco, invece, “Soma-la parte corporea dell’uomo”, uno spettacolo realizzato dai detenuti della casa circondariale di Trieste e andato in scena il 17 e il2lgiugno rispettivamente presso le Case circondariali di Trieste e di Gorizia. Qui i detenuti hanno riflettuto sulla verità che il corpo racconta - “Siamo o non siamo forse tutti dotati di un corpo che nasce, respira, desidera, soffre, mangia, riposa, ama, odia, teme, gioisce, si difende... e poi alla fine muore?” - e hanno narrato il tema della trasformazione che le esperienze della vita determinano in ogni persona e nelle relazioni con il mondo che le circonda. “A mea te, a tutti possono succedere cose strabilianti inaudite che, se le vai a raccontare a chi non ne è stato toccato, nessuno ti crede”. È un gruppo di detenuti, dunque, che ha riconosciuto il valore del percorso fatto, tanto da volerlo custodire anche per i detenuti di domani. Il lavoro proposto da Fierascena ha un prezzo importante da pagare per chi accetta di farlo: lo ripete sempre Menon, ad ogni occasione in cui la si incontra. “Al detenuto viene chiesto di mettere in gioco la propria persona e di fare un percorso che non sarà semplice o esente da fatica. Ma è un percorso che poi, lo vediamo nel tempo, è trasformativo, addirittura riparativo - sottolinea - perché l’arte ha questa capacità riparativa in sé e noi non facciamo altro che offrirla come strumento a chi accoglie il nostro progetto e accetta, con per l’anima che, troppo spesso, dopo l’ingresso in carcere si anestetizza per sopravvivere al peso della colpa, all’isolamento, alla solitudine, alla convivenza che il sovraffollamento rende ancora più pesante. Poter ascoltare dalla voce e dai gesti dei detenuti ciò che il carcere è realmente, permette anche al pubblico esterno di andare al di là degli stereotipi. Perché lì, in quel momento, l’attore è senza maschera e porta in scena il proprio dramma personale, pur sublimato nell’arte che ne purifica i tratti più aspri, ma senza togliere nulla all’intensità del racconto. Ma è anche un’esperienza trasformativa per altri detenuti che vanno a vedere i propri compagni. Tutto ciò che si vede non è più esperienza isolata: l’“io” lascia spazio ad un “tu” e quindi ad un “noi” che, allora sì, può guardare ad un futuro possibile al di là dell’esclusione. Roma: studenti e detenuti vogliono incontrarsi, sulla scia di Eschilo di Giancarlo Capozzoli* huffingtonpost.it, 10 luglio 2019 L’Università e la prigione. La produzione e la diffusione della cultura e l’incultura e l’ignoranza si incontrano. Il futuro e l’assenza di futuro. Il tempo che manca (per gli esami, per gli amici, per le relazioni per il tempo libero per gli amori) e l’assenza di tempo sempre uguale. Il corpo libero e il corpo recluso. L’Università di Rebibbia non è solo il titolo di un bel libro di Goliarda Sapienza, relativa alla sua esperienza personale della detenzione. Breve e intensa, ovviamente. L’Università di Rebibbia è anche un’esperienza. Un evento. Una Ereignis, per intenderci filosoficamente. Un’esperienza cioè in cui più fattori diversi ne determinano l’essenza. Ciò che accade. L’Università di Rebibbia è innanzitutto l’esperienza che alcuni, pochi, troppo pochi per la verità, detenuti hanno deciso di fare e stanno facendo all’interno delle mura grigie e squallide della casa di reclusione. Da qualche anno ormai, infatti, si dà la possibilità, in collaborazione con le maggiori Università pubbliche a Roma, La Sapienza, Tor Vergata, RomaTre, di poter frequentare corsi universitari e sostenere gli esami e laurearsi, per chi, detenuto, vuole intraprendere o continuare il percorso accademico. Piuttosto che lasciarlo interrotto. Sospeso. È un’esperienza fondamentale anche per destinarsi a qualcosa di più grande e importante della condizione che si sta vivendo. Questo è un aspetto. E l’importanza è lampante. L’Università a Rebibbia è però anche un esperimento che, grazie alla collaborazione con la cattedra di Drammaturgia Antica di Tor Vergata, si sta tentando. Il tentativo è quello di fare incontrare due mondi, due realtà altrimenti lontane e incomparabili. Separate già alla partenza. Separato dai muri della galera, ovviamente. Separazione dovuta anche alla chiusura, per così dire, di entrambe queste realtà. Separate in partenza. Gli scenari sono separati in partenza. Questo incontro, questo accadimento, questo Evento può accadere, e sta già accadendo, con il tramite del teatro. Il teatro che si fa interlocutore e spunto di comunicazione tra due realtà che parlano anche lingue differenti. Il teatro dunque si fa luogo di incontro, di scambio. Di comunicazione. Il piano su cui avviene questo scambio è reale, è empatico, culturale, estetico, filosofico. Fisico e letterario assieme. Il teatro inteso come oltrepassamento delle proprie barriere mentali, e come superamento delle sbarre che limitano gli orizzonti e spengono i sensi. Il teatro, l’evento culturale tra l’università, da una parte, e il carcere dall’altra, si è detto. L’Università è uno dei luoghi, anzi il luogo deputato (almeno in una concezione teorica e intenzionale) alla produzione e alla diffusione della Cultura. L’Università è il luogo dell’approfondimento, dello studio e della ricerca di quelle materie e di quei temi che appassionano e che determinano (in parte e in teoria) anche le scelte future, gli studi, la Cultura, la propria crescita professionale e umana. La vita in una parola. L’università è in quest’ottica un progetto di vita. Si affrontano rinunce immediate in vista di un bene più grande, il sogno di diventare professionista, medico ingegnere architetto filosofo magistrato professore. Ci si progetta, appunto. Ci si getta avanti in vista di un futuro che quantomeno si è scelto. Nonostante il periodo storico di continua crisi economica, molti ancora inseguono l’idea e il sogno di realizzare ciò per cui si è studiato. L’Università è i libri scambiati, gli incontri nei corridoi, le lunghe pause caffè, le lezioni che infiammano gli animi, le nuove letture che stimolano pensieri diversi, l’Università è i professori e la loro disponibilità variabile verso i propri studenti. Ecco, l’Università è innanzitutto gli studenti e le studentesse che brulicano nei corridoi e animano le aule durante le lezioni. È la loro preparazione e la loro curiosità che stimolano ad un confronto costante. Questa è l’Università per come è diventata negli ultimi cinquant’anni. Ma, nonostante la diffusione sempre più aperta del sapere accademico, la popolazione degli studenti universitari appartiene, in linea di massima, a quella borghesia, che può permettere ai propri figli di studiare e progettare il proprio futuro senza la necessità di lasciare gli studi in cerca di una prima occupazione. A quella borghesia, cioè, che può immaginare per i propri figli un lavoro intellettuale, meno faticoso, più responsabilizzante e più remunerato anche. Già a partire da questo si può notare la prima separazione dal carcere. Almeno per quello che è oggi il carcere. Si è