“Mio padre è un sepolto vivo, ridatemelo almeno per il giorno del mio matrimonio” di Francesco Viviano Quotidiano del Sud, 8 giugno 2019 Voci dal Fine Pena Mai. Lacrimoni le scivolano su quel bel viso innocente, piange tentando di non farsi vedere da quell’uomo grande e grosso, sorvegliato con discrezione da due agenti dalla polizia penitenziaria, che non le toglie lo sguardo di dosso neanche per un momento, come per proteggerla e non perdere neanche un istante di stargli vicino perché tra alcune ore tutto sarà finito, lui tornerà in cella nel carcere di massima sicurezza di Padova, lei tornerà nella sua casa in Calabria. Si rivedranno tra qualche mese. Lei si chiama Francesca Romeo, lui, suo padre, Tommaso Romeo, ex boss della ndrangheta, condannato all’ergastolo con “fine pena mai”, per una serie di omicidi compiuti in una delle tante faide nella Locride. Avvicino con molta discrezione Francesca e le chiedo: “Perché sta piangendo?”. “Piango perché tra poche ore dovrò andare via e lasciare qui mio padre con il quale sto partecipando a questo dibattito in carcere”. Un dibattito su “La cultura della prevenzione, l’incultura dell’emergenza”, organizzata da “Ristretti Orizzonti” (un mensile diretto da Ornella Favero la cui redazione è composta anche da ergastolani ndr), in collaborazione con la Casa di reclusione di Padova. E per Francesca e Tommaso Romeo questo è un giorno particolare “perché - dice Francesca - il 4 luglio prossimo mi sposo e fino ad allora non potrò incontrarlo e piango anche per questo, perché quando andrò all’altare lui non ci sarà, non mi potrà accompagnare, come fanno tutti i padri quando le loro figlie si sposano. Perché non gli consentono di portarmi all’altare? Per me sarebbe il più bel regalo del mondo. Perché non concedergli un breve permesso dopo oltre 27 anni passati in carcere? Anni in cui mio padre ha cambiato anche il suo percorso, rinnegando quello che era, che ha ammesso le sue colpe e che fa pubblicamente appelli ai giovani perché non facciano gli errori che ha fatto lui. Faccio quest’ appello a chi potrebbe concedergli questa possibilità, chiedo soltanto un piccolo atto di clemenza e di umanità. Potrebbe venire anche sorvegliato a vista da 50 agenti, non mi vergognerei se venissero anche loro in chiesa”. Francesca si ferma un attimo e poi riprende a parlare ed a ricordare. “Qualunque errore abbia potuto commettere - dice Francesca - lo ha pagato con tanti anni della propria libertà e non si sa se quel maledetto cancello si riaprirà mai. Ho tanta rabbia dentro un po’ con il mondo intero e non solo, visto che mi è stata negata per tutti questi anni la presenza di mio padre accanto a me, ero piccola e non riuscivo a capire perché il mio papà ad ogni mio compleanno, ad ogni Natale, ad ogni Pasqua o semplicemente al mio primo giorno di scuola non c’era, mentre tutti gli altri bambini erano accompagnati dal proprio papà, io purtroppo ero quella diversa quella senza un papà. Ho tanta rabbia dentro perché non riesco neanche a ricordarmi il mio papà dentro casa mia, non riesco a ricordare neanche il poco tempo che siamo riusciti a passare insieme perché ero troppo piccola, quanto vorrei ricordare! Mio padre è un sepolto vivo, alla morte ci si rassegna al carcere a vita no”. Francesca si asciuga le lacrime e torna accanto a suo padre, lo abbraccia, lui la stringe a se, una scena commovente. Nel carcere di Padova sono una cinquantina gli ergastolani “ostativi” che per la legge sono supercriminali, pluriassassini che non “collaborano”, cioè ammettono le loro colpe ma non accusano altri, e tra questi c’è anche Tommaso Romeo, finito in carcere il 27 maggio del 1993 “Le mie figlie gemelle, Francesca e Rossella, avevano quindici mesi quando sono stato arrestato, ho visto crescere le mie figlie dietro quel bancone. Ma il peggio doveva venire, fu quando il 22 giugno del 2002 si presentano davanti alla mia cella gli agenti e mi portano alla matricola e mi informano che mi era stato applicato il regime del 41bis, e che dovevo prepararmi la roba che entro un paio d’ore ero in partenza. In poche ore mi ritrovo nel super carcere di Spoleto, appena arrivato vengo denudato e costretto a fare la famosa flessione, dopo essermi rivestito entro in una stanza dove l’ispettore responsabile mi elenca tutto quello di cui non potevo usufruire “niente telefonate, un’ora di colloquio al mese, un’ora d’aria al giorno, posta censurata, vestiario contato, perquisizione in cella tutti i giorni”, vengo portato in sezione, il mio gruppo era composto da cinque detenuti compreso me, gli oggetti personali (rasoio, pettine, taglia unghie) venivano ritirati alle ore 19:00 compreso il fornellino, perciò dopo di quell’orario non potevi farti un caffè o un tè, ti veniva ridato il tutto il mattino seguente alle ore 7:00, ogni volta che uscivo dalla cella venivo perquisito, non potevo leggere quotidiani della mia regione d’origine, alla tv potevo vedere sette canali decisi dalla direzione”. Francesca gli sta accanto, si abbracciano e si sorridono, ma anche lei ricorda quando suo padre era al 41 bis. “Non mi ricordo il mio primo colloquio con mio padre, ma sicuramente uno non riuscirò mai a dimenticarlo, quello quando lo andai a trovare mentre era al 41bis. Ero piccola, 10 o 11 anni, prima di allora io e mia sorella eravamo abituati a colloqui dove ci potevamo toccare, abbracciare ma con il regime del 41 bis tutto ci fu negato, ci parlavamo dietro un vetro blindato ed a volte non capisco neanche quello che diceva mio padre, poggiavamo la mano sul vetro per fare finta che ci toccassimo ma in realtà toccavamo un vetro freddo”. Ma ora le cose per fortuna sono cambiate, anche se rinchiuso nel carcere di massima sicurezza a Padova Tommaso Romeo finalmente ha colloqui normali con i suoi familiari, con le figlie ed i suoi due nipotini. Non solo, grazie anche alla attività di “Ristretti Orizzonti” Tommaso Romeo svolge un’altra vita, sia pure sempre dentro quella fortezza. Adesso Tommaso parla anche a giovani studenti che vanno in carcere, dice loro quello che avrebbe voluto sentirsi dire anche lui quando era ragazzo. “Dico loro di non andare dietro a falsi miti, come ci andavo io e come purtroppo, ancora oggi, tanti giovani calabresi sono attratti dai boss. Quando ero libero, ero rispettato e temuto, quel mondo mi piaceva, ma soltanto dopo, soltanto quando capisci che era tutto sbagliato, ti rendi conto che non puoi permettere che altri seguano la tua strada. Una strada che è senza uscita: o la galera o la morte. Io ho sbagliato, ho coinvolto anche la mia famiglia, i nostri figli che non mi sono potuto godere. Bisogna fare qualcosa per i nostri giovani, per miei compaesani e per tutti quelli che vivono in situazioni difficili, per liberarli da quella subcultura che ci ha nutrito tutta la vita e mia figlia Francesca è quella che mi ha dato una grande spinta per continuare a vivere ed a cambiare anche se io non uscirò mai più dal carcere”. Adesso Tommaso non è più quello di una volta, adesso predica ai giovani dicendo di non seguire le vie più facili. Da cinque anni il suo atteggiamento è cambiato, parla con gli studenti e chiede che i ragazzi dei quartieri e dei paesi difficili, abbiano altre possibilità, non quelle che offrono le organizzazioni criminali. “Dobbiamo salvare i giovani, allontanarli da quella cultura mafiosa che li porta verso il baratro. Io ho un cognato che adesso collabora con un’associazione in Calabria e che parla ai suoi giovani paesani un’altra lingua che non è quella della ndrangheta” dice con un certo orgoglio Tommaso. “Io alle mie figlie quando erano più piccole dicevo che il loro papà “lavorava” dentro il carcere e che presto avrebbe finito quel lavoro e sarebbe tornato a casa ed è stata una delle bugie più penose che ho detto ed a mio nipote, quelle poche volte che lo vedo gli dico: il nonno è qui perché ha sbagliato e se tu sbagli farai la stessa fine”. Ergastolo ostativo, la Cedu per la prima volta giudica l’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2019 Il ricorrente è assistito dagli avvocati Antonella Mascia, Valerio Onida e Barbara Randazzo ed è affiancato da un qualificato gruppo di “amici curiae”. Giovedì prossimo, il 13 giugno, la Corte europea dei diritti umani (Cedu) potrebbe mettere in discussione, per la prima volta dalla sua istituzione, l’ergastolo ostativo in quanto tale, condannando o meno l’Italia. Parliamo del ricorso pendente alla Corte di Strasburgo che riguarda il caso Viola, un detenuto in carcere ininterrottamente dal 1992. Condannato dapprima a 12 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata dalla qualità di promotore e organizzatore, in un secondo processo egli è stato condannato alla pena dell’ergastolo, poiché gli sono stati attribuiti anche reati di omicidio, con il riconoscimento delle aggravanti mafiose. La pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Viola, ricordiamo, si è sempre proclamato innocente e anche per questo, ma non solo, non ha mai scelto di collaborare, unica condizione per mettere fine alla pena perpetua che è, appunto, l’ergastolo ostativo. Nel 2011 e nel 2013 ha presentato domanda di permesso premio, ottenendo sempre una risposta negativa. Nel marzo 2015, Viola chiede la liberazione condizionale al Tribunale di sorveglianza, confermando la professione di innocenza, la quale, a suo giudizio, impedisce la utile collaborazione con la giustizia, chiedendo una pronuncia incidentale di inesigibilità della medesima. Nell’istanza, il detenuto chiede al Tribunale di sorveglianza di sollevare questione di costituzionalità del 4 bis per contrasto con la funzione rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione) e per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea. Il Tribunale di sorveglianza dichiara inammissibile e infondata la questione di costituzionalità e respinge l’istanza, ritenendo che la professione di innocenza non abbia rilievo nella fase esecutiva. Si va in Cassazione, che nel 2016 rigetta il ricorso: a quel punto Viola si rivolge alla Cedu. I giudici europei hanno dichiarato ammissibile il suo e nello specifico scrivono chiaro e tondo che ritengono meritevole la compatibilità del regime penitenziario previsto in caso di ergastolo “ostativo” con l’obiettivo di riabilitazione e di inserimento dei detenuti e con il rispetto degli obblighi positivi da parte dello Stato di garantire ai detenuti sottoposti a questo regime la possibilità di lavoro e di reinserimento richiesti dagli articoli 3 e 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare). Il ricorrente, ricordiamo, è assistito dal collegio di difesa composto dall’avvocata Antonella Mascia, del foro di Verona e Strasburgo e dagli avvocati professori Valerio Onida e Barbara Randazzo di Milano. Come è ben spiegato tramite un testo reso da un gruppo di professori dal calibro di Davide Galliani, Andrea Pugiotto, Glauco Giostra, Vittorio Manes, Emilio Santoro, Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino, Patrizio Gonnella di Antigone, il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, Garanti regionali come Stefano Anastasia e Franco Corleone, tutti in qualità di amici curiae (il soggetto che, per diretto incarico della Corte o per propria iniziativa, accolta dalla Corte stessa, le si affianca come “amico” per collaborare con essa) autorizzato dalla Corte nel procedimento Viola contro l’Italia, c’è l’ articolo 3 della convenzione che solleva un triplice problema dell’ergastolo ostativo: non è degradante costringere delle persone - a pena di concludere i propri giorni di vita in un carcere, senza alcuna altra possibilità - a scelte che possono mettere a repentaglio la vita e l’incolumità propria, dei familiari, dei conoscenti o di qualsiasi altra inconsapevole persona? Non è inumano strumentalizzare il reo per il raggiungimento di fini pur meritevoli di protezione, dal momento che il rispetto della dignità umana impedisce di degradare l’uomo da fine a mezzo? Non è inumano e degradante l’assioma a fondamento dell’ergastolo ostativo, vale a dire l’automatismo legislativo in base al quale la persona non collaborante è socialmente pericolosa e quindi non meritevole di alcuna misura alternativa alla detenzione, a nulla rilevando ogni altra valutazione riguardante il come è trascorso il tempo in carcere e i progressi trattamentali attestati dalle relazioni delle autorità penitenziarie? Giovedì prossimo, la Cedu sarà chiamata a rispondere e ciò potrebbe anche condizionare la scelta della nostra Corte costituzionale in merito alla decisione che dovrà prendere il 22 ottobre, proprio sulla questione del 4 bis, che vieta i benefici della pena per l’ergastolano ostativo. Il Decreto sicurezza-bis sarà martedì in Cdm Italia Oggi, 8 giugno 2019 Il Consiglio dei ministri è stato convocato per martedì 11 giugno 2019. E al primo punto dell’ordine del giorno reca il decreto legge “Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica”, il cosiddetto dl sicurezza bis portato avanti dal vicepremier e ministro dell’interno Matteo Salvini. All’odg in esame preliminare c’è anche un Dlgs con “Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante Codice della giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124”. Tra