Perché delle carceri bisogna parlare di Roberto Saviano L’Espresso, 9 giugno 2019 Un film ci porta nelle prigioni italiane. Che non sono, come vorrebbe qualcuno, una discarica sociale. Ma una questione che ci riguarda tutti. Vi voglio parlare di un film che potrete vedere in televisione, ma ci tornerò tra un attimo. Ho sentito dire che la Sinistra (mi trovo a disagio a chiamarla così, ma per convenzione lo farò) in Italia ha perso perché si è occupata degli ultimi e ha dimenticato i penultimi, che l’hanno abbandonata per approdare altrove. Che la Sinistra sia stata abbandonata è un dato di fatto, che sia stata abbandonata dai penultimi non lo so, ma sul fatto che si sia occupata degli ultimi, umilmente, mi permetto di dissentire. Farò qualche esempio, per provare a spiegare perché questa analisi non restituisce ciò che è accaduto: gli ultimi, anzi, gli ultimi arrivati in Italia, gli italiani figli di immigrati, non si sono visti riconoscere, da un governo di “sinistra”, il diritto alla cittadinanza per nascita (ius soli). Le politiche di Marco Minniti, ministro dell’Interno dell’ultimo governo di “sinistra”, in materia di immigrazione non hanno avuto alcuna attenzione nei riguardi degli ultimi, hanno anzi blandito i penultimi, i terzultimi, fino ad arrivare ai primi. E sulle carceri il fallimento è stato forse ancor più doloroso perché, prima delle elezioni del 4 marzo 2018, un governo di “sinistra” non ha votato i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, pensando che gli ultimi potevano essere sacrificati per non contrariare quelli, tra i penultimi, che considerano il carcere una discarica sociale. Il carcere è assente da qualsiasi dibattito, se ne parla raramente, non si vede in televisione se non in rarissimi casi che vanno protetti come i panda, ecco perché sento di dovervi consigliare un film sul carcere. In genere dico: provate a trovare del tempo; oggi vi dico proprio: dovete trovare il tempo. Lo dovete ai vostri figli, se ne avete. Lo dovete alle persone che amate e a quelle che incontrerete. Lo dovete alle persone che non conoscete e di cui avete paura. Lo dovete a voi stessi. Questo film sono sicuro che cambierà il vostro sguardo, lo renderà forse più umano. Domenica 9 giugno su Raiuno, in seconda serata, andrà in onda “Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri” un film di Fabio Cavalli. Nel 2011, Paolo e Vittorio Taviani in “Cesare deve morire” raccontarono proprio il lavoro fatto da Fabio Cavalli con la Compagnia dell’Alta Sicurezza di Rebibbia. “La Corte Costituzionale nelle carceri” forse potrà sembrarvi, dal titolo, un documento sotto certi aspetti scientifico e invece no, non lo è. Vedrete un film che vi commuoverà, che vi farà capire cosa significa per un detenuto sapere che, dal mondo di fuori, c’è chi si prende la briga di pensare che il carcere esiste, di portare dentro le telecamere, di ascoltare storie e riferirle a chi sta fuori. I membri della Consulta, dal canto loro, non potevano restare impassibili di fronte a tutta quella umanità, a tutta quella umanità potente che con semplicità fa irruzione nelle loro vite. Non voglio fare spoiler, ma qualche spunto di riflessione vorrei offrirlo. Il primo è semplice, ma vale la pena davvero sottolinearlo: parlare di carceri, entrare in un carcere, sensibilizzare a prendere in considerazione l’esistenza di luoghi in cui vive chi sbaglia, non vuol dire pensare agli ultimi e ignorare i penultimi, ma significa avvicinare percorsi diversi e, soprattutto, allenare alla possibilità di un incontro. Un incontro che sarà obbligato, a meno di non voler seguire i diktat di quei governanti che immaginano prigioni senza porte, dove i detenuti siano murati vivi. Non è buonismo comprendere che esistono realtà diverse, diverse opportunità e percorsi diametralmente opposti: è realismo. E realismo è sapere che chi entra in carcere ne uscirà e, se il carcere non sarà stato rieducazione, non possiamo permetterci il lusso di pensare che sia stato un luogo neutro, tempo sospeso, congelato. Se non ti curi di chi entra, lo perdi per sempre e lo Stato ha una grande opportunità: attraverso il carcere, se non può cambiare il passato di chi ha commesso un reato, se non può riparare al danno subito, può certamente dare una seconda occasione, questo sì, a chi sta dentro e a chi sta fuori. Ecco, usciamo da questo film sapendo che esiste un noi e un loro, ma sapendo anche che più accorciamo le distanze, meglio stiamo tutti. Non è certo una guerra di posizioni, ma la vera sfida sarebbe lasciare libera la casella degli ultimi. I giudici costituzionali alla scoperta delle carceri di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 9 giugno 2019 Non accade spesso di vedere piangere un giudice. In genere lo fanno gli imputati, le vittime e i rispettivi parenti. Nel film documentario “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” di Fabio Cavalli (oggi alle 23,15 su Rai1) i giudici svestono la toga, tornano persone tra le persone e si commuovono davanti alle domande, alle voci, agli sguardi, alle luci e ai bui dei detenuti che la Consulta ha deciso di incontrare per la prima volta dalla sua nascita, nel 1956. Cavalli dirige dal 2002 la “Compagnia dei liberi artisti associati” del carcere di Rebibbia. Il suo lavoro ispirò i fratelli Taviani per Cesare deve morire, Orso d’Oro a Berlino. Nel Viaggio in Italia, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media, accompagna i giudici delle leggi (non delle persone) nei penitenziari da Milano a Lecce, nei reparti femminili, in quelli ad alta sicurezza, tra i baby criminali di Nisida, Napoli. Sempre accompagnati dall’agente di polizia penitenziaria Sandro Pepe. In fondo il vero protagonista del film, punto di contatto tra due mondi così lontani. Un viaggio - fisico e visivo - tutt’altro che edificante. In cui i giudici escono dal Palazzo, dalla dottrina e dalla giurisprudenza dove tutto trova senso, e raggiungono i margini della società, le vite al limite, le storie senza lieto fine, le sentenze in ogni caso sbagliate. Al netto di qualche didascalismo, il film restituisce il senso del viaggio voluto dal presidente Giorgio Lattanzi, in continuità con lo sforzo avviato dal predecessore Paolo Grossi di “aprire” la Corte. Osserva a un certo punto un giovane detenuto di Nisida: “La Costituzione dice che siamo tutti uguali, ma non è vero”. I giudici, non senza difficoltà, spiegano. Ma sono i detenuti a prendere la scena e il microfono. Interrogano, incalzano, raccontano, rivendicano, talvolta supplicano. Permessi, diritti, umanità, legalità. Domande in cerca di risposte che non potranno essere esaustive, soddisfacenti, pacificanti. I principi costituzionali si sciolgono nella quotidianità di una cella scrostata, di un figlio che non s’incontra da mesi, di un amore impossibile, di una famiglia disgraziata. Ma anche nella speranza di un laboratorio di cucina, di un’officina che ripara biciclette, di una biblioteca. Scrive Cavalli nelle note di regia: “Pur nella differenza d’epoca, intenti e contesti, si immagina per questo lavoro di assumere quel principio che fu di Guido Piovene nel “Viaggio in Italia”: andare a scoprire davvero quello che si crede illusoriamente di conoscere”. A un certo punto la giudice Daria De Petris si commuove e abbraccia una detenuta. Non accade spesso. La retorica che difende le istituzioni di Alberto Negri Quotidiano del Sud, 9 giugno 2019 L’Italia istituzionale gronda di una retorica irritante e tira sempre un’aria da cinegiornale dell’Istituto Luce. Un giorno volavo con un presidente della Repubblica e all’arrivo scoprii che le colleghe giornaliste erano state insignite del cavalierato soltanto perché avevano viaggiato con lui. Non pensavo fosse un merito, ma nessuno fece neppure una battuta. Qualche tempo dopo anch’io fui gratificato. Partecipai in una caserma a una riunione-conferenza sulla visita del presidente Bush junior a Roma: con generali, alti funzionari italiani e americani e persino il capo del Mossad in Italia, in fondo l’unica vera autorità presente. Non comprendevo neppure perché mi avessero invitato. Non feci altro che assistere in silenzio ma il giorno seguente, con estrema meraviglia, ricevetti a casa, recapitata da un messaggero, una pergamena che attestava la mia partecipazione a questo consesso. Il messaggio è chiaro: le istituzioni richiedono al cittadino o al funzionario soltanto la sua presenza, il più possibile passiva e silenziosa. Così si difendono le istituzioni. I giudici costituzionali adesso vanno nelle carceri, si fanno filmare in un documentario e scoprono il sovraffollamento spalancando gli occhioni meravigliati. I giornali e la tv danno una mano volentieri con servizi che sembrano usciti dall’istituto Luce o dalle veline del Minculpop al tempo della dittatura fascista. I giudici che entrano nelle carceri, parlano con i detenuti e proclamano che secondo l’articolo 27 della Costituzione che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Insomma delle grandi novità. Ecco le cifre. Alla data del 26 marzo 2019, su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena, erano presenti 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129 per cento. Un dato che conferma una linea di tendenza in crescita rispetto al passato. Questo aumento non è dovuto a un maggiore ingresso di persone in carcere ma a un minore numero di uscite dal carcere: 1.160 in meno. In altre parole, in carcere si entra di meno ma si esce anche di meno. Perché? Molto probabilmente perché si utilizzano poco le misure alternative al carcere. Inoltre ci sono quasi 20mila detenuti non condannati in via definitiva. La metà attende ancora che inizi il primo processo. Gli altri hanno fatto appello o aspettano di farlo. È questa la popolazione in attesa di giudizio, “non colpevole sino alla condanna definitiva”. L’Italia risulta il Paese dell’Unione europea con la percentuale più alta di detenuti non condannati in via definitiva. Rispetto a una media europea del 22,4 per cento, quella italiana è pari al 34,5, quella francese è 29,5 e quella tedesca 21,6. Non c’è bisogno come hanno fatto i giudici della corte costituzionale di andare a farsi filmare nella carceri, commuovendosi davanti ai detenuti per sapere come stanno le cose e girare persino un documentario prodotto dalla Rai. Nelle carceri ci si può andare comunque, senza i riflettori. In questo Paese tira sempre un’aria retorica da Istituto Luce. Ma a noi piace così: sentirci buoni. Derelitti delle pene: prigionieri dietro e oltre le sbarre di Mena Trotta liberopensiero.eu, 9 giugno 2019 Le mura della sala incontri della casa circondariale di Salerno sono estremamente colorate. La danza di Henri Matisse, riprodotta da alcuni ragazzi del liceo artistico Sabatini-Menna di Salerno nel 1997, ricopre ben due pareti. Quella stanza, così colorata, sembra avere la presunzione di cancellare in un attimo il grigiume del contorno. Oggigiorno si parla del mondo dietro le sbarre come di una realtà lontana, esterna, come la più facile esemplificazione della libertà negata. I prigionieri: esseri retrocessi, hanno sbagliato, devono pagare e vanno puniti, tutto qui. Allora la domanda bussa da sola alle porte della nostra coscienza: chi può davvero definirsi libero? Alcuni ragazzi della Consulta provinciale degli studenti di Salerno hanno cercato di rispondere a questa domanda, incontrando i detenuti del carcere di Fuorni, avviando la traccia di riflessione con il coordinamento di Ketty Volpe, giornalista ed esperta Miur, sul tema della scissione tra prigionieri ed il mondo oltre le sbarre, e concentrandosi in maniera particolare sulle modalità con cui la prigionia e la realtà carceraria sono concepite all’interno della società “libera” e come, viceversa, il mondo esterno è concepito in una realtà estremamente limitante quale il carcere. Anzitutto bisogna chiarire che la realtà detentiva rischia di connotarsi in modo esclusivamente negativo, al contrario il mondo oltre le sbarre come unicamente benevolo. Dall’incontro è emersa da subito la delicata particolarità dell’aspetto relazionale all’interno delle carceri, sia per quanto riguarda il rapporto con gli altri detenuti che con il personale penitenziario e, nel caso specifico, con gli studenti. La mancanza di libertà tocca anche la socialità, poiché la carcerazione impone il contatto con altri esseri umani, oltre che con il loro disagio. Sembra che uno dei sentimenti prevalenti sia la paura dell’aggressione, sia da parte dei “prigionieri” sia degli operatori. Anche per questo motivo il clima carcerario si caratterizza per diffidenza e sospettosità. Il pregiudizio prevalente sulla figura dei detenuti è quello di soggetti manipolatori, alla continua ricerca di benefici e vantaggi secondari. Viceversa, ciò che alimenta la sfiducia del carcerato nei confronti dell’operatore è soprattutto la presenza di una sottocultura carceraria. L’assimilazione della cultura carceraria può portare i detenuti a modificare progressivamente sé stessi in modo inconsapevole, identificandosi rigidamente nel ruolo di prigionieri, appartenenti ad una cultura nuova, in cui vigono regole, ruoli e modi di vita differenti rispetto al mondo esterno. Il carcere resta un luogo intrinsecamente ambivalente, che racchiude potenzialità antitetiche. Gli obiettivi principali della pena riguardano la rieducazione ed il superamento di un eventuale disadattamento sociale. Al tempo stesso l’impatto con la realtà carceraria può essere traumatizzante, slatentizzando un disagio psicologico rimasto silente fino a quel momento, con il rischio di intaccare il percorso rieducativo. L’attenzione al mondo carcerario e intra-individuale dei detenuti, oltre ad avere un valore umano, si pone come prerogativa fondamentale per il funzionamento ed il successo sociale oltre le sbarre. A questo scopo sembra fondamentale mantenere una connessione tra interno ed esterno che dovrebbe essere sostenuta in una doppia direzione, sia nei prigionieri (favorendo il legame con la società), sia nella società civile stessa. Ma cosa accade quando entrambe le parti mostrano disinteresse rispetto alla totalità