detto che in carcere alcuni, pochi, detenuti decidono di intraprendere un percorso universitario. I numeri sono pochi davvero, anche se in crescita. Il punto è che la maggior parte della popolazione detenuta è al limite della scolarizzazione e peggio, dell’alfabetizzazione. Il punto è, si noti bene, l’assenza quasi totale della capacità di capire un testo, anche semplice. Il senso, l’intenzione dell’autore, ma prima ancora la capacità di concentrarsi, e di saper leggere e scrivere. Leggere e scrivere. Fare incontrare queste realtà contrapposte, sì contrapposte, e distanti è la scommessa e l’intenzione a cui prima facevamo cenno. La proposta, fatta agli studenti e agli allievi che hanno partecipato al laboratorio interdisciplinare in vista di mettere in scena l’Agamennone di Eschilo, di portare in scena nel teatro interno al carcere e per i prigionieri lo spettacolo, è stata accolta entusiasticamente. Questi studenti hanno ben inteso il luogo di sofferenza e pena che occuperanno con i loro corpi e la loro voce. Non è stato necessario fare loro le avvertenze sul rispetto e sulla delicatezza da avere nei confronti degli interni. Il carcere non è uno zoo, ci sono esseri umani. Altri esseri umani. È un principio che devono tenere ben chiaro. Ed è ben chiaro. Nonostante il peso che affronteranno. D’altra parte invece i detenuti hanno accettato con altrettanto entusiasmo di assistere alla messa in scena di uno spettacolo, tutto per loro. Come un regalo. O un dono inatteso. Il dono è nella possibilità di vedere il mondo fuori. Di non essere dimenticati. Di rompere la monotonia. Di guardare semplicemente altri visi e altri sguardi. I detenuti fremono all’idea che qualcuno possa chiedere informazioni su di loro, sulle loro differenti personalità, hanno voglia di incontrare questi studenti, per confrontarsi o anche semplicemente per parlare. Questi ragazzi, detenuti, hanno voglia di innamorarsi della protagonista che già immaginano meravigliosa e altera. Altri si accontentano anche solo di una corrispondenza, di una lettera. Di un saluto anche solo accennato. Di un sorriso. L’Università e Rebibbia si incontrano in questo senso. L’Università e la prigione. La produzione e la diffusione della Cultura e l’incultura e l’ignoranza si incontrano. Il futuro e l’assenza di futuro. Il tempo che manca (per gli esami, per gli amici, per le relazioni per il tempo libero per gli amori) e l’assenza di tempo sempre uguale. Il corpo libero e il corpo recluso. O meglio: la possibilità di un corpo di potersi esprimere liberamente e nelle forme che vuole e il corpo, recluso che ha come modo di espressione solo lo sport. E il teatro appunto. Eppure. Eppure c’è da sottolineare uno strano accavallamento tra queste concezioni diverse del corpo libero/corpo recluso. Il corpo recluso è un corpo che si desensibilizza, si anestetizza, si spegne: olfatto, vista, udito, tatto, si anestetizzano non avendo altri stimoli oltre i soliti sempre uguali. Eppure, nonostante questa anestesia, il corpo recluso, perché privo di sovrastrutture borghesi, mantiene un ché di spontaneo di sfrontato, di necessariamente libero che invece manca a chi questa libertà la vive quotidianamente. Dimenticandosene. La dimenticanza del corpo, si potrebbe dire. Anche in questo senso si consuma la scommessa di questo incontro, quindi. La possibilità, cioè, che avvenga uno scambio, alla pari. Anche se da punti di partenza e di arrivo diversi. I liberi, gli studenti, possono trasmettere la bellezza della cultura, il piacere dello studio, l’importanza delle arti, la necessità dell’approfondimento, la complessità del pensiero, l’argutezza del pensiero critico, l’urgenza di un domandare filosofico. I detenuti, da parte loro, invece, possono insegnare e trasmettere la bellezza della spontaneità e la necessità dell’espressione del corpo stesso. Anche, o forse proprio perché, recluso. Possono insegnare, inoltre, ai liberi, che anche un corpo libero può essere recluso. Possono insegnare che anche in un corpo recluso si cela uno spirito libero. *Regista teatrale e scrittore Massa Marittima (Gr): progetto di apicoltura nella Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2019 La Cooperativa Sociale Thc (Together let’s Help the Community!) ha dato il via ad un corso di apicoltura all’interno della Casa Circondariale di Massa Marittima nella Provincia di Grosseto, rilevando, nel 2018, l’attività apistica ventennale dello stesso Istituto. Verranno formate due persone detenute affinché si possa sviluppare, per loro, un futuro percorso di inserimento lavorativo. La Direzione del carcere, nella figura del Direttore, Dottoressa Cristina Morrone, crede fortemente nel progetto sottolineando “l’importanza del lavoro come qualificazione dell’uomo e, quindi, come diritto di tutti, anche e soprattutto delle persone private della libertà che, spesso, si dimostrano pronte nel mettersi in gioco a più livelli”. “Uno degli obiettivi è coinvolgere il più possibile le aziende limitrofe all’Istituto, in modo da poter ampliare l’attività e permettere a più persone detenute di impegnarsi nel tempo, in modo continuativo, offrendo loro la concreta possibilità di un valido reinserimento sociale e lavorativo” ha dichiarato il Presidente della Cooperativa. Quest’attività relativa all’apicoltura, inoltre, non è che la punta dell’iceberg di un progetto più grande che la giovane Cooperativa Sociale romana ha intenzione di portare avanti, arricchendo l’offerta formativa in quell’Istituto, già entro il prossimo anno, con corsi di giardinaggio, agricoltura e vivaismo. Al momento, con il lavoro svolto si produce il miele che, nel breve periodo, verrà commercializzato e che permetterà il sostentamento del progetto oltre che rappresentare un veicolo del duro e costante impegno prodigato. Napoli: Secondigliano, concerto per i detenuti organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio di Antonio Mattone Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2019 Nel primo pomeriggio di lunedì 8 luglio si è svolto nella casa circondariale di Secondigliano un concerto per i detenuti organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Il gruppo dei Caponi Brothers e la cantante Marina Bruno, hanno offerto un’ora non solo di intrattenimento ma di vera passione musicale. I Caponi brothers hanno proposto la loro particolarissima interpretazione di brani classici della canzone napoletana, rivisitati in contaminazione con alcuni standard Jazz. Ecco la Rumba degli scugnizzi rotolare sui ritmi di Caravan; Funiculì ritmata su Nostalgia in Times Square e una bellissima Voce è notte adagiata sulle note di Fever, tutte elaborazioni del progetto “Parthenoplay” portato avanti dal gruppo musicale. Gli 80 detenuti presenti hanno apprezzato molto le interpretazioni sofisticate dei classici napoletani e hanno salutato con un applauso caloroso e la standing ovation. Il maestro Giuseppe Di Capua, che guida il gruppo che recentemente miete successi su e giù per l’Italia, si è detto felicissimo