gli altri provvedimenti all’esame, il ddl in esame definitivo “Disposizioni per il potenziamento e la velocizzazione degli interventi di mitigazione del dissesto idrogeologico e la salvaguardia del territorio - Legge CantierAmbiente”, il dpr “Regolamento che modifica il Titolo IX del regolamento di servizio dell’Amministrazione della pubblica sicurezza di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 ottobre 1985, n. 782”. E alcuni disegni di legge degli Affari esteri, tra cui “Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il governo del Turkmenistan sulla promozione e protezione degli investimenti, fatto a Roma il 25 novembre 2009”, “Ratifica ed esecuzione del protocollo di modifica della Convenzione tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica dell’Ecuador per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali, con Protocollo, firmata a Quito il 23 maggio 1984, fatto a Quito il 13 dicembre 2016”, “Ratifica ed esecuzione di: a) Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Colombia, fatto a Roma il 16 dicembre 2016; b) Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Colombia di assistenza giudiziaria in materia penale, fatto a Roma il 16 dicembre 2016; c) Trattato tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Colombia sul trasferimento delle persone condannate, fatto a Roma il 16 dicembre 2016”, “Ratifica ed esecuzione del Protocollo di emendamento alla Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale, fatto a Strasburgo il 20 ottobre 2018”. Per finire un dpcm “Regolamento recante l’organizzazione degli Uffici centrali di livello dirigenziale generale del Ministero dell’interno”. Il processo sommario di Matteo Salvini e la giustizia reale di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 8 giugno 2019 Un fatto di cronaca non dovrebbe mai essere commentato da esponenti delle istituzioni nell’immediatezza degli avvenimenti. Ogni commento è sempre intrusivo rispetto al libero ed indipendente convincimento da parte dei giudici. Tanto più se questo commento giunge da chi riveste rilevanti incarichi governativi. Il ministro Salvini ha espresso solidarietà al tabaccaio di Pavone Canavese che ha sparato ammazzando colui che lo stava probabilmente derubando o rapinando. Seppur con modalità meno truci rispetto ad altre occasioni, il ministro ha voluto comunque esprimersi su un tragico episodio di cronaca, non attendendo le ricostruzioni della procura e affermando che lui è sempre dalla parte di chi si difende. Era il 21 febbraio del 2001 quando a Novi Ligure, a circa un’ora di auto da Pavone Canavese, furono trovati morti ammazzati in casa una donna con suo figlio undicenne. Gli stessi giovanissimi e italianissimi autori del delitto, sperando di farla franca, attribuirono la colpa agli albanesi, contro i quali si aprì una caccia all’uomo, giornalistica e politica. Tacere è sempre meglio, sia nel rispetto dei morti, sia nel rispetto delle indagini della magistratura, sia per evitare figuracce. La ricostruzione nel tempo dei fatti di cronaca può condurre a sorprese inaspettate. I magistrati di Ivrea stanno legittimamente indagando su quanto accaduto nella tabaccheria. Non c’è legge sulla legittima difesa che possa impedire, quando c’è un morto, di verificare quale sia la dinamica dei fatti. La legge sulla legittima difesa è stata approvata durante la campagna elettorale ed ha costituito il cavallo di battaglia della Lega per prendere voti. Non c’era comizio al nord o al sud del Paese durante il quale Salvini non promettesse a tutti gli italiani che mai più ci sarebbe stato un processo per chi sparava ad un ladro. Ovviamente era una promessa elettorale. Il tabaccaio di Pavone Canavese è legittimamente indagato dalla procura di Ivrea. Non sappiamo se mai ci sarà un rinvio a giudizio o se mai vi sarà una richiesta di archiviazione, ma l’indagine comunque non poteva non essere fatta e il tabaccaio non poteva non essere indagato. L’esito era scontato, ma quelle promesse, che lui sapeva essere false, hanno comunque fruttato chissà quanti voti a Salvini. Promesse che hanno anche prodotto un più disinvolto uso delle armi. Il folle dibattito di cui siamo stati vittime ha sicuramente convinto tante persone a dotarsi di un’arma. Attendiamoci fatti ben più truci nei prossimi tempi. È quasi banale dirlo, ma più armi ci sono in giro, legittimamente possedute o meno, più morti ci sono. Salvini ha voluto sottolineare che il tabaccaio detenesse legittimamente la pistola. Anche quelli che fanno stragi nelle scuole degli Stati Uniti d’America le comprano e le detengono legittimamente a casa, prima di ammazzare chi gli viene a tiro. Dunque questo non è un argomento. Infine, fortunatamente la magistratura è indipendente e indaga in tutte le direzioni. Casualmente proprio ad Ivrea e proprio ieri, il Gip, anche a seguito di un esposto di Antigone, ha deciso un supplemento di indagini per presunte brutali violenze avvenute nel carcere cittadino negli anni passati. Lasciamoli lavorare in pace, i giudici. Difesa sempre legittima? Non è vero di Alessandro Bertoli* Avvenire, 8 giugno 2019 Confusione (e pericolo) dal messaggio politico che non coincide con la normativa. Dal 18 maggio scorso è entrata il vigore la legge 36/2019, che con nove articoli interviene su due istituti di parte generale del Codice penale: la legittima difesa (articolo 52) e l’eccesso colposo (articolo 55). La riforma inasprisce le pene per la violazione di domicilio, il furto in abitazione e la rapina, esclude l’azione risarcitoria verso chi si sia legittimamente difeso, limita a un indennizzo il danno provocato da chi abbia colposamente ecceduto ed estende il patrocinio a spese dello Stato in favore dell’autore di reati giustificato ai sensi dello stesso articolo 52 e del secondo comma, appena introdotto, dell’articolo 55. Fa sorridere lo slogan che ne ha accompagnato l’approvazione: “La difesa è sempre legittima”. Perché non è certamente questo che dice la legge novellata. I ritocchi al previgente testo normativo non sono forieri di straordinarie novità. La limatura apportata dal primo articolo della Legge 36 ne è la più eclatante conferma. L’aggiunta dell’avverbio “sempre” (leitmotiv del riformatore) nel secondo paragrafo dell’articolo che riguarda la difesa legittima non muta assolutamente il significato della frase presente nel nostro Codice dal 2006. Che cosa diceva prima l’articolo 52 del Codice penale? Che nel caso di violazione di domicilio è legittima la difesa consistita nell’uso di un’arma lecitamente detenuta o di un altro mezzo idoneo a difendere la propria o altrui incolumità o i propri beni, se vi è pericolo di aggressione e non vi è desistenza, purché l’utilizzo dell’arma o dell’altro mezzo di coazione sia proporzionato al pericolo attuale di una offesa ingiusta. Che cosa dice ora legge? Esattamente lo stesso (nessuna parola è stata cambiata), semplicemente che tale situazione deve essere “sempre” così interpretata. Era necessario dirlo? No, salvo per trarre in inganno il lettore delle norme poco attrezzato, ossia il comune cittadino. Aggiunto l’avverbio “sempre” nel posto giusto del secondo comma, che contiene un rinvio al primo comma, sembra che oggi la legge dica: puoi sempre usare un’arma per difenderti a casa tua o nel tuo negozio, ne è automaticamente e insindacabilmente proporzionato l’uso nei confronti dell’ospite sgradito. Questo il senso che ha entusiasmato parte della popolazione (e quindi dell’elettorato), attingendo alle emozioni che certe terribili esperienze o alcuni tremendi fatti di cronaca sanno suscitare. Sarebbero violati i valori minimi della convivenza sociale e travalicati i limiti della Costituzione se ciò, ora, dicesse la legge. Che avrebbe certamente breve durata, ben potendo essere dichiarata illegittima dalla Consulta. Il rapporto di proporzione resta invece quello del primo comma dell’articolo 52, la cui chiave di lettura è il bilanciamento dei valori in gioco: ti posso uccidere se stai per uccidere, ti posso ferire se stai per ferire. Altrimenti è inevitabile che si sconfini nel dolo (almeno eventuale) o nel cosiddetto “eccesso colposo”. Vedo un ladro nel mio giardino (chi scrive, meno di un anno fa, ne ha visti tre mascherati) e posso avere svariate reazioni. Posso urlare e metterlo in fuga. Oppure capisco perfettamente che è un balordo non armato e decido comunque di sparare: se lo uccido, anche oggi risponderò di omicidio volontario. Altrimenti vedo che ha un’arma e che sta per usarla contro di me: se sparo e uccido mi sono legittimamente difeso e nonne dovrò rispondere penalmente. Ma può anche capitare che mi sia appena svegliato, mi venga addosso una paura che mi crea un nodo alla gola e nemmeno riesco ad invocare aiuto, temo che possa far del male a me o a mia moglie o a mia figlia, sparo e uccido. Si scopre poi che il morto non era armato. Io ho commesso (anche vigente la nuova legge) un fatto illecito che però ora sì (questa è l’unica innovazione di qualche rilievo) non è punibile, ricorrendo le condizioni o della minorata difesa o del “grave turbamento”. Concetto mutuato dal lessico degli studi psichici che darà qualche grattacapo nelle aule di giustizia. Tuttavia anche questa è una novità molto relativa. Nel “braccio di ferro” che spesso caratterizza il rapporto di odio e amore tra i poteri Legislativo e Giudiziario, poco prima della riforma, la Suprema Corte di Cassazione (IV sezione penale, sentenza 29515 del 20 giugno 2018) aveva voluto dimostrare che non era necessaria alcuna “novella” per assolvere il proprietario di una tabaccheria (adiacente all’abitazione) che durante un furto compiuto con modalità distruttive in piena notte aveva esploso un colpo di pistola all’indirizzo di un ladro in fuga cagionandone la morte. Bastava invocare l’articolo 59 del Codice penale: l’errore del tabaccaio (incolpevole a causa delle circostanze) di trovarsi in un caso di legittima difesa. Ora il timore è che la Giurisprudenza voglia dimostrare il contrario per disvelare la debolezza del rinnovamento normativo. Si assiste poi, a causa di una tecnica redazionale di scarso livello, a una sorta di “eterogenesi dei fini”: la legge 36/2019 introduce un quarto comma all’articolo relativo alla legittima difesa, che dice, con altre parole, esattamente quello che sta scritto nei commi precedenti, restringendo, però, il campo di azione alla sola violazione di domicilio avvenuta tramite violenza o minaccia e non a quella (invero più frequente e già contemplata nella riforma del 2006) di violazione “clandestina” o “con inganno”. E poi, ancora, il riformatore ha escluso la punibilità dell’eccesso colposo nei casi di violazione di domicilio che comportino un oggettivo pericolo in atto capace di provocare una altrettanto oggettiva situazione di minorata difesa o una soggettiva condizione di grave turbamento, ma al contempo ha previsto che possa comportare in sede civile un indennizzo. E se da una parte ha stanziato oltre mezzo milione di euro per pagare avvocati e consulenti di indagati o imputati archiviati, prosciolti o assolti per legittima difesa o eccesso colposo, ha stabilito che i processi a carico proprio di questi soggetti debbano avere la priorità: peccato che, se a processo si arriva, significa che quantomeno il Pm non è convinto che sussistano cause di esclusione della punibilità, con ciò esponendo più velocemente ad una possibile condanna proprio quei soggetti che il promotore della riforma aveva dichiarato di voler tutelare! Ma sta proprio qui, se non l’inganno, almeno la beffa. Veicolando un messaggio politico difforme dalla modifica legislativa (che ha portato ad un garbuglio di lettura non certamente facile e immediata soprattutto per il comune cittadino, contravvenendo ad uno dei dogmi della legge penale, ossia la chiarezza), il legislatore ha diffuso l’idea che siano legittimi comportamenti antigiuridici e, peraltro, moralmente assai discutibili. Molti così pensano che sia stato espunto il requisito della proporzione, altri addirittura che non sia più nemmeno necessario avviare indagini per l’accertamento della responsabilità in caso di omicidio in cui si ipotizza la sussistenza della scriminante della legittima difesa. “Messaggi-fake dagli effetti potenzialmente criminogeni” è l’espressione recentemente usata da Federico Bacco, un acuto commentatore della nuova legge. Ma un principio non è cambiato. Ed è quello espresso dall’articolo 5 del Codice penale: l’ignoranza della legge non scusa. Nemmeno nel caso assurdo eppur reale (ma che non si potrà tecnicamente dire “inevitabile”) in cui di quella legge sia stata data l’interpretazione autentica - ma sbagliata! - in roboanti comizi e trasmissioni televisive, addirittura da parte di chi l’ha scritta. *Avvocato in Brescia-Unione Giuristi cattolici italiani Il grave turbamento psichico e i limiti nell’uso della forza. Che cosa dice la nuova legge di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 8 giugno 2019 Che cos’è la legittima difesa e quali sono i presupposti per invocarla? “La legittima difesa è una causa di giustificazione che rende lecito l’uso della forza, da parte di privati cittadini, per autodifesa. Anche dopo la riforma in vigore dal mese scorso, può