delle realtà circostanti? Da un lato lo stato di detenzione porta l’individuo ad una condizione di totale isolamento dal mondo esterno, fisico e in egual misura mentale e psicologico; all’opposto l’individuo libero prova un senso di repulsione verso la realtà carceraria e i singoli che la compongono, in quanto mossi da un profondo sentimento di paura. Questa chiusura porta conseguentemente ad un processo di estraniamento degli individui di una realtà rispetto all’altra in maniera irrimediabile. In modo particolare la realtà carceraria è concepita come distante, esente dal processo evolutivo della realtà oltre le sbarre, ignorando, però, che le sue dinamiche sono mosse da moduli radicati nella stessa società civile. Essa preserva irrimediabilmente i propri processi regolatori, i quali risultano essere scanditi, omologanti. Parliamo di una società, la nostra, certamente in evoluzione, ma che procede a tappe forzate verso una libertà effimera ed una tolleranza nei confronti del diverso solo apparente, illusoria. La verità è che la situazione delle carceri dimostra il livello di civiltà di un Paese. Lo ripetiamo spesso, un concetto che tutti sostengono. Però, in fin dei conti, cosa ci importa di chi sta dall’altra parte? L’intenso confronto tra studenti e detenuti, dunque, non si è concentrato su tematiche oltremodo trattate - e perlopiù ignorate dall’opinione pubblica - come il sovraffollamento delle carceri, i richiami istituzionali, la buona condotta o la mal gestione degli ambienti carcerari. Diversamente si sono affrontate tematiche comuni ad ogni contesto sociale; in particolare il tema integrazione, una parola che da un po’ ha perso la sua effettiva valenza, o meglio, di cui si ignora il reale significato. Ad oggi essa nasconde una verità cruda, retrocessa, dove la realtà viene presentata in un certo modo e se si vuole, se si ha la capacità di farlo, ci si integra. Cosa significa integrazione? L’integrazione indica essenzialmente la condivisione di una realtà in cui si hanno le stesse possibilità di soddisfare i propri bisogni fondamentali, provvedendo in modo autonomo al proprio sostentamento. Ma la coperta è corta, troppo corta, e chiunque la usi per coprirsi ne toglie automaticamente un lembo a qualcun altro dalla parte opposta. Eppure, ogni singolo essere è unico e irripetibile. In questo modo il termine “normale” dovrebbe risultare privo di ogni senso. Ma in una società in pieno processo di massificazione, l’omologazione diventa legge per la sopravvivenza del singolo. Parlare della realtà detentiva, dunque, significa parlare di un mondo che noi tutti conosciamo, in fondo, molto bene. Un mondo, il nostro, che ha spinto Mario, senza un’occupazione e una figlia di giovane età affetta da tumore al seno, a delinquere per affrontare le spese dovute ai trattamenti della malattia; una realtà che ancora si ha il coraggio di definire includente, che ha portato Matteo a lasciare la scuola e a commettere furti; la stessa condizione sociale che ha spinto Amedeo, a 24 anni, disoccupato con tre figli, a diventare un affermato trafficante di armi. Bisogna ammettere che la realtà detentiva, e tutto ciò che intorno ad essa ruota, non è altro che frutto di un ambiente ben più ampio, quale la società civile stessa, nella quale l’apparenza conta più dell’essenza della nostra sfera emotiva: una bolla di sapone che chi ha il potere si diverte a scoppiare. È necessario riconoscere che la massa intesa come ambiente sociale, che tende ad omologare la realtà effettuale, è più sola di un qualsiasi individuo da essa estraniato in quanto considerato colpevole, o semplicemente diverso. È l’orrore della società del benessere, della “civiltà avanzata”, evoluta, che sembra nulla e semmai è pronta solo a punire. Troppo spesso si dimentica, però, che la sua colpevolezza è figlia di una realtà che è maestra di inganni, di corruzione, del bieco conformismo che annienta le aspirazioni individuali e che ha la presunzione di offrire soluzioni assolute. De André l’ha dichiarato, noi ancora ci interroghiamo: può essa definirsi realmente assolta pur essendo al di là delle sbarre? Non sono forse gli individui definiti liberi nient’altro che prigionieri privilegiati? La seduta è sciolta: per quanto ci crediamo assolti, siamo tutti coinvolti. La malattia mentale e la “potenziale pericolosità” di chi ne è affetto di Franco Vatrini uotidianosanita.it, 9 giugno 2019 “D’ora in poi” è l’incipit del comunicato che il 19 aprile scorso l’ufficio stampa della Corte Costituzionale ha pubblicato a commento della sentenza n. 99 che si rivolgeva sia direttamente ai giudici che da quel momento avrebbero potuto disporre una misura alternativa alla permanenza in carcere dei cosiddetti rei/folli, sia indirettamente ai non pochi sostenitori del “trattamento giudiziario paritario”. Persone, che da quel momento avrebbero dovuto provvedere a ridimensionare la loro caparbia volontà di affidare esclusivamente alle già poco attrezzate sezioni sanitarie interne alle carceri: il compito di curare tutti i condannati la cui infermità mentale grave fosse sopravvenuta durante la detenzione. Opportunità studiata e quotidianamente caldeggiata anche per i folli/rei ai quali non fosse stato ancora accertato in via definitiva (quindi, dopo mesi, mesi e mesi di cella) lo stato di infermità al momento della commissione del fatto. La Consulta ha spiegato in una forma a tutti comprensibile come tale regime penitenziario riesca a trasformare l’espiazione della pena in un trattamento sanzionatorio che viola i principi costituzionali nei confronti di ammalati la cui sofferenza diventa talmente grave che, cumulata con “l’ordinaria afflittività” del carcere da luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità. “Ordinaria afflittività”, è un modo per definire il disagio che, così come la condizione di benessere, è parte integrante di ogni esistenza. Lo si può avvertire nel momento in cui sopraggiungono difficoltà e situazioni tristi e amare che se vengono lasciate incancrenire possono determinare perfino atti di autolesionismo, se non comportamenti suicidari. Il disagio, tuttavia, anche in prigione si differenzia dal grave disturbo mentale e dalla disabilità che ne consegue. Di un disagio (che a ben guardare in psichiatria neppure viene ufficialmente elencato) si possono determinare le cause; di un disturbo mentale no. Nessun detenuto si è mai addormentato in cella la sera senza particolari problemi di salute mentale, e si è risvegliato al mattino con una diagnosi di schizofrenia, il cui esordio è sempre preceduto da un non breve vissuto di segni e di sintomi premonitori malamente sottovalutati dalla impreparata famiglia e dal suo medico, o dalla scuola o, più tardi, nell’ambiente di lavoro. Nella mia famiglia l’esordio (che attese sette anni prima di diventare tale) avvenne quasi al termine di un ormai più che lontano servizio militare di leva. Durante l’ultima licenza a casa. A causa dell’ormai onnicomprensivo ricorso al termine “disagio”: la comunità è portata a ridimensionare se non a banalizzare almeno parzialmente la realtà rappresentata dai gravi disturbi mentali e dalla difficile lotta per contrastarli. Nel primo caso, ad esempio, al Garante è stato suggerito di scrivere a deputati e senatori (nel suo rapporto del 2018 sul monitoraggio della salute mentale nelle carceri) che in quei luoghi “la patologia (?) più diffusa è il disagio psichico”. Un esempio della seconda conseguenza lo ha fornito il ministero da dove: sia “per un cambio di paradigma sull’argomento”, sia “per un corretto approccio al disagio mentale” e sia con “l’intento di promuovere una corretta (!?) informazione”, hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione titolata: “da vicino nessuno è normale”. Convinti di esaltare un pensiero basagliano, mentre si tratta semplicemente di un verso di una più recente canzonetta brasiliana che in portoghese fa: “de perto ninguem è normal” e si riferisce a tutt’altro argomento. Nessuna malafede, ma può succedere, e lo dimostra la frase scritta al termine del secondo periodo del punto 5 della sentenza n. 99 della Corte, quando accenna alle “esigenze di difesa della collettività che deve essere protetta dalla potenziale pericolosità di chi è affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica”. Con dispiacere, l’ho letta e riletta anche in controluce e per un attimo ho avuto il dubbio che un comma della legge “Gozzini” del 1986 fosse stato sbianchettato. Quello relativo all’abrogazione dell’articolo 104 c.p. e della sua non più applicabile “presunzione di pericolosità fino ad allora collegata alla situazione di sofferente psichico” (fonte, Ministero della Giustizia). Timore infondato, ma resto dell’avviso che “potenziale” e “presunto” siano del tutto intercambiabili. Che la collettività debba essere protetta è logico, ma c’è modo e modo di giungere a un adeguato bilanciamento tra le esigenze di sicurezza e la necessità di garantire il diritto alla salute dei cittadini con gravi problemi di salute mentale. Su quest’ultima esigenza c’è ancora parecchio da fare (l’Oms stima di almeno 10 anni la minore speranza di vita a causa della ridotta attenzione rivolta dal sistema sanitario alla salute fisica di chi soffre di una grave malattia mentale), ma sulla sicurezza non ci si può proprio lamentare. Lo sta a dimostrare la scelta di un ospedale toscano che forse per non infrangere la disposizione regionale che vieta la contenzione meccanica neppure per dieci minuti: ha sollecitato il ricorso al “Thomas A. Swift’s Electronic Rifle” (“rifle” qui sta per pistola). E così lo scorso maggio, entrando prima in ospedale e poi in reparto, e attenendosi, spero, alle istruzioni per l’uso che consigliano le gambe: le forze dell’ordine, obbedendo e tacendo, ma certamente a disagio, hanno sparato i dardi “paralizzanti” per ben tre volte in due giorni contro il bersaglio mobile additato dal sanitario di turno. Il bersaglio, invece, era sempre lo stesso... sempre più spaventato... sempre più irrequieto. Sempre più solo. *Familiare-Brescia I suicidi dei poliziotti penitenziari di Gemma Brandi e Mario Iannucci personaedanno.it, 9 giugno 2019 Secondo Ristretti Orizzonti, dal 1997 ad oggi sono 144 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita (12 suicidi all’anno di media). Tre si sono suicidati dall’inizio del 2019. Il loro numero è di certo minore rispetto a quello dei suicidi dei detenuti: 1.063 solo dal 2000 ad oggi. Considerando comunque che i poliziotti penitenziari sono 46.411 e che, almeno rifacendosi ai dati del 2015, in Italia si suicidano in un anno 6,5 persone ogni 100.000 (3,0 ogni 46.411), risulta chiaramente che, fra i poliziotti penitenziari, il tasso dei suicidi è quattro volte superiore rispetto alla media della popolazione generale. Questa macroscopica sproporzione non può e non deve sfuggire. Non sfugge al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e nemmeno ai Sindacati di Pol. Pen., che da anni si interrogano sulle cause e cercano rimedi. Le cause, in genere, vengono individuate nell’evidente stress connesso al difficile e peculiare lavoro, al sovraffollamento delle carceri, alla cronica carenza di organico del Corpo (che oscilla fra il 10 e il 20% rispetto al personale previsto). Non vogliamo certo negare che questi fattori abbiano un rilievo, ma bisogna intanto dire che il rapporto detenuti/poliziotti in Italia (circa 1,4 attualmente) ci colloca ai livelli più bassi in Europa, dove si oscilla fra l’1,3 della Svezia e il 3,9 dell’Inghilterra/Galles, per salire all’11,2 della Russia. Anche la concordanza fra sovraffollamento delle carceri e suicidi dei poliziotti sembra molto incerta. Altri elementi appaiono invece rilevanti dal punto di vista della ricerca delle cause. Sembrano influenti, intanto, la peculiarità del lavoro dei poliziotti penitenziari da un lato, il grado e l’età dei suicidi dall’altro lato. La peculiarità del lavoro. Vogliamo indicare solo taluni elementi ai quali porre attenzione. Le carceri sono diventate sempre più, specie in Italia, luoghi dove la società “civile” scarica e “nasconde” una porzione assolutamente consistente di soggetti molto fragili, anche se pericolosi: valanghe di malati di mente, tossicodipendenti, stranieri (di cui talora non si comprende la lingua: figuriamoci allora la psiche, i moventi e le intenzioni), “stranieri in patria” delle nostre banlieues, stalkers, radicalizzati e, insieme, bassa manovalanza e vertici della criminalità organizzata, in un coacervo inestricabile che complica la vigilanza e vanifica spesso ogni sforzo trattamentale. La difficoltà dei poliziotti penitenziari nel ricavarsi un vero spazio professionale è lapalissiana. Nonostante che negli ultimi decenni siano notevolmente cresciuti i loro curricula scolastici, continua ad essere presente un fortissimo pregiudizio relativo alla opportunità di coinvolgerli a pieno titolo nelle attività trattamentali riabilitative. Ecco che i poliziotti restano allora soli e disorientati di fronte all’ineludibile compito al quale oggi sono chiamati: prendersi cura e insieme controllare. Prendersi cura di detenuti sempre più infermi, specie mentalmente. Controllare tali soggetti con vecchi strumenti sempre più spuntati. La frustrazione, di fronte a questo enigma quasi irresolubile, è pressoché inevitabile. Il grado e l’età all’interno del Corpo. C’è da chiedersi perché nessuno rifletta a sufficienza su questi elementi. Gli ultimi tre suicidi: a gennaio, 41 anni, assistente capo a Milano; a febbraio, 48 anni, assistente capo ad Imperia; fine di febbraio, 49 anni, probabile assistente capo, a Cuneo. Una età critica quella fra i 40 e i 50 anni, quando il verosimile accumulo di problemi personali si somma alla difficoltà di una soddisfacente realizzazione lavorativa, in un ambiente nel quale l’ostilità dei rapporti non riguarda soltanto l’al di là delle sbarre. In una condizione professionale in cui le scarsissime prospettive di una crescita di grado (un tempo gli “appuntati” potevano nutrire la speranza di essere promossi “brigadieri”, ma ora…) si combinano con livelli tossici di una esposizione