di partecipare a questa iniziativa, peraltro calorosamente accolta dalla direttrice Giulia Russo. Erano presenti anche i vicedirettori Ciro Proto e Chiara Masi. La splendida voce solista Marina Bruno ha condotto il pomeriggio con entusiasmo e viva simpatia verso i detenuti intervenuti. Alla fine dello spettacolo, un gelato per tutti ha reso ancora più festosa la giornata di questo afoso luglio di una estate che si preannuncia davvero difficile per chi vive dietro le sbarre. Milano: un set fotografico nelle celle delle donne detenute, la mostra alla Triennale di Teresa Monestiroli La Repubblica, 10 luglio 2019 Non fatevi ingannare dal titolo “PosSession” perché la mostra non ha niente a che vedere con l’idea del possesso, che legata alla prigione farebbe pensare a un eccesso di possesso. Piuttosto “Pos- Session” sta per “sessione di posa” e si riferisce al set cinematografico che per tre giorni ha invaso il reparto femminile del carcere di San Vittore portando per la prima volta una macchina fotografica dentro le celle e immortalando otto detenute in quella che temporaneamente è la loro casa, una piccola stanza personalizzata con dettagli che a noi che siamo fuori sembrano minimi, ma per loro non lo sono. Tende colorate, copriletto a quadretti, fotografie. “Sono state le ragazze a chiedere di essere fotografate nelle celle - racconta Cinzia Pedrizzetti, regista fotografa e ideatrice del progetto - abbiamo dovuto chiedere il permesso, normalmente non è possibile”. E così quello che doveva essere un lavoro sul backstage di uno spettacolo teatrale, “Diarios di Frida. Viva la vida”, che andrà in scena il 23 luglio nel giardino della Triennale, è diventato un progetto fotografico sulla detenzione femminile. Un percorso di riabilitazione, trasformazione e riscatto di chi sta dentro, che vuole essere anche uno strumento per abbattere barriere e pregiudizi di chi sta fuori. “Perché se non si abbassa la rabbia e l’odio, se fuori non si capisce che in carcere si lavora e che l’arte è l’occasione e lo strumento di un possibile cambiamento spiega Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale San Vittore - queste persone una volta uscite incontreranno solo muri”. Punto d’incontro fra dentro e fuori sarà fino al 28 luglio l’atrio della Triennale, un perfetto non luogo per cui il presidente Stefano Boeri ha realizzato un allestimento immersivo che costringe il pubblico a passare attraverso le immagini stampate su tessuti bianchi che pendono dal soffitto. Foto intense che trasferiscono la vita del carcere nel cuore del Palazzo dell’Arte, “dando risonanza a immagini forti che raccontano il coraggio di vincere la corazza del dolore - dice Siciliano - mostrando all’esterno, in tutta la loro fragilità”. “San Vittore e Triennale si trovano a poche centinaia di metri, ma la distanza fra queste due realtà è enorme - spiega Boeri Questo progetto accorcia lo spazio che le separa ed è solo l’inizio di una collaborazione fra le due istituzioni”. Tutto nasce nel laboratorio teatrale gestito da Donatella Massimilla. Pensando di realizzare un progetto cinematografico Cinzia Pedrizzetti inizia a fotografare il backstage dove le detenute-attrici si preparano ad andare in scena. “Le foto erano così potenti che si meritavano di diventare dei ritratti - racconta la fotografa Per ogni detenuta ce ne sono due, uno con gli abiti di scena dello spettacolo realizzato usando luci al naturale, l’altro con i vestiti di tutti i giorni ma aggiungendo luci colorate che danno un effetto teatrale”. Il risultato è esposto in Triennale, mentre a San Vittore è allestita una mostra con le immagini del backstage, visitatile da chi parteciperà al workshop organizzato il 18 luglio (per iscriversi scrivere a educazione.cc.milano@giustizia.it) dentro la casa circondariale: una lezione di fotografia in cui detenute e liberi cittadini si scambieranno i panni del fotografo e della modella. L’esperienza si ripete il 23 in Triennale prima dello spettacolo “Diarios de Frida”. Noi prigionieri nel Paese dei divieti di Michele Ainis La Repubblica, 10 luglio 2019 Siamo in guerra, anche se il Capo dello Stato non l’ha mai dichiarata, come vorrebbe la Costituzione. Navi da guerra presidiano i nostri mari, per respingere l’assalto dei migranti. Con il rinforzo d’aerei militari, motovedette, radar, in virtù dell’intesa stipulata dai ministri Trenta e Salvini. Sorgerà un muro fra l’Italia e la Slovenia, stando all’idea di Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli. E sul fronte interno, impronte digitali ai dipendenti pubblici, come s’usa con i detenuti, e come adesso impone la legge Concretezza (che buffo nome), il cui regolamento è atteso entro fine luglio. Maniere forti con i tifosi di calcio, per effetto del decreto Sicurezza bis, in vigore da giugno. Nuove ordinanze dei sindaci contro barboni e mendicanti (pare che la povertà sia contraria alla pubblica decenza). E più in generale una stretta sui diritti, sulle libertà civili. Insomma, soffia un vento autoritario. Che si rafforza attraverso la lista dei nuovi divieti, e però non solo. Vi s’aggiunge infatti un atteggiamento d’incuria, d’abbandono verso le istanze dei più deboli. Esempio: la legge sull’eutanasia. Il Parlamento avrebbe dovuto battezzarla entro settembre, così ha stabilito la Consulta. Invece non caverà un ragno dal buco, dato che il suo esame non figura più nemmeno nel calendario dei lavori. Come del resto qualsiasi altra proposta normativa sui temi etici, ormai diventati eretici. In compenso fioccano diktat, piovono castighi. A leggere l’ultimo decreto Sicurezza, si contano 5 nuovi divieti; 6 reati; 7 inasprimenti delle pene; 3 misure di sicurezza disposte dai questori. E il buon esempio fa proseliti, si propaga dal Nord al Sud della penisola attraverso le ordinanze sindacali, specie nei piccoli Comuni. Ne è prova un campionario ristretto agli episodi più recenti. A Cigliano (nel Vercellese) il primo cittadino ha proibito ogni forma d’accattonaggio. Idem a Treviglio (provincia di Bergamo), con una multa di 300 euro, da pagare ovviamente in monetine. O a Terni, dove chi chiede l’elemosina rischia 3 mesi di galera. Mentre a Cinisello Balsamo il sindaco ha vietato la sosta per caravan e furgoni, le case ambulanti in cui vivono i nomadi. L’alternativa è dormire sotto i ponti, ma il 4 luglio a Genova i vigili hanno inflitto 200 euro di multa a un senzatetto, applicando il regolamento di polizia urbana. Questo accanimento contro gli ultimi determina un’offesa alla Costituzione. Se c’è un tratto, se c’è un segno distintivo nella Carta del 1947, esso consiste infatti nella protezione dei più deboli, di chi versa in condizioni di minorità sociale. I malati (articolo 32). I disoccupati (articolo 4). Gli studenti bisognosi (articolo 34). I detenuti (articolo 27). Gli stranieri (articolo 10). I poveri (articolo 38). E naturalmente vecchi, donne, bambini, cui si rivolge una decina di disposizioni. Ma i diritti costituzionali hanno bisogno d’un popolo che li