essere invocata solo da chi si sia trovato di fronte al pericolo attuale di un’aggressione e abbia reagito con un’azione difensiva necessaria e proporzionata. Ciò significa che non esisteva un modo lecito o meno lesivo per evitare l’aggressione e che, secondo la scala dei valori costituzionali, il bene difeso non deve essere di valore sproporzionatamente inferiore rispetto a quello offeso”. La riforma ha stabilito che la difesa è sempre legittima all’interno della propria abitazione? Quali sono i limiti? “Dire che in casa, o negli esercizi commerciali, la difesa è sempre legittima è una semplificazione. La facoltà di difendersi lecitamente è soggetta a limiti, previsti dal codice penale, e ancor prima dalla Costituzione, che non consente di sacrificare la vita dell’aggressore per difendere beni patrimoniali, e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che autorizza l’uso della forza letale, per fini di difesa, solo quando ciò sia assolutamente necessario”. Che cosa si intende per necessità e come si configura questo concetto dopo la riforma? “Occorre dimostrare, per non rispondere penalmente della propria reazione, che la difesa era necessaria e cioè: a) che non esisteva un’alternativa lecita (non era possibile un pronto intervento della polizia, oppure non vi erano vie agevoli di fuga); b) che non esisteva un’alternativa meno lesiva (non era possibile per esempio difendersi a mani nude, invece che usare un’arma)”. Quando si verifica l’eccesso colposo di difesa e che cos’è il grave turbamento? “La difesa è legittima solo entro certi limiti. Se si superano per colpa si risponde del reato a titolo di colpa. Modificando la disciplina in materia, la riforma ha previsto che tuttavia un simile eccesso non è punibile se chi ha agito si trova in stato di “grave turbamento” psichico, per via dell’aggressione. Deve però trattarsi di una situazione oggettiva da accertare caso per caso, senza spazio per alcuna presunzione: con tutte le difficoltà che derivano dall’accertamento di uno stato psichico”. Lo Stato paga le spese legali di chi si è difeso? “Sì, in caso di procedimento che si concluda con l’archiviazione o il proscioglimento”. (Le risposte sono state redatte grazie al contributo di Gian Luigi Gatta, ordinario all’Università degli studi di Milano e direttore di “Diritto penale contemporaneo”, ed Ennio Amodio, avvocato penalista e professore emerito all’Università di Milano). La magistratura è sana ma il Csm non va da tempo di Giuseppe Ayala* Corriere della Sera, 8 giugno 2019 Mai come in questi giorni il Csm è stato investito da uno “tsunami” tanto devastante. Lungi da me la voglia di ergermi a giudice di chicchessia. Non ho resistito, invece, a quella di trasformarmi in una sorta di archeologo istituzionale. Ho così rispolverato due significativi reperti dello scorso secolo. Il primo è tratto da una relazione pronunciata a Milano il 5 novembre 1988 da Giovanni Falcone. Mi limito a riportarne alcuni brani: “Se i valori dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura sono in crisi, ciò dipende, a mio avviso, in misura non marginale anche dalla crisi che, ormai da tempo, investe l’Associazione dei giudici, rendendola sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi e sempre meno il luogo di difesa e di affermazione dei valori della giurisdizione nell’ordinamento democratico... le correnti dell’Anm, anche se, per fortuna, non tutte in egual misura, si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata in seno all’organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica”. Falcone ne era stato vittima proprio nel gennaio di quell’anno, allorché la maggioranza dei membri del Csm gli impedì di andare a ricoprire l’incarico di capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. E appena il caso di ricordare che quell’infausta scelta decretò il progressivo sfaldamento del mitico “pool antimafia” grazie al cui lavoro lo Stato aveva ottenuto, per la prima volta, risultati davvero straordinari nel contrasto a Cosa Nostra. Basta ricordare il maxiprocesso del 1986-87 nel quale mi toccò l’onere di sostenere l’accusa. Non a caso, dopo il 23 maggio 1992, Caponnetto affermò: “Giovanni cominciò a morire nel gennaio 1988”. Qualche mese dopo scrisse: “Da tempo sono giunto alla conclusione che il Csm funziona male. Il Csm è un groviglio inestricabile di interessi di varia natura, da cui la magistratura non riesce a liberarsi: queste incrostazioni corporativistiche, correntizie e politiche provocano uno stato di paralisi nei rapporti con le istituzioni. Troppe volte il Csm è mancato all’appuntamento con decisioni importanti”. Le odierne vicende consiliari, insomma, possono suscitare qualsivoglia sensazione tranne la sorpresa o lo stupore. Era scontato che, prima o dopo, il verminaio fosse destinato a venire alla luce. Mi sono sempre riconosciuto nei severi giudizi di cui sopra, sino a farli miei. Li ho richiamati, per esempio, durante una trasmissione radiofonica della Rai del 2017. Il mio interlocutore era nientemeno che l’allora membro del Csm Palamara, il quale, infastidito, replicò invitandomi a smetterla con il solito qualunquismo. Incredibile, ma vero! La mia testardaggine mi indusse a leggere il pensiero di Falcone quando mi fu data la parola durante il plenum straordinario del Csm convocato dal Presidente della Repubblica in occasione del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci. Così, tanto per lasciarlo agli atti a futura memoria. Non a meri fini consolatori, poi, va ricordato che la brutta vicenda è venuta fuori grazie al lavoro di alcuni magistrati. Lo sottolineo a conferma di ciò in cui ho sempre creduto: il corpo della magistratura italiana è un corpo sano capace anche di fare pulizia al suo interno. I cittadini italiani, insomma, possono ancora fidarsi dei loro giudici. Un accenno a una delle proposte di riforma tornate in questi giorni agli onori della cronaca, quella dell’elezione a sorteggio dei membri del Csm. A parte la assai dubbia costituzionalità della stessa, mi chiedo se esista qualcosa di simile nelle altre democrazie occidentali per determinare la composizione di un organo di rilevanza costituzionale. Penso proprio di no. E allora è meglio non esagerare con l’originalità e ponderare bene ogni intervento innovativo. In ogni caso “mala tempora currunt”. Il mio pensiero solidale va al mio vecchio amico Sergio Mattarella. Settennio più complicato non poteva capitargli. Da semplice cittadino mi conforta pensare che forse, proprio grazie alla sua riconosciuta saggezza, riusciremo a evitare il disastro. Non sarà facile. *Vice presidente Fondazione Giovanni Falcone Giustizia, nel pacchetto delle riforme le denunce anonime tra i magistrati di Francesco Grignetti La Stampa, 8 giugno 2019 A molti magistrati, l’idea non piacerà. Ritrovarsi dall’altro lato della barricata: da soggetti e a oggetti di indagini. Eppure è proprio questo ciò che pensa il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, grillino, che si ripromette di uscire dalla vertiginosa caduta d’immagine dei magistrati con un pacchetto di riforme. La prima: applicare anche a chi veste la toga il sistema delle denunce anonime, in gergo il “whistle-blowing”, che è stato appena inserito nell’ordinamento attraverso la Legge Spazza-corrotti. “Il ministero - ha fatto sapere Bonafede ai suoi interlocutori politici - non si vuole limitare a un intervento spot dettato dal momento”. L’idea di fondo, su cui il ministro si è confrontato giovedì con il Capo dello Stato, è di un intervento complessivo, anche per sgombrare il campo dal sospetto di una rivalsa del potere politico sull’ordine giudiziario. Perciò Bonafede, negli interventi pubblici come nei colloqui privati, sta insistendo che occorre intervenire “sulle fondamenta”, per far sì che “la meritocrazia sia centrale a partire dalla quotidianità”. Di sicuro ci sarà una proposta sul Consiglio superiore della magistratura e il meccanismo di elezione dei suoi membri. Nel frattempo, l’ufficio legislativo del ministero ha immaginato il “whistle-blowing” dedicato ai comportamenti impropri o scorretti dei magistrati. Ci si dovrebbe arrivare con una piattaforma digitale specifica, in cui soggetti qualificati possono procedere in forma criptata alle segnalazioni. Rigorosamente anonime. Resta da vedere se i soggetti denuncianti potranno essere tutti i cittadini, o soltanto gli avvocati e i dipendenti civili della Giustizia, oppure alcune figure apicali che facciano da tramite. In questo caso, i soggetti abilitati alla denuncia potrebbero essere il presidente del consiglio del locale ordine degli avvocati e il dirigente amministrativo dell’ufficio giudiziario. Si vedrà. A ricevere la segnalazione, sarebbe il Consiglio giudiziario presso la Corte d’Appello. È un istituto poco noto, dove si redigono le note di valutazione dei giudici: ne fanno parte il presidente della Corte d’Appello, il procuratore generale del distretto, e cinque magistrati eletti per 2 anni da tutti i colleghi in servizio. Con la novità delle denunce anonime, il Consiglio giudiziario diventerebbe innanzitutto un organo di disciplina. L’oggetto delle segnalazioni - si spiega poi a via Arenula - potrebbero essere i fatti inerenti la cattiva gestione degli affari come, ad esempio, ritardi, irregolarità, disordine gestionale, assenze ingiustificate. Oppure situazioni di conflitto d’interesse, vedi le incompatibilità, gli incarichi extragiudiziari, certe relazioni inopportune. Se mai la segnalazione dovesse essere verificata e ritenuta valida, questa finirà per incidere sulle valutazioni sulla professionalità, sugli incarichi dirigenziali, e potrebbe anche funzionare da attivatore dell’azione disciplinare. Un problema spesso segnalato a proposito del “whistle-blowing”, però, dato che la denuncia rasenta la delazione, è l’uso distorto che qualcuno ne fa per consumare piccole vendette personali. Anche i grillini, pur sostenitori entusiasti dell’anonimato, se ne rendono conto. Oltretutto, essendo oggetto di denuncia i magistrati, è facile immaginare l’indagato che voglia sbarazzarsi dell’inquirente scomodo. Succede già con le denunce al Csm, figurarsi con quelle anonime. E allora si pensa a istituire dei paletti per i “segnalatori”: se il sistema rivela che un dato soggetto ne porta avanti di infondate, alla terza il denunciante potrebbe essere sottoposto a sanzioni. Infine, questo sistema “whistle-blowing” potrebbe valere anche nei confronti dei membri del Csm. Bonafede vuole le “gole profonde” anche contro le toghe corrotte di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2019 Gole profonde per smascherare i magistrati corrotti, o comunque quelli che violano le regole. Ecco la nuova idea del Guardasigilli Alfonso Bonafede contro le toghe sporche. La figura del “whistle-blower” - colui che svela un comportamento scorretto o addirittura illegale (letteralmente dall’inglese “soffia il fischietto”) - è destinata a entrare non solo nei palazzi di giustizia ma anche al Csm, dopo aver rivoluzionato quelli della Pubblica amministrazione con l’entrata in vigore della legge del novembre 2017. Proposta e voluta da M5S, è stata votata anche dal Pd. Nel pacchetto “spazza toghe sporche”, anticipato per sommi capi al presidente Sergio Mattarella giovedì sera, tra le nuove regole - che Repubblica anticipa - Bonafede propone un sistema che finora, come ha confermato dati alla mano giusto giovedì il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, ha dato ottimi risultati. Di che stiamo parlando? Semplice. L’idea, cui corrisponde già una prima bozza di articolato, è creare una piattaforma informatica per la galassia della giustizia, in cui sia garantita al cento per cento la tutela della fonte che resterà anonima, nella quale chi lavora nei palazzi di giustizia e al Csm possa inserire, con una modalità criptata, informazioni su comportamenti scorretti, o vere e proprie disonestà e ruberie. Tra i soggetti titolati a scrivere rientrano anche i dirigenti amministrativi, i componenti del consiglio giudiziario, ma anche singoli magistrati e dipendenti. Tutti potrebbero segnalare episodi di cattiva gestione degli affari, ritardi, irregolarità, assenze, o ancora palesi situazioni di conflitto d’interesse, come relazioni inopportune, incompatibilità, incarichi extragiudiziari. Se la soffiata, una volta verificata, dovesse risultare valida, influirebbe, una volta portata al Consiglio giudiziario e ai capi degli uffici, sulle valutazioni di professionalità, sugli incarichi dirigenziali, e porterebbe anche all’azione disciplinare. Il progetto di Bonafede mette anche dei paletti su chi segnala il falso per tre volte e rischia delle sanzioni. Ma via Arenula non si muove solo per la prossima legge “spazza toghe sporche”, ma anche sul piano disciplinare, proprio nelle stesse ore in cui al Csm il vice presidente David Ermini sostituisce già in tutte le commissioni i consiglieri o già dimessi (Luigi Spina di Unicost) o autosospesi. Quindi via anche i tre di Magistratura indipendente (Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre) e il componente di Unicost Gianluigi Morlini. Al vertice della quinta commissione che nomina i procuratori va Mario Suriano di Area. Ma