Il detenuto è soprattutto futuro di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 7 giugno 2019 A colloquio con il Garante nazionale delle persone private della libertà. Nella “Repubblica” di Platone, Socrate parla di giustizia con Polemarco e arrivano ad affermare che, come i cavalli se vengono trattati male diventano peggiori, anche gli uomini maltrattati diventano più ingiusti. È da qui che parte la riflessione sulle carceri del Garante nazionale delle persone private della Libertà, Mauro Palma. Nominato nel 2016, anno dell’istituzione di questa figura prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, i trattamenti e le pene inumane, a cui l’Italia ha aderito, Palma viene da un lungo impegno su questi temi, è stato infatti per tre mandati presidente del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. “È bene tornare a riflettere sulla detenzione e sulla funzione della pena - dice Palma - anche perché è da un po’ che questo tema è fuori dal dibattito politico, culturale e sociale. E i detenuti lo sanno. L’aumento dei suicidi in carcere, che si attribuisce sempre al sovraffollamento penitenziario, secondo me è causato anche da questo disinteresse, dal non essere più neppure oggetto di discussione”. In compenso, sottolinea il Garante, “l’opinione pubblica è rimasta al bisogno del supplizio”, mentre la politica, almeno quella più illuminata, sostiene la tesi: “i detenuti devono stare bene, ma dentro”. E ciò porta a un aumento esponenziale delle presenze in carcere a fronte di una diminuzione dei nuovi ingressi. Cioè, si resta dentro più a lungo”. Palma, presidente dell’organismo di cui fanno parte altri due membri, Daniela De Robert e Emilia Rossi, e che resta in carica per cinque anni non prorogabili, insiste poi sulla necessità di modificare anche il linguaggio punitivo “perché - dice - non si perda mai la dimensione umana che è al fondo dell’azione di chi ha compiti di regolazione, legislazione, amministrazione e controllo”. “Si va in carcere perché si è puniti - spiega - ma la vita in cella non deve essere una punizione nella punizione”. “Il tempo che si passa in carcere è tempo sottratto alla vita, tempo che deve servire però a ricostruire quell’accordo sociale che il reato commesso ha rotto”. Quindi, secondo Palma, serve una progettualità per il dopo, il carcere non deve essere solo segregazione ma progetti positivi di accompagnamento al recupero della persona. “Il detenuto - spiega - non è solo passato e presente, ma soprattutto futuro”. E questo futuro va costruito in carcere, sostiene il Garante nazionale, responsabilizzando il detenuto che invece troppo spesso per l’organizzazione penitenziaria diventa “un adulto infantilizzato”. “È interesse della società investire sul dopo - dice ancora Palma - sul fuori e non solo sul dentro”. “La giustizia deve essere in grado di ricostruire il rapporto sociale che con il reato si è interrotto, deve “sentenziare” che la vittima ha subito un’ingiustizia, deve codificare il disvalore dell’azione commessa, ma anche stabilire le regole per consentire la riconciliazione non solo tra autore del reato e vittima, ma anche con la società”. Invece la mancanza di progettualità è così diffusa che, ad esempio, “sono oltre 1800 nelle carceri italiane le persone che devono scontare una pena inferiore ad un anno ma che restano recluse per mancanza di strutture esterne al carcere”. “E se del carcere i politici si disinteressano è sui migranti che si fa politica”, dice Palma che come Garante è responsabile del controllo del rispetto dei diritti anche nei centri di accoglienza. “I migranti in Italia ormai sono numeri e non persone, abbiamo confuso l’identificazione con l’identità della persona, dimenticando le speranze e i desideri che accompagnano gli individui”. “Negli ultimi 10 anni la percentuale dei rimpatri è rimasta stabile tra il 45 e il 55%, ne vengono fatti in media 6500 l’anno e invece di incrementare i rimpatri assistiti si è allungato il tempo di permanenza nei centri”. “La detenzione amministrativa dei migranti - sostiene, invece, Palma - deve essere il più breve possibile mentre negli ultimi anni si è trasformata da strumento straordinario in regola”. E conclude: “la sofferenza, sia essa la risultante di proprie azioni criminose, del proprio desiderio di una vita diversa e altrove, della propria vulnerabilità, merita sempre riconoscimento e rispetto”. I giudici della Consulta oltre il muro che separa i giusti dagli ingiusti di Valentina Stella Il Dubbio, 7 giugno 2019 Il docu-film “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” domenica su Rai1. “Quando usciremo da qui vorremmo fare qualcosa di buono ma la gente continua a guardarci male”. Così un giovane recluso nell’Istituto penale per minorenni di Nisida si è rivolto al giudice costituzionale Giuliano Amato. In queste parole c’è tutto il senso del docufilm “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media per la regia di Fabio Cavalli. Chi ha sbagliato e ha rotto il patto con la società chiede una seconda possibilità una volta scontata la pena. Ma spesso pregiudizio e diffidenza non permettono il reinserimento. Ed allora i massimi rappresentanti della legalità costituzionale hanno scelto di uscire dal Palazzo della Consulta e incontrare il mondo dell’illegalità, per rompere metaforicamente il muro che separa i giusti dagli ingiusti e farci capire, come ha ben detto la giudice costituzionale Daria De Petris, che “il reato resta alle spalle della persona, orientata invece al futuro”. Affinché questo futuro non sia emarginazione sociale ma speranza di ricongiunzione con la società, è necessaria la conoscenza, è importante capire, come racconta il giudice costituzionale Francesco Viganò nel suo incontro con i detenuti, “che l’uomo non è il reato che ha commesso”. Da tutto questo è nata un’opera straordinaria che ha come protagonista l’umanità dello Stato di Diritto. Il docu-film è stato presentato due sere fa in anteprima all’Auditorium Parco della musica a Roma alla presenza del presidente del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Accanto a lui il presidente della Camera Roberto Fico e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Andrà in onda domenica 9 giugno in seconda serata su Rai 1 all’interno dello Speciale Tg1. E si spera che presto si possa vedere anche in prima serata perché è una opera destinata a tutti, come ha espresso in un tweet anche il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Andrea Mascherin, al termine della proiezione: “Consiglio a tutti di vederlo, specie a chi aspira a vedere essere umani “marcire in galera”“. Stesso concetto ribadito da Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema: questo film rappresenta una “esperienza unica; si tratta di operazione di servizio pubblico, un racconto ai cittadini di due mondi poco conosciuti come la Corte Costituzionale e il carcere”. Il film inizia con voci fuori campo di spezzoni di notiziari dove si parla di sovraffollamento in carcere, mancanza di agenti, suicidi, ossia le problematiche che affliggono il sistema penitenziario. Da lì poi parte il viaggio letteralmente della speranza dei sette giudici della Corte Costituzionale (Lattanzi, Amato, Cartabia, Coraggio, De Pretis, Sciarra, Viganò) in sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile, il carcere minorile di Nisida. Ad accompagnarli, l’agente di Polizia penitenziaria Sandro Pepe. Per il presidente Lattanzi, intervenuto prima della proiezione, “i veri protagonisti di questo film sono propri i detenuti. Solo dai veri incontri nascono i veri cambiamenti”. Dietro la macchina da presa Fabio Cavalli, attore, regista, autore, scenografo, produttore, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Nel 2012 ha sceneggiato “Cesare deve morire” dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Orso d’oro alla 62a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, candidato italiano agli Oscar 2012). Anche in quell’occasione i protagonisti erano i reclusi, impegnati a mettere in scena Giulio Cesare di William Shakespeare. L’evocativa riuscita di “Viaggio in Italia” è anche merito dell’importante lavoro di Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale, e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, diretto da Francesco Basentini. Nel docu-film le carceri si sono denudate e hanno mostrato anche i loro difetti, le loro imperfezioni, come ha notato l’esponente del Partito Radicale, Rita Bernardini, presente all’anteprima: “Bravi i giudici e bravi i direttori degli istituti di pena che non hanno nascosto gli angoli bui: inquietante ed evocativo quell’asinello a dondolo rovinato e impolverato scovato in un sotterraneo di un carcere, credo a San Vittore”. E proprio nel carcere milanese la vice presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha fatto una tappa del viaggio: “La vita in carcere non è esilio, siete - rivolta ai detenuti - parte della vita della Repubblica”. Tante ancora sarebbero le emozioni da raccontare, come quella suscitata dalla commozione di una giudice nel ricevere da una detenuta la domanda “noi non possiamo che lasciarle le nostre storie disperate, Lei cosa porterà via da questo incontro?”. Ogni volto dei reclusi è una storia di errori ma di rinascita, che si concretizza nell’articolo 27 comma 3 della Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E allora la Carta diventa lo scudo contro gli abusi del potere nei confronti delle persone più fragili: e chi sono i più fragili se non i minori ristretti? Proprio loro saranno i protagonisti del finale del documentario, seguito da un lunghissimo applauso della platea. Non vi sveliamo altro, vi auguriamo solo buona visione. Il film choc sulle carceri italiane dove la giudice della Consulta abbraccia la detenuta di Franca Giansoldati Il Messaggero, 7 giugno 2019 La giudice della Corte costituzionale, Daria De Pretis, nel carcere femminile di Lecce si trova di fronte ad una detenuta che a bruciapelo le chiede: “Cosa si porterà a casa dopo questa giornata trascorsa qui dentro con noi detenute?”