sostenga, che se ne faccia interprete. Viceversa l’autoritarismo della società politica contagia la società civile, rendendola più intollerante, più cattiva. Sicché i femminicidi aumentano (39 casi nell’ultimo semestre). Cresce la violenza sui minori, come ha denunziato un paio di settimane fa l’associazione dei pediatri, durante un’audizione in Parlamento. E in Italia un anziano su 3 subisce a propria volta atti di violenza, secondo dati Oms. È il frutto avvelenato del clima che segna i nostri tempi: l’avvento della “personalità autoritaria”, come la definì un celebre studio di Theodor Adorno e dei suoi allievi, condotto all’università di Berkeley negli anni Quaranta. Ovvero un tipo umano forte con i deboli, debole con i forti. Dunque razzista per vocazione, più che per convinzione. Tipi così sono sempre esistiti, nelle sacche maleolenti d’ogni società. Ma se adesso diventano un esercito è a causa delle parole d’ordine che ci somministra la politica, della militarizzazione dei conflitti, della criminalizzazione del diverso. Sennonché in questa guerra non contano il nemico né il pericolo, fantasmi procreati ad arte, come in un teatro d’ombre cinesi. Conta la guerra in sé, l’agire combattente. Il rischio, per l’Italia, è di fare harakiri. La compassione perduta di Enzo Bianchi La Repubblica, 10 luglio 2019 Chi stiamo diventando? Uno degli argomenti chiave nella complessa questione delle migrazioni riguarda la presunta minaccia alla nostra identità che l’afflusso di una certa tipologia - etnica, religiosa, reddituale - di stranieri rappresenterebbe per la società italiana. Ma attualmente a preoccupare maggiormente non dovrebbe essere un’ipotetica futura “sostituzione” dell’italianità - qualunque cosa significhi questo termine - con elementi estranei alla storia e alla cultura del nostro Paese, quanto piuttosto un già avvenuto mutamento nel modo di pensare, di parlare e di agire fino a pochi anni fa patrimonio largamente condiviso. Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi. “Pietà l’è morta” si cantava durante la resistenza al nazifascismo, rivendicando il diritto a ripagare con la stessa moneta della spietatezza che si macchiava di crimini contro l’umanità. Ora che da oltre mezzo secolo le nostre società e le legislazioni degli Stati hanno bandito questo concetto di “giusta vendetta”, ecco che vediamo ogni giorno affermarsi un tacito proclama: “La compassione è morta”. Sembra morto quel sentimento per cui, raggiunti dalla sofferenza di un altro, ci facciamo carico del suo dolore, fino a sentirlo con lui come nostro: il dolore dell’altro diventa il mio dolore. Compatire è essenzialmente “soffrire insieme”: qualità umanissima che non è mai stato facile vivere in profondità, ma che oggi viene sbeffeggiata come buonismo da anime belle. Il contesto culturale, per lo meno dagli anni Sessanta del secolo scorso, ha creato una possibilità di percezione del male molto diversa dal passato: si pensi anche solo alla rimozione che le nostre società sanno fare della morte e, simultaneamente, alla spettacolarizzazione e all’esibizione della sofferenza, addirittura dell’orrido, del macabro in diretta, attraverso i mezzi di comunicazione. Da un lato ci si abitua alla visione del male, tenendolo di fatto lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione; dall’altro si soffoca, riducendolo a un’emozione morbosa, ciò che dovrebbe invece essere una chiamata, una domanda a cui rispondere. I media diventano in realtà barriere, muri tra noi e il dolore altrui, e ci condannano sempre di più a un quotidiano di solitudine e di isolamento. Abbiamo paradossalmente difficoltà a diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente, e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti “liquidi”, inversamente proporzionali alle relazioni concrete, “solide”. E così la morte della prossimità è vissuta come negazione o “morte del prossimo”. Ma negli ultimi anni, in Italia come in molti paesi dell’Occidente, la situazione è ulteriormente precipitata: ci si vanta della spietatezza verso i più deboli, siano essi i poveri “di casa nostra”, gli immigrati o gli appartenenti a determinate etnie. La solidarietà, lo storico “mutuo soccorso”, il sostenersi tra esseri umani segnati dalla sofferenza, il “patire insieme” si è tramutato - dapprima nel linguaggio e poi nei comportamenti - in una ricerca ossessiva dello “star bene da soli”, senza gli altri, anzi, contro di loro. Se questo però è tragicamente il quadro prevalente, quello che si impone nei ragionamenti urlati di certa politica come dei mass media, non dobbiamo rassegnarci a trasformare questa deleteria tendenza maggioritaria in un sentimento universale. È necessario uno sforzo di autentica resistenza non solo per sostenere in prima persona l’etica della compassione, ma anche per saper discernere, riconoscere, dare voce a chi la solidarietà verso i proprio fratelli e sorelle in umanità non ha mai smesso di mostrarla e continua a farlo nel silenzio di tanti o addirittura nel dileggio dei molti. L’essere umano si sta mostrando sì capace chiudere le viscere in un egoismo che lo disumanizza, ma può sempre aprire le proprie viscere per soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente: la compassione muore dove noi la uccidiamo giorno dopo giorno, ma la dignità umana è viva là dove anche una sola persona riconosce il proprio simile nella sofferenza, si china su di lui, lo abbraccia e, così facendo, lo salva. Perché “chi salva una vita, salva il mondo intero”. Quanto odio dietro le parole di Stefano Bartezzaghi La Repubblica, 10 luglio 2019 Ma non dovevano essere “solo” parole? Cécile Kyenge mandata con coretti ultras “fuori dalle palle”; Elsa Fornero immaginata davanti alla “corte marziale” e quindi esiliata. Laura Boldrini rappresentata su un palco da una bambola gonfiabile (per usi non infantili). Ilaria Cucchi invitata a vergognarsi, in particolare di un post su Facebook che “fa schifo”. Da ultimo, Carola Rackete, proclamata “criminale”, “pirata” e anche antipatica, in quanto “sbruffoncella”. Fossero anche “solo” parole, e innocue, servirebbero pur sempre a manifestare un pensiero e un modo di stare al mondo. Ma da un sia minimo florilegio di quelle che ha variamente indirizzato verso i suoi obiettivi polemici femminili persino í suoi alleati hanno finito per ritenere il vicepremier e ministro dell’Interno un tantino sessista e maschilista, nonché tendenzialmente volgare. Segno che non erano proprio “soltanto” parole. L’interessato non può meravigliarsene, eppure lo ha fatto, e anzi si è infuriato. Gli è allora venuto incontro il suo collega vicepremier, con la fantastica dichiarazione: “Quanto casino, per un’intervista”. Salvini se l’è infatti presa per l’intervista data a Repubblica da Spadafora. Ma sono parole anche quelle di Di Maio, quelle con cui ha reagito Salvini, quelle con cui è stata annunciata la sospensione dell’incontro con la stampa in cui altre parole avrebbero dovuto presentare l’iniziativa sui centri