all’aggressività che, già difficilmente tollerabile da giovani, nella maturità avanzata rischia di diventare insostenibile se non adeguatamente metabolizzata, se non fronteggiata con una disposizione e una formazione all’altezza del compito. C’è però un ulteriore aspetto che quasi mai viene preso in considerazione. In carcere non si finisce mai per caso. Questo vale per coloro che “vanno in prigione” e per coloro che “vanno alla prigione”: la radicale diversità semantica ce la rammenta sempre un intelligente amico avvocato, che ovviamente va spesso “alla prigione”. Tuttavia, per coloro che vanno quotidianamente “alla prigione” per trascorrervi la maggior parte del loro tempo lavorativo, di giorno e di notte, questa differenza, semantica e psicologica, si riduce notevolmente. Potremmo dire che i poliziotti penitenziari si avvicinano non poco ai ‘semidetenuti’ (i semiliberi sono i detenuti che lavorano all’esterno di giorno e tornano in carcere la notte; i semidetenuti sono i detenuti che lavorano in carcere di giorno e vanno a dormire all’esterno di notte). In carcere, infatti, non si finisce per caso: al di là come al di qua delle sbarre. Occorrerebbe quindi una grande e preliminare attenzione nel reclutare i poliziotti penitenziari. Occorrerebbe poi analoga cura nel seguire con periodica e frequente regolarità il decorso nel tempo delle loro condizioni psichiche, così come si dovrebbe fare per tutte le professioni ad alto rischio di burn-out. Sarebbe essenziale che l’assessment preliminare e il controllo periodico venissero effettuati da organismi pubblici esterni all’amministrazione penitenziaria, così come ai servizi di salute mentale dovrebbero potersi rivolgere (o essere avviati prontamente, in caso di patente disagio) i poliziotti bisognevoli. Servizi esterni, ci raccomandiamo! Come si può pensare che i poliziotti penitenziari vadano a parlare dei loro problemi con operatori della amministrazione dove prestano servizio? Ancora una osservazione che potrebbe aiutare. Un tempo le carceri erano situate in luoghi che avevano una loro bellezza. A Firenze c’erano ‘Le Muratè, ‘Santa Verdiana’ e ‘Santa Teresa’, luoghi che ora, restaurati gradevolmente, sono stati messi a disposizione della cittadinanza. ‘Santa Teresa’ aveva un bellissimo chiostro e una chiesetta interna dove il sindaco La Pira si recava talora la domenica per assistere alla Santa Messa assieme ai detenuti e agli agenti di custodia. Ecco: ricominciamo a dare un valore alla bellezza e al decoro dei luoghi che ospitano la enorme sofferenza dei “reclusi”. Restituire dignità e bellezza a quei luoghi, e insieme alle persone e alle professioni al loro interno, è una operazione che avrebbe non solo un altissimo valore simbolico ma avrebbe anche un incredibile ritorno pratico. È indubbio che le operazioni riabilitative funzionano molto meglio, e con sprechi umani assai minori, nel carcere norvegese di Halden o in quello italiano di Pianosa. Ma è altresì vero che i luoghi salubri sono inadatti a farvi “marcire” le persone. Un ulteriore suggerimento. In questo carcere che alberga numeri esponenzialmente crescenti di persone con gravi disturbi mentali, diviene indispensabile una adeguata preparazione trattamentale/terapeutica anche dei poliziotti penitenziari e un loro maggiore coinvolgimento nelle attività riabilitative: sentire di essere di aiuto agli altri (anche ai colleghi, non solo ai detenuti), sentire di partecipare attivamente a operazioni che ‘valgono la pena’, può contribuire moltissimo al benessere dei poliziotti. Altre manovre andrebbero studiate almeno per limitare il fenomeno preoccupante dei suicidi dei poliziotti penitenziari. Ma certo bisognerebbe studiarle a partire da una raccomandazione essenziale: per favore, evitiamo che, ad occuparsi del reperimento delle soluzioni per questi problemi, siano i ‘soliti esterni’, persone che spesso non hanno mai messo piede in carcere, ma che millantano competenze teoriche inutili allo scopo o che hanno nei curricula documentate appartenenze ideologiche, sempre le stesse. Un tempo il motto degli Agenti di Custodia era questo: “Vigilando redimere”. Ora quello della Polizia Penitenziaria è ancora più bello e ambizioso: “Despondere spem munus nostrum”: sostenere la speranza è il nostro compito (e anche la nostra “ricompensa”). È questo motto che dovrebbe ispirare l’arduo compito della società civile nei confronti di tutti (tutti!) gli abitanti delle carceri. Dimezzati i reati, ma il 78% della popolazione pensa che siano in aumento. Ecco il perché di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu Corriere della Sera, 9 giugno 2019 Lo dicono i magistrati: la nuova legge sulla legittima difesa “potrebbe essere applicata” per la prima volta nel caso di Marcellino Jachi Bovin, 67 anni, tabaccaio di Pavone Canavese, alle porte di Ivrea. Indagato per eccesso colposo di legittima difesa, venerdì notte ha ucciso a colpi di pistola Ion Stavila, 24 anni, cittadino moldavo incensurato che aveva forzato il suo negozio insieme con due complici. Verrà interrogato nei prossimi giorni alla presenza del suo avvocato. “Ha tutta la mia solidarietà - ha detto il ministro Salvini. Mi auguro che la nuova legge riconosca che questo 67enne ha fatto quello che è stato costretto a fare. Il ladro, se avesse fatto un altro mestiere, a quest’ora sarebbe a casa sua. Ne abbiamo le palle piene, la gente ha diritto di difendersi, sono orgoglioso di questa legge”. “Questa legge” è nata da una percezione di insicurezza. Anche se in Italia diminuiscono i crimini: lo si sa da 10 anni, e continua ad accadere con diversi governi. Stando ai numeri siamo diventati uno dei Paesi più sicuri dell’Unione Europea. Omicidi volontari, quasi dimezzati: 611 denunciati nel 2008, 368 nel 2017. Rapine: 45.857 denunciate nel 2008, 30.564 nel 2017, un calo del 33,3%. Ad incidere di più sulla sfera personale sono i furti in casa, perché diffondono insicurezza: meno l’8,5%, nel 2017 rispetto al 2016. Come si influenza la percezione - Eppure cresce la paura, reale o favorita da politica e media: nel 2017 il tema “criminalità” è comparso nel 17,2% dei programmi della principale Tv francese, nel 26,3% di quella britannica, nel 18,2% di quella tedesca e nel 36,4% dei 5 principali telegiornali italiani. Il 78% degli intervistati in un’indagine degli stessi mesi ritiene che la criminalità in Italia sia cresciuta rispetto a cinque anni prima. Questa opinione si concentra al 91% fra gli elettori della Lega. E il 39% della popolazione (nel 2015 era il 26%) chiede che sia più facile acquistare un’arma per difesa personale. La parola “sempre” ha cambiato la legge - Così, a marzo, sono stati riformati alcuni articoli del codice penale. L’articolo 52 diceva e dice: “Difesa legittima. Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. In soldoni: non puoi sparare a un ladro che fugge. La norma prosegue: “se il derubato si trova a casa sua o in altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi” (cortile, garage, ndr), o in “ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”, allora “sussiste sempre il rapporto di proporzione”. Quel “sempre” prima non c’era. Tradotto: se uccidi qualcuno che ti minaccia entrando nella tua proprietà, la proporzione fra difesa e offesa è data in partenza per scontata. Sul punto risponde il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni: “Aver aggiunto l’avverbio “sempre” ha rafforzato un principio. Non togliamo potere al giudice, ma stabiliamo che all’interno del domicilio e alle condizioni previste dalla Costituzione, mi posso difendere perché la proporzionalità sussiste “sempre”, e di conseguenza la legittima difesa”. Sta di fatto che se fino a ieri al giudice restava un margine di valutazione, da oggi sarà molto ristretto, a meno che il giudice non ponga appunto un problema di costituzionalità. Una legge giustificata? - La nuova legge è nata da un’emergenza giudiziaria? Dai numeri, si direbbe di no. Per questi fatti, nel 2017, risultavano in corso nei tribunali 26 processi. Di questi, in 14 casi si procede per “legittima difesa” (vuol dire che si avvieranno all’archiviazione), mentre negli altri 12 (da oggi 13, con il caso di Pavone Canavese) per “eccesso colposo di legittima difesa”, ovvero i giudici devono valutare se l’imputato ha esagerato. Per magistrati e penalisti la legge è “inutile e pericolosa”, anche perché l’inviolabilità della proprietà privata può contrastare con il diritto alla vita - anche quella del ladro - sancito dall’articolo 2 della Costituzione. Per il Sottosegretario Molteni invece il problema non si pone: “A nostro avviso non c’è nessun contrasto. L’intenzione del legislatore è stata quella di formulare una riforma costituzionalmente orientata. Il nuovo quarto comma specifica, senza ulteriori dubbi, una condotta che riteniamo non possa ricadere nell’eccesso colposo”. Si va forse verso una “legittima offesa”, piuttosto che difesa. Come funziona negli Usa e d Europa - In alcuni Stati americani, vige il principio “stand your ground”, proteggi il tuo territorio: se aggredito ovunque, puoi uccidere. E ancor più se sei a casa tua (“castle doctrine”, “dottrina del castello”). In altri, prevale il “duty to retreat”, il dovere di cercare prima una via di fuga. In Francia, la legittima difesa è riconosciuta solo se “necessaria, come unico modo di proteggersi”. In Gran Bretagna la legge consente di usare anche “una forza sproporzionata” per respingere un’intrusione domiciliare. Ma bisogna provare di aver fatto ciò che “onestamente e istintivamente” si giudicava “necessario”. In Germania, non è imputabile chi reagisce violentemente a una minaccia “che non possa essere altrimenti sventata”. Soprattutto se l’aggredito ha agito in preda “a confusione, paura o terrore”. Anche la nuova legge italiana (art. 55, eccesso colposo) prevede la non punibilità nel caso di un “grave turbamento”. Ma qui è intervenuto il presidente Mattarella: il “grave turbamento” deve essere “effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Ci vuole cioè una verifica oggettiva: non può essere solo chi ha premuto il grilletto a testimoniare per se stesso. Ricaduta sulla vendita di armi - La nuova legge farà aumentare il numero delle armi da fuoco che circolano in Italia? Nel 2017, 1.398.920 licenze di porto d’armi sono state registrate a nome di civili, più 13,8% rispetto al 2016. Le licenze per caccia sono 738.602. In grande crescita quelle per il tiro al volo e al piattello: più 21,1% nel 2016-2017. Sono meno costose e più facili da ottenere, ma ugualmente efficienti (ne usò una Luca Traini, lo sparatore razzista di Macerata). In totale sono 584.978, ma circa 200.000 italiani, dal 2014, hanno messo piede in un poligono. Calano invece le armi per difesa personale: meno 4,8%, forse per le difficoltà burocratiche. I rischi dell’arma in casa - Secondo l’Osservatorio Internazionale “GunPolicy.Org”, nel 2017 i privati italiani possedevano 8.007.920 armi da fuoco, un milione in più rispetto a 10 anni prima. Ma 6.609.000 erano le armi non registrate. Se si considera che una famiglia media è composta da 2,3 persone, calcola il Censis, 4,5 milioni di italiani fra cui oltre 700.000 minori hanno un’arma a portata di mano. In Italia, ci sono 12 armi da fuoco ogni 100 abitanti, negli Usa 88. Dice ancora il Censis: se avessimo le stesse regole permissive americane, le famiglie italiane con armi in casa “potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini complessivamente esposti al rischio di uccidere o di rimanere vittima di un omicidio sarebbero 25 milioni”. Decreto sicurezza bis - In questo clima “scaldato” dal fatto di cronaca legato al furto del tabaccaio, sono in arrivo le norme del decreto sicurezza bis che riguardano altri temi: migranti e ordine pubblico interno. È annunciato per il Consiglio dei ministri di martedì. Le bozze sono provvisorie: trasferimento della competenza sul controllo delle acque territoriali dal ministero dei Trasporti a quello degli Interni. Obiettivo: vietare transito e porti alle navi delle Ong. Sul tavolo le multe, calcolate in base al numero dei migranti, e la sospensione della licenza per le navi commerciali italiane che li soccorrono in acque internazionali. Si tratta anche su certe norme per l’ordine pubblico, come quella di trasformare le contravvenzioni in reati nei casi di resistenza a pubblico ufficiale durante i sit-in. La paura fa novanta. Magistratura dipendente di Emiliano Fittipaldi L’Espresso, 9 giugno 2019 Corruzione diffusa. Guerre di potere per sistemare amici e proteggere la propria cricca. Così le toghe sono finite nel fango. al servizio della politica. Ora la paura, tra i magistrati italiani, è grande. Negli incontri riservati, nelle affollate assise pubbliche come quella organizzata qualche giorno fa a Milano, nelle stanze dell’Anm, ovunque pm e giudici ammettono tra loro che lo scandalo partito dall’inchiesta su Luca Palamara - ex presidente dell’Associazione magistrati e consigliere del Csm fino all’anno scorso - rischia di travolgere l’intera categoria. Come mai accaduto prima. Certo, in pubblico tutti ribadiscono convinti che “le mele marce” tra i 9.000 togati in servizio “restano pochissime”, ma in privato nessuno nega che lo scenario disegnato dalle carte della procura di Perugia, con il coinvolgimento diretto di cinque membri dell’attuale Consiglio superiore della magistratura e accuse di corruzione gravissime, è “devastante”. E che la questione morale (e la crisi etica e d’immagine) è arrivata a un livello che ha pochi precedenti nella storia repubblicana. “Hanno ragione ad essere allarmati. La vicenda delle toghe sporche getta ombre sull’immagine dell’intera magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario nazionale”, spiegano all’Espresso autorevoli fonti del Quirinale, da dove Sergio Mattarella, che per Costituzione è anche presidente del Csm, segue dall’inizio ogni fase della faccenda. “Siamo preoccupati, inutile negarlo”, dicono al Colle. “Come ai tempi della P2” - Difficile non esserlo. L’inchiesta di Perugia, grazie alle intercettazioni effettuate con un trojan installato sul cellulare di Palamara, certifica