. “Tornerò indietro portandomi dentro le vostre facce”. Ma non riesce a continuare e si ferma. È commossa e le lacrime si affacciano. La detenuta posa il microfono e va ad abbracciare una donna come lei, e in quel momento due mondi ermeticamente chiusi - da una parte quello dei detenuti e dall’altra quello dell’Alta Corte, una istituzione percepita come sideralmente lontana dalla gente - all’improvviso si avvicinano, si uniscono, si parlano. Ogni contatto umano lascia sempre una traccia e, certamente, quelli che hanno avuto i giudici della Consulta in questi ultimi mesi in un inedito, quanto straordinario viaggio nelle carceri italiane, hanno finito per colmare un fossato. Le loro decisioni sulle leggi hanno riflessi sulla vita delle persone in carne ed ossa, sono reali, tangibili, si possono cedere. Marassi, Rebibbia, San Vittore, Nisida, Lecce, Terni, sono alcuni degli istituti che hanno aperto le porte alle telecamere, a incontri impensabili fino a qualche tempo fa, diventando un docu-film che è stato proiettato in anteprima a Roma, ieri sera, alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il filmato è stato prodotto dalla Rai, sotto la regia di Fabio Cavalli, e verrà mandato in onda in seconda serata sulla Rai domenica sera. La parte che colpisce di più è forse quella delle detenute. Sul totale dei carcerati solo il 5 per cento sono donne, evidentemente sono meno propense al crimine. Ma colpisce come un pugno nello stomaco anche il loro essere mamme e questo fa sì che affiorino quesiti irrisolti. Può una mamma che allatta, colpita da provvedimento cautelare, restare in cella? Può una mamma detenuta vedersi negare il permesso per restare ad accudire un figlio handicappato o malato di tumore? Durante il viaggio nei penitenziari i giudici dell’Alta Corte non sempre hanno avuto risposte. Spesso è stato il silenzio a fare da sfondo a situazioni umanamente incomprensibili. Tra i detenuti c’è chi dice di avere commesso reati per non avere trovato un lavoro, chi dice che se mai dovesse uscire dalla cella è perduto, perché non ha più nessuno, chi piange perché fuori ha una figlia malata. L’impatto mediatico del film è fortissimo e fa toccare con mano cosa significa la speranza oltre i muri e le sbarre. Un elemento che, dicono i giudici, esiste in ogni parola della Costituzione fatta per proteggere i più deboli, ma che purtroppo, aggiunge il giudice Amato, per un pezzo è rimasta inattuata. Eppure dovrebbe essere compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli e fare da scudo a questa umanità che vede solo il buio davanti. Ci sono anche una mamma e una figlia assieme, nello stesso carcere, ed è un’altra delle tante storie di marginalità, ingabbiate dal destino, prima ancora che dalle sbarre. Un ragazzino alla giudice Marta Cartabia, urla non è vero che siamo tutti uguali davanti alla legge. Un altro che non tutti gli avvocati sono uguali. L’uguaglianza, la libertà, l’umanità che manca, la distanza delle istituzioni che si misura in anni luce. E alla fine i giudici che diventano persone e dal quel film si capisce che l’Alta Corte è qualcosa che vigila in silenzio sulla vita di tutti. Per la cronaca: quel docu-film è stato reso possibile dall’idea e dalla forza visionaria di una donna, Donatella Stasio, responsabile delle relazioni esterne alla Consulta. Il sovraffollamento reale è del 129%: un’emergenza riconosciuta da tutti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2019 La capienza regolamentare effettiva è di 46.824 posti. Per il Ministro Bonafede va affrontato “puntando all’incremento dei posti detentivi, combinato con un’accorta politica di espulsione degli stranieri”. Il sovraffollamento carcerario non accenna a diminuire. Secondo i dati del Dap pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, al 31 maggio di quest’anno risultano presenti 60.472 detenuti su una capienza regolamentare di 50.528 posti. Quindi risulterebbe una presenza di 9.944 reclusi in più. Ma, grazie all’operazione trasparenza del ministero e quindi l’aggiornamento telematico delle schede di ogni singolo detenuto, Rita Bernardini del Partito Radicale ha potuto analizzare i dati delle celle inagibili e quindi non utilizzate, estrapolando quindi un dato importante: dalla capienza regolamentare ha sottratto i 3.704 posti non disponibili. Cosa vuol dire? La capienza regolamentare effettiva è di 46.824 posti, quindi abbiamo, di fatto, un sovraffollamento del 129 percento. Un dato che ci riporta alla vera dimensione del problema e quindi dell’effettiva emergenza sovraffollamento, criticità non nascosta dal ministro Bonafede in risposta all’interrogazione parlamentare presentata dal deputato del Pd Alfredo Bazoli. Il sovraffollamento carcerario, ha risposto il guardasigilli, va affrontato “puntando all’incremento dei posti detentivi, combinato con un’accorta politica di espulsione a favore dei paesi di origine dei detenuti stranieri anziché con i provvedimenti svuota-carcere. In questo binario si incanala il progetto di edilizia penitenziaria del governo attraverso il decreto semplificazione che ha conferito al Dipartimento amministrazione penitenziaria la possibilità di individuare immobili nella disponibilità dello Stato per riconvertirli in strutture carcerarie. È stata avviata una collaborazione con il ministero della Difesa e il Demanio per reperire caserme da convertire in penitenziari. Ci sono poi molti interventi in atto come il completamento di tre padiglioni da 200 posti ciascuno a Parma, Lecce e Trani, la realizzazione in corso di due padiglioni detentivi da 200 posti presso le carceri di Sulmona e Taranto e interventi di ammodernamento in molte strutture tra cui Poggioreale, Secondigliano, Aversa, Palmi, Augusta, Trapani, Ragusa, Catania Piazza Lanza”. Quindi più carceri, ampliamento di quelle esistenti e rimpatri. Una linea che però si scontra con altre scuole di pensiero, le quali puntano alle pene alternative e garantirle anche per coloro che ne avrebbero diritto, ma non hanno gli strumenti per accedervi. D’altronde, lo stesso consiglio d’Europa ha più volte prodotto dossier e direttive per la promozione delle misure alternative, utili anche per abbassare la recidiva. Basentini (Dap): presto una Circolare su nuova gestione circuiti carcerari gnewsonline.it, 7 giugno 2019 È in fase di ultimazione una Circolare che ricomprenda la nuova gestione dei circuiti penitenziari: lo ha detto ieri in Commissione parlamentare Antimafia il capo del Dap, Francesco Basentini. “Si vuole ridisegnare la parte relativa alla custodia. Fermo restando l’esistenza dei circuiti, si vuole organizzare un nuovo sistema gestionale perché abbiamo problemi e la tenuta della sicurezza è un obiettivo imprescindibile”, ha spiegato. Basentini ha inoltre detto, rispondendo ad alcune domande dei parlamentari, che in regime di 41 bis si trovano 259 detenuti facenti parte del gruppi criminali aderenti alla camorra (5 sono le donne); il dato è maggiore rispetto agli appartamenti a Cosa nostra, che conta 207 uomini e una donna, e anche alla ‘ndrangheta con 198 uomini e tre donne per 201 persone in totale. “Non c’è ovviamente una differenziazione nella applicazione al 41 bis le differenze numeriche sono dovute a diverse consistenze numeriche, la camorra è più facile produttrice di soggetti criminali a livello numerico, purtroppo”, ha affermato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Rispondendo poi ad alcune domande sul sovraffollamento delle carceri, il capo del Dap ha ricordato che tre ex caserme militari verranno adibite a nuove strutture carcerarie: si tratta delle ex caserme di Casal Monferrato, Bagnoli e Bari poi successivamente se ne aggiungerà un’altra a Grosseto. Basentini ha anche reso noto che è stata ultimata l’installazione di computer per aggiungere colloqui con Skype a quelli già in precedenza previsti e rendere così più agevole per i detenuti mantenere rapporti con i familiari. L’Unione europea affronta la sfida della lotta alla radicalizzazione nelle carceri di Angelo Visci eunews.it, 7 giugno 2019 La lotta contro il terrorismo è una priorità assoluta dell’Unione europea e prevenire la radicalizzazione in tutte le sue forme è un urgenza per gli Stati Membri. Così, dopo che le conclusioni della relazione della commissione speciale sul terrorismo del Parlamento Ue hanno sottolineato la necessità di affrontare la sfida crescente della radicalizzazione nelle carceri e di sviluppare e attuare misure più efficaci in questo settore, il Consiglio europeo riconosce il rischio potenziale per i cittadini dell’Unione derivante da atti terroristici ispirati, organizzati, facilitati o commessi da autori di reati di terrorismo ed estremismo violento. A maggior ragione se questi individui si sono radicalizzati nel corso della loro permanenza in carcere. Mettendo in luce la necessità di un costante miglioramento della cooperazione e delle azioni sia a livello nazionale che comunitario, lo sviluppo di strumenti più idonei contro la radicalizzazione di criminali in reclusione e sulla la gestione del numero di terroristi ed estremisti violenti dopo la scarcerazione vengono adottati nel Progetto di conclusioni del Consiglio. In effetti tenendo conto del rischio rappresentato dal numero crescente di autori di reati di terrorismo ed estremismo dopo una permanenza in carcere, delle politiche nazionali in materia di coordinamento e partenariato faciliterebbero il tempestivo rilevamento della radicalizzazione e del reclutamento nelle carceri con il seguente sviluppo di misure adeguate, tra cui la rapidità di scambio di informazioni, istruzioni e strategie tramite il coinvolgimento e la partecipazione dipartimenti di sicurezza e agenzie. Il ricorso a personale specializzato per monitorare il comportamento e le affiliazione dei detenuti si è mostrato un metodo efficiente per individuare le fonti di radicalizzazione e contrastarle. Tali unità saranno responsabili della lotta all’estremismo e alla diffusione di criminali radicalizzati nelle prigioni tramite l’ identificazione, deradicalizzazione, disimpegno e reinserimento sociale degli individui. Programmi di formazione generale per il personale penitenziario e di sorveglianza, soprattutto nella fase iniziale di formazione, nelle prigioni in cui sono detenute persone con un passato di terrorismo o di radicalizzazione. Questo mirerebbe a migliorare la comprensione, da parte del personale, dell’estremismo violento, dei fenomeni di radicalizzazione e delle ideologie estremiste, tra cui la capacità di riconoscere le prime avvisaglie di comportamento radicalizzato. Inoltre con l’attuazione di un particolare regime detentivo applicabile alle persone condannate per reati terroristici e l’introduzione di misure speciali di sicurezza generali o adattate ai singoli detenuti, si prospettano delle soluzioni alternative per la dispersione degli elementi radicalizzati tra la popolazione carceraria. Ciò favorirebbe la riduzione dei rischi di recidività, anche tramite programmi di riabilitazione e sostegno psicologico, con corsi di formazione e istruzione identificati come elementi chiave per la riuscita di un reinserimento professionale e sociale dopo il rilascio di persone che potrebbero essersi radicalizzate durante la detenzione. A tali conclusioni, si aggiunge l’invito della Commissione a portare avanti uno scambio informativo, su base bilaterale o multilaterale, tra gli Stati membri dell’UE riguardo ai detenuti radicalizzati, bisognerebbe rafforzare lo scambio di informazioni e sostenere il lavoro di Paesi terzi e di partner vicini ai confini europei. Bonafede da Mattarella: “Riformare il Csm” di Adriana Pollice Il Manifesto, 7 giugno 2019 Caso Palamara. Allarme dei Giuristi democratici: magistratura sotto attacco da parte del governo. “Tutti dobbiamo cominciare a lavorare a una riforma del Csm, del resto era scritto nel contratto di governo. Ci vogliono criteri obiettivi che premino il merito”, è la posizione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, in merito al caso Palamara che sta minando il Consiglio superiore della magistratura. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, per una volta concorda con il collega pentastellato: “È urgente una riforma dei criteri di nomina ed elezione del Csm e la riforma dell’ordinamento giudiziario”. Bonafede in serata è salito al Quirinale per un incontro con il presidente Sergio Mattarella in cui avrebbe appunto presentato le proposte di riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il pm del tribunale di Roma, Luca Palamara, accusato dalla procura di Perugia di corruzione, ha già sostenuto due interrogatori. Oggi i suoi avvocati depositeranno una memoria difensiva di circa 70 pagine con le ricevute relative ad acquisti, viaggi e la ristrutturazione della casa. Dovrebbero scagionarlo dal sospetto di essere stato corrotto dal lobbista Fabrizio Centofanti per favorire gli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore. Palamara deve rispondere anche del tentativo, ipotizzato dai pm umbri, di condizionare le nomine ai vertici delle procure di Roma, Perugia, Brescia e Gela attraverso una cordata di magistrati con l’avallo dei parlamentari del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri. L’inchiesta umbra potrebbe influenzare la riforma del Csm. Ieri i Giuristi democratici hanno dato l’allarme: “Lo scandalo rischia di rendere negativo, agli occhi dei cittadini, il ruolo della magistratura in un momento in cui la stessa magistratura è sotto attacco da parte del governo, che spinge per realizzare la separazione delle carriere e per introdurre criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti, imposte dall’esecutivo, mettendo in discussione il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Oggetto dell’analisi anche l’iniziativa del Viminale contro i giudici che hanno pronunciato sentenze favorevoli all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo: “Quello del ministro è un intervento di inedita e inaudita gravità. Il tentativo esplicito è quello di colpire magistrati sgraditi al Viminale mediante un’opera di dossieraggio”. Il risultato, secondo i Giuristi democratici, sarebbe “portare il pm sotto il controllo della maggioranza di governo e porrebbe in grave crisi l’autonomia della magistratura”. Cristina Ornano, segretaria di Area (la corrente dei magistrati progressisti) avverte: “Il tema non è solo la corruzione. Il tema è soprattutto quello di un tentativo di etero-direzione della giustizia da parte di una lobby occulta. Un brigare per interessi personali alle spalle della democrazia”. Per concludere: “Siamo contrari alla proposta di riforma costituzionale del Csm (che prevede la separazione delle carriere, un doppio autogoverno, la diminuzione del numero dei togati) e all’introduzione del sorteggio. Si tratta di progetti che vogliono gerarchizzare la magistratura, dunque renderla più controllabile dall’esterno”. Csm, parla Ermini: “No al sorteggio. Gli autosospesi siano responsabili” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 giugno 2019 David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. “Eletto con un patto? Ho dimostrato autonomia”. “Salvini sui magistrati? Non si può avere nei loro confronti un pregiudizio di malafede. Neanche da parte di un ministro”. “Abbiamo dimostrato la capacità di evitare la paralisi dell’istituzione e di andare avanti nonostante i gravi fatti venuti alla luce in questi giorni, sotto la guida e le indicazioni del capo dello Stato”, spiega David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura finito nell’occhio del ciclone dopo l’inchiesta giudiziaria che ha svelato gli accordi sottobanco tra magistrati e politici sulle nomine dei vertici delle Procure, che ha portato alle dimissioni di un componente e all’autosospensione di altri quattro. Resta un Csm azzoppato, almeno finché non si risolve la vicenda dei consiglieri autosospesi, dei quali l’Associazione nazionale magistrati chiede le dimissioni... “Questo è un punto che va chiarito e definito in tempi brevissimi, con senso di responsabilità da parte di tutti oltre che nel rispetto delle garanzie per le persone coinvolte. In ogni caso il Csm è già in grado di continuare a funzionare regolarmente”. In che consiste la “ferita profonda” di cui ha parlato nel plenum straordinario? “Non posso entrare nello specifico di atti tuttora coperti dal segreto, ma resta il giudizio di estrema gravità su ciò di cui si è venuti a conoscenza. Non riferito agli scambi di opinioni, bensì ai ruoli di chi è stato coinvolto in certe situazioni. Non si può pensare di ipotizzare e pianificare strategie o comportamenti, in vista di decisioni che devono essere prese qui dentro, al di fuori del Consiglio e con persone che non ne fanno parte. Quando si viene eletti al Csm, da parte dei giudici o del Parlamento, si diventa responsabili di ciò che si fa nei confronti dell’istituzione e del presidente della Repubblica che la guida, non di chi ci ha votato”. Però anche la sua elezione a vicepresidente è stata frutto di un accordo tra le correnti coinvolte in questa vicenda, Magistratura indipendente e Unità per la costituzione, con l’avallo del Pd e in particolare del deputato Cosimo Ferri. Non si sente un po’ in imbarazzo, per questo? “Ho interpretato la mia elezione come un momento di equilibrio tra poteri, proprio perché in Parlamento non facevo parte dell’attuale maggioranza. Ma mi sono dimesso dal Pd ancor prima della nomina a vicepresidente, il giorno stesso in cui sono entrato in questo palazzo. Da allora ho tenuto lo stesso atteggiamento nei confronti di tutti, senza guardare a chi mi ha votato e chi no. E sono grato a quei consiglieri che, pur non avendomi votato, hanno riconosciuto la mia correttezza, nel plenum dell’altro giorno”. Pare che, nei colloqui intercettati, sia i consiglieri presenti che il suo ex collega Luca Lotti si lamentassero dei suoi comportamenti... “Non voglio parlare di quello che altri dicevano. Posso dire che se qualcuno pensava di poter influenzare la mia azione da vicepresidente s’è sbagliato. L’unica guida che riconosco è quella del capo dello Stato, nell’interesse dell’istituzione, senza alcun tipo di condizionamento”. Avete parlato di riscatto e di nuove pratiche, ma come si traduce in concreto? “Con comportamenti lineari e trasparenti. Sulle nomine dei capi degli uffici, ad esempio, si dovrà seguire il criterio cronologico, dando la precedenza a quelli scoperti da più tempo, in modo da evitare le nomine “a pacchetto” che possono celare accordi sottobanco, come li chiama lei. E per le sedi più importanti approfondendo ogni aspetto, come bisognava fare per la Procura di Roma e come si dovrà fare per quella di Torino, con l’audizione dei candidati. Non può più accadere che una simile richiesta venga bocciata”. Pure lei denuncia la degenerazione del correntismo? “Le correnti in magistratura ci sono sempre state, e anche qui dentro ho imparato ad apprezzare il valore delle diversità di vedute, tra i diversi gruppi, su come si deve interpretare il funzionamento del servizio giustizia. Ma quando si fanno delle scelte, che riguardino un incarico da affidare o un giudizio da dare, il criterio non può essere l’appartenenza. Bisogna guardare al merito, alla professionalità, e soprattutto utilizzare sempre gli stessi criteri. La discrezionalità delle scelte è fisiologica, ma dev’essere basata su competenze e meriti, non su altro. È così che si fanno gli interessi della magistratura e dei cittadini, che nella magistratura devono continuare ad avere fiducia”. Anche dopo quello che è venuto fuori? “Questa è una nostra responsabilità, e confido che sapremo esercitarla da subito. Per questo ribadisco che anche dopo quello che è accaduto il Csm è fin d’ora in grado di proseguire il proprio lavoro. Che peraltro non si limita alle nomine”. Si torna a discutere di riforma del Csm, a partire dal sistema elettorale... “È una competenza del Parlamento su cui non mi pronuncio. Mi limito a confermare la mia contrarietà all’ipotesi del sorteggio; perché sarebbe incostituzionale, e per l’irrazionalità nella selezione dei candidati”. Nel frattempo il ministro dell’Interno Salvini ha ripreso ad attaccare i giudici che, dice lui, fanno politica attraverso le sentenze e disapplicano le leggi non gradite... “I giudici sono cittadini come gli altri e come gli altri hanno le proprie opinioni, ma quando prendono una decisione lo fanno sulla base delle leggi applicate con competenza, equilibrio, buon senso e terzietà. È questo che ne legittima i provvedimenti. Se sbagliano ci sono le impugnazioni e i ricorsi, ma non si può avere nei loro confronti un pregiudizio di malafede. Neanche da parte di un ministro”. “Adesso anche i giudici capiscono cos’è un processo mediatico” di Stefano Zurlo Il Giornale, 7 giugno 2019 L’ex magistrato Nordio: “È un bene che ora siano vittime di indagini invasive spesso usate con una certa disinvoltura. È la nemesi”. È a un dibattito a Pordenone, ma Carlo Nordio non si sottrae al tema del giorno: “Siamo alla nemesi storica”. Si aspettava questo sconquasso dentro le solenni stanze del Csm? “È vent’anni che scrivo queste cose e lo dico senza alcun compiacimento”. Politica e giustizia vanno a braccetto? “Adesso tutti si scandalizzano per le riunioni carbonare fra i consiglieri e i politici, ma da sempre la politica la fa da padrona a Palazzo dei Marescialli e nell’Associazione nazionale magistrati. Basta riflettere sulle correnti che sono costruite a imitazione dei partiti, con una destra, un centro e una sinistra”. Sì, ma la legge prevede che un po’ di politica ci possa e ci debba essere attraverso i consiglieri laici. “Certo, ma i laici, che sono una minoranza, quando arrivano a Palazzo dei Marescialli dovrebbero interrompere ogni rapporto con i partiti. Solo che non va così”. Le nomine sono davvero pilotate? “Certo. Se non hai la sponsorizzazione di questa o quella corrente non puoi aspirare a guidare uffici importanti. Le correnti fanno e disfano accordi, le correnti barattano i posti”. A danno del talento e delle capacità delle singole toghe? “Non è detto. A volte vengono scelti personaggi di primo piano, ma il criterio è quasi sempre quello della lottizzazione. E la riprova di questa consuetudine è la valanga di ricorsi che intasano Tar e Consiglio di Stato. E che spesso si concludono con la vittoria dei ricorrenti”. L’inchiesta di Perugia che cosa aggiunge a questo quadro? “I fatti ipotizzati, se confermati, sarebbero gravissimi. Per questo sarebbe stato bene chiudere le indagini prima di divulgare episodi di cui non siamo ancora certi, ma il mondo va cosi. Per i comuni mortali e ora anche per le toghe. Conosciamo il contenuto delle indagini a pezzi e bocconi direttamente dai giornali, con il rischio di errori ed errate valutazioni”. Siamo alla nemesi storica. “Appunto. La politica ha sempre strumentalizzato la giustizia: bastava un avviso di garanzia per essere messi fuorigioco. Ora lo stesso meccanismo dilaga dentro la magistratura e il Csm: la giustizia strumentalizza la giustizia”. Fra l’altro si procede sulla base di intercettazioni che sono scivolose per definizione. “Certo. Quelle di cui parliamo in questi giorni sono parziali, incomplete, non sono state trascritte con i sacri crismi, ma a questo punto è bene che i magistrati assaggino sulla loro pelle queste tecniche investigative molto, molto invasive, utilizzate in tutti questi anni con una certa disinvoltura”. In questo caso si è andati oltre con il trojan inserito nel telefonino di Luca Palamara. “Con il trojan ascolti tutto quello che viene detto al telefono e vicino al telefono, abolendo la vecchia distinzione fra intercettazioni telefoniche e ambientali. Questo strumento mi lascia perplesso ma il decreto spazza-corrotti ha esteso la sua applicabilità anche ai reati di corruzione e non solo di mafia. Solo che la nuova disciplina entra in vigore il 1 luglio. Per questo io temo che tutti questi atti siano nulli”. Lei ha sempre attaccato la contiguità fra politica e giustizia. Non è cambiato niente dai tempi di Mani pulite? “Pensi che una ventina