antiviolenza. Tutte parole, sempre e “soltanto” parole. Alla fine le parole non sono poi così importanti come si sente dire, spesso e quasi sempre in modo un po’ troppo querulo. Detto questo, però, si aggiunga che non sono quasi mai “soltanto” parole, le parole, e ancora più raramente sono innocue. Inutile pensare di ridurle all’occasionalità di un’“intervista”, quando si è riscontrato oramai da anni che nessuno può pensare più di emergere nella scena politica senza il primario conforto di un’attitudine a cesellare, scagliare, ritrarre, martellare, mitragliare, schivare parole. È sempre stato così, ma ora può anche essere l’unico requisito, necessario e sufficiente. Siamo governati da persone che non fanno che parlare, ma sarebbe uno sciocco autoinganno aggiungere che sanno “soltanto” parlare. Le parole possono costruire mondi, in un “fiat” si sarebbe detto una volta. Ciò che è detto risulta - automaticamente e perciò stesso - dicibile. È molto semplice: “orango”, “bambola gonfiabile”, “bagascia” (Beppe Grillo su Rita Levi Montalcini: per non dimenticare). Ogni espettorazione verbale fa essere qualcosa nel mondo e non si torna indietro. Ciò che è rifiutato (“mi fa schifo!”) è azzerato dall’orizzonte del reale. Ciò che è posto (“criminale!”) non ha bisogno di ulteriori verifiche, ci sarà pure un giudice che prima o poi capirà a chi è meglio dar ragione. Parole che costruiscono mentalità, senso comune, persino mode: è un dato dell’epoca la voluttà con cui le ingiurie sessistoidi e razzistoidi dei leader vengono perfezionate, acuite, amplificate, moltiplicate nel numero e nella gravità dai seguaci. Più ancora dei “soldi, soldi” del bravo Mahmood, le vecchie “parole, parole, parole” di Alberto Lupo e Mina: ma parole con cui l’autoproclamato ministro del Buon Senso ne sta costruendo uno tutto suo, di buon senso, annettendo all’Italia tradizioni esotiche (come quella western della casa che si difende a mano armata) e dando di schifo a chiunque si permetta di contraddirlo, specie se donna. Il buon senso precedentemente in vigore andava in direzione esattamente opposta. Per rovesciarlo non è stato fatto nulla. Sono bastate le parole, “soltanto” quelle. Migranti. Il diritto del mare per Salvini: multe milionarie e prigione di Leo Lancari Il Manifesto, 10 luglio 2019 Gli emendamenti di Lega e 5 Stelle al decreto sicurezza bis. Previsto il sequestro immediato della nave che non rispetta il divieto di ingresso. Dal mare la guerra alle ong si trasferisce al parlamento. Ieri sono scaduti i tempi per la presentazione degli emendamenti al decreto sicurezza bis e Lega e 5 stelle si sono trovati d’accordo sull’annunciato inasprimento delle norme già particolarmente dure nei confronti di chi salva migranti nel Mediterraneo. Se approvate, le nuove disposizioni prevedono un innalzamento delle sanzioni per le navi umanitarie che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, che ora sono comprese da un minimo di 150 mila euro a un massimo di un milione di euro (e non più da 10 mila a 50 mila come nel testo varato inizialmente da palazzo Chigi), il sequestro immediato della nave e l’arresto del comandante che non si ferma all’alt della Guardia di finanza. Un giro di vite che nasce dalla constatazione che le misure adottare finora sono risultate inutili sopratutto grazie all’intervento della magistratura. Incidenti di percorso che Salvini adesso spera di riuscire ad aggirare. Al punto da mostrare ottimismo sul futuro dell’esecutivo facendo finta di ignorare la bufera scatenata nella maggioranza dalle accuse di sessismo che gli sono arrivate dal sottosegretario Vincenzo Spadafora per le parole pesanti rivolte dal leghista alla comandate della Sea Watch 3 Carola Rackete. “Finché tutti lavorano non ci sono rischi”, risponde quindi nel pomeriggio Salvini ai cronisti che gli chiedono di un’eventuale crisi. Se e quanto l’ottimismo del titolare del Viminale sia giustificato lo si vedrà questa sera quando a palazzo Chigi quando Salvini incontrerà i colleghi Trenta, Tria, Moavero Milanesi e Toninelli per un vertice sull’emergenza sbarchi convocato da Giuseppe Conte. Vertice che, come ha spiegato il premier, dovrebbe servire proprio per evitare “sovrapposizioni” e fraintendimenti tra i vari ministeri, modo diplomatico per non dire che sulla questione migranti nel governo - e n particolare tra Salvini e la titolare della Difesa, c’è a dir poco maretta. La battaglia intanto si trasferisce nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dove sono 547 gli emendamenti presentati al decreto sicurezza, 20 dal Carroccio e 44 dal M5S, una ventina dei quali da singoli deputati fuori dall’accordo raggiunto dalla maggioranza. I pentastellati hanno imparato da Matteo Salvini che attaccare le ong porta consensi, e quindi si adeguano sia nel chiedere il sequestro immediato della navi umanitarie (e non più in caso di reiterazione del reato, come prevede oggi il testo), sia nei toni sempre più accesi usati contro chi salva vite umane: “Sono norme doverose per impedire che si continui a sfruttare persone che scappano dalla povertà per fare show indecorosi e generare caos mediatico. Basta a strumentalizzazioni politiche”, spiegavano ieri sera fonti del Movimento parlando dell’aumento delle sanzioni e della confisca delle navi umanitarie. Giro i vite infine anche sulle espulsioni. Un emendamento sempre a forma della Lega prevede la possibilità per il magistrato di allontanare il migrante in caso di condanna a una pena detentiva superiore a un anno. Tra gli emendamenti delle opposizioni quelli presentati dal deputato di +Europa Riccardo Magi puntano a smantellare intere parti del decreto oltre che a rendere obbligatorio il soccorso dei migranti recuperati in mare da qualsiasi nave, sia essa militare o di una ong. Ma anche la cancellazione dell’articolo 1, quello che attribuisce al Viminale il potere di vietare il passaggio e l’ingresso delle navi nelle acque territoriali e il divieto per il Viminale di impedire l’accesso di una nave si a bordo si trovano “potenziali richiedenti asilo”, famiglie o minori. Niente da fare, infine, per l’audizione della Sea Watch nelle commissioni parlamentari che esaminano il decreto. Chiamato in causa dalle opposizioni, il presidente della Camera Roberto Fico ha spiegato che la Ong tedesca si sarebbe potuta ascoltare con dei paletti rigidi sui temi da trattare. I presidenti (M5S) delle commissioni hanno però ribadito il loro no provocando le proteste di Pd e Leu. Un ponte aereo per salvare i rifugiati detenuti in Libia di Maurizio Ambrosini lavoce.info, 10 luglio 2019 Il bombardamento del centro di detenzione di Tajoura non ha finora portato a ripensamenti nelle politiche dell’asilo di Italia e Ue. Eppure, i rifugiati detenuti in Libia sono solo 7 mila. Ecco una proposta per accoglierli in modo legale e ordinato. La vicenda del trattenimento forzato degli aspiranti richiedenti asilo in Libia ha toccato, il 2 luglio, un nuovo tragico vertice con il bombardamento del centro di