che il nostro potere giudiziario è preda di degenerazioni oscure, alla mercé di interessi torrentizi e deviati che rischiano di minarne l’autorevolezza alle radici. “Il Csm sta vivendo il momento più drammatico della sua storia. Come ai tempi della P2”, ha sintetizzato il consigliere ed ex pm Giuseppe Cascíni. Molti scommettono che dalla vicenda la magistratura non potrà che uscirne ancora più divisa, più fragile. Dunque indebolita, e attaccabile da altri poteri che oggi guardano con soddisfazione al suicidio collettivo delle toghe. Spettatore interessato, ovviamente, il potere esecutivo. Con tutti quei pezzi della politica intenzionati da anni a mettere le mani sulla giustizia e che sperano di sfruttare l’occasione. In primis, rivoluzionando il Csm, l’organo di autogoverno, e i metodi di elezione dei suoi membri. Le falle di sistema evidenziate dalle informative della Guardia di Finanza sono diverse. Gli incontri a notte fonda di Palamara con alcuni giudici del Csm (uno, Luigi Spina, s’è dimesso, altri quattro si sono autosospesi) e le trame con i parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri, leader storico della corrente di Magistratura indipendente, hanno acceso un faro sui vertici di un’amministrazione che appaiono autoreferenziali, proni alla politica, inquinati da pulsioni esterne. Inoltre ci sono gli audio in cui Palamara e i suoi amici discutono di “vendette” da attuare contro pm scomodi (il procuratore aggiunto Paolo Telo, reo di aver girato a Perugia le carte sulla presunta corruzione del collega) e in cui discutono di manovre per piazzare uomini graditi a capo di procure chiave. Audio che mostrano una giustizia piegata a indicibili ambizioni corporative e personali. Che hanno, in questo caso, un obiettivo prioritario: conquistare la poltrona di Procuratore capo a Roma, lasciata libera dall’uscente Giuseppe Pignatone, con un giudice considerato - almeno così pensa il gruppo dei sodali - a loro più affine. Come Marcello Viola, procuratore generale a Firenze, a cui la V Commissione del Csm ha dato qualche giorno fa quattro preferenze, rispetto all’unica presa dagli altri due rivali, il numero uno della procura di Palermo Francesco lo Voi e quello di Firenze Giuseppe Creazzo. Ma non è tutto. L’istruttoria degli inquirenti perugini ha rimarcato un altro male endemico della nostra magistratura: il cancro della cosiddetta “criminalità giudiziaria”, un fenomeno che - cronache alla mano - sembra ancor più diffuso rispetto al passato. Palamara, ex presidente dell’Anm, è stato infatti accusato di corruzione per aver svenduto la sua funzione in cambio di denaro, viaggi e regali da parte di avvocati e lobbisti come Piero Amara e Fabrizio Centofanti. Le ipotesi di reato sono tutte da provare, ma lo tsunami che ha colpito l’uomo forte di Unicost - altra corrente molto potente in tema di nomine e promozioni - è solo l’ultimo di una serie di scandali che hanno investito la magistratura italiana. Sfogliando documenti giudiziari, i numeri dei procedimenti disciplinari e gli archivi dei giornali, sono centinaia i giudici, i cancellieri, gli agenti della polizia e i funzionari finiti impigliati, di recente, nelle inchieste penali dei loro colleghi. Non solo pm ordinari, ma anche magistrati amministrativi del Tar e del Consiglio di Stato, giudici della Corte dei Conti e della Fallimentare, sono stati arrestati o imputati per i reati più disparati. “Il problema è che il processo, il luogo deputato alla ricerca della verità e della lotta ai delitti, si è spesso trasformato in un nuovo ambiente criminogeno. Nelle aule di giustizia si può corrompere, si falsifica, si delinque, sempre per un tornaconto personale”, spiegò qualche tempo fa a chi scrive Nello Rossi, ex procuratore aggiunto a Roma poi diventato avvocato generale alla Cassazione. La “pigrizia morale” - Nel 1935 il giurista Pietro Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” sosteneva che il vero pericolo dei magistrati più che la corruzione per denaro (“in cinquant’anni ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano”, sosteneva) era “un lento esaurimento interno delle coscienze” e “una crescente pigrizia morale”. Ma oggi la situazione sembra precipitata. Da Aosta a Caltanissetta, c’è chi si fa pagare migliaia di euro per rallentare il deposito degli atti, in modo da favorire la prescrizione degli imputati. O chi lucra sui fallimenti delle imprese, favorendo gli “amici degli amici” e lasciando affondare gli imprenditori che non si adeguano al tariffario imposto dalla toga corrotta di turno. “Si tratta di un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi, realtà tanto più odiosa perché magistrati, cancellieri e funzionari mercificano il potere che gli dà la legge”, ragionava Rossi prima di lasciare la procura di Roma. Non poteva immaginare che, dopo nemmeno un lustro, si sarebbe arrivati allo show-down di questi ultimi mesi. Al mercato delle sentenze - La presunta corruzione di Palamara, per esempio, è connessa ad altre inchieste, che hanno terremotato istituzioni che regolano la vita giudiziaria ed economica del Paese. Come quella, portate avanti dalle procure di Roma e di Messina, su un presunto mercimonio di sentenze dentro il Consiglio di Stato. Un paesaggio desolante, visto che Palazzo Spada è uno dei centri nevralgici del Belpaese: qui vengono risolte, con deliberazioni non appellabili, tutte le controversie che i privati (singoli o aziende) hanno con la pubblica amministrazione. È sempre qui che vengono decise in ultima istanza nomine pubbliche importanti. È qui che sono assegnati gli appalti miliardari erogati dallo Stato. Come accaduto nel caso Consip. O come avvenuto per decine di sentenze pilotate (dall’avvocato Piero Amara e dal suo socio Giuseppe Calafiore) nel Consiglio di giustizia amministrativa della Sicilia, che è il campo da gioco preferito dal gruppo dì faccendieri implicati nell’affaire Palamara. Tra qualche giorno comincerà il processo per i giudici Nicola Russo, Raffaele Maria De Lipsis e l’ex magistrato della Corte dei Conti Luigi Caruso, che secondo l’accusa si sarebbero messi al servizio della compagine di Amara in cambio di cospicue mazzette. Soldi dati o promessi non solo per aggiustare ordinanze (tra queste quella su un contenzioso milionario tra il Comune di Siracusa e la società Open Land), ma persino per modificare risultati elettorali. Già: De Lipsis, ex presidente del Cga, sarebbe infatti intervenuto in favore del deputato siciliano Giuseppe Gennuso, che non era riuscito a farsi eleggere all’assemblea regionale. Il tribunale amministrativo però annullò il risultato del voto, costringendo gli elettori della città siciliana a tornare alle urne. Gennuso venne finalmente eletto, e De Lipsis incassò (secondo i pm di Roma e di Messina) una bustarella da 30 mila euro. In un altro filone dell’indagine è indagato pure Riccardo Virgilio, che fu potente e rispettato presidente di sezione del Consiglio di Stato, oggi accusato di essere in affari con il gruppo dei faccendieri siciliani Anche Sergio Santoro, che è il numero due di Palazzo Spada, è stato accusato di corruzione in atti giudiziari, ma i pm di Roma qualche giorno fa ne hanno richiesto l’archiviazione. Giochi sporchi in Sicilia - Anche il grande accusatore di Palamara, il pm Giuseppe Longo, è a sua volta finito nei guai, pochi mesi fa. Amico personale dell’avvocato Amara, è lui ad aver raccontato ai magistrati di Messina di aver saputo (da Calafiore) che il capo di Unicost avrebbe intascato dai due avvocati una tangente da 40 mila euro. In cambio, Palamara avrebbe tentato di convincere i colleghi del Csm, di cui lui era membro, a nominare Longo a capo della procura di Gela. Un ufficio cruciale, sostengono gli inquirenti di Perugia, per gli affari di Amara: il legale era infatti importante consulente dell’Eni per questioni ambientali e il colosso energetico controlla proprio a Gela una raffineria spesso finita nel mirino della procura locale. Non sappiamo se Longo abbia detto la verità in merito alla corruzione di Palamara (prove definitive della bustarella non ce ne sono, il magistrato nega ogni addebito, e Calafiore ribadisce di non aver mai girato un euro), ma è certo che Longo stesso ha da poco patteggiato 5 anni di reclusione per una serie di atti corruttivi. Il magistrato di Siracusa, ora interdetto dai pubblici uffici, era infatti a libro paga di danarosi clienti privati gestiti dallo studio Amara, che pagava mazzette e regali in conto terzi per ottenere da Longo sentenze favorevoli. Questa vicenda spiega bene come un pm infedele può usare il suo potere e piegare la giustizia a interessi opachi: Longo - secondo le accuse - era infatti specializzato anche nel costruire fascicoli “a specchio”, che si “autoassegnava” - come scrive il gip nella richiesta d’arresto - “al solo scopo di monitorare (o, meglio spiare, ndr) ulteriori fascicoli di indagine assegnati ad altri colleghi”; esperto nel fabbricare fascicoli “minaccia”, utili cioè ad iscrivere persone “ostili agli interessi di alcuni clienti di Calafiore”; e lavorare a fascicoli “fantasma”, come quello basato su un esposto anonimo (in realtà scritto da Amara) che denunciava un presunto complotto che sarebbe stato ordito dall’economista Luigi Zingales, ex consigliere dell’Eni, ai danni dei vertici dell’Eni stessa. Una cospirazione del tutto inesistente e calunniosa: l’apertura di un fascicolo d’indagine serviva però, nelle intenzioni di Amara e dei suoi sodali, a mettere i bastoni tra le ruote alla procura di Milano e al pm Fabio De Pasquale, che da anni indaga stile presunte tangenti milionarie del Cane a Sei Zampe in Africa. Seguendo sempre lo stesso filo, prima di arrivare sulla scrivania di Longo l’esposto fasullo fu spedito da Amara alla procura di Trani. Se ne occuparono l’allora capo Carlo Maria Capristo e, soprattutto, il magistrato Antonio Savasta, che poi inviò il dossier fasullo a Siracusa. Savasta è un altro magistrato infedele, arrestato all’inizio di quest’anno per altre vicende corruttive. Lui e il collega Michele Nardi sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Reo confesso, Savasta ha ammesso di essersi intascato centinaia di migliaia di euro per risolvere i problemi giudiziari dell’imprenditore Flavio D’Introno. Che, in un interrogatorio recente prima ha inguaiato un terzo pm (Luigi Scimè, che avrebbe ottenuto una tangente da 15 mila euro per rinviare a giudizio per calunnia alcuni nemici di D’Introno) poi avrebbe confermato le accuse, affermando di aver versato a Savasta e Nardi la bellezza di 1,5 milioni di euro, oltre a Rolex, diamanti e viaggi. Come quella su Palamara, anche l’inchiesta sul “Sistema Trani” ha sfiorato il senatore renziano Luca Lotti: negli atti d’indagine si ricostruisce infatti un incontro avvenuto a maggio del 2018 a Palazzo Chigi tra l’allora sottosegretario del Pd, l’imprenditore Luigi Dagostino - ex socio di Tiziano Renzi, allora interessato ad aprire un mall in Puglia - e lo stesso Savasta. Quest’ultimo, che aveva ricevuto un’informativa dai colleghi di Firenze su un giro di fatture false proprio delle aziende di Dagostino, non avrebbe effettuato i dovuti approfondimenti. Dagostino, al contrario, ha raccontato che organizzò lui un incontro tra Savasta e Lotti (che, come nel caso Palamara, risulta estraneo all’inchiesta penale) per parlargli di un progetto per un disegno di legge sui rifiuti a Roma. Il gran bazar e le sue merci - Nel gran bazar della giustizia le sentenze sono i prodotti più venduti, ma sono molte le merci acquistabili. Il loro prezzo è variabile: ci sono oggetti di poco conto (a Napoli, qualche anno fa, cancellieri e avvocati complici riuscivano a creare ritardi nella trasmissione di atti intascando dai 1.500 ai 15 mila euro a botta); altri, invece, dal valore inestimabile. Uno stop a un passaggio procedurale, una notitia criminis segreta che può modificare l’intero iter di un processo. Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenziò all’Espresso come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato innanzitutto “dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo”. Tutto, in Italia, rischia di avere uno strascico giudiziario: un concorso universitario o un posto pubblico, una concessione edilizia, un appalto piccolo o miliardario: la stragrande maggioranza del personale che lavora nei Palazzi di Giustizia fa il proprio dovere, davanti a difficoltà strutturali gigantesche, ma una fetta minoritaria sfrutta la situazione emergenziale per il proprio beneficio personale. Gli esempi non si contano più. Un anno fa un giudice è stato arrestato perché riusciva a farsi assegnare cause civili di alcuni amici, che - per ottenere sentenze favorevoli - gli giravano centinaia di migliaia di euro e regali sotto forma di finanziamenti a una società sportiva. Tre settimane fa a Salerno la Finanza ha fermato 14 persone: corrompevano i giudici della tributaria (nelle intercettazioni la tangente era chiamata “mozzarella”) perché chiudessero i contenziosi con imprenditori accusati di evasione fiscale. Le “mozzarelle” andavano da un minimo di 5 mila a un massimo di 30 mila, a secondo del contenzioso, e le tangenti erano quotidiane. “È un’indagine che consente di toccare con mano il danno enorme non solo per le casse dello Stato, ma anche per tutti i contribuenti, perché le imposte servono a finanziare i servizi dei cittadini”, commenta Luca Masini, procuratore vicario. Anche il pm Stefano Fava, ora indagato nello scandalo Palamara per favoreggiamento e divulgazione di notizie coperte dal segreto istruttorio (insieme al consigliere del Csm Luigi Spina avrebbero avvertito l’amico dell’inchiesta per corruzione che lo vedeva coinvolto a Perugia) due anni fa arrestò un collega sardo che favoriva nel processo due imprenditori in cambio di “utilità”. Poca roba, in questo caso: piatti e stoviglie per un ristorante, l’uso gratuito di un appartamento, un’auto a prezzi stracciati. Ma, come insegna il nuovo deflagrante caso che ha investito il Csm, la funzione di un giudice può essere compromessa in maniera irreversibile anche se la toga non si scambia denaro e mazzette, ma