d’anni fa fui convocato dai probiviri dell’Anm allora guidata da Elena Paciotti proprio per aver detto questa banale verità. Mi dissero che li avevo offesi con le mie parole, io mandai a quel paese l’Anm e di quella storia non si è saputo più nulla. Ma la patologia rimane: pensi a quante toghe sono entrate in Parlamento a metà o a fine carriera. Insomma, non siamo ingenui: le candidature non si costruiscono in 24 ore, evidentemente ci sono rapporti consolidati nel tempo”. Come si esce da questa situazione? “Io la mia proposta l’ho formulata da tempo, almeno per il Csm: questo stato di cose si supera con il sorteggio”. Con i dadi? “Con la sorte, come si fa per il Tribunale dei ministri e per i giudici popolari che danno anche l’ergastolo. Si prepara una lista di personalità specchiate e di prestigio: giudici di Cassazione, avvocati di lunga esperienza, professori universitari e da quel cesto si pescano i consiglieri. È l’unico modo, a mio parere, per spezzare il legame fra eletti e elettori. Una vicinanza che stride. Ancora di più nella formazione della Sezione disciplinare del Csm, insomma il tribunale della magistratura”. Che cosa non va nella Disciplinare? “Il paradosso, chiamiamolo così, è clamoroso: i giudici vengono scelti dentro il Csm dai magistrati. Fatte le debite proporzioni è come se l’inquisito eleggesse la corte che dovrà decidere se assolverlo o condannarlo”. Intanto lo scandalo dell’inchiesta di Perugia si allarga. Il Csm assomiglia a una Asl o a una municipalizzata fra incursioni dei politici, nomine, veleni e gossip. Esagerazioni? “Capisco che il popolo guardi con sconcerto ad una realtà che pareva immacolata ed è invece il crocevia di scorribande e scontri fra opposte fazioni. Questo mi addolora ma purtroppo non mi sorprende”. Il Governo dei giudici di Mauro Anetrini L’Opinione, 7 giugno 2019 Metti che, in Italia, ci siano 8mila magistrati circa. A fronte dei pochi indagati, la maggior parte dei loro colleghi lavora in silenzio, lontano dai clamori e dai giochi di potere. Quei “pochi”, tuttavia, al netto delle responsabilità individuali (o di gruppo, per dirla chiaramente), hanno creato una rete di controllo intollerabile in un Paese democratico. Hanno fatto esattamente ciò che, nei convegni pubblici, contestano al mondo politico, diventando essi stessi centro di un potere occulto, sottratto ad ogni controllo e, anzi, capace di condizionare o sostituirsi alla politica. Quando parlavamo di governo dei Giudici, ci riferivamo proprio a questo: ad un sistema e non sporadici episodi. Avanti così non si può andare. Non è possibile che qualcuno possa pensare di controllare il Paese attraverso le nomine dei Procuratori di Roma, Milano e di coloro che, in forza delle regole sulla competenza, vigilano sul loro operato. Qualche cosa bisognerà pur fare, estendendo l’intervento ben oltre (e addirittura indipendentemente da) la separazione delle carriere. Però, non dobbiamo neppure dimenticare gli “altri”, quelli che lavorano in silenzio, il cui operato rischia di essere delegittimato senza motivo. Invertiamo la prospettiva: se davvero vogliamo cambiare le cose, pensiamo ai “buoni”, proteggiamo loro (e noi stessi) e scriviamo regole che impediscano loro di cedere alle tentazioni. Equilibrio e moderazione, non vendetta. Dopo lo scandalo, molti magistrati hanno inteso ribadire la loro incondizionata adesione al principio secondo il quale il Giudice deve essere indipendente, sottolineando la connotazione morale del concetto di indipendenza. Giusto, giustissimo, anzi: sacrosanto. Ma qui non è in discussione l’indipendenza della magistratura. Qui parliamo di un sistema di potere che ha piegato leggi ed istituzioni ad interessi inconfessabili, facendosi scudo anche o soprattutto con l’indipendenza. Strano, vero? Quelli che dovrebbero essere impermeabili agli altri poteri, scelgono di usarli, intimidirli, condizionarli e di costruirci la carriera e le fortune personali. Ad occhio, direi che l’indipendenza non c’entra affatto. Mercanteggiare cariche in nome dell’indipendenza non mi sembra una bella cosa. Mettiamola così: facciamo due o tre ritocchini alle leggi vigenti e allarghiamo un po’ lo spettro dei controlli sull’operato extragiudiziario dei magistrati. L’obbligo di rendiconto sulle amicizie e sui regali ricevuti non mina la vostra indipendenza. In compenso, mette tranquilli noi, che (pensate un po’) siamo costretti dalla legge a fidarci di voi. Finito il tempo dell’ipocrisia. Toghe tra vecchi vizi e giusta riforma di Danilo Paolini Avvenire, 7 giugno 2019 Il re è nudo, finalmente. Nude le correnti togate, nudi i palazzi del potere giudiziario e politico, nudi certi giornali. Ma occorre dire con chiarezza che queste oscene nudità, che adesso tutti vedono in seguito all’inchiesta della procura di Perugia sul sostituto procuratore di Roma Luca Palamara e alle violente ripercussioni che la vicenda sta avendo sul Consiglio superiore della magistratura e sull’Associazione nazionale magistrati, erano ben individuabili in controluce (e talvolta in piena luce) da anni. E solo degli osservatori davvero distratti, o molto ipocriti, possono affermare di non averne mai avuto alcun sentore. Due cose due su questa storia di nomine, correnti, amicizie, regolamenti di conti e cene romane, perciò, vanno messe in fila, perché parlano da sole. Ai distratti, per esempio, si può utilmente rammentare un passaggio di una lettera firmata dall’allora capo dello Stato, e presidente del Csm, Giorgio Napolitano al suo vice a Palazzo dei Marescialli, Michele Vietti. Napolitano lamentava “i prolungati ritardi riferibili anche al trascinarsi di contrasti o tentativi di accordo tra le diverse componenti di rappresentanza della magistratura” nella nomina dei capi di due importantissime procure, Reggio Calabria (il cui vertice era vacante da un anno) e Palermo. Nella lettera, datata febbraio 2013, il presidente ricordava di avere “negli ultimi anni più volte richiamato alla pesante ricaduta” di tali dinamiche correntizie “sul prestigio del Csm”. Più volte, negli ultimi anni. Non ieri. Nel 2014, poi, poco prima di Natale il presidente interviene al Plenum di Palazzo dei Marescialli per bacchettare quei pubblici ministeri che assumono atteggiamenti “impropriamente protagonistici” e per rimandare a un suo precedente discorso in cui spiegava che il Consiglio non deve “farsi condizionare nelle sue scelte da logiche di appartenenza correntizia”. Si potrebbe ancora andare indietro nel tempo e arrivare al furioso scontro del 2008 tra le procure di Salerno e Catanzaro per l’inchiesta “Why not”, che al Csm riportarono tra l’altro in superficie precedenti spaccature correntizie su uno dei magistrati coinvolti. Ma preferiamo ricordare quanto ha detto appena qualche mese fa, a settembre dello scorso anno, l’attuale presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella, ricevendo al Quirinale i membri del Consiglio superiore nuovi e quelli uscenti: ai “laici” ha ricordato che, pur essendo eletti dal Parlamento, “non sono rappresentanti di singoli gruppi politici”; ai togati, invece, che “non possono e non devono assumere le decisioni secondo logiche di pura appartenenza”. Come si vede, in questa breve rassegna ritroviamo tutto ciò che si sta “scoprendo” in questi giorni: le lotte tra correnti per le nomine apicali, i regolamenti di conti tra magistrati anche tramite l’utilizzo di uno strumento a loro assai caro come l’obbligatorietà dell’azione penale, i rapporti “privilegiati” di certe toghe con alcuni media, le amicizie o inimicizie con determinati esponenti politici. Senza generalizzare, ovviamente. Ma il problema esiste ed è noto da tempo. I distratti, così, sono serviti. Quanto agli ipocriti, forse ricorderanno che ai tempi della Prima Repubblica si diceva che la guida della Procura di Roma equivaleva quanto due ministeri. Era una battuta? Fino a un certo punto, forse. Ma la domanda più importante riguarda probabilmente il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, che dopo la riforma del 2002 - con la riduzione del numero dei componenti e l’introduzione del collegio unico nazionale, che non hanno evidentemente risolto i problemi di cui parliamo - non è stato più ritoccato. Ci ha provato nella scorsa legislatura l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando, ma senza successo. Perché? Eppure una buona riforma andrebbe innanzi tutto a vantaggio della stessa magistratura e del suo organo di autogoverno - insieme magari al contenimento della ‘mondanità’ e dell’attivismo extra-giudiziario di alcune (poche) toghe - rendendoli più forti quando denunciano tentativi di delegittimazione o attentati di marca politica, persino con indecenti “liste di proscrizione”, all’autonomia e all’indipendenza sancite dalla Costituzione. Ha detto bene il vicepresidente del Csm Davide Ermini al Plenum straordinario di tre giorni fa: “O sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”. Anche perché qualsiasi diverso atteggiamento avrebbe un insopportabile sapore di vecchio. “Giudici linciati”. Contro le liste chiesto l’intervento del Csm di Marina Della Croce Il Manifesto, 7 giugno 2019 Il presidente della Corte d’Appello di Firenze difende i giudici attaccati da Salvini. Che invece insiste: “Qualcuno fa politica”. Per capire quanto l’attacco sferrato da Matteo Salvini contro i giudici che gli hanno dato torto su sicurezza e migranti abbia poco a che fare con il rispetto delle leggi invocato dal ministro degli Interni e sia invece soprattutto politico, basta ascoltare quanto ha detto ieri la presidente della Corte d’Appello di Firenze, Margherita Cassano: il Viminale, ha spiegato, poteva costituirsi in giudizio nella causa a Firenze del richiedente asilo per la sua iscrizione all’anagrafe, ma non ha esercitato questa facoltà comportando la decadenza. Il risultato è che adesso, dopo gli attacchi del ministro leghista, la giudice Luciana Breggia del tribunale di Firenze, “colpevole” di aver scritto le motivazioni della sentenza che ha fatto infuriare Salvini, per Cassano è vittima di un “linciaggio morale” ed è “esposta per i gravi attacchi subiti a pericolo per la sua incolumità”, vista soprattutto “la risonanza mediatica e l’effetto moltiplicatore della galassia dei social”. Motivo per cui Cassano ha chiesto l’intervento del Consiglio superiore della magistratura a tutela della giudice finita nel mirino. Non è bastata quindi a calmare le acque la parziale marcia indietro fatta due sere fa da Salvini quando, dopo aver passato la giornata ad accusare tre donne giudice di approfittare del loro ruolo per fare politica, a sera in televisione aveva ridimensionato la portata dell’attacco: “Sarei matto se volessi indagare sulle idee dei magistrati”. Poteva essere una mano tesa verso le toghe, un modo per chiudere la vicenda, ma non sarebbe stato nello stile del leghista, Che infatti ieri è tornato all’attacco, seppure con toni solo in apparenza più moderati: “Proprio per rispetto nei confronti del 99 per cento dei giudici che lavorano obiettivamente - ha detto intervenendo su Canale 5 - è doveroso segnalare quei pochissimi che utilizzano la toga per fare politica non applicando le leggi approvate dal parlamento, chi scrive libri, chi va a convegni a favore delle porte aperte per l’immigrazione. È normale che un giudice va ad un convegno che è uno spot per l’immigrazione di massa e poi giudica la politica del ministero dell’Interno?”