detenzione di Tajoura, a Est di Tripoli, che ha causato almeno 53 morti e oltre 130 feriti. Il bombardamento non ha finora causato ripensamenti nelle politiche dell’asilo italiane e dell’Ue, salvo forse aver indotto il nostro ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a un prudente silenzio circa la sempre asserita idoneità della Libia ad accogliere i profughi salvati in mare. Tempo fa, sulla prevista e mai avvenuta apertura di un centro di accoglienza Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati) a Tripoli, il ministro aveva affermato, con il consueto tono dialogante, che la sua realizzazione avrebbe dovuto smontare “le menzogne e tutta la retorica in base alle quali in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”. Ricordiamo che continua a vigere l’assetto delineato dal precedente ministro dell’Interno, Marco Minniti, poi rafforzato da Salvini: la Libia ha rivendicato un’ampia zona di mare come di sua competenza per le operazioni Sar (ossia di ricerca e soccorso delle persone in mare). Fornita di motovedette e coordinamento logistico dall’Italia (che in realtà ne guida le operazioni, come dimostrato da Avvenire), dovrebbe rintracciare e riportare in Libia i naufraghi recuperati in mare. Qui, malgrado il paese non sia firmatario della convenzione di Ginevra, malgrado le ripetute denunce delle condizioni di detenzione dei profughi, malgrado l’impossibilità per le organizzazioni umanitarie di ispezionare la situazione e organizzare un’assistenza più idonea in loco, le persone continuano a essere trattenute senza nessun riguardo per i diritti umani più elementari. Ancora peggio vanno le cose quando i carcerieri non rispondono neppure al debole governo di Fayez Mustafa al-Sarraj, ma sono milizie locali fuori controllo. Nonostante la guerra in corso, né Roma né Bruxelles hanno ventilato un ripensamento delle loro politiche nei confronti dei profughi trattenuti in Libia. Le stime parlano di 7 mila persone, almeno per quanto riguarda i detenuti in centri ufficiali. Una cifra che nel contesto politico e mediatico attuale potrebbe apparire rilevante, ma che in realtà non si avvicina neppure a quella dei profughi che arrivano nella Ue per altre vie. Nel 2019, nonostante gli accordi con i paesi di transito e le misure di contrasto che hanno drasticamente ridotto gli ingressi, tra il 1° gennaio e il 30 giugno 2019 sono arrivati via mare in Europa circa 36 mila migranti (contro circa 48 mila nello stesso periodo del 2018). La Grecia è tornata a essere il primo paese di approdo con oltre 18 mila nuovi arrivi, dunque circa 3 mila al mese, mentre la Spagna ne registra circa 13 mila, ossia poco più di 2 mila al mese. In Italia il dato è al di sotto delle 3 mila persone (2.769 al 30 giugno): un dubbio successo che Salvini e Minniti competono per intestarsi, con scarso riguardo per il diritto di asilo riconosciuto dall’articolo 10 della Costituzione. Non è neppure vero che i carichi di accoglienza pregressi vedano il nostro paese particolarmente esposto: secondo l’ultimo rapporto Unhcr, l’Italia accoglie quasi 300 mila tra rifugiati e richiedenti asilo a fine 2018. Nella Ue, per tacere dell’impegno che grava su molti paesi in via di sviluppo, ci precede non solo la Germania (1,1 milioni, più 300 mila richiedenti asilo), ma anche la Francia (459 mila) e la Svezia (318 mila). In proporzione alla popolazione, noi accogliamo circa 5 rifugiati ogni mille abitanti, la Svezia 25, Malta 20 e vari altri paesi fanno comunque più di noi. Sul tema, oltre a confondere sistematicamente immigrati e rifugiati, politiche dell’immigrazione e politiche dell’asilo, uno dei più consolidati assiomi, anche tra i commentatori “illuminati”, riguarda l’avversione verso quelle che vengono definite “migrazioni disordinate”. Ma l’unica soluzione per evitare la fuga disordinata di persone minacciate da conflitti armati è la predisposizione di vie di scampo organizzate e sicure. Ossia simili ai corridoi umanitari gestiti da organizzazioni religiose, cattoliche e protestanti, in accordo con il governo italiano, che hanno consentito l’arrivo in Italia di circa 2.500 persone da Libano ed Etiopia e hanno trovato poi applicazione in Francia, Belgio e Andorra. Avanzo quindi la proposta di un ponte aereo, se possibile organizzato dall’Unione Europea, altrimenti dall’Italia e da altri paesi disponibili, per trasferire in Europa i 7 mila africani detenuti in Libia senza aver commesso alcun crimine e oggi in pericolo di vita perché presi tra due fuochi nel conflitto in corso. Le amministrazioni locali, siano esse schierate per l’accoglienza oppure, come dicono, per migrazioni legali e ordinate, potrebbero candidarsi a ospitarne ciascuna un piccolo gruppo. Le forze impegnate della società civile, a loro volta, potrebbero indicare una “famiglia tutor” per accompagnare l’inserimento di ciascun rifugiato posto in salvo, seguendo l’esempio del corridoio umanitario dall’Etiopia. Mi pare il tempo di osare un’esemplare iniziativa bipartisan di soccorso a chi soffre una prigionia ingiusta e disumana, rischiando oggi la vita stessa. “Non è una cura”. La bocciatura della cannabis di Michele Bocci La Repubblica, 10 luglio 2019 Il parere del Consiglio superiore di Sanità chiesto dalla ministra Grillo sull’uso terapeutico. Non c’è prova scientifica dell’efficacia terapeutica dei preparati della cannabis, che non possono essere considerati medicinali. Il Consiglio superiore di sanità ha dato un parere alla ministra alla Salute Giulia Grillo che è un po’ una doccia fredda per chi crede nelle capacità curative della marijuana. Non si tratta comunque di una bocciatura completa, l’organo consultivo sanitario suggerisce che venga fatta una sperimentazione. È un passaggio necessario perché la sostanza, che in Italia viene prodotta dall’Istituto chimico-farmaceutico militare di Firenze, sia considerata un medicinale. Siamo alla vigilia di un allargamento di produzione della struttura toscana, reso necessario proprio dal gran numero di richieste di cannabis terapeutica da parte dei medici per i loro pazienti. L’Istituto chimico-farmaceutico quest’anno deve raddoppiare la produzione, portandola a 300 chili di sostanza, tanto che sta predisponendo nuove serre. Non basterà comunque ad evitare l’importazione dall’estero di infiorescenze della canapa, visto che ormai in un anno in Italia i malati ne consumano una tonnellata. In più si è deciso anche di realizzare a Firenze olio di cannabis, una preparazione che renderebbe più efficaci, e soprattutto più facili da assumere per i pazienti, i principi attivi contenuti nella sostanza. Grillo ha così chiesto agli esperti da lei nominati se è giusto mettere a disposizione degli ammalati i preparati della cannabis realizzati dai militari. I tecnici hanno esaminato la letteratura, fatto cioè quella che viene definita una revisione. Ebbene, non hanno trovato studi che certifichino l’efficacia della cannabis come strumento terapeutico. C’è incertezza poi sulla sua composizione, perché