commercia solo potere. Personale e di corrente. Il potere a cui sembrano ambire alcuni magistrati - al netto della rilevanza penale del filone ancora da dimostrare - è quello di promuovere amici, di nominare a capo delle procure i più fedeli, di castigare chi non si piega alla camarilla. A qualcuno oggi le intercettazioni della procura di Perugia evocano il clima eversivo della P2, altri ricordano le inchiesta sulla loggia P3 e sulla P4: nella prima il giudice Pasquale Lombardi, scomparso un anno fa, fu accusato di far parte di un’associazione segreta che violava la legge Anselmi sulle società segrete insieme al faccendiere Flavio Carboni; nella seconda Alfonso Papa fu accusato con Luigi Bisignani di un presunto commercio di informazioni riservate, reato prescritto. In realtà, l’ultima inchiesta dimostra che il sistema giudiziario è troppo debole e permeabile, scalabile da soggetti senza scrupoli, degenerato in strutture correntizie che, invece di difendere, rischiano di distruggere l’indipendenza della magistratura. Tornando a Calamandrei, servirebbe - più che la riforma pelosa invocata ora dalla politica - un rinnovamento delle coscienze e una lotta senza quartiere all’apatia morale di troppi magistrati. Sfida al Csm degli autosospesi: noi corretti, niente dimissioni di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 giugno 2019 Il braccio di ferro che qualcuno temeva s’è aperto ufficialmente. I quattro componenti del Consiglio superiore della magistratura autosospesi perché coinvolti nelle riunioni con altri magistrati e dei deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti sui futuri assetti delle Procure, non hanno dato le dimissioni. Anzi, per tre di loro appartenenti alla corrente moderata Magistratura indipendente - Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Antonio Lepre - è arrivato l’invito del gruppo a tornare al lavoro. Sfidando chi ha chiesto e continua a chiedere il passo indietro che libererebbe l’organo di autogoverno dei giudici da un’ipoteca che rischia di continuare a comprometterne l’immagine. Da domani si apre dunque una settimana in cui continuerà a tenere banco il destino del Csm, con progetti di riforma che dopo i partiti al governo ieri ha auspicato anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti, il quale sulla posizione di Lotti ha spiegato: “Mi ha assicurato di non aver commesso alcuna illegalità, aspettiamo che esca la verità”. Sulle modifiche alla composizione e al sistema elettorale dell’organo di autogoverno non ci sono ancora proposte chiare né condivise, ma questo appartiene al futuro. Il presente è un Consiglio che pur in grado di continuare a lavorare regolarmente, si ritrova comunque azzoppato. I componenti autosospesi sono stati già sostituti negli importanti incarichi che ricoprivano nelle commissioni consiliari, e spostati in altre di rilevanza molto minore. Ieri mattina i quattro (oltre al terzetto di Mi c’è Gianluigi Morlini, della corrente centrista di Unicost che pretende le dimissioni; ma la decisione spetta al consigliere, non al gruppo) sono stati ricevuti dal vicepresidente David Ermini, che continua a muoversi in stretto raccordo con il capo dello Stato. S’è trattato di un colloquio franco, senza toni aspri, in cui s’è parlato anche del rispetto delle garanzie; che può significare, ad esempio, avere diritto a leggere le trascrizioni dei colloqui intercettati negli incontri contestati. Pur senza espliciti riferimenti alle dimissioni, Ermini ha ribadito l’invito a prendere una decisione rapida, facendo appello alla “massima responsabilità istituzionale”. Difficile immaginare, dietro questa formula, una strada diversa dalle dimissioni. I consiglieri hanno risposto che la loro scelta sarà resa nota a breve, ma subito dopo i tre di Mi sono andati all’assemblea generale del gruppo, dove hanno rivendicato la propria correttezza (al massimo ingenuità e inopportunità) e ribadito la volontà di non gettare la spugna. Ne è scaturito un documento che rinnova loro la fiducia e ne auspica la “pronta ripresa delle attività consiliari”, mentre vengono stigmatizzati “l’impropria campagna mediatica” e i “giudizi sommari non suffragati dalla compiuta conoscenza degli atti”. L’unico richiamo traspare dal proclamato “impegno ad evitare, in futuro, ogni contatto con qualunque esponente politico estraneo al Csm, ancorché magistrato”. È un riferimento chiaro a Cosimo Ferri, il leader ombra della corrente, duramente criticato dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Pasquale Grasso (che fa parte di Mi): “Il ruolo di eminenza grigia è stato “certificato” dagli eventi degli ultimi giorni”. Grasso avrebbe voluto le dimissioni degli autosospesi, già sollecitate dall’Anm, e per questo s’è astenuto al momento del voto sul documento finale. Gherardo Colombo: anche la P2 mirava alle Procure di Paolo Biondani L’Espresso, 9 giugno 2019 In un Csm traumatizzato dal lo scandalo delle nomine inquinate, il magistrato romano Giuseppe Cascini è arrivato a parlare di “poteri occulti all’attacco della giustizia come negli anni della P2”. Gherardo Colombo, l’ex magistrato di Milano che quella super-loggia massonica segreta l’ha scoperta, nel 1981, mentre con il giudice Giuliano Turone indagava sul finto sequestro del banchiere piduista Michele Sindona (organizzato da Cosa Nostra), riconosce che “entro certi limiti, per alcuni aspetti” il paragone è centrato “Certo, oggi non c’è più tutto il marciume della P2, la bancarotta miliardaria dell’Ambrosiano, il conto Protezione, i ricatti di Gelli... Ma c’è un problema che è sempre lo stesso: le manovre esterne per controllare i vertici degli uffici giudiziari e tentare di orientare la giustizia. La Costituzione riconosce l’indipendenza del potere giudiziario per difendere i cittadini, proprio attraverso magistrati liberi da condizionamenti”. Detto questo, Colombo si ferma, recupera un suo libro del 1996, “Il vizio della memoria”, e legge l’inizio del capitolo sulle prime reazioni alla scoperta della P2: “Sembra che i politici stiano letteralmente impazzendo perché non sono in grado di attribuirci un’appartenenza. Non si capacitano: ritengono che in Italia, come succede a loro, non esista nessuno che non abbia un’appartenenza. Che possano esistere magistrati indipendenti, neanche a pensarci! Ma, allora, non riescono proprio ad affibbiarci ad alcuno, e questo li disorienta. Non avendo individuato un’appartenenza, non capiscono “per conto di chi abbiamo operato”, e non riescono pertanto a capire a chi devono rivolgersi per lamentarsi del nostro lavoro, ovvero per “trattare”. All’epoca, infatti, era convinzione diffusa che in certi campi, ad esempio l’alta finanza e l’economia, i magistrati agissero in qualche misura a comando, o perlomeno inconsapevolmente strumentalizzati da questa o quella fetta del potere, per condizionare e ricattare altre fette. Sapevano dell’esistenza di scavezzacolli che non rispondevano a nessuno, ma questi per norma, secondo la loro concezione, dovevano essere controllati dai capi e non essere incaricati di indagini che li avrebbero potuti portare a infilare il naso nel potere. La nostra indipendenza li disorienta e in qualche modo li blocca. Noi continuiamo a lavorare”. L’ex magistrato sorride: “Sono parole di 23 anni fa, però mi sembrano ancora attuali, no?”. Colombo ha lavorato nel mitico pool Mani Pulite con un altro noto “scavezzacollo” come il pm Paolo Ielo, oggi procuratore aggiunto della capitale e primo bersaglio delle trame per chiudere l’era di Giuseppe Pignatone, il grande capo ora in pensione che ha fatto dimenticare la nomea di Roma come “porto delle nebbie”: il palazzaccio di giustizia che scippava a Milano le indagini sui potenti, dalla maxi-inchiesta P2 a tanti rami di Tangentopoli, per insabbiarle. “Già, sembra di essere tornati ai tempi in cui si diceva che la procura di Roma vale più di un ministero”, osserva Gherardo Colombo, scorrendo desolato le notizie sul capo-corrente della magistratura perquisito per corruzione, sul consigliere del Csm che svela indagini segrete proprio alla toga sotto inchiesta, sul pm romano che denuncia i colleghi d’accordo con l’inquisito, su giudici di rango che trattano nomine di procuratori con politici indagati o avvocati corruttori. Di fronte a tanti scandali veri o presunti, a reati o illeciti disciplinari per ora solo ipotizzati, l’ex giudice istruttore dei poteri occulti invita però alla prudenza: “Alcuni fatti mi sembrano già abbastanza chiari, ma conviene aspettare a dare giudizi: prima bisogna capire, conoscere bene tutti gli atti, sapere esattamente chi ha fatto cosa... Non vorrei che queste indagini venissero liquidate come una battaglia tra correnti o addirittura strumentalizzate per attaccare l’indipendenza della magistratura”. Il problema dello strapotere delle correnti “esiste e va risolto, ma una soluzione sensata deve rispettare l’equilibrio di poteri sancito dalla Costituzione a tutela dei cittadini”, avverte Colombo. Che bolla come “una emerita cavolata” l’ideona di inserire più politici nel Csm, che renderebbe “ancora più grave il peso delle appartenenze, le interferenze dei partiti sulla giustizia, i rischi di spartizione delle nomine giudiziarie”. L’ex magistrato concorda che l’ipotesi di sorteggiare i togati del Csm per ammazzare le correnti è come buttare via il bambino con l’acqua sporca, sostituendo con una lotteria cieca i voti consapevoli dei magistrati. E invita invece a studiare con attenzione “la proposta, che non so di chi sia, di fare come per la Corte costituzionale: eleggere un consigliere del Csm alla volta, per ridurre l’influenza delle correnti favorendo le candidature più autorevoli”. Mentre la separazione delle carriere tra giudici e pm, vecchio sogno della P2, “non si capisce proprio cosa c’entri con i fatti emersi con le indagini di Perugia”. A proposito, i giudici piduisti sono stati graziati dal vituperato Csm? “Sono stati tutti sanzionati e nei casi più gravi radiati”. Il libro di Colombo riporta tutti i nomi dei magistrati che invece di restare indipendenti e “soggetti soltanto alla legge”, come impone la Costituzione, giurarono segretamente fedeltà alla loggia di Gelli, il potere occulto che manovrava gli apparati dello Stato. E i tanti scandali giudiziari di questi anni, i giudici che vendevano le sentenze, i pm con i conti all’estero, i magistrati al servizio della mafia, chi li ha scoperti? I big politici che rivendicano più potere nel Csm? Le agenzie investigative dei grandi imprenditori? Colombo ride: “Li ha scoperti la magistratura. Con tutti i suoi difetti, è l’unico potere che sa fare pulizia anche al proprio interno”. Grazie ai soliti “scavezzacolli”: i magistrati. indipendenti. “Il trojan rivoluziona le indagini. Non può stare in mani private” di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2019 L’ex poliziotto e lo spyware che trasforma i telefonini in microspie audio-video: “Chi gestisce le operazioni ha un potere enorme”. L’ex super-consulente Gioacchino Genchi incarna tutte le competenze per analizzare a 360° vizi, virtù, potenzialità e i limiti del trojan, “la rivoluzione delle investigazioni”, il virus che ha messo nei guai il pm di Roma Luca Palamara, lo spyware che trasforma lo smartphone in un microfono e può copiarne i dati e la memoria da remoto. Genchi è stato poliziotto informatico, esperto nell’incrocio di dati telefonici, e ora è avvocato penalista in processi che si decidono sulla valutazione e l’utilizzabilità delle intercettazioni. Ha giocato all’attacco e ora ogni tanto si schiera in difesa. Sul trojan solleva un problema preliminare grande come un grattacielo: “Non capisco perché lo Stato ne abbia affidato ai privati l’uso e la gestione. I Tribunali sono statali, i pm sono statali, i processi li fa lo Stato e le intercettazioni informatiche che vengono discusse nei processi vengono appaltate a soggetti esterni? Lo Stato dovrebbe diventare imprenditore in proprio di questo settore per evitare le anomalie del caso Exodus” (nelle scorse settimane la Procura di Napoli ha ottenuto l’arresto del titolare e dello sviluppatore di un software-trojan dal nome Exodus con il quale avrebbero trasferito sui cloud di Amazon montagne di dati riservati di inchieste giudiziarie, accessibili da chiunque fosse in possesso di un paio di password, ndr). Cosa avrebbe dovuto insegnare il caso Exodus? Che è sbagliato consegnare alle ditte una delega in bianco per fare il bello e il cattivo tempo. Sono soggetti senza titolo giuridico, potenzialmente corruttibili, sfuggono ad ogni controllo, e nei confronti dei quali non può essere attivata alcuna verifica. I privati gestivano e gestiscono anche le intercettazioni telefoniche... Il trojan non è assimilabile a una intercettazione telefonica. Quando facevo il consulente delle Procure, acquisivo un tabulato in forma elettronica certificata, e i dati sul numero e la durata delle conversazioni erano verificabili e riscontrabili dalle parti, come l’audio della telefonata, si sa quando inizia e quando finisce. Il flusso dati del trojan invece non è così: dipende dalle scelte di chi stabilisce quando accendere e quando spegnere il microfono e copiare i file, e può anche cancellarne una parte senza che nessuno se ne accorga. Io da cittadino non mi sentirei al sicuro. Ma come? Il microfono audio-video non è sempre acceso? No. Il trojan impegna molte risorse dell’apparecchio, lo surriscalda e lo rallenta. Scarica subito la batteria. Non esisterà mai un trojan che funzioni senza alimentazione, sull’accumulo di energia siamo fermi ai tempi di Alessandro Volta. Quindi, decisivo perla qualità delle indagini è il “pilota” del trojan. La persona che decide quando attivarlo e quando spegnerlo, dopo aver raccolto - ascoltando le telefonate e leggendo i messaggi - i dati su mosse e appuntamenti dell’indagato. Dovrebbe essere un attento investigatore di polizia giudiziaria. Ne abbiamo di bravissimi, che però non lo fanno. Lo fanno i tecnici delle ditte, che assumono le funzioni di ausiliari di polizia giudiziaria. Ma questo può porre dei motivi giuridici per chiedere la nullità dell’utilizzo delle intercettazioni