. Per Salvini un giudice non dovrebbe avere la possibilità di esprimere pubblicamente le sue idee. Una visione che non trova d’accordo la presidente della Corte d’Appello di Firenze Margherita Cassano, che difende invece il “diritto di ogni magistrato, in nome della libertà di manifestazione del pensiero costituzionalmente sancita, di partecipare alle iniziative culturali. È il fondamento di ogni Stato democratico”. A difesa di un ‘altra giudice finita ne mirino del Viminale, in questo caso la presidente della prima sezione civile di Bologna, Matilde Betti, che aveva accolto il ricorso presentato da due richiedenti asilo disponendone l’iscrizione all’anagrafe, è intervenuto il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato convinto “che il magistrato tendenzialmente non possa essere tacciato di avere pregiudizi”. Spiegando poi che “le decisioni, come facciamo noi se non le condividiamo, si impugnano e questo è l’unico mezzo di contestazione rispetto a una decisione ce si ritiene legittimamente sbagliata e non condivisibile o meritevole di censura”. Sulla vicenda interviene anche il consiglio di presidenza di Giustizia e Libertà con una nota allarmata di fronte alla notizia di promuovere indagini sulle opinioni dei magistrati e su eventuali liste di proscrizione. “Ricordiamo al ministro Salvini che l’Italia è uno Stato di diritto - è scritto nel comunicato - in cui vige il principio che anche gli atti del governo sono soggetti al sindacato della magistratura quanto alla loro legittimità. Il ministro Salvini sembra ignorare anche altri principi cardine della dello Stato di diritto, quelli che sanciscono la separazione dei poteri e la loro pari dignità e l’indipendenza della magistratura”. “Pressioni indebite per creare un clima di terrore. Vogliono il giudice-asino” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 7 giugno 2019 Matteo Salvini contesta che una giudice che partecipa a un convegno sull’immigrazione possa poi decidere sul tema. “Evidentemente il ministro predilige il modello del “giudice-asino”, quello che ai convegni non viene invitato”, sostiene con preoccupata ironia Letizio Magliaro, toga del tribunale di Bologna e membro dell’esecutivo nazionale di Magistratura democratica (Md). Dottor Magliaro, il ministro afferma di non avere minacciato nessuno... È in atto un attacco all’indipendenza della magistratura. La nostra indipendenza serve a tutelare chiunque: oggi è chi chiede l’asilo, domani chi chiede tutela sul luogo di lavoro. Ed è proprio per tutelare i diritti delle persone che il giudice è soggetto alla legge e non alla volontà dei politici. La vicenda è gravissima perché autonomia e indipendenza sono attaccate in maniera subdola: non si fa una norma che dice “i giudici devono obbedire ai ministri”, ma si esercita una pressione impropria per creare un clima di timore. In questo clima di timore c’è il rischio che la magistratura voglia omologarsi al potere? La magistratura non esiste, esistono i magistrati. Molti hanno dimostrato di avere le spalle larghe. Però, detto questo, mi lasci fare un’analogia con i cosiddetti “reati di pericolo”: il pericolo può generare un effetto che, se si realizza, è un danno per la collettività. Le parole di Salvini creano un pericolo che magari non si concretizzerà, ma che intanto esiste come tale. Le uscite del ministro cadono proprio nei giorni della crisi del Csm: una coincidenza? Non è una novità che il ministro prenda di mira i magistrati, basti pensare al caso Diciotti. Certo, questo attacco alle tre colleghe avviene in un momento in cui si può fare confusione fra una magistratura sana e una che ha dimostrato di coltivare rapporti non trasparenti con il potere politico. Accostando le due situazioni, ci sono magistrati che si incontrano di nascosto con esponenti politici indagati e magistrati che partecipano a convegni pubblici con avvocati e docenti universitari: sembra che al ministro diano fastidio i secondi. Noi di Md abbiamo sempre detto che autonomia e indipendenza vengono a mancare non quando il giudice, da esperto, esprime le proprie idee e si confronta pubblicamente con altri esperti nei luoghi di dibattito scientifico, ma quando partecipa alla gestione di scelte di potere, non motivate e non motivabili attraverso le norme di legge. I ministri possono criticare le sentenze? Certo. Ma in questo caso sono criticate delle giudici per non essersi adeguate alla volontà del politico. I magistrati non vogliono sostituirsi ai legislatori, semplicemente agiscono con indipendenza di giudizio, interpretando le leggi alla luce della Costituzione. Chiunque voglia criticare i provvedimenti deve confrontarsi nel merito. Per fare le norme bisogna farsi eleggere in parlamento, per interpretarle bisogna studiare tanto e superare un concorso duro e selettivo. Le “colpe” delle sue colleghe sarebbero la partecipazione a convegni e la collaborazione a riviste scientifiche… Per Salvini il giudice migliore è il giudice asino, quello che non viene invitato ai convegni e non scrive articoli. Ma il giudice che vuole la Costituzione è quello che si rapporta a ciò che succede intorno. Le colleghe Betti e Breggia hanno enorme autorevolezza, godono di apprezzamento trasversale. E, tra l’altro, ogni giorno respingono centinaia di domande di asilo perché non sono nei termini di legge. Prima Berlusconi, ora Salvini: è il solito refrain contro le “toghe rosse”? In maniera diversa questa insofferenza si è manifestata anche con i governi di centrosinistra. Che il potere esecutivo entri in conflitto con il potere che deve controllarlo è fisiologico. Non lo è quando si getta discredito sui giudici in quanto tali, perché tale attacco si riverbera poi su tutto il sistema democratico. Cosa avverrà ora? C’è una forte reazione della società civile e questo ci conforta, perché le invasioni di campo sono pericolose per tutti. I consiglieri di Area (il gruppo di cui fa parte Md, ndr) hanno chiesto al Csm l’apertura di una pratica a tutela delle colleghe, auspico che tutto il Consiglio aderisca a questa proposta. Le madri di ‘ndrangheta: “Giudice, salvi i nostri figli, li allontani dalla Calabria” di Maria Lombardi Il Messaggero, 7 giugno 2019 Le mogli dei boss si rivolgono al presidente del tribunale dei minori per accedere al programma di allontanamento. “Quando vedo i miei bambini felici, il mio pensiero va a lei. Ringrazio Dio, di averla messa sulla mia strada”. Lettera a un giudice. La scrive una madre, una delle tante donne di `ndrangheta che hanno scelto per i loro figli un destino diverso. Non più quello segnato dal cognome e dalla famiglia, le faide, la vendetta e il carcere perché così è stato per il padre gli zii e il nonno, e c’è anche da andarne fieri: è la legge del clan. Grazie giudice, perché dopo aver perso il marito non voglio perdere anche mio figlio. “Sono la madre di un ragazzo di 15 anni e uno di 13. Temo che possano finire in carcere o essere ammazzati come mio padre e mio fratello oppure come mio suocero”. La prego, mi aiuti. Lettere così il presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria Roberto Di Bella ne ha ricevute tante. Sempre più donne si rivolgono a lui per andare via dalla Calabria insieme ai figli e ricominciare altrove una vita diversa, senza più spari sangue e silenzio, anche il dolore è una vergogna. Una quarantina di mogli e madri, finora. “Le chiamo le vedove bianche, sono donne con i mariti in carcere per scontare ergastoli o condanne di 30 anni - racconta il giudice - o anche donne i cui mariti sono stati assassinati. Mogli di boss, segregate in casa e prigioniere delle famiglie. Non hanno alcuna possibilità di sottrarsi al controllo dei parenti, restando in Calabria. Sono loro che ci chiedono di essere aiutate ad andar via insieme ai figli. Vengono nei nostri uffici in gran segreto, alcune in lacrime”. Le donne in fuga dalla `ndrangheta e se qualcosa in quei paesi cambierà sarà anche merito loro. Non sono collaboratrici di giustizia - o almeno pochissime lo sono - si dissociano ma senza denunciare i loro familiari. Possono essere aiutate grazie al protocollo d’intesa che “Libera”, l’associazione contro le mafie, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana, ha siglato con il dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, Tribunale per i minorenni, Procura per i minorenni e Procura distrettuale di Reggio Calabria e Procura nazionale antimafia, per assicurare una rete di protezione e di sostegno ai minori e alle madri di famiglie mafiose che cercano un’alternativa. “Liberi di scegliere”, si chiama così il progetto. Un lavoro lungo, cominciato nel 2012. “Negli ultimi 25 anni il tribunale di Reggio Calabria ha processato oltre 100 minori per reati di criminalità organizzata, di cui una cinquantina per omicidi e tentati omicidi. Alcuni coinvolti in processi per sequestri di persona o traffico di droga, altri negli omicidi o nei tentati omicidi delle madri colpevoli di aver tradito i loro mariti chiusi in carcere. Una volta cresciuti questi adolescenti, in qualche caso, sono stati uccisi o sono finiti nel regime penitenziario duro. Per interrompere questa spirale e censurare il modello educativo mafioso, abbiamo applicato questo orientamento: nei casi in cui la famiglia arreca pregiudizio concreto all’integrità emotiva e allo sviluppo del minore, si decide per la decadenza della responsabilità genitoriale. Sia chiaro: non togliamo niente a nessuno, non chiediamo ai ragazzi di rinnegare i genitori ma li tuteliamo. I provvedimenti sono sempre concordati. Adesso anche le donne chiedono di seguire i figli. In queste famiglie c’è una grande sofferenza, finora taciuta”. I minori in alcuni casi vengono affidati ad altri nuclei familiari, più spesso cambiano città insieme alle madri e vengono aiutati e protetti. “Lo consideriamo un Erasmus della legalità, fuori da quel contesto i ragazzi rinascono, non vivono più comprimendo le emozioni e i talenti, nel terrore di tradire la famiglia, si fidanzato e conoscono altri modelli di vita. E non vedono più il carcere come una medaglia da appuntarsi al petto”. “Sono stanca, non voglio che i miei figli restino in Calabria”, una donna già condannata per mafia in attesa della sentenza della Cassazione scrive al giudice. “Se torno in carcere voglio che una famiglia prenda i miei figli”. Il vicepresidente dell’associazione “Libera” Enza Rando ha trovato una famiglia ai ragazzi e difeso la madre. “Quando la donna ha ottenuto una misura alternativa, ha raggiunto i figli e si è creata una famiglia allargata. Per portare avanti questo progetto servirebbero una copertura normativa e risorse finanziare stabili. Una legge nazionale, come un piano Marshall contro la ‘ndrangheta”. Queste storie hanno ispirato anche una fiction tv, “Liberi di scegliere”, trasmessa questo inverno. “Caro giudice, la ringrazio per l’opportunità che sta dando a miei figli. L’avessi avuta anche io quando ero un ragazzino, mi sarei risparmiato questa pena infinita”. Lettera di un papà dal carcere. Alle Sezioni unite il nodo delle mafie attive fuori dal territorio tradizionale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2019 Alle Sezioni unite la decisione sulla possibilità di contestazione dell’associazione mafiosa anche all’organizzazione criminale attiva in aree non tradizionali. A rinviare la questione, che riguarda una propaggine svizzera di