all’opposto Mi, anche contro l’Anm (a guida Mi, si badi) schierata per le definitive dimissioni, chiede che i suoi consiglieri rientrino nei ranghi. Ma giusto su di loro potrebbe incombere la scure disciplinare che di fatto li renderebbe incompatibili con il Csm e li costringerebbe alle immediate dimissioni. Tutto dipende dalle carte di Perugia, adesso esaminate dalla prima commissione di palazzo dei Marescialli, che dispone i trasferimenti d’ufficio. A sentire Luca Palamara, pm a Roma, ex presidente dell’Anm e membro del Csm, iscritto nel registro degli indagati per corruzione, non c’è nulla di vero nell’indagine. In una lunga memoria presentata a Perugia assicura che “dimostrerà di non essere corrotto”, di non aver mai ricevuto 40mila euro per favorire una nomina, e produrrà le pezze d’appoggio. Ma restano gli incontri per pilotare la nomina del procuratore di Roma. Uno scenario che il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, al primo congresso dei magistrati amministrativi a Palazzo Spada, sintetizza così: “Un giudice all’altezza dei tempi non può frequentare abitualmente chiunque, se ciò può ripercuotersi negativamente sulla sua attività giudiziaria o possa dare oggettivamente la sensazione che un appannamento della terzietà possa verificarsi”. Napoli: detenuto portato in tribunale a torso nudo e scalzo di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 8 giugno 2019 Una penalista urla: “questo non è il film di Kunta Kinte”. Interviene l’Ordine degli avvocati. Udienza rinviata. Se ne sta lì seduto con le braccia rannicchiate, sembra infreddolito per l’aria condizionata sparata dai condizionatori del Tribunale. Indossa un paio di jeans e basta: ha i piedi scalzi e il torso nudo, il volto ferito all’altezza della tempia e deve difendersi da una sfilza di accuse che lo tengono in cella. Solo che a fare notizia non sono le ipotesi che gli vengono mosse (resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e danneggiamento aggravato), ma il modo in cui viene tradotto di fronte alla giustizia italiana: dinanzi al pubblico di avvocati, magistrati e cancellieri, al cospetto di quella frase che campeggia in tutti i Tribunali (la legge è uguale per tutti), di fronte alle parole che servono a ricalcare principi cardine della Costituzione e che impongono alla giustizia di rimuovere ogni discriminazione razziale, sociale o religiosa. Sta lì con le braccia conserte, l’uomo nero. Si guarda intorno, quasi stupito per lo stupore con cui viene messo a fuoco da passanti e addetti ai lavori. Venerdì mattina, aula 214, dura quasi due ore la storia del detenuto scalzo e seminudo. E nato nel 1984, si chiama Ricciard Unucoru, ha un passaporto nigeriano in tasca. È un ospite indesiderato del nostro Paese, dal momento che è privo di permesso di soggiorno, viene ritenuto pericoloso, anche alla luce di quanto commesso due giorni fa, all’interno dell’ufficio immigrazione: ha preso a calci e pugni gli agenti, tanto da costringere ben undici poliziotti a bloccarlo e a tradurlo in cella. Un soggetto pericoloso, da espellere, visti anche i recenti dispositivi in materia di immigrazione, destinato al centro di accoglienza di Bari, da dove sarebbe stato poi riconsegnato alle autorità nigeriane. Storia ordinaria, qui nel popolo dei processi per direttissima, che ieri si è trasformata però in un boomerang per la giustizia italiana. Sono le undici e trenta del mattino, quando il nigeriano viene tradotto in manette in aula. Scalzo e a torso nudo. C’è una penalista che si indigna e urla agli agenti “che non siamo nel film di Kunta Kinte, ma in un paese civile”, mentre viene fatto accomodare nella gabbia dell’aula di giustizia. Processo per direttissima, giudice Luca Purcaro, che è però in camera di consiglio a scrivere una sentenza per un altro imputato (fatti di droga), mentre a rappresentare la giustizia italiana c’è una vpo, una viceprocuratrice onoraria, come spesso accade sola e al cospetto di una galleria umana quanto meno problematica. Indignazione, smarrimento alla vista del detenuto seminudo, mentre la foto dell’uomo nero in gabbia corre sui social media. Eppure nessuno si muove, forse per il temperamento violento del detenuto che - spiegano gli agenti - nel corso delle ore precedenti si era finanche strappato i vestiti di dosso. Chiarisce un poliziotto in aula: “Li vede quei jeans? Glieli abbiamo forniti noi, questa notte si è strappato di dosso ogni cosa”. Ma basta questa spiegazione a giustificare la mortificazione di una persona in un luogo deputato a far rispettare le regole? Interviene il presidente del Tribunale Ettore Ferrara: “Non posso esprimere un giudizio, se non ho una relazione completa su quanto avvenuto. In linea generale posso dire che è stato comunque sbagliato tradurre una persona seminuda in un’aula di Tribunale, in spregio alle più elementari forme di rispetto della dignità umana, sia o meno un soggetto problematico; va dato comunque atto che le stesse forze di polizia hanno poi provveduto a portare una maglietta al detenuto”. Ed è questo il secondo aspetto della storia. Già perché a comprare la maglietta al cittadino nigeriano, ci hanno pensato gli stessi agenti arrivati in aula per verbalizzare la resistenza del giorno prima. Lo hanno visto lì accovacciato e scalzo in gabbia e non hanno pensato ai pugni e ai calci ricevuti per immobilizzarlo, ma gli hanno comprato una t-shirt grigia, che gli viene consegnata tra le grate della gabbia, sempre e comunque in un’aula di giustizia aperta alla curiosità del pubblico. Prima dei poliziotti, era intervenuto l’avvocato Arturo Frojo, chiamato in aula come ex consigliere dell’Ordine e veterano dei penalisti a Napoli: “Mi hanno chiesto di intervenire, ho visto una scena poco gratificante per tutti, ho chiesto di essere ricevuto dal giudice (che era lo ribadiamo - in camera di consiglio per un precedente processo per fatti di droga, ndr) e ho trovato massima disponibilità a risolvere in tempi brevi la questione”. Sono quasi le 13, quando il processo a carico di Ricciard Unucoru (difeso dall’avvocato Giancarlo Di Iorio) viene rinviato a sabato mattina, formalmente per problemi legati alla mancanza di un interprete, anche se il giudice mette a verbale la condizione del detenuto: in sintesi, il giudice “dà atto che l’imputato è stato tradotto senza scarpe e senza maglietta”, in una condizione che è stata poi definita “risolta”. Resta quel buco di un’ora e mezza, con un detenuto di colore, scalzo e seminudo dietro le gabbie di un’aula di giustizia, quasi stupito di tanta attenzione ricevuta da quando è arrivato qui in Italia. Messina: nuovi guai ma stessi cronici problemi per la Casa circondariale di Barcellona di Lina Bruno Quotidiano di Sicilia, 8 giugno 2019 L’incendio appiccato una settimana fa nella Casa circondariale da due detenuti ha evidenziato ancora una volta tutte le criticità di una struttura su cui incombe ancora il peso del suo passato da Opg (Ospedale Psichiatrico Giudiziario). I due ristretti, inseriti su disposizione del Provveditorato regionale nel Reparto 8, quello dell’Articolazione per la tutela della salute mentale, provenivano dal carcere di Catanzaro dove sembra avessero già creato non pochi problemi. Arrivati a Barcellona dopo alcuni contrasti con gli altri detenuti, sono stati messi in cella dove per protesta hanno dato fuoco ai materassi, provocando l’intossicazione di sette agenti e di un infermiere. Per accertare eventuali responsabilità la Procura della Repubblica ha aperto un’inchiesta. Restano le vulnerabilità messe in luce dall’accaduto, che riguardano il numero insufficiente di agenti in servizio, da tempo denunciato dal Cosp. ma anche le carenze di presidi per la sicurezza nei luoghi di lavoro, rilevati da un’ispezione dei giorni scorsi. Ci sono poi alcuni interrogativi che la stessa Asp si sta ponendo. “Su che basi si è deciso di trasferire quei due detenuti in una struttura sanitaria?”. Se l’è chiesto Carmelo Crisicelli, primario del Servizio Assistenza sanitaria di base e referente della sanità penitenziaria dell’Asp. Uno dei due ristretti (spostati adesso a Lecce e a Reggio Emilia) è stato condannato all’ergastolo e dopo la sentenza ha minacciato la Corte cercando di sottrarre la pistola a un agente. “È stato ritenuto capace di intendere e di volere - ha detto Crisicelli - in caso contrario sarebbe andato in Rems. Dopo l’ergastolo diventa però malato psichiatrico e siccome da fastidio a Catanzaro viene mandato a Barcellona, tanto lì c’era un Opg e non importa se siamo a un numero insostenibile che a volte supera anche le ottanta presenze. In tutte le altre strutture carcerarie con Atsm, i posti sono quattro, come al Pagliarelli di Palermo, al massimo dieci. A Barcellona abbiamo l’etichetta dell’Articolazione per la tutela della salute mentale ma le logiche sono quelle manicomiali”. Insomma, sembra quasi che all’interno della Casa circondariale permanga un piccolo Opg, dove il contenimento prevale sulla cura; eppure siamo in un reparto su cui dal 2016 ha competenza il Sistema sanitario regionale e dove l’Asp mette risorse per pagare venti infermieri, 109 ore di guardia infermieristica, quattro medici incaricati, 280 ore di psichiatria, una guardia medica di 27 ore al giorno, una psicologa e due tecnici della riabilitazione psichiatrica. “Non c’è un linguaggio comune - ha sottolineato Crisicelli - c’è un decreto dell’Amministrazione penitenziaria che dice che l’Atsm di Barcellona vale cento posti calcolati in funzione dei metri quadri della struttura, ma dice anche ‘previo accordo con l’Asp competentè. Abbiamo predisposto un protocollo che il provveditore però ci ha bocciato. Chiedevamo che non si andasse oltre i 57, tra donne e uomini, di stabilire criteri di accettazione con un filtro effettuato da un’equipe interna di operatori. Se arriva un depresso non occupo un posto per lui perché può essere trattato in carcere. Questa intesa però toglierebbe all’Amministrazione penitenziaria la libertà di disporre dei trasferimenti. Scriviamo lettere e relazioni, ma non servono. Le Cta come le Rems hanno un massimo di venti posti ma ci sono dei riferimenti normativi regolamentati che stabiliscono criteri, risorse e requisiti strutturali. Non è così per le Atsm e a Barcellona, a parte il nome assegnato, l’ottavo resta un reparto carcerario, con ritmi e modalità che contrastano con le finalità riabilitative”. “Se dovessi scremare - ha concluso Crisicelli - delle persone presenti solo il 50% forse dovrebbe stare lì. Ma Barcellona è lo scarico degli altri istituti. Capisco le gerarchie a cui rispondere, le esigenze, ma così non si fa un buon servizio e si danneggia chi ha veramente bisogno”. In assessorato regionale si sta lavorando a un nuovo protocollo, ma intanto sono passati tre anni senza che succedesse nulla. Bari: “Scappatelle” possibili per i detenuti dell’Ipm Fornelli di Enrica D’Acciò Gazzetta del Mezzogiorno, 8 giugno 2019 Ci sono delle scappatelle che si fanno perdonare, magari perché sono state fatte a fin di bene. Per esempio le “Scappatelle” prodotte dai ragazzi detenuti nelle carceri minorili di Bari e Nisida, nel Napoletano, biscotti da 35 grammi, a forma di cuore, che profumano di riscatto e, come dice il loro stesso nome, di voglia di libertà. Da oggi, saranno disponibili in 400 supermercati del gruppo Megamark in Puglia, Basilicata, Calabria, Campania e Molise e, chi vorrà, potrà assaggiare il gusto di futuro, l’ingrediente segreto di questa ricetta, nata dalla collaborazione fra la Fondazione Megamark e Luciana Delle Donne, fondatrice del marchio “Made in Carcere” che, da anni, realizza prodotti di piccola sartoria nelle carceri femminili di Puglia. Al posto di macchine da cucire, di ago e di filo, questa volta in carcere sono entrati impastatrici e forni e un maestro pasticciere che ha insegnato ad un gruppo di “scapestrati” cosa può nascere se si mescolano insieme farina di grano duro Senatore Cappelli, zucchero di canna biologico, vino Primitivo di Manduria Dop e olio extravergine pugliese. Un primo risultato, cotto e mangiato, potrete trovarlo già sui banchi del supermercato sotto casa. Un altro risultato, si spera più duraturo, più profondo e più importante, si misurerà quando i detenuti apprendisti di oggi diventeranno domani liberi pasticcieri. Napoli: diritti, libertà e carcere, dibattito all’Università Orientale napolitoday.it, 8 giugno 2019 Incontro-lezione su ex Opg e su un esempio virtuoso di penitenziario a Lauro durante il laboratorio di produzioni audiovisive teatrali e cinematografiche della Facoltà di Scienze Politiche. Accendere i riflettori sui diritti umani e stimolare una riflessione sulla dignità da preservare oltre ogni barriera fisica o morale, ma anche un tentativo di abbattere muri tra il dentro e il fuori, costruendo ponti ideali. È quanto prova a fare, squarciando silenzi, il docu-film “Le stanze aperte” dei fratelli Maurizio e Francesco Giordano, prodotto dall’associazione culturale Ved e con la sceneggiatura di Giuliana Del Pozzo, che è anche interprete insieme a Vincenzo Merolla, unico attore professionista. Il docu-film che, in maniera sperimentale, si snoda su un doppio filo narrativo tra realtà e finzione, girato nell’ex Opg di Secondigliano, è