non è un prodotto farmaceutico approvato da Ema, l’agenzia europea del farmaco, e di conseguenza da Aifa, quella italiana. Manca una caratteristica fondamentale dei medicinali, quella di essere costantemente uguali a se stessi. Se analizzo due compresse dello stesso farmaco, prodotte anche in tempi diversi, queste sono sempre essere identiche. Così non è per la cannabis. Il Consiglio quindi suggerisce di realizzare studi in Italia, visto anche che da anni le Regioni hanno dato l’ok all’utilizzo medico e che poi, nel 2015, è partita la produzione pubblica della sostanza. Grillo a questo punto dirà la sua sul tema. “Usiamo la cannabis come un fitoterapico. È vero, non è un farmaco, non mi stupisce la presa di posizione del Consiglio - spiega Rocco Mediati, primario della terapia del dolore all’ospedale Careggi di Firenze - si tratta di una pianta con tanti principi attivi, di alcuni dei quali non conosciamo gli effetti”. Il centro dal 2014 ha prescritto la cannabis a ben 800 pazienti. “Prevalentemente sono persone con dolore neuropatico e spasticità. Si è rivelata utile per una parte di loro, non per tutti. La usiamo come strumento di seconda scelta, quando le terapie indicate dalle linee guida non sono efficaci. Effetti collaterali? Soprattutto negli anziani sono la sonnolenza e un po’ di stordimento. In pochissimi casi, abbiamo avuto aritmia cardiaca risolta rapidamente. Altri antidolorifici danno problemi ben più pesanti”. Droghe nel mondo, aumentano consumi e morti di Marco Perduca Il Manifesto, 10 luglio 2019 Circa 271 milioni di persone, pari al 5,5% della popolazione globale tra i 15 e i 64 anni, ha fatto uso di droghe nell’anno precedente. Il dato è simile alle stime del 2016; se però lo si confronta con quello del 2009 si nota un aumento del 30%. Il 26 giugno scorso l’Unodc ha presentato il suo Rapporto Mondiale sulla Droga con dati relativi al 2017. A fronte del permanere di proibizioni, divieti e pene severe, il documento riporta un aumento dell’uso problematico di stupefacenti in tutto il mondo. L’aumento sarebbe principalmente frutto di una migliore raccolta dati; infatti è bastato che India e Nigeria comunicassero i propri dati per far impennare i numeri. Se si pensa che oltre la metà degli Stati membri non raccoglie, o non condivide dati attendibili, il fenomeno potrebbero avere dimensioni ancora più eclatanti. Circa 271 milioni di persone, pari al 5,5% della popolazione globale tra i 15 e i 64 anni, ha fatto uso di droghe nell’anno precedente. Il dato è simile alle stime del 2016; se però lo si confronta con quello del 2009 si nota un aumento del 30%. Sempre rispetto a 10 anni fa, quando comunque la fascia di popolazione mondiale tra 15 e 64 anni era meno numerosa, i dati mostrano un crescente uso di oppioidi in Africa, Asia, Europa e Nord America mentre la cannabis prevale dappertutto. I consumatori di oppioidi (non necessariamente illegali) sono circa 53 milioni, in aumento del 56% rispetto alle stime precedenti e sono responsabili per i due terzi delle 585.000 morti a causa del consumo di stupefacenti. Globalmente, 11 milioni di persone hanno iniettato droghe: tra queste 1,4 milioni vivono con l’Hiv mentre 5,6 milioni con l’epatite C. Anche le overdosi da oppioidi in Nord America hanno raggiunto nuove vette: oltre 47.000 morti solo negli Stati Uniti - più 13% rispetto al 2016 - mentre 4.000 sono i decessi in Canada, più 33%. Se il fentanil e sostanze affini rimangono il problema in Nord America, in Africa si presenta il problema del tramadolo (un antidolorifico con ricetta semplice). In nove anni i sequestri di tramadolo sono passati da 10 chili nel 2010 al record di 125 tonnellate nel 2017! Lo “stupefacente” illecito più diffuso resta la cannabis con circa 188 milioni di consumatori e proviene principalmente da Maghreb e Mashrek con un aumento sensibile anche nei Balcani meridionali. L’Afghanistan resta il primo produttore al mondo di oppio con 263.000 ettari che l’anno scorso hanno prodotto 6.400 tonnellate malgrado la grave siccità. La produzione mondiale di cocaina, sita nella regione andino-amazzonica, ha raggiunto un massimo storico di 1.976 tonnellate, più 25% rispetto al 2016. Il Rapporto evidenzia infine che per la prima volta si registra un calo del numero delle nuove sostanze psicoattive identificate e segnalate. Pessime notizie circa prevenzione e cure per chi ha problemi di consumo da sostanze illecite: solo una persona su sette riceve cure adeguate. Le percentuali del disservizio si aggravano in carcere dove si registra la prevalenza di Hiv, epatite C e Tbc. In diversi paesi, ma non si fanno nomi, si registra un significativo numero di persone che iniettano droghe in carcere. Se 56 paesi riferiscono aver fornito terapia sostitutiva con oppioidi in almeno un carcere, 46 paesi negano d’averne. I programmi di scambio siringhe sono risultati disponibili in 11 stati ma assenti in 83. “Questi dati complicano ulteriormente il quadro globale delle sfide legate alla droga, sottolineando la necessità di una più ampia cooperazione internazionale per far avanzare risposte equilibrate e integrate di salute e giustizia penale alla domanda e all’offerta”, ha dichiarato Yury Fedotov, Direttore a fine mandato dell’Unodc. Una dichiarazione fotocopia di quelle degli anni precedenti che sortirà gli stessi risultati. Compilare numeri è un conto, un altro è valutare dopo oltre 50 anni dall’entrata in vigore della prima Convenzione Onu sugli stupefacenti l’impatto di leggi e politiche proibizioniste. Libia. Il governo libera 350 migranti del Centro profughi bombardato La Repubblica, 10 luglio 2019 La scorsa settimana la struttura era stata colpita da un raid che aveva causato 53 vittime. La sezione libica dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha ringraziato su Twitter le autorità per il rilascio. Il governo del premier Fayez al-Sarraj ha dato parziale seguito a quanto prospettato da un suo ministro e ha liberato 350 migranti che erano rinchiusi nel centro di detenzione di Tajoura, quello colpito la settimana scorsa da un raid dell’aviazione del generale Khalifa Haftar causando 53 morti. La liberazione dei sopravvissuti viene segnalata da un tweet della sezione libica dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). “Ringraziamo il ministero dell’Interno libico per il rilascio odierno dei rifugiati e migranti dal centro di detenzione di Tajoura”, si afferma nel tweet dell’Unhcr. “350 persone erano ancora a rischio a Tajoura e ora sono libere. L’Unhcr fornirà assistenza”, viene aggiunto. L’agenzia Unhcr su Twitter ha spiegato anche che “fornirà assistenza con il suo programma di risposta urbana”, precisando di aver visitato Tajoura nei giorni scorsi, portando cibo, acqua e assistenza medica. Una lezione da Hong Kong: la libertà non è per sempre di Antonio Polito Corriere della Dera, 10 luglio 2019 Trent’anni dopo le manifestazioni a Berlino e a Pechino, negli Usa molti ragazzi pensano che non sia molto importante vivere in una democrazia. I