una ‘ndrina calabrese, è stata l’ordinanza n. 15768 della Prima sezione penale. Il nodo da sciogliere, sul quale, ad avviso dell’ordinanza, si è andato delineando un contrasto interpretativo è soprattutto quella della necessità, nell’associazione mafiosa, della forza di intimidazione e delle successive condizioni di assoggettamento e omertà. In altre parole, a dovere essere decisa dalla Sezioni unite è la configurabilità del delitto di associazione mafiosa rispetto a gruppi criminali collocati in un altro contesto territoriale, caratterizzati però da struttura organizzativa, rituali di affiliazione e regole interne mutuati dalla “casa madre” di riferimento. Senza però che sia stata in qualche modo espressa, fuori dal territorio di origine, la forza intimidatrice tipica del vincolo associativo, e neppure manifestate, di conseguenza, le condizioni assoggettamento ed omertà nella comunità di riferimento. Secondo un primo orientamento interpretativo, il metodo mafioso deve essere accertato con puntualità sul piano probatorio: non è cioè sufficiente il collegamento con la “casa madre” e l’averne recepito strutture e regole, serve invece l’accertamento sul territorio della capacità di intimidazione sul territorio nel quale l’organizzazione si trova a operare. Insomma, la forza intimidatrice deve essere effettiva e riscontrabile, non solo potenziale. Per l’altra linea di interpretazione, meno restrittiva, il reato previsto dall’articolo 416-bis del Codice penale può essere contestato anche se sono assenti sia la verifica di reati-fine sia la concreta esteriorizzazione della forza intimidatrice. “qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” di riferimento ed il modulo organizzativo (distinzioni di ruolo, rituali di affiliazioni, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere eccetera) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando così presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico”. È cioè il marchio di origine a dovere essere ritenuto determinante, evitando qualsiasi altra prova, perché proprio il sistema mafioso rappresenta essenza della ‘ndrangheta. Calabria: Centri antiviolenza e Case rifugio a rischio sopravvivenza ildispaccio.it, 7 giugno 2019 Appello dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere. Si è tenuta in Consiglio regionale la conferenza stampa di presentazione del lavoro svolto dall’osservatorio regionale sulla violenza di genere, che ha presentato la relazione sul primo anno di attività. Hanno relazionato, dopo il saluto di Giampaolo Latella, portavoce del Presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto, Mario Nasone coordinatore, Giovanna Cusumano vice coordinatore e Laura Amodeo delegata alla formazione. Gli stessi hanno ricordato che nella statistica dei femminicidi la calabria continua ad essere ai primi posti e non a caso la conferenza stampa si è svolta all’interno della stanza della memoria che ha già raccolto cinquanta storie di femminicidio che sono stati consumati nella nostra regione. I referenti dell’osservatorio hanno tracciato un bilancio del lavoro svolto che ha avuto come priorità l’avvio di un lavoro di monitoraggio che ha trovato la piena collaborazione delle procure generali di Reggio e Catanzaro, e delle questure, con il prezioso supporto dell’Unical, dell’Istat, dell’Udi e della rete Dire dei centri anti violenza e che permetterà nel mese di Ottobre la presentazione del primo rapporto sulla violenza di genere in Calabria. Accanto a questo un ‘attività di sensibilizzazione, di formazione, di collegamento che ha permesso all’osservatorio di iniziare a diventare una vera cabina di regia per tutte le realtà che a vario titolo si occupano del fenomeno della violenza, per calibrare meglio le azioni di prevenzione e contrasto nei vari territori calabresi non tutti coperti adeguatamente da servizi di ascolto e di presa in carico (in particolare la Locride e la Piana di Gioia Tauro). Dall’esperienza di questo primo anno i relatori hanno evidenziato come questa problematica continua ad essere sommersa. Anche in Calabria come nel resto del paese 8 donne su 10 che subiscono violenza continuano a non denunciare. Un fatto positivo da segnalare è che ultimamente sta crescendo il numero delle donne che si rivolgono ai centri anti violenza o alle forze dell’ordine a seguito di aggressioni, maltrattamenti e varie forme soprattutto di violenza domestica. Iniziative come il progetto Liana della Questura di Reggio, di una linea dedicata di ascolto e di pronto intervento, l’aumento dei provvedimenti di ammonimento dei maltrattanti, stanno producendo i primi riscontri positivi e stanno avvicinando alle istituzioni le vittime che iniziano così ad avere maggiore fiducia Un lavoro prezioso ma insufficiente che in atto poggia quasi esclusivamente sulle spalle delle forze dell’ordine e dei centri anti violenza.. Per i rappresentanti dell’osservatorio la gravità del fenomeno richiede investimenti e risorse adeguate In particolare appare poco sostenuta la rete dei centri anti violenza e delle case rifugio in Calabria senza le quali le donne non avrebbero riferimenti e protezione. L’osservatorio fa proprio il grido d’aiuto che viene da questi vero e propri presidi di legalità che oggi non possono contare su finanziamenti adeguati e certi. Basti pensare che ogni centro riceve appena 20.000 euro di finanziamento annuale, somma che non permette di coprire i costi nemmeno per garantire i requisiti strutturali e di personale specializzato che la regione richiede per autorizzare il funzionamento. Per questi motivi l’osservatorio ha chiesto alla terza commissione consiliare di approvare il progetto di legge 285/2017 ed in particolare proposto il rafforzamento della rete dei centri anti violenza attivandoli in tutti gli ambiti territoriali inter-comunali e garantendo loro accreditamento e finanziamenti stabili e l’aumento della case rifugio (in atto solo due autorizzate). Ancora misure per garantire con tempestività sostegno alloggiativo ed economico alle donne che denunciano e a quelle che escono dalla case di accoglienza per dare loro autonomia. L’osservatorio nell’audizione avuta nel mese di dicembre scorso ha auspicato un incremento consistente degli stanziamenti attraverso un conseguenziale aumento del fondo regionale per le politiche sociali e la previsione di un capitolo di bilancio dove fare confluire tutti i fondi regionali e nazionali. In particolare è stata rilanciata la proposta emersa dalla conferenza di utilizzare in modo consistente i fondi comunitari attraverso un piano regionale organico di prevenzione e di contrasto al fenomeno finora sottovalutato della violenza alle donne. Per Giovanna Cusumano e Laura Amodeo un contributo importante sul piano della prevenzione l’osservatorio lo potrà svolgere attraverso l’esperienza della stanza della memoria delle vittime di femminicidio in collegamento con le scuole calabresi che attraverso una intesa che si sta perfezionando con l’ufficio scolastico regionale permetterà agli studenti calabresi di conoscere e approfondire le storie delle donne vittime di femminicidio anche attraverso l’intitolazione di aule o altri spazi scolastici con il supporto formativo che l’osservatorio garantirà. In conclusione il coordinatore Mario Nasone ha sottolineato come l’Osservatorio si è rilevato uno strumento importante per la lettura del fenomeno in Calabria a servizio del Consiglio Regionale. Ha funzionato grazie all’attività di volontariato dei suoi componenti (assenza totale anche di rimborsi spese per viaggi), una scelta giusta, ma l’auspicio è quello di disporre di risorse per potere realizzare il piano di lavoro che è stato presentato all’ufficio di presidenza importante per il raggiungimento degli obiettivi istituzionali previsti dalla legge 38/2016 che lo ha istituito. Palermo: reinserimento dei detenuti, la città diventa riferimento internazionale Quotidiano di Sicilia, 7 giugno 2019 Il sindaco Orlando: “Visione di comunità motivo dominante della nostra Amministrazione”. Una delegazione del Governo messicano e dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime - Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine) è stata accolta in città per conoscere l’esperienza palermitana finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti. Tra le tappe della delegazione, accompagnata dal sindaco Leoluca Orlando, c’è stata la visita al cantiere di diserbo e cura del verde nella salita Bonanno a Monte Pellegrino, realizzata dalla della popolazione carceraria della casa circondariale dell’Ucciardone. “Un’esperienza - ha spiegato il primo cittadino - che nasce da un rapporto formale, organico della città di Palermo, la Direzione penitenziaria e il ministero della Giustizia e con l’autorizzazione del Giudice di sorveglianza. Una procedura assolutamente istituzionale e prevista dalla vigente normativa, che sta dentro la funzione rieducativa della pena e l’esigenza di diminuire la penosità della detenzione, con l’avvio di percorsi di reinserimento sociale dei detenuti”. Successivamente la delegazione si è spostata a Palazzo Butera dove, nel corso di una conferenza stampa, è stata illustrata un’altra innovativa forma di impegno dei detenuti per lo sviluppo, anche artistico, della città. “Questa iniziativa - ha sottolineato il sindaco - ha suscitato l’interesse delle Nazioni unite e del Governo del Messico e della Polizia penitenziaria messicana, che vogliono trasferirne l’esempio nella loro realtà”. “Credo - ha aggiunto il primo cittadino - che sia l’ulteriore conferma di una visione fuori dalla logica degli slogan e che si esplica con azioni concrete: il teatro e la produzione di pasta all’interno del carcere dell’Ucciardone; le attività lavorative affidate ai detenuti, insieme con l’Amministrazione comunale, nelle strade, nelle vie e nei parchi; la cura del carro e della statua di Santa Rosalia e, ulteriore passo avanti, la possibilità per i detenuti di apprendere arti e mestieri legati al restauro in una sede privata e prestigiosa come Palazzo Butera”. “Per noi - ha spiegato ancora Orlando - i detenuti devono essere soggetti al Diritto e quindi devono scontare la pena, ma sono anche soggetti di diritti in quanto esseri umani. Questa visione, io sono persona, noi siamo comunità, che costituisce il motivo dominante della nostra Amministrazione comunale e, oggi dell’intera città”. “È l’ennesima conferma - ha concluso il primo cittadino - di Palermo aperta e attrattiva, non soltanto per i turisti, non soltanto per i migranti, ma anche per coloro che vogliono migliorare la qualità della vita dei propri rispettivi Paesi”. Nuoro: l’ex Garante dei detenuti “il Fine Pena Mai deve essere cancellato” di Silvia Sanna La Nuova Sardegna, 7 giugno 2019 Gianfranco Oppo conobbe l’arzanese nel carcere nuorese di Badu e Carros: “Era pentito e voleva dimostrarlo. C’è un episodio indelebile nella sua memoria, quando quel detenuto che aveva seguito con grande attenzione la rappresentazione teatrale, alzò la mano e si rivolse all’attore protagonista sul palco, in sedia a rotelle in seguito a un incidente. “Vorrei donarti le mie gambe - gli disse - a me non servono perché sono un morto che cammina”. Quel detenuto era Mario Trudu, condannato all’ergastolo per sequestro di persona e omicidio, recluso in cella dal 1979: sulla sua cartella la dicitura “fine pena mai”, davanti a sé un orizzonte