stato presentato nell’ambito dell’ultimo appuntamento aperto al pubblico del ciclo di incontri-lezione, formula ideata dal professore Francesco Giordano, per il laboratorio di produzioni audiovisive teatrali e cinematografiche della Facoltà di Scienze Politiche, presso l’Università Orientale di Napoli, che ha suscitato anche quest’anno interesse e sempre più richieste di partecipazione. Un lavoro sul tema dei diritti negati e del diverso in un momento storico in cui l’interconnessione globale e i fenomeni contemporanei ci impongono di relazionarci alla diversità. Un film, con sensibilità e professionalità, dà voce al silenzio e assume, nei momenti più alti un aspetto onirico, spiazzante, dovuto all’uso della poesia e di musiche sinfoniche classiche, in rapporto ad un contesto affatto armonico. All’intervento ha preso parte anche il vice direttore del carcere di Poggioreale Stefano Martone, all’epoca delle riprese direttore dell’ex Opg di Secondigliano, che ha sottolineato come il cinema ha valore terapeutico all’interno delle strutture carcerarie ma anche un valore di messaggio alla società per favorire un’apertura mentale. Martone ha raccontato agli studenti la sua esperienza nell’ex Opg, da direttore “illuminato” che di giorno permetteva l’apertura delle celle del piano superiore, da cui il nome del film suggerito da un internato e che ha sempre provato ad evitare pratiche molto dure, invasive e irrispettose della dignità umana, che solitamente, come documentato, riguardavano le realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari come i letti di contenzione. La realtà degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ora è stata superata dalle cosiddette Rems “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” affidate al Servizio Sanitario nazionale e territoriale. La questione anche alla luce della carenza di personale oltre che di risorse resta complessa, se si pensa che l’istituzione carceraria, come fa riflettere Michel Foucault, nasce come strumento di governo dell’insicurezza sociale attraverso la criminalizzazione della povertà urbana. Dalla dignità negata a quella recuperata nel saggio, opera prima della giornalista Valentina Soria: “La leadership nella Pubblica Amministrazione. Viaggio nel penitenziario Di Lauro”, edito da Europa Edizioni, in cui si mostra attraverso un caso virtuoso, quello dell’Icatt di Lauro, in provincia di Avellino, oggi istituto a custodia attenuata per madri detenute, come l’inflazione carceraria e la recidiva non siano un fenomeno ineluttabile ma solo una deriva culturale e che attraverso progetti di reinserimento, di formazione e risanamento dei rapporti con la comunità esterna, abbattendo i pregiudizi e creando rete, un cambiamento sia percorribile. Come sostiene il filosofo Marcel Mauss: “Ogni fenomeno sociale deriva da precise scelte culturali. L’importante è che le opzioni in campo siano sempre presentate come chiare e identificabili”. Forse dunque un’alternativa alla deriva del sistema carcerario italiano, criminogeno e criminofago, sembra possibile. Torino: quella notte alle Vallette, 11 vittime per un incendio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2019 Domani al Teatro Gobetti lo spettacolo “Lascia la porta aperta”. Titolo evocativo di uno spettacolo musicale dedicato alla tragedia del 3 giugno 1989, avvenuta al carcere delle Vallette, a Torino. Trent’anni fa undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere. Alle 23.19 di quella maledetta sera, al centralino del Comando provinciale dei Vigili del Fuoco di Torino pervenne una telefonata nel corso della quale una persona sollecitò un intervento per l’incendio di un’autovettura all’interno del carcere Le Vallette di Torino. Una prima squadra composta da 14 vigili partì immediatamente e fu sul posto alle 23.25. Fu subito chiaro che l’incendio, che presentava un fronte di circa dieci metri ed era divampato sotto il porticato della palazzina in cui alloggiavano le detenute, non riguardava affatto un’autovettura, ma del materiale plastico che il calore aveva decomposto in modo tale da non poter essere subito riconosciuto. L’incendio aveva provocato una notevole quantità di fumi che avevano invaso i piani superiori della palazzina nella quale si trovavano ristrette 96 detenute. Considerata la gravità della situazione, venne chiesto l’intervento di altre squadre e si dette inizio all’opera di spegnimento del fuoco, che venne domato nel corso di pochi minuti. Immediatamente iniziò l’opera di soccorso all’interno del padiglione femminile, proseguita con l’intervento di altre due squadre frattanto sopraggiunte. Dentro la palazzina furono rinvenute due vittime sulla seconda rampa di scale, due vittime nell’atrio del primo piano, due in fondo al corridoio dell’atrio. Altre due vittime furono trovate al secondo piano, nell’atrio ed in fondo al corridoio, ed infine altri corpi inanimati di donne vennero rinvenuti in alcune celle del primo e del secondo piano. Contemporaneamente si svolse l’evacuazione dell’intero edificio, peraltro ostacolata dalla difficoltà di reperire le chiavi delle celle; al termine delle operazioni furono poste in salvo, anche con l’ausilio del personale carcerario, tutte le altre donne ed un bambino, figlio di una delle detenute; 24 furono ricoverate in vari ospedali cittadini per intossicazione da ossido di carbonio e 6 agenti di custodia e 2 vigili del fuoco riportarono lesioni durante l’opera di salvataggio. Alcune delle volontarie dell’Associazione Sapere Plurale erano allora compagne di detenzione di queste donne: dopo l’incendio, hanno lottato per mesi e anni per un processo giusto, fondando l’Associazione “3 Giugno”, sostenute dall’avvocata Bianca Guidetti Serra, e da molte e molti altri. Ma giustizia non fu fatta, allora, nessuna responsabilità è stata stabilita. Lo ricorderanno, quindi, con uno spettacolo di racconti e di canzoni a loro dedicato, domenica, al Teatro Gobetti di Torino. Palermo: “Transiti”, in scena al Pagliarelli i vestiti realizzati dai detenuti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 8 giugno 2019 Debutta oggi al Pagliarelli il nuovo spettacolo della compagnia “Evasioni”. La regista, Daniela Mangiacavallo: “Il lavoro è stato molto faticoso, ma il risultato è straordinario”. “Un viaggio chiamato vita, tra imprevisti, attese e qualche volta un profondo vuoto da attraversare. Una riflessione intima sul valore che diamo al tempo”. La compagnia teatrale ‘Evasioni’, attiva da tre anni nel carcere Pagliarelli - Lo Russo di Palermo, presenta così ‘Transiti’ il nuovo spettacolo che sarà messo in scena domani, alle 18.00, sul palcoscenico della Casa circondariale, con i costumi realizzati dagli stessi detenuti. Frutto di un anno di lavoro delle persone ristrette nell’istituto di pena, dirette dalla regista Daniela Mangiacavallo, la piece riprende i testi originali del drammaturgo Rosario Palazzolo. “Volti assonnati, infreddoliti, stanchi e malinconici attendono un treno di cui un misterioso speaker annuncia il ritardo - spiega la compagnia presentando lo spettacolo -. Da quel momento un’umanità distratta e assetata di ignoto si aggira tra i binari in attesa di intraprendere una metaforica avventura. Un’interminabile attesa fatta di incontri addii, arrivederci per scoprire che il cammino è prima di tutto un’occasione per incontrare se stessi”. “Transiti” va in scena con i costumi prodotti all’interno del carcere al termine di un corso di sartoria teatrale realizzato dall’associazione “Baccanica”: i detenuti armati di ago e filo hanno lavorato alla preparazione dei costumi guidati da Giulia Santoro. Anche le scenografie sono state realizzate dagli ospiti del Pagliarelli impegnati in un progetto sui mestieri in carcere, finanziato dalla Fondazione Acri - programma Per Aspera ad Astra. “Metro, stoffe, colori per tessere una nuova vita e un sogno oltre le sbarre - spiega la regista, Daniela Mangiacavallo. Ringraziamo la Direzione della Casa circondariale, l’Area educativa, l’Amministrazione penitenziaria, il Ministero di Giustizia, l’Assessorato al turismo sport e spettacolo e la Fondazione Acri. Quest’anno il lavoro è stato molto faticoso e impegnativo, ma il risultato è straordinario. Il viaggio sul treno, poi il guasto. L’attesa. Non si parte… un pretesto per capire che gli imprevisti a volte non sono sempre così catastrofici, arrivano qui e ora per fermare la nostra routine, la nostra vita in corsa”. Palermo: all’Orto Botanico i detenuti raccontano la storia di Santa Rosalia blogsicilia.it, 8 giugno 2019 Per il quarto appuntamento, l’unico a giugno, di #aspettandoilfestino2019, la rassegna di eventi ideata da Vincenzo Montanelli e Lollo Franco, che culminerà con la celebrazione finale del 395° Festino di Santa Rosalia, domani 8 Giugno, a partire dalle ore 17, si svolgerà l’incontro “I detenuti raccontano… Rosalia”, parte del calendario ufficiale della manifestazione “Una Marina di Libri”, festival dell’editoria indipendente che si svolge all’interno dell’eccezionale cornice dell’Orto Botanico di Palermo. In continuità con il lavoro svolto in questi mesi all’interno della Casa di Reclusione Ucciardone, sede del cantiere per la realizzazione del Carro Trionfale del 395° Festino di Santa Rosalia di Palermo, i protagonisti di questo appuntamento saranno gli attori-detenuti che frequentano il Corso del Laboratorio Teatrale del Carcere, condotto da Lollo Franco. Durante l’incontro, che si svolgerà sul Palco allestito per Una Marina di Libri all’interno dell’Orto Botanico, dopo un’introduzione curata dallo stesso Lollo Franco, direttore Artistico dell’edizione 2019 del Festino, i detenuti, che saranno anche gli attori che nello storico quartiere Monte di Pietà metteranno in scena a luglio il “Festinello”, leggeranno brani della storia di Santa Rosalia tratti dalle scritture e dai racconti tramandati dalla tradizione popolare. Ad arricchire la narrazione ci saranno le musiche proposte da Gaspare Palazzolo, che suonerà il sax, e da Fulvio Buccafusco, al contrabbasso. Napoli: la street art iraniana colora le mura del carcere di Secondigliano napolicittasolidale.it, 8 giugno 2019 “Ciò che cerchiamo di ottenere non è “solo” arte, ma un cambiamento, una connessione tra le persone e i territori” queste le dichiarazioni del collettivo iraniano Eastreetart, che proprio nella giornata di oggi ha terminato un murale sulle mura esterne del Carcere di Secondigliano, a Napoli. “L’opera di street art, che porta la firma dell’artista iraniano Nafir, è un “omaggio culturale” offerto dalla cooperativa sociale L’uomo ed il legno all’istituto penitenziario con il quale in questi anni abbiamo creato una solida collaborazione attraverso iniziative e progetti che hanno coinvolto i detenuti, nello specifico il loro reinserimento sociale e lavorativo (vedi ad es. il progetto Campo Aperto)”. L’opera dell’artista Nafir si chiama People for the Peole, consiste in visi di persone che inglobano visi di persone, un gioco di ripetizioni che vuole evidenziare la comunicazione, il contatto tra gli esseri umani, siano essi uomini, donne, bambini o anziani, ovunque essi si trovino. In particolare, trattandosi di una prigione, la volontà artistica è quella di una connessione tra chi sta “dentro” e chi sta “fuori”. E chi sta “dentro”, in questi giorni di lavoro, ha avuto l’occasione di contribuire all’opera: grazie ad un accordo preso con l’Istituto, infatti, un giovane detenuto ha avuto il permesso di uscire all’esterno sia per aiutare lo street artist ma soprattutto per avvicinarsi a questo mondo: “Per me quest’opera può essere considerata un “lavoro” - ha commentato Nafir - ma per il ragazzo detenuto è stata l’occasione di creare un momento di condivisione, che è poi il senso dell’opera. Io sono un outsider venuto dall’Iran che improvvisamente si trova a lavorare sulle mura di una città o di un quartiere che non mi appartiene: per questo - continua Nafir - l’idea del nostro collettivo di street art è che la proprietà dell’opera, seppur firmata, è del quartiere tutto, del territorio in cui nasce. Mi piace pensare che quel ragazzo, quando uscirà dal carcere, oppure ogni volta che da uomo libero si troverà a passare per questa strada, potrà adocchiare il murale e pensare: ho contribuito anche io.” Pesaro: la musica incontra i detenuti di Maria Rita Tonti Il Resto del Carlino, 8 giugno 2019 La musica entra in carcere con il progetto L’Arte Sprigionata, organizzato della Casa Circondariale di Pesaro in collaborazione con la Biblioteca San Giovanni e il patrocinio del Comune di Pesaro (sabato 8 giugno, ore 10). L’iniziativa, giunta alla sedicesima edizione, vedrà protagonisti due musicisti della Filarmonica Gioachino Rossini, Luca Piazzi alla tromba e Sara Frulli al pianoforte, che terranno una lezione - concerto rivolta agli ospiti della Casa circondariale. Il programma sarà incentrato sulla tromba, piccolo quanto nobile strumento dalle origini antichissime. La lezione - concerto permetterà di conoscere brani che vanno dalla tradizione classica fino a colonne sonore di film famosi, con l’illustrazione di esemplari di trombe di varie epoche, appartenenti alla collezione personale di Piazzi che da vero appassionato svelerà i segreti