del trojan. Io da avvocato in qualche caso li ho sollevati. Quindi un cellulare surriscaldato potrebbe mettere in guardia l’indagato... Vuole una chicca? Un cliente mi ha confidato di aver acquistato un apparecchio che misura la temperatura del telefonino. Ci sono altri modi per eludere il trojan? Il virus è sviluppato in modo da accendersi in automatico quando rileva che l’apparecchio si sta caricando, perché è sicuro di funzionare senza azzerare la batteria. È sufficiente non attaccarlo alla corrente nei luoghi dove si prevede di tenere delle riunioni riservate. Un altro modo, ovviamente, è spegnere il cellulare. Meglio se qualche ora prima dell’appuntamento. Esiste uno smartphone che non si può intercettare? Sì. Quello guasto. Novanta magistrati a fianco di Di Matteo, cacciato dal pool antimafia di Salvo Palazzolo La Repubblica, 9 giugno 2019 Mobilitazione sulla chat interna dell’Anm dopo l’allontanamento del pm della Dna per un’intervista. Un altro caso spinoso per il Consiglio superiore. “In mezzo a questa bufera cerchiamo di non disperderci e difendere chi lo merita”, ha scritto un giovane giudice che lavora nel civile. Un appello per Nino Di Matteo, il pm della procura nazionale antimafia espulso dal pool d’indagine sulle stragi per un’intervista. “Il Csm e l’Associazione nazionale magistrati prendano posizione”, ha scritto un altro giudice. Sulla mailing list dell’Anm sono già novanta i messaggi di magistrati che esprimono solidarietà al pubblico ministero palermitano del processo “Trattativa Stato-mafia” dal 2017 passato alla Dna: due settimane fa, il suo capo, il procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho ha deciso di estrometterlo dal nuovo pool d’indagine sulle “stragi e le entità esterne nei delitti eccellenti” contestandogli l’intervista rilasciata ad Andrea Purgatori nel programma Atlantide, su La 7. Un’intervista in cui Di Matteo avanzava il sospetto di presenze esterne sul teatro della strage Falcone. “Ha anticipato temi di indagine”, è l’accusa di Cafiero De Raho. “Ha tradito la fiducia del suo gruppo di lavoro e delle procure distrettuali impegnate nelle inchieste”. Di Matteo si difende ribadendo di aver parlato di questioni note da anni: il ritrovamento, accanto al cratere di Capaci, di un biglietto scritto da un agente dei servizi segreti, e poi anche di un guanto con un Dna femminile. In Tv, il magistrato ha ricordato pure la scomparsa del diario di Falcone da un computer del ministero della Giustizia e ha ribadito l’ipotesi che alcuni appartenenti a Gladio abbiano avuto un ruolo nella fase esecutiva della strage del 23 maggio 1992. “Questioni note da anni”. Di Matteo ha inviato le sue osservazioni al Csm, che De Raho ha investito della questione, anche se il provvedimento di revoca dal pool è già esecutivo. E nei giorni scorsi, una pratica è stata aperta dalla settima commissione dell’organo di autogoverno della magistratura, che può confermare o revocare l’espulsione. A Palazzo dei Marescialli è un altro caso che divide. Il gruppo di Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita - Autonomia e Indipendenza - ha preso posizione: “La revoca dell’assegnazione di Di Matteo al pool, in mancanza di chiare informazioni sui motivi, rischia di essere percepita come la delegittimazione di un magistrato esposto a gravissimi pericoli”. La protesta corre anche sul web: sono 60 mila le adesioni all’appello lanciato dalla rivista Antimafia Duemila in sostegno di Nino Di Matteo. Un’altra lettera aperta alle istituzioni è stata promossa da Wikimafia, l’enciclopedia sul crimine organizzato: in pochi giorni, 6.000 adesioni. Ma è la mobilitazione dei magistrati a diventare un caso. A Catania, un documento di solidarietà è stato sottoscritto da tutti i pm della Direzione distrettuale antimafia, con cui Di Matteo lavora da quando è arrivato alla Dna, occupandosi dei risvolti nazionali delle indagini che nascono nella Sicilia orientale. “Pur non ritenendo opportuna una valutazione del merito - hanno scritto i magistrati - ribadiamo la stima e l’ammirazione per la dedizione con la quale Di Matteo svolge la sua attività di coordinamento nel distretto di Catania, e per i sacrifici umani e professionali affrontati”. Un altro magistrato dell’Anm è stato ancora più diretto: “Di Matteo, con l’equilibrio e il rispetto del proprio ruolo istituzionale, ha rinfrescato la memoria collettiva su ciò che già è scritto nelle sentenze. Ed è stato defenestrato”. Un altro messaggio ancora: “Chi tace si assume la responsabilità di isolare un magistrato in grave pericolo, ben sapendo cosa questo atteggiamento ha portato in passato”. Per il Csm, già lacerato dalle polemiche, si annuncia un altro dibattito animato. A Palazzo dei Marescialli c’è chi ricorda di quando fu Paolo Borsellino a finire sotto inchiesta al Csm per un’intervista. Era il 1988. Sardegna: i detenuti aumentano ancora, a Uta record sovraffollamento castedduonline.it, 9 giugno 2019 Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”: “L’incremento maggiore di ristretti si registra nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta dove le persone private della libertà sono ben oltre il limite regolamentare. Attualmente infatti ci sono 587 reclusi (erano 572 il mese scorso) per 561 posti”. “Complessivamente in Sardegna, in un mese, è aumentato il numero di detenuti passati da 2148 del 30 aprile a 2190 del 31 maggio. I reclusi definitivi sono 1734; in attesa di primo giudizio 250. L’incremento maggiore di ristretti si registra nella Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta dove le persone private della libertà sono ben oltre il limite regolamentare. Attualmente infatti ci sono 587 reclusi (erano 572 il mese scorso) per 561 posti, 26 donne e 151 stranieri (25,6%) con una sezione destinata al regime di alta sicurezza”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, esaminando i dati diffusi dal Ministero della Giustizia che fotografano la realtà detentiva al 31 maggio 2019. “La situazione - sottolinea - non è rosea neppure a Oristano, anche se meno pesante (268 detenuti per 265 posti). Occorre tuttavia ricordare che nella Casa di Reclusione “Salvatore Soro” di Massama sono reclusi prevalentemente ergastolano in regime AS1 e AS3”. I detenuti sono aumentati anche al “Giovanni Bacchiddu” di Sassari-Bancali. Oggi 447 (156 stranieri 34,8% - 12 donne); lo scorso mese 421. Benché sia entro i limiti regolamentari per la capienza (454), la Casa Circondariale sassarese è una realtà molto complessa in quanto ospita anche una sezione del 41 bis con 91 ristretti. “È al limite della capienza, come sempre, il San Daniele di Lanusei (32 per 33), dove si trovano sex offender e protetti. Nel carcere di “Badu ‘e Carros” di Nuoro si trovano invece 221 reclusi, erano 215. I posti sulla carta sono 377 in realtà una sezione di 140 posti è chiusa per lavori di ristrutturazione”. “Nelle carceri di Nuchis-Tempio Pausania (149 presenti per 168 posti +5) e nel “Giuseppe Tomasiello” di Alghero (128 per 156 +9) i numeri dicono che le condizioni detentive sono adeguate. Nel caso di Tempio tuttavia è ancora irrisolto il problema dell’acqua non potabile per la presenza di metalli pesanti. Vi è infine da segnalare - conclude Caligaris - il sotto utilizzo delle Colonie Penali. A fronte di 692 posti disponibili sono occupati poco più della metà (358) con una presenza di stranieri pari a 257 (71%). La percentuale più significativa di persone prevalentemente extracomunitarie spetta a “Is Arenas” con 77 stranieri su 97 detenuti (79%). Caserta: reinserimento sociale dei detenuti, progetto Asi-Amministrazione penitenziaria vivicampania.net, 9 giugno 2019 Il Presidente del Consorzio Asi Caserta, Raffaela Pignetti ha partecipato alla conferenza tenutasi ieri a Palermo, a Palazzo Butera, sul progetto di reinserimento sociale dei detenuti attraverso lo strumento dei lavori di pubblica utilità, insieme al presidente della Confederazione Italiana Sviluppo Economico Giosy Romano. Con il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando, erano presenti anche i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, una delegazione del Governo messicano e quella dell’Unodc - l’Ufficio dell’Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine. L’iniziativa palermitana apre importanti prospettive nell’attuazione di uno strumento che può dare concretezza alla funzione rieducativa della pena, incoraggiando e preparando queste persone a reinserirsi nella società. È con questo spirito che il Consorzio Asi ha aderito al progetto rendendosi disponibile ad impiegare detenuti nello svolgimento di lavori di pubblica utilità. “A breve - ha dichiarato la Presidente Pignetti - firmeremo un protocollo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che stabilirà contenuti e modalità operative del progetto. Sono certa che questa iniziativa darà risultati importanti per il reinserimento di persone che, come ha giustamente sottolineato il sindaco Orlando, sono soggetti al diritto in quanto detenuti, ma sono soprattutto soggetti di diritti, in quanto esseri umani. L’esperienza di Palermo dimostra, in maniera inequivocabile, che la collaborazione pubblico-privato su questo versante può dare un contributo decisivo e aiutare tantissime persone a rientrare a pieno titolo nel tessuto sociale e di lavoro con un nuovo bagaglio di abilità e conoscenze”. Cagliari: progetto pilota per il diritto allo studio anche in carcere di Antonio Caria sardegnalive.net, 9 giugno 2019 Maurizio Veneziano: “Attività come questa possono ridurre anche il rischio di recidiva”. È stata una lezione del Rettore dell’Università di Cagliari, Maria Del Zompo, a inaugurare il ciclo di seminari organizzati nell’ambito del Polo Universitario Penitenziario di Cagliari. Un’iniziativa che vede l’Ateneo del capoluogo sardo impegnato nella promozione di attività di formazione universitaria in carcere per garantire il diritto allo studio di condannati e condannate in regime di privazione della libertà. Nel corso della lezione, che si è tenuta all’interno del carcere di Uta davanti a una trentina di detenuti, è stato affrontato il tema “Musica, emozioni e cervello”. Erano presenti anche il Procuratore della Repubblica di Cagliari Maria Pelagatti, il Provveditore regionale delle carceri della Sardegna Maurizio Veneziano, il magistrato di Sorveglianza Ornella Anedda, il direttore della Casa Circondariale Marco Porcu, il comandante del Corpo di Polizia Penitenziaria Andrea Lubello, alcuni docenti dell’Ateneo (che terranno i successivi seminari) e un gruppo di studentesse e studenti e del corso di laurea magistrale in Psicologia dello Sviluppo e dei Processi Socio-lavorativi. Il progetto vede coinvolti 24 atenei a livello nazionale, con attività didattiche e formative in poco meno di 50 Istituti penitenziari e sono circa 600 gli studenti e studentesse iscritti in tutta Italia. “Realizzare questa iniziativa è per noi un valore importante - ha detto la Del Zompo ai detenuti - Siamo sensibili alla vostra situazione e grazie all’impegno dei nostri docenti e dell’amministrazione penitenziaria siamo riusciti ad organizzare un fitto calendario di seminari: l’inclusione è una delle parole chiave del nostro Piano strategico. Ricordatevi che il cervello stimolato nel modo corretto può darci sempre un aiuto”. Al termine della lezione è cominciato un lungo dialogo con i detenuti che hanno rivolto alla professoressa numerose domande: i meccanismi della mente, con i sogni e i ricordi prima di tutto, sono stati i temi più gettonati nella conversazione. Il Rettore ha insistito in particolare sul ruolo svolto dalla musica nella gestione delle emozioni: “La musica ci aiuta anche a interagire con maggiore successo e migliora l’integrazione e la coesione tra le persone - ha aggiunto - potete utilizzarla qui e quando, spero presto, uscirete da qui”. Ad un anno dalla sua istituzione, il Polo di Cagliari, in stretta collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, ha al suo attivo 15 persone iscritte nei corsi di laurea: da ieri si svolgerà all’interno del carcere di Uta e Massama una serie di seminari interdisciplinari. “È un progetto pilota che parte da Cagliari per essere proposto in tutta Italia - ha sottolineato Maurizio Veneziano, Provveditore regionale delle carceri della Sardegna - Questa iniziativa ci permette di avvicinare il mondo esterno ai detenuti per realizzare la finalità dell’inclusione sociale: per ottenere ciò, infatti, occorre che quello della pena non sia un tempo sospeso, ma un periodo utile per offrire alla persona le stesse possibilità che avrebbe fuori. Attività come questa possono ridurre anche il rischio di recidiva”. “Garantiamo il diritto allo studio anche delle persone private della libertà - ha rimarcato Cristina Cabras, la docente delegata del Rettore per il Polo Universitario Penitenziario, che coordina il progetto - È un compito preciso che ci siamo dati: stimolare la vostra capacità di apprendere, aumentare l’interesse verso la conoscenza, favorire un uso proficuo della pena. Per seguire i nostri corsi conta essere curiosi, esercitare il proprio diritto di cittadinanza e promuovere relazioni positive”. Messina: l’On. Bucalo “a Gazzi diverse criticità, attivarsi per nuova Casa circondariale” orawebtv.it, 9 giugno 2019 “Nella casa Circondariale di Gazzi a Messina ci sono delle carenze di organico riguardante la Polizia Penitenziaria, il personale amministrativo ed anche l’area educativa-trattamentale. Ma quello che più mi ha colpito è la vetustà di una struttura, realizzata negli anni ‘50, che seppur manutenzionata, tradisce tutti i suoi anni, e cosa che ormai non si può più sottovalutare, che un istituto di pena così importante, sia localizzato in pieno centro città. Pertanto ritengo sia giunto il momento che ministero e governo si attivino per dare a Messina una nuova casa Circondariale”. Il commento dell’On. Ella Bucalo dopo la visita di realizzata nella giornata di venerdì 07 giugno, al carcere della Città dello Stretto. La deputata di Fratelli d’Italia che ha riscontrato ampia disponibilità della dott.ssa Angela Sciavicco direttrice