rigato dalle sbarre. L’attore sul palco capì il senso di quella frase pronunciata con sarcasmo dal detenuto e gli sorrise. Era il 2015, carcere nuorese di Badu e Carros: Mario Trudu era lì di passaggio, una permanenza breve prima di rientrare nel penitenziario di San Gimignano che avrebbe lasciato definitivamente due anni per essere trasferito a Massama, Oristano. A ricordare quell’episodio è Gianfranco Oppo, sino a poco tempo fa garante dei detenuti nel carcere nuorese. “Mi colpirono moltissimo le parole di Mario Trudu - racconta - perché rappresentavano perfettamente la sua condizione di condannato all’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di riassaporare la libertà. Con ironia, offrendo le sue gambe all’attore che ne aveva perso l’uso, Trudu lanciò un grido di dolore sulla sua situazione e offrì a tutti motivo di riflessione”. L’ergastolano di Arzana in una lettera pubblicata ieri sulla Nuova ha rilanciato il tema con toni e parole forti: ha detto che una condanna a morte sarebbe preferibile alla galera a vita, a una morte al rallenti che ti consuma giorno dopo giorno. Trudu ha raccontato di avere chiesto inutilmente di poter essere fucilato in piazza per porre fine all’inesorabile agonia. Anche a Gianfranco Oppo aveva confidato la sua frustrazione di fronte a una sentenza irrevocabile: “Ho avuto dei colloqui con lui durante la permanenza a Badu e Carros e ho esaminato la sua vicenda insieme al garante dei detenuti di San Gimignano che lo conosceva molto bene. Mario Trudu mi confidò di sentirsi impotente perché impossibilitato a dimostrare al mondo di essere cambiato, di avere preso le distanze dalla sua storia criminale. Mi disse di trovarsi ancora in carcere per reati commessi quando era giovane, quando era una persona molto diversa. Mi spiegò di avere affrontato un percorso interiore di redenzione che avrebbe voluto portare all’esterno facendo del bene per gli altri. “Ma nessuno - disse - ha intenzione di concedermi questa possibilità”. Gianfranco Oppo in quelle occasioni provò molta pena per lui perché lo sentì sincero. “Nella mia esperienza ho avuto a che fare con numerosi detenuti condannati all’ergastolo ostativo. E ritengo che si tratti di una pena che va in contraddizione con le finalità rieducative che il carcere si propone di avere. Chi ha sbagliato deve pagare ma deve anche avere l’opportunità di dimostrare il suo ravvedimento. A una giusta condanna dovrebbe seguire il reinserimento nella società. L’ergastolo ostativo cancella tutto questo. È una sentenza di morte ancora più crudele che gli studiosi definiscono “morte bianca”: per il detenuto non esiste un domani diverso, sa che la fine della sua pena coincide solo con la morte, la vita in carcere diventa uno scandire il tempo in attesa del compimento di un destino già scritto. Io credo - dice l’ex garante - che questo non abbia senso. Da tempo mi batto a favore della cancellazione dell’ergastolo ostativo: la condanna deve avere un inizio e una fine, l’Italia deve adeguarsi a quello che succede in altri paesi europei”. Oppo cita come esempio la strage del 2011 nell’isola di Utoya in Norvegia, quando un killer uccise 77 persone, quasi tutti studenti: “È stato condannato a 21 anni, la pena massima prevista. E durante la detenzione potrà affrontare un percorso di rieducazione e reinserimento nella società”. Per questo sarebbe giusto, secondo Gianfranco Oppo, valutare le situazioni caso per caso e capire se da parte del detenuto c’è stato pentimento e presa di distanza dai reati gravissimi commessi. “Il reo deve essere recuperato, è questa la funzione rieducativa della detenzione che un “fine pena mai” svuota di significato. E questo rappresenta un fallimento”. Vibo Valentia: “Liberi di scegliere”, l’associazione di don Ciotti al carcere ilvibonese.it, 7 giugno 2019 Nei giorni scorsi l’incontro tra il sodalizio e i detenuti per riflettere sull’importanza di allontanare i figli da contesti mafiosi e farli crescere senza il fardello di un cognome “pesante”. L’associazione antimafia Libera è tornata al carcere di Vibo Valentia, con una iniziativa, “Liberi di scegliere”, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri. L’iniziativa si sostanzia in un protocollo siglato tra il dipartimento Pari opportunità della presidenza del consiglio, il Tribunale per i minorenni, la Procura distrettuale di Reggio Calabria, la Procura nazionale antimafia e la stessa Libera e con il sostegno dalla Conferenza episcopale italiana. L’appuntamento ha avuto luogo il 31 maggio, grazie alla disponibilità della direttrice della casa circondariale, Angela Marcello, e dagli educatori ed educatrici che vi operano, in continuità con l’incontro tenuto lo scorso anno all’indomani del 21 marzo, Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. “Liberi di scegliere” - scrive in una nota il coordinamento provinciale del sodalizio antimafia - nasce dall’azione rivoluzionaria del magistrato Roberto Di Bella, dal 2011 presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, il quale da ormai più di dieci anni tutela i ragazzi che crescono in contesti mafiosi, dando loro una possibilità di crescita lontano dalle famiglie di ‘ndrangheta proponendo nuovi orizzonti educativi, affettivi e sociali”. “Stesse famiglie da oltre un secolo, stessi cognomi: dopo aver processato i padri negli anni 90, qualche anno più tardi mi sono ritrovato a giudicare i figli”, queste le parole del magistrato, la cui figura è stata descritta in una fiction di successo andata in onda pochi mesi fa su Rai Uno. Da qui l’intuizione di inceppare il meccanismo, cercando di rompere l’indottrinamento e il condizionamento dei minori che spesso vengono coinvolti fin da ragazzi nelle attività criminali, attraverso provvedimenti di allontanamento degli stessi e anche di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale. L’incontro, moderato da Maria Joel Conocchiella, del coordinamento di Libera Vibo Valentia, ha visto l’intervento di don Ennio Stamile, referente regionale di Libera Calabria, il quale ha parlato dell’attività del Tribunale dei minori e del fondamentale ruolo di Libera nell’aiutare le sempre più donne, madri e mogli di boss che decidono di costruirsi una vita diversa lontano da quell’ambiente. Mentre è toccato a Mimmo Nasone, dell’area Giustizia di Libera, raccontare la brillante esperienza a fianco di don Italo Calabrò, parroco di una umanità disarmante, che ebbe il merito di far comprendere e conoscere la ‘ndrangheta a Luigi Ciotti, il quale proprio da questa esperienza iniziò ad occuparsi di mafie sviluppando l’idea di costituire Libera. Don Italo, prete di strada e degli ultimi, fu anche un antesignano del percorso “Liberi di scegliere”. Infatti, esercitò il suo sacerdozio nel Reggino durante le due guerre di mafia che contarono centinaia di morti, anche tra bambini, e non esitò mai di accogliere e salvare i figli dei boss per dare loro un’opportunità diversa. “L’iniziativa di venerdì scorso - prosegue la nota - è stata molto importante per essere riusciti a veicolare dentro il carcere messaggi forti: essere artefici consapevoli delle proprie scelte, non decidere del destino dei propri figli ed avere il coraggio di sentire sulla propria pelle la voglia di riscatto e di cambiamento. Di fronte a noi, occhi attenti di uomini e giovani detenuti che hanno ascoltato a mani congiunte. Un tentativo ed uno sforzo apprezzato, in particolare da chi, alla fine dell’incontro, si è avvicinato per stringerci la mano sussurrando una parola semplice ma molto significativa: grazie. Una stretta di mano che porteremo nel cuore e che ci lascia intravedere una concreta speranza di cambiamento”. Firenze: vita in carcere, i giornalisti a Sollicciano giornalistitalia.it, 7 giugno 2019 Corso di formazione dell’Assostampa Toscana con la Polizia penitenziaria. Il ruolo di reinserimento dei detenuti, la scoperta di uno dei corpi più giovani e più attivi tra le forze di polizia, la Polizia penitenziaria, i compiti di monitoraggio che negli istituti di pena vengono svolti per contrastare il terrorismo internazionale, le criticità che si presentano nella gestione della collettività dei detenuti talvolta in situazioni di sovraffollamento, il difficile compito dei cronisti che devono raccontare l’universo carcerario: sono stati questi alcuni dei temi sviluppati dal corso di formazione per giornalisti che, organizzato dall’Associazione Stampa Toscana insieme al Corpo di polizia penitenziaria, si è svolto nel carcere di Sollicciano, la struttura carceraria più importante della Toscana. Il corso si è aperto con un commosso ricordo del collega Enrico Pini, per anni fiduciario Casagit in Toscana, del quale proprio oggi si sono svolti i funerali. Il senso del corso lo ha spiegato il presidente dell’Ast, Sandro Bennucci, ricordando il primo contatto tra il sindacato dei giornalisti e la Polizia penitenziaria i cui agenti fornirono la scorta d’onore alla sorella della collega Daphne Caruana Galizia, quando due anni fa ricevette a Firenze il Premio Giornalisti Toscani assegnato alla memoria della giornalista uccisa a Malta. “Da allora - ha detto Bennucci - è cresciuto l’interesse professionale per il mondo carcerario, del quale dobbiamo spesso scrivere, e verso gli uomini e le donne che con il loro lavoro ne assicurano la funzionalità”. È stato il direttore del carcere di Sollicciano, Fabio Prestopino, a sottolineare il ruolo fondamentale che nel moderno trattamento penitenziario svolgono gli agenti, assicurando poi ai giornalisti il massimo di trasparenza e di accessibilità possibile alle informazioni del “pianeta carcere” che provengono dalla casa circondariale di Firenze. Una testimonianza preziosa quella del Procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Creazzo, che ha evidenziato anche il ruolo investigativo di un corpo di polizia che non ha soltanto il compito della custodia, ma anche quello del monitoraggio dell’insieme dei detenuti e che, in molti casi, si è tradotto in un contributo importante alle indagini della magistratura. Mentre Stefano Fabbri ha ricordato le procedure di approccio alle “fonti” per i giornalisti che si occupano di carcere, a cominciare proprio dai detenuti che è possibile intervistare previa autorizzazione, ma anche quanto prevedono le norme deontologiche dell’Ordine dei giornalisti per questo genere di particolare attività fissate dalla Carta di Milano e che si incentrano sul rispetto sostanziale della persona privata della libertà personale. A concludere l’evento formativo, organizzato grazie al sostanziale apporto del commissario comandante del Nucleo traduzioni e piantonamenti di Sollicciano, Giuseppe Simone, è stato l’approfondito intervento del Comandante del reparto della Polizia penitenziaria della Casa circondariale, Massimo Mencaroni. Il Comandante ha insistito sul concetto di sicurezza non fine a se stesso, ma come elemento fondamentale del trattamento penitenziario, cioè dello sforzo compiuto per aderire al principio di recupero e reinserimento fissato dalla Carta costituzionale. Particolare attenzione viene posta anche nella vigilanza contro la radicalizzazione in carcere di elementi potenzialmente pericolosi sul fronte del terrorismo internazionale: sui 60.000 detenuti italiani circa un terzo sono stranieri e in gran parte provenienti dalle aree più a rischio, soprattutto dal Maghreb; una proporzione che a Firenze è del