meccanici e sonori dello strumento. L’appuntamento dispiegherà tutta la magia sonora che può esprimere uno strumento come la tromba, quanto mai versatile e affascinate, attraverso un ampio itinerario a lui dedicato. L’Arte Sprigionata è un appuntamento annuale in cui detenute e detenuti condividono con la cittadinanza, all’interno o all’esterno del carcere, quello intorno a cui si sono impegnati durante l’anno formativo - educativo, che comprende anche attività musicali. È di grande importanza il legame tra le persone detenute e la città che ospita il carcere, specie se si tiene conto dei rapporti che intercorrono anche con gli studenti delle scuole di diverso ordine e grado. Considerati gli obiettivi statutari della Filarmonica Gioachino Rossini, che si propone di creare interventi sociali e solidali attraverso la musica, l’Orchestra con i suoi due rappresentanti ha aderito con entusiasmo al progetto L’Arte Sprigionata. Porto Azzurro (Li): “Una buona notizia per tutti”, spettacolo teatrale nel carcere di Lorenzo Ascione corrierelbano.it, 8 giugno 2019 Continuano le attività di rieducazione alla Casa di reclusione di Porto Azzurro. Questa mattina i detenuti, insieme ai ragazzi dell’alternanza scuola lavoro dell’Isis Carducci di Piombino e all’associazione Altamarea di Portoferraio, hanno messo in scena il recital “Una buona notizia per tutti”. Riscrittura de La buona novella di Fabrizio De André. L’obiettivo del progetto, organizzato in collaborazione dell’Associazione dialogo e finanziato della Regione Toscana, è di rieducare i detenuti attraverso il dialogo, soprattutto interreligioso. “Il nostro progetto consiste nel fare delle riscritture drammatiche e musicali incentrate sulle grandi religioni del mondo - spiega la professoressa Manola Scali, regista ed organizzatrice, insieme a Bruno Pistocchi, della performance. Lo scopo è far sentire tutti quanti appartenenti allo stesso gruppo. Aprire il dialogo tra i detenuti di diverso credo religioso. È molto arricchente anche per noi”. Nel recital, alternate alle canzoni di De Andrè, riprodotte da Daniele Pistocchi (voce e chitarra) e Valentina Cantini (violino), ci sono state anche due parti recitate. La prima solo dai detenuti e la seconda insieme agli studenti ed Altamarea. Il tema principale è stato il confronto tra pace e conflitto attraverso gli occhi dei profeti della Bibbia. Il secondo momento è stato, invece, più introspettivo. Qui gli attori, insieme ai loro animatori, hanno espresso il “loro giardino segreto”, ossia il loro intimo luogo di conforto. Alla fine del recital Paola D’Errico, funzionario giudiziario responsabile dell’attività trattamentale della Casa di reclusione di Porto Azzurro, ha ringraziato tutti per la collaborazione: “Sono davvero felice di vedere i ragazzi che ci mettono tanto impegno. Grazie davvero anche al lavoro con gli studenti dell’Isis Carducci di Piombino e di Altamarea. Questi progetti sono sempre molto arricchenti e fanno bene ai detenuti”. Cassino (Fr): teatro in carcere con “Alice nel paese delle meraviglie?” di Adriana Letta diocesisora.it, 8 giugno 2019 Rappresentato nella Casa Circondariale di Cassino il testo ispirato alla famosa favola di Alice, per la regia di Paola Iacobone. Può essere adatta a uomini adulti detenuti in carcere la favola di Alice nel paese della meraviglie? Potrebbe sembrare di no, eppure - inserito in un progetto e grazie ad un grande lavoro laboratoriale - bisogna riconoscere che davvero è stata una scelta indovinatissima. Si tratta, in effetti, di una iniziativa che giunge al secondo anno, nell’ambito del progetto teatrale Fiabe in carcere - Alice e Pinocchio Liberanti, progetto vincitore del Bando Officine di Teatro Sociale - Assessorato alla Cultura della Regione Lazio. L’Associazione Mast - Officina delle Arti ha presentato in questi giorni due importanti spettacoli: uno a Roma nella Casa Circondariale Femminile di Rebibbia il 6 giugno: “Pinocchio” tratto da Le Avventure di Pinocchio di Collodi, per la regia di Francesca Rotolo, l’altro a Cassino nella Casa Circondariale “S. Domenico” il 7 giugno “Alice nel paese delle meraviglie?” adattamento teatrale dall’omonimo romanzo di L. Carrol, di Laura Jacobbi che al titolo ha aggiunto un significativo punto interrogativo, per la regia di Paola Iacobone, che da anni lavora con i detenuti di Cassino in laboratori teatrali con grandi risultati. L’anno scorso le due opere furono rappresentate, sempre nel mese di giugno, in modo inverso, Pinocchio a Cassino e Alice a Roma. Circa quindici detenuti hanno rappresentato un mondo immaginario, “liberante” per la fantasia ed anche per la ragione, interpretando animali parlanti, il topo, lo Stregatto, il Leprotto marzolino, il ghiro…, ed i vari stravaganti personaggi del racconto, dal Bianconiglio alle carte da gioco alla regina che fa tagliare la testa a tutti, al Cappellaio matto. Il ruolo di Alice lo ha coperto un’attrice vera, la bravissima Elisabetta Magnani, gli altri i detenuti che, va detto, da settembre a marzo sono in parte cambiati a causa di trasferimenti e uscite per cui nel laboratorio teatrale c’è stato un certo avvicendamento. Ma la regista Iacobone ha tenuto duro e lo spettacolo è andato in scena. A sedere in sala come spettatori, oltre ad agenti, studenti e detenuti, c’erano anche loro familiari, perché tra gli obiettivi del progetto ci sono: “alfabetizzare e avvicinare alla lettura la popolazione carceraria e favorire la creazione e lo sviluppo di momenti di condivisione tra detenuto-genitore e figli”. I protagonisti della pièce, “portatori di numerosi significati educativi e pedagogici, sono diventati lo specchio attraverso cui padri-detenuti hanno potuto guardare sé stessi e raccontarsi attraverso le parole e le avventure di questi personaggi” racconta Paola Iacobone, conduttrice del laboratorio iniziato a settembre 2018 e regista dello spettacolo, nella presentazione che ne ha fatto. “La nostra Alice è frutto di un laboratorio sul tempo e sullo spazio, sui mondi che ci portiamo dentro in ogni luogo… per dare la possibilità a tutti di poter credere ancora che tutto è possibile, immaginare di saltare su una mattonella al centro della stanza e ritrovarsi nel cuore della terra. Spaventarsi per un’ombra disegnata sul muro e ridere quando cade la neve… perché è così bello essere così adulti ed eternamente bambini, capaci di giocare, emozionarsi, sovvertire gli schemi, perché non c’è nessuno schema, solo lo stupore e la curiosità”. E questo è “liberante”, participio presente del verbo liberare e quindi che ha la capacità di liberare la fantasia, di condurre in luoghi sognanti e immaginari e quindi anche di ragionare e farsi opinioni proprie, come Alice che, catapultata in un mondo fantastico e diverso da quello conosciuto pieno di regole, curiosa gli si avvicina per conoscerlo e impara a giudicare ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Anche stavolta, come per tutte le iniziative del genere, è stata fondamentale la disponibilità del direttore della Casa Circondariale Francesco Cocco e la collaborazione degli educatori Enzo Tozzi e Anna Guglielmi, della comandante Grazia Azzoli e di tutto il personale di polizia penitenziaria. “Alice nel paese delle meraviglie?” sarà in scena anche ad Alvito il 9 agosto, in versione ridotta all’interno di CastellinAria - Festival di Teatro Pop, ideato e promosso dalla Compagnia Habitas nella suggestiva cornice del Castello Cantelmo di Alvito (FR). Un’occasione importante per creare un ponte tra dentro e fuori attraverso la cultura, attraverso il teatro. La commedia ha divertito chi ci ha lavorato e chi è stato spettatore, ha fatto ridere e pensare, perché Alice insegna che “è così bello essere così adulti ed eternamente bambini, capaci di giocare, emozionarsi, sovvertire gli schemi, perché non c’è nessuno schema, solo lo stupore e la curiosità”. Genova: detenuti on air su Radio Deejail di Giulia Martinelli Città Nuova, 8 giugno 2019 All’interno del carcere di Marassi di Genova è nato un programma radiofonico guidato da don Roberto Fiscer, ex deejay sulle navi da crociera ed oggi parroco, che ha deciso di dare voce a un gruppo di 5 detenuti in onda ogni settimana. Dopo oltre due anni da responsabile dell’audioteca all’interno del carcere di Marassi a Genova, don Roberto Fiscer, ex deejay sulle navi da crociera e oggi parroco di Ss. Annunziata del Chiappeto, ha deciso di aprire uno studio di registrazione all’interno del carcere coinvolgendo 5 detenuti. “Volevo portare la musica all’interno del carcere - ci racconta don Roberto - è il mio modo per parlare di Dio trasmettendo speranza”. Don Roberto è già responsabile di una radio parrocchiale, “Radio fra le note”, che trasmette quotidianamente dalla parrocchia. Tra i programmi in onda due sono registrati all’interno di due ospedali pediatrici: “A tutto Gas” dall’Ospedale Gaslini e “Luci a San Martino” dall’ospedale San Martino. Così nel febbraio scorso è nato un nuovo programma: “Radio Deejail” registrato il giovedì all’interno dell’audioteca e in onda ogni venerdì alle ore 18.00 per un’ora. Gli argomenti vengono scelti insieme: dall’ecologia allo sport, ma si parla anche di amore, televisione, radio, famiglia e molto altro, non manca ovviamente la musica. Gli speaker sono 5, una squadra ormai collaudata: Aldo, il chitarrista del gruppo, a cui è affidata anche la preghiera prima della registrazione; Zorba (questo il suo pseudonimo), laureato in storia, lo chiamano “il filosofo”; Jonathan, ragazzo sudamericano molto credente, nei suoi pensieri c’è sempre un riferimento alla fede; Leonard, l’esperto di sport, e “Zio” Stelvio, il più anziano del gruppo, a cui, tra le altre cose, spettano i saluti di entrata e di uscita (“È una forma di rispetto”, ci spiega don Roberto). L’età va dai 23 ai 65 anni. Ad aiutare durante la registrazione c’è la signora Dolores e suor Lucia, spunti e approfondimenti vengono invece cercati da una redazione esterna di volontari formata da Chiara, Anna, Federica e Maddalena. Uno spunto importante lo porta anche Stefano, con una pagina di riflessione da chi il carcere lo ha vissuto in prima persona da detenuto e oggi in libertà collabora con la redazione esterna. “Con emozione ricordo una delle prime puntate andate in onda: abbiamo parlato di maschere, il carcere ti obbliga a togliere una maschera che hai tenuto per troppo tempo, sei obbligato a fare i conti con quello che sei, da qui parte il percorso di guarigione. Grazie alla radio poi la loro voce esce fuori dalle mura carcerarie ed è come un’anticipazione di libertà”. E la voce è anche un modo per confortare ed entrare in contatto con i famigliari e gli amici che sono fuori e soffrono la mancanza. Ma ciò che più ha colpito don Roberto è la condivisione che si è creata intorno al progetto: “All’interno del carcere si creano forti legami, i loro primo pensiero è stato: sarebbe bello coinvolgere e far vivere questa esperienza anche agli altri”. Non resta che mettersi in ascolto di “Radio fra le note” attraverso Internet, la App e il canale 810 del digitale terrestre. I cinquant’anni del Pride: orgoglio e diritti per costruire una società più libera di Angela Azzaro Il Dubbio, 8 giugno 2019 Da quando sono nati i Pride, tante conquiste sono state fatte, tanti passi avanti messi a segno. Ma la strada da fare è ancora molta. Per questo ogni anno il rito si ripete con pari intensità. Nel 2019, come accade da diversi anni, il Pride italiano si articola in diverse manifestazioni che attraversano tutto il Paese, da maggio fino a settembre. È l’idea giusta che non serve solo un grande appuntamento, ma una visibilità diffusa, ancora più necessaria in quelle parti del Paese dove ancora resistono i pregiudizi. Questo sabato si preannuncia particolarmente intenso: scenderanno in piazza Roma, Trieste, Pavia, Messina, Ancona. Una festa dei diritti, dell’orgoglio, contro le discriminazioni. Nel luglio del 1969 - esattamente cinquanta anni fa - a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Nel locale Stonewall, frequentato principalmente da trans, le forze dell’ordine avevano la cattiva abitudine di fare irruzione, picchiando le presenti e arrestandole. La colpa? Erano considerate un problema di ordine pubblico solo per il fatto di esistere, di essere quello che erano. Ma quel giorno di 50 anni fa, Sylvia Rivera disse basta: si levò una scarpa e la lanciò contro la polizia, dando inizio alla rivolta. Una rivolta che non si è ancora fermata. Il gesto di Sylvia, morta nel 2002, è paragonabile a quello di Rosa Park per i diritti degli afroamericani: un gesto che riscatta una intera comunità discriminata. Da allora, molte scarpe sono state lanciate, molte rivolte, personali e collettive, sono andate in scena. Roma per esempio festeggia i 25 anni del primo Pride. All’inizio erano pochi, oggi le strade della capitale si riempiono perché tanta strada è stata fatta, tanta ne resta da fare. Finché un solo ragazzino o una ragazzina vengono presi in giro perché non sono eterosessuali, non ci si può fermare. Un altro anniversario ci aiuta allora a ricostruire questo mosaico della Storia, fatta di contraddizioni, di passi avanti e di pericolosi rigurgiti. Il 5 giugno di tre anni fa furono approvate le