dell’Istituto, durante l’ispezione è stata accompagnata dal Coordinatore Regionale del Sinappe Rosario Mario Di Prima, dal delegato dello stesso sindacato Stefania Danca e dal dirigente nazionale del Sippe affiliato al Sinappe Antonio Solano. “Un plauso per come, tra tante criticità questo Istituto è organizzato e viene gestito. Ho assicurato il mio impegno per risolvere in tempi brevi alcune delicate tematiche prima tra tutte la carenza di personale, ma quello a cui dobbiamo puntare e per questo chiedo anche la collaborazione dei colleghi della deputazione nazionale, è la costruzione di un nuovo edificio”. Ha concluso la deputata di Barcellona Pozzo di Gotto. Napoli: immigrato portato seminudo in Tribunale, via all’indagine di Viviana Lanza Il Mattino, 9 giugno 2019 Il presidente del Tribunale chiede una relazione. L’avvocato Polidoro: “Bene l’intervento di Ferrara, fatto grave, bisogna individuare subito i responsabili”. Sul caso del detenuto portato in aula nonostante indossasse soltanto un jeans, e fosse scalzo e a torso nudo, si attende ora la relazione richiesta dal presidente del Tribunale Ettore Ferrara. La relazione degli agenti che hanno portato il detenuto in aula sarà centrale nella ricostruzione di quanto accaduto venerdì mattina in tribunale. Da una prima verifica sembra che, quando il detenuto è stato portato in aula, l’udienza non era in corso, il giudice era in camera di consiglio per scrivere la sentenza per un altro imputato e dunque i magistrati non potevano immaginare le condizioni in cui l’uomo si trovava. Tutto è stato più chiaro dopo, quando però il caso era già scoppiato. Sono le 11,30 di venerdì mattina quando l’attenzione di molti si catalizza sull’aula 214. Dentro c’è un uomo seduto nel gabbiotto riservato agli imputati detenuti. Fin qui nulla di strano per un Tribunale. Ma l’uomo è mezzo nudo. Indossa soltanto un jeans, senza scarpe né maglia. Non è italiano e non parla la nostra lingua (tanto che l’udienza sarà rinviata per trovare un interprete). Si chiama Ricciard Unucoru, ha 33 anni e un passaporto nigeriano, non ha il permesso di soggiorno e per quel che raccontano gli agenti ha difficoltà a gestire la sua aggressività. È in cella proprio per aver aggredito a calci e pugni degli agenti nell’ufficio immigrazione tanto che ci sono voluti undici poliziotti per fermarlo. E prima di essere portato in aula si sarebbe dimenato stracciandosi i vestiti, tanto da indossare poi solo i jeans rimediati dagli agenti e rimanere a torso nudo per oltre un’ora, finché non gli viene data la t-shirt grigia comprata dagli stessi poliziotti durante l’attesa in tribunale. Unucoru ha un difensore d’ufficio che però non può seguirlo anche nel prosieguo dell’udienza rinviata per trovare un interprete. Il processo si svolge per direttissima per i reati di resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato. Lui, Ricciard, fino a quando non arriva la maglietta, se ne sta seduto nel gabbiotto con le braccia nude tenute incrociate sul torace come a difendersi dall’aria condizionata e dallo sguardo di chi è in aula. Ha i piedi nudi fermi sul pavimento nero della cella e lo sguardo perso nell’aula 214, quella al primo piano del Palazzo di giustizia. Sembra appena scampato da una tempesta, e se ne resta fermo nei pochi metri della cella. Nel vederlo entrare in quelle condizioni, un penalista esprime a voce alta indignazione ma gli agenti portano a termine l’azione come a seguire un rigido protocollo senza valutare il singolo (e singolare) caso. “Sono cose che non devono accadere”, commenta l’avvocato Riccardo Polidoro, penalista, fondatore a Napoli di “Carcere possibile”, la Onlus della Camera penale che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti, e attualmente responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane. “Bisognava ritardare l’udienza, comunque interloquire con il magistrato prima di portare il detenuto in aula in quelle condizioni. E bene ha fatto il presidente del tribunale Ferrara a disporre un’indagine per capire cosa sia accaduto e accertare eventuali responsabilità” aggiunge Polidoro affermando che l’organismo forense presterà attenzione al caso valutando eventuali iniziative. Resta lo sconcerto. “È un fatto grave. Non è mai accaduto nulla di simile in passato. Quando un cittadino viene privato della libertà personale è gestito dallo Stato e va gestito bene. Non è accettabile che sia portato in aula mezzo nudo”. Piacenza: i detenuti delle Novate hanno interpretato “Giulio Cesare” di Shakespeare di Emanuele Maffi piacenzaonline.info, 9 giugno 2019 Lo spettacolo messo in scena nella cappella delle Novate è stato voluto dall’associazione “Oltre il Muro” e diretto da Mino Manni. Sulla rieducazione della pena ci sono pagine e pagine di letteratura. Cominciò tal Cesare Beccaria nel 1764 con un breve saggio dal titolo Dei delitti e delle pene, nel quale l’autore milanese cominciò ad interrogarsi circa l’accertamento dei delitti e delle pene allora in uso, per proseguire poco meno di 200 anni dopo con la Costituzione italiana, che all’art. 27 comma 3 recita proprio che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sulle modalità di questa rieducazione il carcere di Piacenza, da poco passato in mano alla “gestione” della direttrice Maria Gabriella Lusi, intende dare una risposta attraverso l’arte e la creatività, in modo che l’orizzonte dei detenuti vada oltre le quattro mura grigie della casa circondariale. Da qui l’idea di realizzare uno spettacolo teatrale da parte dell’associazione “Oltre il Muro”, con la collaborazione vitale di un regista affermato a livello teatrale come Mino Manni. 13 incontri laboratoriali iniziati a marzo e conclusi con la messa in scena di “Giulio Cesare” di William Shakespeare, andato in scena questa mattina nella cappella delle Novate. Ogni detenuto si è cimentato ad interpretare grandi personaggi della storia (Cesare, Bruto, Cassio, Antonio, Ottaviano, Decio, Casca) calandosi in diverse realtà esistenziali, sia positive che negative, sperimentando le contraddizioni dell’animo umano, con la possibilità di riscatto finale. “Il teatro rappresenta disciplina, conoscenza di sé e degli altri - sottolinea la direttrice Lusi - e attraverso la regia di Mino Manni c’è stata la possibilità di raccontare una storia, ma anche le proprie storie. Il teatro è anche questo, capacità di raccontarsi, arricchendo il personaggio da interpretare. Trovo bellissimo che i detenuti si siano lasciati andare in questo avvolgente percorso”. Il testo di Shakespeare è stato definito “fortemente stimolante” dal regista Mino Manni. “Parla del mistero dell’uomo, del fatto che l’uomo è fallibile, che può fare degli errori e che nonostante questo può recuperare, vedere una luce in fondo al tunnel. Perché tutti noi possiamo fare delle cose di cui possiamo pentirci. Non bisogna vergognarsene, bisogna parlare”. “Abbiamo fatto tutto questo senza giudizio - continua Manni - perché Shakespeare è un autore che non giudica mai, proprio perché l’uomo è un mistero”. Democrazia e web. Tutti i rischi della delega ai depositari dell’etica di Carlo Nordio Il Messaggero, 9 giugno 2019 Questo giornale ha pubblicato ieri i risultati di uno studio promosso dall’Associazione Amici della Luiss sul modo in cui i network e le nuove tecnologie possono influenzare le scelte politiche e sociali degli individui, condizionandole od orientandole verso risultati desiderati. Il nostro editore, Francesco Gaetano Caltagirone, ne ha tratto una stimolante riflessione, ricordando i rischi di questa singolare forma di democrazia diretta. Un tempo - ha scritto - questa manipolazione era operata dalla religione, al punto da imporre l’abiura a Galileo; poi è diventata strumento delle ideologie, fino a svilirsi nel marketing con la creazione di bisogni indotti da un’insinuante persuasione. Ora è una tecnica di comunicazione telematica, che mira all’accreditamento di gradimenti istantanei svincolati dalla conoscenze e dalla riflessione. Ne è vittima il nostro intero sistema democratico, che dovrebbe reggersi sulla selezione dei rappresentanti del popolo incaricati di comporre i diversi interessi limitando i conflitti sociali. Aggiungo qualche mia considerazione supplementare sugli effetti perversi dell’irruzione di questa interferenza telematica nella formazione del sentire collettivo: effetti forse non previsti come spesso accade quando la tecnologia, che corre più veloce del buon senso, provoca disastri contro le intenzioni dell’inventore. Come diceva Schiller, la pietra lanciata dall’uomo appartiene al diavolo, e non sai dove andrà a cadere. Questa nuova forma di persuasione è in effetti più pericolosa delle precedenti. Quando, ad esempio, la Chiesa imponeva a Galileo di rinnegare l’eliocentrismo, si esponeva alla smentita dell’osservazione scientifica, e allo stesso tempo sollecitava le menti libere a continuare la ricerca, con il risultato di smascherare gli errori dell’inquisitore. Le ideologie, di converso, trovavano la compensazione in quelle antagoniste, lasciando così al cittadino l’opzione preferita. Quanto alla “persuasione occulta” evocata da Marcuse come il mostro dell’economia di mercato, essa era inserita nella libera concorrenza, che attraverso messaggi uguali e contrari ne annullava di fatto l’efficacia. Non era insomma necessario aver letto Popper - che di queste strambe teorie aveva fatto piazza pulita - per capire che si trattava di condizionamenti tutto sommato velleitari ed innocui. Infatti, per quanto almeno riguardava la politica, per cinquant’anni il nostro sistema è stato ingessato da orientamenti elettorali stabili e persino prevedibili. Oggi, con l’intervento dei “like” e dei loro derivati, questa captazione del consenso è precipitata nel buco nero delle pulsioni emotive, e quello che un tempo era il magistero autoritario ed arcigno della Chiesa o del partito è diventato veicolo di ricezione acritica di slogan e di luoghi comuni. Ma questa è solo una prima conseguenza, e nemmeno la più grave. Perché questa invasività capillare e progressiva provoca una sorta di investitura etica che attribuisce al destinatario del gradimento il potere di distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo, il giusto dall’ingiusto, l’utile dal dannoso. Il voto espresso dall’utente con un semplice “like” diventa così lo strumento illusorio di un potere che di fatto è già stato acquisito ed esercitato da chi lo ha stimolato a quella reazione. Quando infatti il quesito è formulato in un certo modo, la risposta è la mera certificazione sacrificale di un’abdicazione. Mussolini era maestro nel porre queste domande retoriche, ma lì almeno c’era una dittatura. Ora la narcosi delle coscienze è subdolamente contrabbandata come espressione della rousseauiana volontà generale. Infine, l’aspetto più propriamente politico. Se queste risposte dei social sono - come tutti i frutti di suggestioni enfatiche - volatili ed effimere, i loro risultati sono al contrario permanenti e duraturi. Da esse ormai rischiano di dipendere le approvazioni di leggi, le edittazioni estromissive di ministri e di candidati, la formazione del bilancio e forse un domani la tenuta del governo o della legislatura. Così, la partecipazione incontrollata e massiccia della cosiddetta democrazia diretta, unita all’esaltazione isterica dell’emotività capricciosa, rischia di provocare conseguenze stabili e funeste, che gli stessi autori magari proveranno successivamente a rimediare con altrettanti espedienti retorici uguali e contrari. Ed è questo l’incubo di chi abbia a cuore la sorte della nostra democrazia. Non lo spettro di un’inesistente svolta autoritaria o addirittura fascista, ma l’isolamento in un lazzaretto politico delle menti competenti e capaci, e, aggiungiamo noi, l’irruzione caotica del dilettantismo e dell’arroganza. L’immigrazione è davvero un problema così grande? di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 9 giugno 2019 Il fenomeno, ovviamente, genera problemi ma irrisori rispetto alla stagnazione economica, alla mancanza di lavoro, alle disparità sociali, alle mafie sanguinarie. Nella furia della polemica, la politica della Lega, ora primo partito d’Italia, viene più volte tacciata di “fascismo”. Per una parte considerevole del nostro Paese, “fascista” è il peggior insulto politico. Per un’altra, non so quanto estesa, evoca quasi nostalgia, se non vanto. Talvolta i leader della Lega hanno strizzato l’occhio a quest’altra parte, con linguaggio o piccole azioni più o meno simboliche. Ma ci sono davvero somiglianze fra l’attuale politica della Lega e la politica dei partiti fascisti degli anni Trenta, in Italia, Germania e Spagna? Ce n’è una importante. Riconoscerla può essere indicazione utile per chi si oppone alla politica della Lega: la risposta attuale a questo aspetto della politica leghista, infatti, è forse nobile, ma mi sembra politicamente inefficace. Mi riferisco alla strategia politica che fa di una questione marginale il centro del discorso politico, addita un gruppo minoritario come problema centrale, ingigantisce i problemi che questo gruppo solleva, ne fa il capro espiatorio per le difficoltà del Paese, e raccoglie consenso convogliando rabbia e paura contro di esso. Questo, che è quello che la Lega fa con l’immigrazione clandestina, è stata strategia caratteristica dei partiti fascisti, sfruttata con particolare efficacia dal nazional-socialismo tedesco. Ovviamente non c’è nulla nella Lega attuale che possa essere paragonato neppure lontanamente all’orrore assoluto del successivo genocidio ebraico. L’idea di un simile paragone sarebbe ridicola. Ma esiste una somiglianza fra l’uso politico del problema ebraico in Germania negli anni Trenta e l’uso politico del problema immigrazione clandestina nell’Italia (e in altri Paesi) oggi. È utile sottolineare questa somiglianza, non per dare argomenti a sterili rituali d’insulto, ma per riflettere sulla strategia di risposta a questa politica. Vediamo dunque quale sia e fin dove arrivi la somiglianza. All’inizio degli anni Trenta, sconfitta militare, sanzioni economiche, e lo sconvolgimento sociale seguito