ragazzi di Hong Kong ci ricordano quanto vale la libertà; trent’anni dopo quelli di Berlino, che la conquistarono prendendo a picconate il Muro, e trent’anni dopo quelli di Pechino, schiacciati invece sotto i cingoli dei carri armati a Piazza Tienanmen. Chissà se ce la faranno. Ieri sembrava di sì. La governatrice della città, chief executive del regime, ha dichiarato “morta” la controversa legge sulle estradizioni che era diventata il simbolo della rivolta anti-cinese. Ma Hong Kong non è più un modello di successo neanche per la Cina. Grattacieli e sviluppo sono ormai più alti a Shangai e Shenzhen; la vecchia ex colonia britannica sembra essere rimasta un’oasi di nostalgia per la “rule of law” nel deserto di diritti del capitalismo comunista. Del resto la libertà non va più molto di moda neanche tra i giovani dell’Occidente. Meno di un terzo dei millennial americani oggi pensa che sia molto importante vivere in una democrazia; una persona su sei negli Stati Uniti è convinta che un governo militare sia un buon sistema per guidare lo Stato. Negli ultimi quindici anni i diritti individuali si sono ristretti in 71 paesi del mondo. Dalla caduta del Muro di Berlino a oggi la Storia invece di finire, come suggerì Francis Fukuyama, è andata all’indietro, come aveva previsto Samuel Huntington: i regimi non democratici rappresentavano solo il 12% del Pil mondiale nel 1990, oggi sono il 33%, tra breve supereranno il 50%, secondo Foreign Affairs. I muri, che erano 16 nel 1989, sono oggi 70, dieci dei quali nell’Unione Europea. Solo questa involuzione può spiegare come è possibile che l’ultimo erede dell’Unione Sovietica, l’ex ufficiale del Kgb Vladimir Putin, possa oggi dire impunemente che il liberalismo è obsoleto e superato. E chi potrebbe contraddirlo, del resto: Donald Trump? Ci sono due ottime ragioni che consigliano di temere davvero per le sorti della libertà, se non la nostra almeno quella dei nostri figli. La prima è che il legame tra democrazia e liberalismo non è scontato. Ci sono molti paesi nel mondo nei quali si vota ma non c’è libertà (Russia, Iran, Turchia, solo per citarne alcuni). E i liberali, più antichi della democrazia, hanno una tendenza innata all’elitarismo che in certe epoche - questa è una - può renderli molto antipatici alle masse, sempre attratte dall’uomo solo al comando. La seconda ragione per cui dobbiamo temere il ritorno della tirannia, seppure in forme nuove, sta nella tecnologia del nostro tempo. L’ambiente tecnologico ha sempre avuto una grande influenza sui sistemi sociali e politici. L’aratro di legno produsse un’agricoltura di sussistenza e l’economia feudale; bussola e sestante, banconote e lettere di cambio, aprirono la strada alla borghesia e ai Comuni; l’invenzione della stampa di Gutenberg rese celebre Lutero e vincente il protestantesimo. Allo stesso modo la società industriale del dopoguerra e il libero commercio erano perfetti per i sistemi politici a decisione diffusa, più efficienti di quelli che centralizzavano le informazioni per “pianificare” l’economia. In fin dei conti è per questo che l’America ha vinto la guerra fredda: perché l’Urss non ce l’ha fatta a reggere la sfida della complessità. L’avvento dei big data e quello imminente dell’Intelligenza Artificiale modificano radicalmente lo scenario. Maggiore è la concentrazione di informazioni e meglio funziona la nuova tecnologia. Va dunque a nozze con i regimi autoritari e li rende efficienti, perché ha fame di dati e allergia per la privacy. Un tempo si pensava che un sistema a comando centralizzato non potesse tenere il passo dell’innovazione: i russi partirono prima nella corsa allo spazio, però sulla Luna ci arrivarono gli americani. Ma oggi il successo della Cina nell’economia digitale sta a dimostrare che non è più così. Anzi, le nuove tecnologie possono aiutare i regimi a rafforzare il controllo all’interno e a elevare l’aggressività all’esterno, con i bombardamenti di “bots” o con lo spionaggio hi tech. Le società europee si occupano di altro. Nel suo romanzo “Sottomissione” lo scrittore francese Houellebecq previde quattro anni fa che si sarebbero stufate della libertà, e l’avrebbero ceduta agli islamici. In realtà oggi sembrano più disposte a scambiarla con chiunque fermi gli islamici sul bagnasciuga. Trent’anni fa ci siamo rilassati, assistendo allo spettacolo dei popoli soggetti al tallone sovietico che si ribellavano in nome della libertà. Adesso da quella parte dell’Europa, dall’Ungheria come dalla Polonia, soffia il vento opposto. In Italia, Francia e Gran Bretagna sono arrivati primi alle elezioni europee partiti se non illiberali, certamente non liberali. I liberali da noi hanno preso neanche un seggio. I partiti più vicini ai liberali, pur sommati, non fanno un terzo dell’elettorato. La libertà ci sembra conquistata per sempre, un dato di fatto, una commodity. Per questo non ce ne occupiamo più. Forse dovremmo ripensarci. Guatemala. Il rischio di cancellare oltre dieci anni di lotte per la giustizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 luglio 2019 Negli ultimi dieci anni il Guatemala ha fatto notevoli passi avanti nel contrasto all’impunità. Tra il 2007 e il 2018 la Commissione internazionale contro l’impunità in Guatemala (Cicig), un organismo creato sotto gli auspici delle Nazioni Unite per aiutare la procura nazionale a indagare sulle imprese criminali infiltratesi nelle istituzioni statali, è stata in grado di fare luce su oltre 100 casi, parecchi dei quali strettamente connessi con le violazioni dei diritti umani accadute nei 36 anni di conflitto armato. A partire dal 2009 i tribunali nazionali hanno emesso sentenze di valore storico nei confronti di membri delle forze armate e della polizia, anche di alto grado, un fatto senza precedenti nella storia del paese. Tutto questo, ora, rischia di essere cancellato. Il 31 agosto 2018 il presidente Jimmy Morales, che già un anno prima aveva palesato le sue intenzioni, ha annunciato l’intenzione di non rinnovare il mandato della Cicig, che scadrà il 3 settembre prossimo. La procuratrice generale Consuelo Porras non ha battuto ciglio e non ha preso alcuna misura per garantire che il lavoro congiunto della Cicig e dell’Ufficio del procuratore speciale contro l’impunità potesse arrivare a una conclusione. Il rischio è che tra meno di due mesi le indagini congiunte su oltre 70 casi si blocchino. Il Congresso, a sua volta, si è fatto promotore di proposte di legge che garantirebbero l’impunità per le gravi violazioni dei diritti umani commesse nel conflitto armato. Anche il clima intorno ai magistrati si è fatto pesante: soprattutto quelli che si occupano di casi in cui sono coinvolte potenti figure del passato, civili e militari, hanno subito minacce e infondati procedimenti disciplinari e persino penali. Dalla metà dello scorso decennio il Guatemala è stato un modello nel consolidamento della giustizia per tutto il continente americano. Ora rischia di essere un esempio assolutamente da non imitare.