unioni civili. Dopo vari colpi di scena e il timore di non farcela ancora una volta, il governo Renzi mise la fiducia e divennero legge dello Stato. Lo stesso coraggio non ha poi avuto il governo Gentiloni quando si trattava di mettere la fiducia per far approvare lo ius soli temperato. La battaglia, portata avanti dalla senatrice dem Monica Cirinnà, ha già permesso a diecimila persone di unirsi civilmente uscendo da una condizione di clandestinità. La normativa ha consentito l’accesso a diritti fondamentali, come la reversibilità della pensione o la possibilità di avere accanto in ospedale il proprio compagno se si è malati. Ma ha consentito anche di affermare nel senso comune la “normalità” dell’amore tra due uomini e tra due donne, ha costruito un simbolico diverso. Purtroppo non basta. Sono tanti gli episodi di omofobia, tante le affermazioni che tendono a riportare indietro le lancette dell’orologio. Si deve lottare ancora, non solo perché le coppie che decidono di unirsi possano accedere al matrimonio vero e proprio come le coppie etero, ma per cambiare profondamente la cultura e la società. Il Pride è tutto questo: orgoglio, diritti, costruzione di una società diversa, in cui tutti e tutte siano più liberi. È così che nasce la connessione, sempre più forte, con una parte del movimento femminista. Quando leggete la sigla di chi partecipa alle manifestazioni, Lgbtq, non spaventatevi. Stiamo parlando di questa apertura. “B” per esempio sta per bisexual, “q” sta per queer, un movimento che è anche una disciplina universitaria e che, indipendentemente dalla traduzione letterale, significa nuove identità, nuove soggettività, cioè la possibilità per tutti di essere se stessi fuori dalla norma imposta. Il Pride è per tutti e tutte, per la libertà di essere sempre se stessi. Una buona ragione per continuare a lanciare la scarpa contro il potere. Migranti. Via libera dei governi Ue ai rimpatri nei Paesi terzi di Marco Bresolin La Stampa, 8 giugno 2019 Ritorna l’idea di deportare i migranti irregolari nei Balcani. Il piano, avanzato un anno fa dai governi di Austria e Danimarca, ieri ha ricevuto il via libera dai ministri dell’Interno dei 28 Paesi Ue, riuniti a Lussemburgo (per l’Italia c’era il sottosegretario Nicola Molteni). Il Consiglio ha discusso la nuova direttiva sui rimpatri e ha definito una sua posizione, che ora dovrà essere negoziata con il Parlamento. Tra i punti dell’intesa c’è anche “la possibilità di rimpatriare un cittadino di un Paese terzo verso qualsiasi Paese terzo sicuro”. Si tratterebbe di una svolta clamorosa, visto che il tema è molto controverso. La stessa Commissione europea aveva bocciato l’idea un anno fa. Ma i governi hanno deciso di andare avanti per valutare la fattibilità di questo progetto: consentirebbe di aggirare gli ostacoli che oggi impediscono di rimpatriare quei migranti irregolari provenienti da Paesi che non hanno firmato accordi di riammissione. Verrebbero mandati in altri Stati (extra Ue) disposti ad accoglierli (in cambio di soldi). L’accordo prevede una serie di condizioni. Questi trasferimenti sarebbero possibili soltanto in Paesi che rispettano pienamente i diritti umani (la Libia, per esempio, sarebbe esclusa). Inoltre servirebbe il via libera dei Paesi confinanti, per evitare i movimenti secondari. L’esempio che viene fatto è quello dell’Albania (potenzialmente un Paese coinvolto in questo progetto, insieme con Kosovo e Montenegro): qualora Tirana accettasse di ospitare i migranti respinti dalla Ue, servirebbe il via libera della Grecia. I ministri hanno anche dato il via libera a procedure “più chiare e più rapide” per i rimpatri e per i ricorsi, “norme più efficaci sui rimpatri volontari” e la possibilità di trattenere i migranti che non hanno diritto all’asilo “se questi costituiscono un pericolo per l’ordine pubblico”. Migranti. Bija, il guardacoste e trafficante libico pagato da Italia ed Europa di Nello Scavo Avvenire, 8 giugno 2019 Dispone di una nave fornita da Roma che usa per le sue attività ai danni di chi cerca di arrivare nel nostro continente. L’Onu lo accusa, altri continuano a proteggerlo. Il comandante Bija deve molto all’Europa. A Zawyah la sua “guardia costiera” è operativa grazie a mezzi e fondi elargiti via Tripoli dai generosi donatori di Roma e Bruxelles. Ma Bija secondo l’Onu dovrebbe stare in galera, per i crimini commessi contro i migranti. Invece è libero di proseguire nel suo poliedrico business: trafficante di uomini, contrabbandiere, sorvegliante di centri petroliferi. Sempre travestito da rispettabile guardacoste. Le autorità del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, assicuravano che Bija era stato reso “inoffensivo”. In realtà sarebbe più in sella che mai, soprattutto per avere messo a disposizione del premier Sarraj la sua milizia che starebbe combattendo contro i clan alleati del generale Haftar. Diverse foto circolate in Libia ritraggono Bija mentre festeggia le vittorie sul campo insieme ad altri miliziani. Difficile che, con i servigi resi in favore del governo voluto dall’Onu, qualcuno lo consegni mai a un tribunale sempre dell’Onu. Riconoscibile per la mano destra menomata dall’esplosione di una granata, Bija ha imparato presto a cavarsela in ogni situazione. Che le partenze siano frequenti o che debba periodicamente rallentare i flussi per compiacere le suppliche dei governi europei, Bija vince sempre: lo pagano per attrezzare la cosiddetta Guardia costiera, e se anche deve bloccare i barconi, incassa comunque dalle estorsioni a danno dei migranti. Le malelingue della vicina Zuara, dove le alleanze e le inimicizie si alternano al ritmo delle fasi lunari, dicono che Bija quando cattura migranti in mare, di solito si tratta di disgraziati messi in acqua dai clan nemici. Dal luglio 2018 è sottoposto a sanzioni stabilite dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: in particolare, divieto di viaggio e blocco delle attività proprio per i crimini su cui indaga la Corte penale internazionale dell’Aja. Le accuse contro di lui dovrebbero imbarazzare i suoi finanziatori. “Le sue forze - si legge in uno dei documenti a disposizione dalla Procura presso la corte penale in Olanda - erano state destinatarie di una delle navi che l’Italia ha fornito alla Lybian Coast Guard”. Alcuni uomini della sua milizia “avrebbero beneficiato del Programma Ue di addestramento” nell’ambito delle operazioni navali Eunavfor Med e Operazione Sophia. Inoltre proprio Bija è sospettato di aver dato l’ordine ai suoi marinai di sparare contro navi umanitarie e motopescherecci. Intervistato da Amedeo Ricucci nell’autunno del 2017, Abd al-Rahman al-Milad, noto come Bija, all’inviato del Tg1 fece chiaramente intendere che in cambio di un ricco appalto per gestire la sicurezza dei siti petroliferi concessi ad aziende italiane, avrebbe smesso di doversi arrangiare con certi affari. Traffici che secondo gli esperti Onu si possono riassumere “nell’affondamento delle imbarcazioni dei migranti utilizzando armi da fuoco”, la cooperazione “con altri trafficanti di migranti come Mohammed Kachlaf che, secondo fonti, gli fornisce protezione per svolgere operazioni illecite”. Diversi testimoni in indagini penali “hanno dichiarato - si legge nei report dell’Onu e dell’Aja - di essere stati prelevati in mare da uomini armati su una nave della Guardia Costiera chiamata Tallil (usata da Bija, ndr) e portata al centro di detenzione di al-Nasr, dove secondo quanto riferito sarebbero stati detenuti in condizioni brutali e sottoposti a torture”. Nonostante un curriculum che non lo fa certo somigliare a uno statista, Bija e i suoi uomini guadagnano spazio e potere. A quanto pare, senza imbarazzo per i suoi finanziatori. Tutto questo mentre le Nazioni Unite sono tornate a denunciare le “spaventose” e “disumane” condizioni dei campi di detenzione per migranti e profughi. “Siamo molto colpiti dalle spaventose condizioni di detenzione”, ha detto a Ginevra il portavoce dell’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, Rupert Colville che parla di stragi nel silenzio, “con decine di morti per tubercolosi” nelle prigioni a causa della loro sistematica denutrizione. Strutture per le quali la Libia riceve centinaia di milioni di euro dall’Europa e specialmente dall’Italia. Stando alle cifre delle Nazioni Unite, sono circa 3.400 i migranti e profughi bloccati in vari campi di Tripoli. E la situazione è peggiorata dall’inizio dell’offensiva sulla capitale lanciata dal maresciallo Khalifa Haftar. Colville ne parla apertamente come di un “luogo d’inferno”. Siria. Soldati italiani sul campo? L’America aspetta la risposta, Roma tace di Francesco Verderami Corriere della Sera, 8 giugno 2019 Gli Usa avevano chiesto aiuto per l’addestramento. Tante linee nel governo, niente decisioni. Fuori c’è il mondo. E mentre i vicepremier discutono (senza il premier) sulle sorti del governo, nel mondo accadono cose che finiscono per coinvolgere anche l’Italia: gli Stati Uniti, per esempio, da alcune settimane premono su Roma per avere un “aiuto” in Siria. È al ministro della Difesa che è stata recapitata la richiesta, e una simile questione potrebbe bastare per destare l’attenzione di Matteo Salvini e Luigi Di Maio che (insieme a Giuseppe Conte) dovrebbero concentrarsi sul tema e distrarsi dal problema del rimpasto. Anche perché Elisabetta Trenta, sebbene competente per materia, non può assumersi la responsabilità della risposta, che dev’essere necessariamente collegiale. Ma è lei che è stata contattata. I “vari colloqui” con gli interlocutori americani - lo raccontano fonti accreditate - sono stati “informali”: modalità di solito adottata nelle fasi di sondaggio, per evitare di ingessare il confronto con atti ufficiali. La rappresentante del governo non era impreparata. Due mesi fa il senatore americano Lindsey Graham - alla vigilia di una missione a Roma durante la quale avrebbe incontrato anche il capo dello Stato - aveva rilasciato un’intervista a Giuseppe Sarcina per il Corriere, anticipando che gli Stati Uniti avrebbero esortato l’Italia a “mandare suoi soldati in Siria”: “Nel Nordest di quel Paese ci sono due rischi gravi: il ritorno dell’Isis e il possibile scontro tra la Turchia e le forze democratiche siriane. Noi stiamo formando uno schieramento insieme a Gran Bretagna, Francia e altri. E chiediamo all’Italia di aiutare l’America a stabilizzare la regione”. Era il messaggio di uno degli uomini più vicini a Trump, che ogni giorno parla con il presidente e ogni settimana riceve il suo invito a colazione. L’appello pubblico si sarebbe poi trasformato in una richiesta riservata, giunta direttamente dall’Amministrazione. In principio il ministro italiano si chiedeva cosa sarebbe stato domandato all’Italia, in termini di uomini e mezzi, e sotto quale bandiera sarebbe stata costruita la “coalizione”. Poi ha compreso che sarebbero servite “solo” forze per l’addestramento. Ma anche questa opzione minimale mette il governo in difficoltà. Svolgere un ruolo di maggiore presenza nel quadrante medio-orientale non sarebbe facile, specie in un’area ritenuta fin qui lontana da qualunque ipotesi di impegno. E allora non deve essere stato un caso se in Parlamento - riferendosi proprio alla Siria - il titolare della Farnesina, Enzo Moavero, ha detto che “l’Italia è già impegnata nel vicino Libano, con ottima reputazione”. Ma il Libano non è la Siria, dove la situazione è tale che a confronto persino la Libia sembra la Svizzera. Fuori c’è il mondo. E in quel pezzo di mondo martoriato dalla guerra, gli attori regionali chiedono “uno sforzo all’Occidente”, e gli Stati Uniti chiedono per conseguenza agli alleati di “fare la loro parte”. Così, mentre in Italia si discute se si andrà o non si andrà al voto anticipato, se con la prossima Finanziaria verranno rispettati o sforati i parametri di Maastricht, all’Italia è stata posta una domanda. Ma da Roma non è ancora partita una risposta. A meno di non interpretare come una risposta il modo in cui viene sottolineato che il governo sta “rispettando gli impegni già pianificati”, e che “non c’è arretramento sulle missioni internazionali già rifinanziate”. Il tema però è un altro, è l’eventualità di partire per la Siria, dove si confrontano russi, iraniani, sauditi, turchi, curdi. Dov’è bastato che Trump ipotizzasse il disimpegno americano per mettere in allarme gli israeliani. Ecco qual è il contesto, e se al momento l’Italia frena, è perché non può (cioè non vuole) andarci. E prende tempo perché deve calibrare la risposta da dare a Washington: bastano (e avanzano) le tensioni prodotte dal protocollo firmato coi cinesi, e la presa di distanza sulla gestione della crisi venezuelana. Fuori c’è il mondo, e mentre Di Maio e Salvini si rivedranno la prossima settimana (forse insieme a Conte) per risolvere i problemi di politica domestica, la Trenta sta cercando di gestire come può il delicato dossier militare, tenendolo riservato. Al punto che pochi giorni fa al Senato, durante l’audizione in commissione Difesa, non ha accolto le domande dei parlamentari sulla Siria: per il ministro sarebbe stato motivo d’imbarazzo. Iran. “L’Italia interceda per Ahamadreza Djalali” di Francesca Paci La Stampa, 8 giugno 2019 