alla rapida industrializzazione, avevano gettato parte della popolazione tedesca nella miseria. In quel frangente difficile, è emersa una forza politica capace di fare leva su scontento e disorientamento e trasformarli in consenso. Uno strumento di questo successo è stata la costruzione di un’illusione, un capro espiatorio contro cui convogliare paura e rabbia generate dalle difficoltà: la figura immaginaria del perfido ebreo. Una martellante propaganda è sorprendentemente riuscita a convincere un intero popolo, peraltro colto, che la colpa del disagio fossero gli ebrei. Le difficoltà della Germania non avevano nulla a che vedere con la presenza di ebrei nel Paese; ma la propaganda ha incantato la gente, e tanti si sono convinti che l’ebreo fosse il problema del giorno. Alcuni strati ricchi della società tedesca, non scontenti che masse in miseria dirigessero il risentimento contro il perfido ebreo anziché contro i privilegi, hanno discretamente appoggiato il partito nazional-socialista. In Italia non c’è la fame della Germania del Trenta. Ma la lunga crisi economica ha soffocato speranze di futuro migliore. L’aumento delle disparità economiche, seguito come altrove nel mondo al crollo del sistema sovietico e alla fine dell’effetto di freno alle diseguaglianze sociali che aveva avuto in Occidente la paura del comunismo, ha creato disagio e scontento. L’incertezza ideologica delle sinistre, spostate su posizioni sempre più conservatrici, ha aumentato il disorientamento politico. In questo frangente difficile è emersa una forza politica che riesce a fare leva sullo scontento trasformandolo in consenso. Uno strumento di questo successo politico è la creazione di un’illusione, un capro espiatorio immaginario contro cui convogliare rabbia e timori: lo sporco immigrato illegale, che toglie ricchezza agli italiani, crea insicurezza e mette in crisi la nostra civiltà. Una martellante propaganda contro l’immigrato, un ingigantimento mediatico dei piccoli problemi creati dall’immigrazione, stanno incredibilmente riuscendo a convincere un intero popolo, peraltro colto, che la colpa delle difficoltà del Paese siano gli immigrati. Le attuali difficoltà economiche e sociali dell’Italia non hanno nulla a che vedere con la presenza di immigrati, clandestini o meno. L’effetto generale dell’immigrazione sull’economia, se lo si vuole misurare, è più positivo che negativo. I reati non sono aumentati in Italia, anzi, sono diminuiti. Ma la propaganda incanta, e tanti si sono fatti abbindolare e si sono convinti che il problema dell’Italia sia l’immigrazione. Alcuni strati ricchi della società italiana, non scontenti che le masse dirigano il risentimento contro lo sporco immigrato anziché contro i privilegi, discretamente appoggiano la Lega. Che gentilmente ricambia proponendo di diminuire le tasse soprattutto ai più ricchi: le tasse con cui si devono pagare i servizi sociali per tutti. Problemi generati dall’immigrazione esistono, ovviamente, ma sono irrisori rispetto a questioni serie come la persistente stagnazione economica, la mancanza di lavoro, le crescenti disparità sociali, le italianissime mafie sanguinarie, corruzione, evasione fiscale, e diffusa illegalità. Sono ancor più irrisori rispetto a rischi globali come quelli ambientali e di guerre. Eppure la propaganda di televisioni e giornali di destra martella su ogni minima difficoltà generata dall’immigrazione, ne fa esempi paradigmatici, li mette al centro del discorso politico. Un abile gioco di prestigio ha convinto gli italiani che se hanno meno soldi in tasca è irrilevante - per esempio - il fatto che la ricchezza del mondo si concentri nelle mani di pochi Paperoni: è perché un po’ di nullatenenti sono venuti d’oltremare a rubarci il pane. Il partito che gioca questo perfido gioco di specchi diventa il primo partito del Paese. L’opposizione a questa destra risponde soprattutto facendo leva su commozione, simpatia e indignazione per le sofferenze dei profughi. Condivido commozione, simpatia e indignazione; ma questa non è la risposta politica efficace. È una risposta che contribuisce a ingigantire il problema, e quindi al successo della politica della destra: si polarizza la discussione, spaventando ulteriormente quei molti nostri concittadini che si sono già fatti convincere che sia in atto un’invasione. La risposta efficace, mi sembra, è l’opposta: smontare il castello di specchi creato dalle ridicole grida “al lupo al lupo l’invasione”, riportando la questione immigrazione all’irrilevanza che le è propria. Mio padre era persona dolce e intelligente. A oltre novant’anni, viveva serenamente. Una badante lo accudiva con affetto. In una delle mie ultime visite, l’ho trovato inquieto. Gli avevano detto che l’autobus che prendeva la badante era pieno di sporchi e puzzolenti neri portatori di orrende malattie, che lo mettevano in pericolo per contagio indiretto. Nonostante la sua intelligenza e cultura, era ansioso per questo pericolo immaginario e assurdo, di cui però tutti parlano nella sua città. Uomo nero, sporcizia, contagio. Oscuri spettri, paure, avevano trovato dove materializzarsi: il nero portatore di contagio. Come la maggioranza del Paese, papà gli immigrati li incrociava appena, ma la pestilenziale paranoia collettiva generata dalla propaganda leghista era arrivata alla sua serena vecchiaia. “Ci invadono, corrodono i fondamenti della civiltà, distruggeranno tutto, sono terroristi, stupratori; chiudiamo le porte, barrichiamoci, salviamoci, teniamoli fuori. Votate me e vi salverò dal male che invade”. La sola rilevanza della questione dell’immigrazione è il vantaggio politico che ne stanno traendo Lega e altri partiti di estrema destra in Europa. Trasformare questo problema nel problema centrale è imbambolare i nostri concittadini. Questa, mi sembra es-sere la risposta efficace alla creazione ad arte di un falso problema: mostrare quanto le paure siano ridicole, quanto siano strumentali. Non siamo ridicoli: la nostra civiltà non è in pericolo per l’arrivo di qualche straniero. I soldi che scarseggiano dalle tasche degli italiani non finiscono nelle tasche di poveracci immigrati: sono magari nelle tasche capienti di famiglie spudoratamente ricche. Convogliare rabbia contro il capro espiatorio immaginario di un invasore è prendere in giro la gente, per interessi di parte. Il messaggio della sinistra, mi pare, dovrebbe essere questo: non fatevi prendere in giro. In Africa crescono Pil e fame di Michele Farina Corriere della Sera, 9 giugno 2019 Negli ultimi due decenni lo sviluppo economico è stato impressionante, eppure 60 milioni di bambini africani non mangiano abbastanza. Da vecchio, Nelson Mandela amava parlare con i bambini (in 27 anni di carcere ne aveva visti pochi). Per loro aveva una domanda ricorrente: “Che cosa hai mangiato a colazione?”. Oggi 60 milioni di bambini africani potrebbero rispondere in coro: “Non abbastanza”. È come se gli italiani, dal primo all’ultimo, facessero la fame. Uno studio recente dell’autorevole Acpf (African Child Policy Forum) segnala che 9 bambini su 10 in Africa non raggiungono il minimo di calorie previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Due su cinque non mangiano regolarmente. Uno su tre soffre di stunting (arresto della crescita). Questo comporta anche una perdita economica per la società (chi non mangia lavora meno), pari al 17% del Pil. “La fame nel mondo è in calo, ma in alcune parti dell’Africa aumenta” denuncia Graça Machel, la vedova di Mandela che fa parte dell’organizzazione. “Tra il 2014 e il 2017, ben 44 milioni di persone si sono aggiunte alla schiera dei denutriti, e in maggioranza sono bambini”. Machel punta il dito sui governanti. “Negli ultimi due decenni la crescita economica è stata impressionante, ma ha avuto un impatto minimo sulla malnutrizione infantile”. L’ex First Lady sudafricana fa l’esempio del Kenya: “Il Pil sale del 2%, e lo stunting aumenta del 2,5%”. Crescita e decrescita. Mentre l’economia si irrobustisce, i bambini dimagriscono. “Questo - tuona la 73enne signora Mandela - è un problema politico, figlio di un’alleanza perversa tra indifferenza, mal governo e cattiva gestione delle risorse”. Ogni giorno sulla Terra diecimila bambini muoiono per la mancanza di cibo. E l’Africa peggiora anziché migliorare. Giusto che le prime a risponderne siano le élite africane. Ma anche i governanti del resto del mondo possono fare molto. Oltre a chiedere ai vari leader di rafforzare la sicurezza e le barriere contro il terrorismo, potrebbero esigere che il sostegno esterno sia condizionato al tangibile miglioramento della dieta dei piccoli africani. Oltre che organizzare visite di imprenditori per incrementare il business, potrebbero proporre che la crescita dell’import-export abbia conseguenze sullo sviluppo psicofisico dei bambini. E magari, durante le visite, chiedere qua e là come faceva Mandela: “Che cosa hai mangiato a colazione?”. Venezuela. Salgono a 4 milioni i rifugiati (dalla Siria sono 5,6) di Marta Serafini Corriere della Sera, 9 giugno 2019 Non si ferma la fuga dal Paese investito dalla crisi economica. Il Fmi prevede un’ulteriore contrazione del Pil del 25%. Un milione e mezzo in meno rispetto alla Siria, travolta dalla guerra, e un esodo definito “sconcertante”. Secondo quanto reso noto ieri dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) e dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) il numero dei venezuelani che hanno lasciato il loro paese per fuggire alla crisi politica ed economica in corso ha raggiunto i quattro milioni. “Questi numeri allarmanti mettono in luce il bisogno urgente di sostenere le comunità ospitanti nei paesi che ricevono i flussi”, ha commentato Eduardo Stein, inviato speciale dell’Unhcr e dell’Oim per il Venezuela. A contribuire alla crisi la difficoltà di accesso degli aiuti e l’embargo cui il Paese è sottoposto. “L’America latina e i Paesi dei Caraibi stanno facendo la loro parte per rispondere a questa crisi senza precedenti, ma non ci si può aspettare che lo facciano senza aiuto internazionale”. Tra i Paesi della regione ad ospitare il maggior numero di migranti e rifugianti venezuelani è la Colombia (1,3 milioni), seguita da Perù (768 mila), Cile (288 mila), Ecuador (263 mila), Brasile (163 mila), Argentina (130 mila). Anche il Messico e i paesi dell’America centrale e dei Caraibi ospitano un numero significativo di migranti e rifugiati venezuelani, rendono noto le agenzie.”Le persone con cui ho parlato hanno dipinto un’immagine molto cupa della situazione sanitaria nel Paese”, ha detto la direttrice Comunicazione del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), Paloma Escudero. “Molti medici e infermieri hanno lasciato il paese. I centri medici funzionano alla minima capacità a causa della penuria di medicinali. La mancanza di pezzi di ricambio ha lasciato a terra unità mobili e ambulanze. Le donne incinte, molte delle quali troppo giovani e anemiche, non riescono a ottenere le cure di cui hanno bisogno. Con il peggioramento delle carenze di carburante, a volte non sono nemmeno in grado di raggiungere i centri sanitari (...) Per un paese che ha fatto notevoli progressi sulla qualità della sua assistenza sanitaria, questo è abbastanza drammatico”, ha dichiarato la funzionaria Onu.Inoltre, sempre secondo Escudero, un terzo dei bambini in Venezuela, circa 3,2 milioni, ha bisogno di assistenza umanitaria e il tasso di mortalità tra i bambini sotto i cinque anni è piu’ che raddoppiato tra il 2014 e il 2017. A causare questa crisi umanitaria, il collasso economico del Paese. Secondo stime dell’Fmi diffuse ad aprile l’economia venezuelana registrerà quest’anno una contrazione del 25 per cento, rispetto alla stima del 18 per cento diffusa a gennaio. L’organismo mantiene invece stabile la previsione dell’inflazione, che resta del 10.000.000 per cento. “Prevediamo che l’economia del Venezuela si contrarrà nella quarta parte del 2019 e del 10 per cento nel 2020; un crollo maggiore rispetto a quello previsto a ottobre 2018, che rappresenta un freno notevole alla crescita nella regione”, si legge nel rapporto World economic outlook. La crisi in corso in Venezuela ha visto un’escalation dopo che lo scorso 23 gennaio Guaidò ha prestato giuramento come capo dello Stato “ad interim”. Subito dopo sono arrivati i riconoscimenti, tra gli altri, del presidente degli Stati Uniti Trump, del brasiliano Jair Bolsonaro e del segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani (Osa) Almagro. Si sono aggiunti poi altri paesi latinoamericani, tra i quali l’Argentina, il Cile, la Colombia e il Perù. Guaidò ha quindi ottenuto il riconoscimento di molti paesi europei. Al fianco di Maduro, denunciando pesanti ingerenze negli affari interni del Venezuela, rimangono la Bolivia, Cuba ma anche la Turchia, la Federazione Russa e la Cina. Nel frattempo Angelina Jolie, inviata speciale dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati è arrivata in Colombia visitare il dipartimento di La Guajira, alla frontiera colombiano-venezuelana, e verificare le condizioni di vita dei migranti che hanno abbandonato il Venezuela per gli effetti della grave crisi umanitaria esistente. Durante la sua permanenza nel Paese l’attrice incontrerà anche esponenti del governo colombiano e responsabili di organizzazioni umanitarie che assistono i migranti. È previsto che al termine della visita, domani pomeriggio, Jolie terrà una conferenza stampa insieme all’Alto Commissario aggiunto dell’Unhcr, Kelly Clements, illustrando le informazioni raccolte. Il suo primo contatto con il dramma dei rifugiati e migranti venezuelani è stato nell’ottobre dello scorso anno, quando visitò il Perù per tre giorni, incontrando il presidente Martin Vizcarra ed i migranti trasferitisi dal Venezuela in quel Paese. L’iniziativa fu criticata dalle autorità di Caracas ed in particolare dal presidente dell’Assemblea nazionale costituente (Anc), Diosdado Cabello, secondo cui si trattava di una strumentalizzazione, “utile ai media di destra per non parlare dei migranti centroamericani e dell’accoglienza “amorevole” che hanno negli Usa.