A Roma il caso del ricercatore iraniano detenuto da 3 anni nel super carcere di Teheran con l’accusa di aver cospirato (accademicamente) con nemici della repubblica islamica. “Ahmadreza non può scrivermi ma da almeno un anno ci sentiamo per telefono quasi ogni giorno, certe volte non se la sente e non chiama, è molto depresso. Quando parliamo però, mi chiede continuamente dei nostri figli di 16 e 7 anni e io evito di dirgli che il più piccolo, Ariyo, credendolo in Iran per lavoro, ce l’ha con lui perché non torna, perché ancora una volta ha mancato il suo compleanno il 28 dicembre, perché vorrebbe essere portato sulle spalle e teme che quando si rivedranno peserà troppo per giocare come facevano prima”. Vida Mehrannia ha una voce sottile che sembra possa spezzarsi da un momento all’altro mentre racconta del marito Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano 47enne arrestato con l’accusa di “intelligence con il nemico” nel 2016 a Teheran dov’era andato per partecipare a un seminario universitario. È venuta a Roma, invitata dalla senatrice Elena Cattaneo e da associazioni come Amnesty e FIDU che da 3 anni si occupano del suo caso, per appellarsi ulteriormente al governo italiano affinché faccia leva sugli storici rapporti con l’Iran e perori la causa di Ahmadreza, condannato a morte durante un processo a porte chiuse da un tribunale rivoluzionario inappellabile. Ahmadreza Djalali, uno stimato esperto di medicina dei disastri che tra le altre cose ha lavorato quattro anni presso il Crimedim dell’Università del Piemonte Orientale, è molto più del nome e del volto che abbiamo imparato a conoscere per le campagne contro la sua prigionia. “Ahmadreza è uno di noi, come lo era Giulio Regeni, entrambi colpevoli di voler studiare il mondo con gli occhi della ricerca, la cui condizione imprescindibile è la libertà” ragiona Elena Cattaneo citando i dati dell’ultimo rapporto Free to Think sullo stato della libertà accademica, con 294 casi di attacchi mirati in 47 Paesi diversi. Accanto a lei, oltre a Vida Meharannia, siedono il vice-ministro all’università Lorenzo Fioramonti e la presidente della Commissione per i diritti umani del Senato Stefania Pucciarelli. “Dobbiamo farci intermediari per la vita di Djalali anche in virtù della nostra posizione, nel quadro della comunità internazionale l’Italia è tra i Paesi più concilianti rispetto alla richiesta dell’Iran di una propria autonomia energetica e dovrebbe far valere questo ruolo” insiste Fioramonti, garantendo un intervento presso il ministro degli esteri Moavero. A Djalali, in cella ormai da 37 mesi nel famigerato carcere di Evin, viene imputata la frequentazione con università considerate nemiche da Teheran, dall’Arabia Saudita a Israele: un peccato non mondabile nella Repubblica degli ayatollah che nel 2017 - l’anno delle prime proteste di Mashhad contro il ristagno economico e l’orizzonte nazionale bloccato - ha sentenziato per lui la pena capitale. Lo stato dei diritti umani è la punta dell’iceberg di un Paese in cui la guerra intestina tra la fazione riformista del clero sciita e i falchi irriducibili tiene ostaggio la popolazione e l’intero sistema produttivo, gravato da un’inflazione alle stelle e da un carovita che da mesi porta in piazza non tanto i paladini della libertà quanto i sindacati, i lavoratori senza garanzie, le famiglie affamate. Ahmadreza Djalali, per cui si sono mobilitati 75 premi Nobel e per cui la città di Novara ha chiesto la cittadinanza onoraria, pesa adesso 50 chili rispetto agli 82 che pesava tre anni fa. La moglie Vida tiene nel telefonino la foto “pelle e ossa” che hanno scattato al marito i suoceri, i soli autorizzati ad andarlo a trovare una volta al mese. Dalla Stoccolma in cui vive con i figli, Vida si batte, non smette di credere che si tratti solo di un pessimo film, vacilla: “Ahmadreza non ha fatto nulla oltre studiare. È chiuso in una cella d’isolamento con altre 8 persone, tutti prigionieri di coscienza come lui. Lo spazio è ampio ma da lì non si esce e le giornate trascorrono tutte uguali, la notte insonne, il risveglio occupato dal cucinarsi colazione, pranzo e cena, i libri messi a disposizione dal carcere da leggere come medicina per non impazzire. Mi dice che vorrebbe scrivere degli articoli scientifici ma non ce la fa, è fiaccato nello spirito e nel corpo, dovrebbe fare delle visite ematologiche ma non sono consentite, la speranza a tratti manca, la condanna alla pena capitale toglie il fiato”. C’è ancora tempo, sottolinea la senatrice Cattaneo. Ma non ce ne sarà a oltranza. Due mesi fa, nel quarantennale della rivoluzione khomeinista, l’associazione Nessuno Tocchi Caino, ha reso note le cifre delle esecuzioni del 2018 in Iran, storica maglia nera insieme all’arci-nemica Arabia Saudita. Si parla di almeno 277 sentenze, di cui 89 riportate da fonti ufficiali iraniane e 188 segnalate da fonti non ufficiali. Una macchina di morte a getto continuo e senza tema d’inferenze giudiziarie. Finora i ricorsi di Ahamadreza Djalali sono stati tutti respinti, così come non hanno avuto riscontro le raccolte di firme del genere presentata all’ambasciatore iraniano in Italia dal direttore generale di Amnesty International Gianni Rufini. C’è tempo, ce n’è un po’, c’è da salvare una vita, tutte le vite, il pensiero dell’uomo. Arabia Saudita. A 10 anni guidò una protesta in bici, ora Riad vuole giustiziarlo di Francesca Caferri La Repubblica, 8 giugno 2019 Murtaja Qureiris è il più giovane prigioniero politico. Arrestato a 13 anni ha adesso superato la maggiore età e rischia l’esecuzione. L’Arabia Saudita si starebbe preparando a mandare a morte un 18enne arrestato quando aveva 13 anni e accusato di aver protestato contro il governo, aver assistito a un crimine che sarebbe stato commesso dal fratello maggiore e aver partecipato al funerale dello stesso fratello, ucciso in quella che le autorità hanno definito una manifestazione violenta repressa dalla polizia. La denuncia arriva dalle organizzazioni saudite per la difesa dei diritti umani basate all’estero e dalla famiglia del ragazzo, che nella speranza di aumentare la pressione internazionale sul caso ha fornito a Cnn un video in cui si vede il giovane, Murtaja Qureiris, all’epoca di 10 anni, guidare un gruppo di bambini in bicicletta nel 2011 mentre sfrecciano nelle strade chiedendo diritti. Qureiris fa parte di una nota famiglia di attivisti sciiti della provincia orientale del regno, quella in cui gli scontri fra questa minoranza e il governo centrale sono frequenti. E stato arrestato nel 2014 mentre con la famiglia si stava recando in Bahrein e si teme possa essere nel gruppo di detenuti che, secondo le informazioni dei gruppi in difesa dei diritti umani, saranno messi a morte nelle prossime settimane. Già ad aprile 37 persone erano state mandate a morte. “Nessuna delle accuse nei confronti di Murtaja è stata formalizzata”, spiega Ali Abubisi della European Saudi Organisation for Human Rights, che sta seguendo il caso. “La speranza è che la pressione internazionale possa contribuire a far sì che l’accusa sia costretta a fornire prove inconfutabili. Da quello che sappiamo è stata chiesta la pena di morte, seguita dalla pubblica crocifissione”. È proprio questa speranza ad aver spinto la famiglia a prendere posizione: i precedenti tentativi di chiedere notizie del ragazzo e la formalizzazione delle accuse nei suoi confronti avevano portato all’arresto di un altro fratello e di Abdullah, il padre di Murtaja, ritenuto uno degli organizzatori delle proteste. L’inchiesta della Cnn ha rivelato che il caso di Murtaja combacia con quello denunciato dal gruppo di lavoro dell’Onu specializzato in detenzioni arbitrarie. Secondo gli esperti, nelle prigioni saudite c’era un ragazzo arrestato da minorenne per aver preso parte a manifestazioni pacifiche, aver partecipato a un funerale e detenuto in condizioni dure, la cui confessione era stata ottenuta con metodi non legali. Ma né gli esperti Onu né i portavoce del governo saudita hanno voluto rilasciare commenti alla Cnn sul caso. Messico. Un muro di 6mila militari al confine con il Guatemala di Claudia Fanti Il Manifesto, 8 giugno 2019 Amlo fa marcia indietro e chiude le porte. E per evitare i dazi statunitensi si impegna a costruire nuovi centri di detenzione per migranti e altri posti di blocco. Ma a Trump non basta. Il Messico si accinge a fare il lavoro sporco per conto degli Stati uniti, mettendo decisamente tra parentesi il tanto sbandierato discorso sulla protezione dei diritti umani dei migranti e sulla fraternità universale. È stato lo stesso ministro degli Esteri messicano Marcelo Ebrard, a capo della delegazione incaricata di negoziare con la controparte statunitense, a confermare la versione secondo cui il governo dispiegherà 6mila elementi della nuova Guardia nacional alla frontiera con il Guatemala: non un muro di cemento come quello tanto caro a Trump, ma una non meno devastante barriera militare. Per supportare tale azione il governo di Amlo, secondo quanto ha rivelato il Washington Post, dovrà anche provvedere alla costruzione di ulteriori centri di detenzione per migranti e di altri posti di blocco finalizzati a ridurre il flusso di centroamericani in fuga dalla violenza e dalla povertà estrema dei rispettivi paesi, spesso e volentieri - e in maniera clamorosa nel caso dell’Honduras - provocate, mantenute e alimentate proprio dalle politiche statunitensi. Non è tutto. Sempre secondo il Wp, si starebbe anche negoziando un piano regionale in base a cui i migranti centroamericani dovrebbero cercare asilo nel primo paese in cui entrano dopo aver lasciato le proprie case, di modo che gli Stati uniti potrebbero rispedire ogni guatemalteco in Messico e ogni salvadoregno e honduregno in Guatemala. Nient’altro che una variante della pretesa statunitense - sempre respinta dalle autorità del paese confinante - di imporre al Messico lo status di “paese terzo sicuro” dove rimandare tutti i richiedenti asilo. Già annunciato invece da parte del governo il blocco dei conti di diverse persone e organizzazioni presumibilmente impegnate nel traffico di migranti e nell’organizzazione di carovane illegali dirette verso gli Stati uniti. Nulla di tutto questo però potrebbe essere sufficiente a placare il presidente Usa, scongiurando l’entrata in vigore, lunedì prossimo, dei dazi - inizialmente del 5%, ma con aumenti progressivi fino al 25% - su tutti i prodotti messicani. In attesa degli sviluppi della terza giornata dei negoziati, la portavoce della Casa bianca Sarah Sanders ha assicurato che la posizione degli Usa non è cambiata: “Stiamo ancora procedendo verso l’applicazione delle tariffe”. Dopotutto, come ha ricordato Trump con la sua abituale arroganza, “sono loro ad aver bisogno di noi, non viceversa”. Ma ci sono anche tanti, tra attivisti ed esperti, convinti che il governo messicano non dovrebbe affatto cedere alle pressioni Usa. Non solo perché, come ha evidenziato Vicente Sánchez, ricercatore del Colef (Colegio de la Frontera), i flussi migratori non si arrestano per decreto, ma anche perché il governo di Amlo ha già adottato in buona parte le misure richieste dagli Usa: ospitando, soprattutto a Tijuana e Ciudad Juárez, i migranti che attendono dalle autorità statunitensi una risposta alla loro richiesta di asilo, aumentando la vigilanza alla frontiera con il Guatemala e incrementando drasticamente le espulsioni, con tanti saluti all’originario approccio umanitario alla questione migratoria. Intanto, Amlo si appella all’unità nazionale, annunciando per oggi, a Tijuana, un atto “in difesa della dignità” del paese oltre che, ebbene sì, “a favore dell’amicizia con gli Usa”. Vietnam. Sei anni di carcere per dei post su Facebook di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 giugno 2019 In Vietnam la “realizzazione, archiviazione, diffusione e propaganda di materiali e prodotti che intendono opporsi allo stato della Repubblica socialista” è un reato grave per il quale l’articolo 117 del codice penale prevede fino a 20 anni di carcere. Ieri Nguyen Ngoc Anh, un ingegnere idraulico e ambientalista della provincia di Ben Tre, è stato giudicato colpevole di tale reato e condannato a sei anni di prigione. La “colpa” di Nguyen Ngoc Anh è di aver usato il suo profilo Facebook nel giugno scorso per invitare la popolazione a protestare pacificamente contro la proposta di creare nuove zone economiche speciali che avrebbero comportato la cessione di terreni a proprietà straniere. Aveva ottenuto decine di migliaia di “like”. In precedenza Nguyen Ngoc Anh aveva criticato il governo a proposito del cosiddetto “disastro di Formosa” del 2016, quando un’azienda taiwanese aveva scaricato in mare rifiuti tossici che avevano causato la morte di milioni di pesci. Il cartello che mostra nella foto recita: “I pesci hanno bisogno di acqua pulita, il popolo di trasparenza”. È sempre più evidente che le autorità vietnamite stanno estendendo ai social media la loro morsa, già sistematica nei confronti del dissenso offline. A gennaio è entrata in vigore una legge sui reati informatici che richiede alle aziende del settore di conservare i dati personali degli utenti e fornirli alle autorità quando li richiedano.