tutto invertita poiché su circa 800 detenuti, a fronte di circa 450 agenti di polizia penitenziaria, solo un terzo sono italiani. L’istituto di Sollicciano è uno dei sei istituti di pena pilota in Italia del progetto per il contrasto alla radicalizzazione jihadista. E, sempre a proposito di numeri, i posti letto regolamentari per i detenuti sono 500, mentre 760 quelli tecnicamente disponibili. Dopo la cosiddetta “sentenza Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo, che fissa in tre metri quadrati lo spazio minimo per ogni detenuto, paradossalmente, e per fortuna solo teoricamente vista la particolare configurazione architettonica di Sollicciano, i posti letto potrebbero essere 1.500. Infine, il rapporto con la città e con il tessuto sociale: oltre agli agenti di Polizia penitenziaria, al personale educativo e amministrativo, ad assistere ed occuparsi dei detenuti sono il personale sanitario della Asl, i docenti scolastici, decine di volontari impegnati nelle attività culturali e sportive. Riguardo ai detenuti, solo un terzo è impegnato in attività rieducative e circa 160 in attività lavorative. “Non ci basta - ha detto il direttore Prestopino - perché il lavoro è una componente fondamentale della vita in carcere e della vita che attende i detenuti una volta fuori. E per migliorare - ecco l’appello - abbiamo bisogno della collaborazione delle imprese”. Roma: dal 24 al 26 giugno il terzo seminario di formazione per i nuovi cappellani agensir.it, 7 giugno 2019 “Tra pochi giorni ci incontreremo a Roma per trascorrere insieme dei momenti di fraternità sacerdotale, ma sarà anche l’occasione per dare più forza e coraggio a ciascuno di voi nel delicato e prezioso servizio che vi state accingendo a vivere nelle carceri. Vi auguro di non camminare mai da soli, ma di vivere sempre in comunione con i vostri confratelli cappellani e con tutti gli operatori che incontrerete nei luoghi di pena”. Lo scrive don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, nella lettera con la quale presenta il terzo seminario di formazione per i nuovi cappellani delle carceri italiane, che si terrà a Roma, dal 24 al 26 giugno, presso l’Hotel “Casa Carbulotto”, in via Annia Regilla n. 60. Il tema del seminario è “Chiamati a fasciare le ferite e a rialzare chi e caduto”. “Il titolo scelto - osserva don Grimaldi - ci suggerisce la strada per compiere ancora meglio ciò che il Signore chiede a ognuno di noi. Nel vostro delicato incarico pastorale quotidianamente incontrate uomini e donne, disperati, poveri ed emarginati che, privati della loro libertà personale, hanno bisogno di essere ascoltati, accolti nella tenerezza del ministero di noi tutti ‘uomini del Vangelo’”. Ed è ciò, prosegue l’ispettore generale, che “la Chiesa vi chiede e cioè di aiutare a rialzarsi chi è caduto nell’errore, per dare loro ancora un barlume di speranza per un futuro aperto ai nuovi orizzonti di inclusione”. Don Grimaldi ricorda come le carceri siano profondamente cambiate nel tempo: “Anche noi cappellani, in questo contesto, siamo chiamati a svolgere il nostro delicato ministero, rinnovandolo alla luce delle nuove esigenze e sfide pastorali. Siamo tutti sollecitati dalle Parole e dai gesti profetici di Papa Francesco, sempre attento alle fasce deboli e ai carcerati”. All’interno dei nostri istituti di pena “la povertà cresce giorno dopo giorno sempre di più e con la nutrita presenza di uomini e donne di altre nazionalità, che si professano in altre fedi, siamo chiamati a confrontarci e a qualificare il nostro servizio. Questi sono alcuni dei motivi che dovrebbero farci riflettere sulla nostra azione pastorale accanto alle persone private della loro libertà personale e quindi di metterci continuamente in ascolto del grido dei poveri”. Porto Azzurro (Li): progetto “Il cielo in una cella. Carcere e territorio” elbareport.it, 7 giugno 2019 È arrivato a conclusione il Progetto Pon - Il cielo in una cella. Carcere e territorio a Porto Azzurro che ha visto come protagonisti gli alunni della Scuola Secondaria di Porto Azzurro impegnati su tre moduli. Il progetto è partito dall’idea di valorizzare in termini positivi la presenza del carcere nel Comune di Porto Azzurro. Partiti dalla storia della Fortezza spagnola di Longone con le sue caratteristiche che ospita la Casa di Reclusione, i ragazzi accompagnati dai docenti Roberta Cecchini e Luciano Melani, hanno intrapreso un percorso di confronto, dibattito ed esplorazione circa il significato della pena detentiva e le diverse modalità di esecuzione della stessa dopo aver messo a confronto le tre tipologie di detenzione sull’Arcipelago toscano: la Casa di Reclusione di Porto Azzurro, l’ex 41 bis di Pianosa e l’isola carcere di Gorgona. Il Dirigente Scolastico Lorella Di Biagio si ritiene orgogliosa e soddisfatta di quanto realizzato e precisa: “L’acronimo Pon sta a indicare un progetto di innovazione e miglioramento del sistema dell’istruzione, attraverso dei fondi aggiuntivi europei. I singoli progetti che fanno parte del Pon hanno come obiettivo la creazione di un sistema d’istruzione e di formazione di elevata qualità, efficace ed equo. Il nostro Istituto si è aggiudicato ben quattro Progetti Europei che hanno permesso di fare un grande investimento nel sapere, offrendo nuove esperienze e competenze ai nostri ragazzi che vivono su un’isola. Tutta la comunità (famiglie, imprese locali, Amministrazioni comunali, Pnat, Enti pubblici e privati, Associazioni…) si è impegnata e ha sostenuto le varie iniziative a 360°. È stata realizzata un’educazione ai patrimoni ambientali, storici, socio-culturali locali che ha permesso ai nostri alunni di apprendere le metodologie per la lettura e interpretazione dei beni. Un plauso ai docenti per una didattica qualitativamente apprezzabile, alle famiglie per il supporto e l’entusiasmo e ai nostri alunni che si sono dimostrati interessati e partecipi”. Attraverso laboratori esperienziali e magnifici percorsi outdoor i ragazzi si sono incontrati e confrontati con i detenuti di Porto Azzurro e Gorgona attivando così momenti di riflessione sulle proprie ed altrui risorse, sul rispetto delle regole e dei confini, su comportamenti leciti e illeciti e sull’art. 27 della Costituzione. A conclusione del progetto sono stati prodotti dépliant sulla storia di Longone da distribuire ai turisti in visita nel nostro territorio, una presentazione in power point che racconta i momenti più significativi di scambio tra i ragazzi e i reclusi. Venerdì 7 giugno 2019, nella piazzetta antistante la Chiesa del Sacro Cuore di Maria di Porto Azzurro alle ore 21.00, i ragazzi saranno coinvolti in una piccola ricostruzione e drammatizzazione della vita quotidiana della Fortezza al tempo degli Spagnoli. Con figuranti in costume e un drappello di soldati appartenenti al gruppo storico Tercio de Longone, il siparietto, curato in collaborazione con il Comune di Porto Azzurro, offrirà uno spaccato dell’epoca a metà tra serio e faceto. I nostri ringraziamenti vanno al Parco, all’Amministrazione Comunale di Porto Azzurro e in modo particolare al Direttore della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Dott. Francesco D’Anselmo e al Direttore del Carcere di Livorno-Gorgona Dott. Carlo Mazzerbo per la messa a disposizione di spazi e personale per la realizzazione del progetto. Istituto Comprensivo Porto Azzurro Eboli (Sa): il teatro arriva in carcere, uno spettacolo per i detenuti salernonotizie.it, 7 giugno 2019 Il Lab ICArte Teatro Terapia, ideato e promosso dall’ avv. Paola De Vita con Cittadinanzattiva e condotto dall’ attore e regista Antonello De Rosa con la sua Scena Teatro all’interno della Casa di Reclusione I.C.A.T.T. di Eboli, presenta “ De Pretore Vincenzo “ di Eduardo De Filippo regia Antonello De Rosa venerdì 14 giugno ore 19.30. Gli ospiti dell’ I.C.A.T.T. insieme ad attori professionisti di Scena Teatro saranno impegnati in una performance teatrale itinerante all’interno della Casa di Reclusione alla presenza del direttore dott.ssa Concetta Felaco, del Comandante dott.ssa Carolina Arancio, della dott.ssa Rosamaria Caleca e delle autorità istituzionali. Spettacolo itinerante, dinamico, coinvolgente. Gli attori, preparati dal regista De Rosa, condurranno lo spettatore all’interno del Castello Colonna. È un progetto di Teatro sociale come strumento di catarsi, introspezione ed emancipazione che coinvolge i detenuti dell’Icatt in un percorso di recupero ed inclusione. Antonello De Rosa è senz’altro la figura professionale, che più di tutti riesce a contraddistinguersi nel panorama teatrale, per competenza e dedizione. Un lavoro immenso ma gratificante dove l’opportunità del teatro dona libertà dell’essere a chi vive un momento di limitazione della libertà stessa. “Il teatro è rieducare al bello, alla cultura” afferma Antonello De Rosa “in questo mondo dove tutto è approssimativo, interviene il rigore vero del Teatro, che ci ridona equilibrio e stabilità”. I posti sono limitati l’ingresso è ingresso libero. La prenotazione è obbligatoria entro il 7 Giugno, telefonare 339.4830268 entro il 7 giugno. Cagliari: nella sezione femminile del carcere nasce un coro musicale L’Unione Sarda, 7 giugno 2019 Sedici detenute nei prossimi mesi potranno sviluppare le proprie qualità vocali esercitandosi con toni, scale e registri. Un’iniziativa volta a promuovere la diffusione della cultura musicale in carcere, con l’obiettivo di offrire anche un’importante occasione di scambio fra detenuti. Alla casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta sono iniziate le lezioni gratuite di canto: impegnate sedici detenute, che nei prossimi mesi potranno sviluppare le proprie qualità vocali esercitandosi con toni, scale e registri per raggiungere l’omogeneità caratteristica del coro. Il programma di attività, promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme” e che ha il coordinamento di Elena Ledda e Simonetta Soro, è stato approvato dalla direzione dell’Istituto e si avvale del contributo dell’Area Educativa. “Una nuova occasione - affermano Elena Ledda e Simonetta Soro - per trascorrere qualche ora con le donne private della libertà, e raccogliere le espressioni della loro cultura musicale. Il progetto intende valorizzare le esperienze maturate da ciascuna e dare vita a uno scambio di emozioni. Siamo solo all’inizio, ma la prima lezione ha rivelato non solo alcune voci interessanti, ma anche sonorità e ritmi che fanno ritenere importante la condivisione nel canto corale. A prescindere dai risultati quindi il percorso si presenta molto interessante”. “Abbiamo accolto la proposta - sottolinea il direttore dell’Istituto Marco Porcu - perché riteniamo importante offrire un’ulteriore occasione di scambio culturale. È la prima volta che nella sezione femminile viene avviato un corso per realizzare un coro e siamo certi, visto anche l’alto numero di adesioni, del successo dell’iniziativa”. “Il progetto - ricorda Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - è nato in occasione della Giornata Internazionale della Donna quando Elena Ledda non è stata solo protagonista dell’appuntamento, ma ha coinvolto emotivamente le detenute facendole cantare e suscitando in loro forti emozioni. Da lì si è sviluppato un percorso che ha avuto il sostegno dell’area educativa ed in particolare di Mariangela Bandino ed Emiliana Podda, convinte del valore e significato degli incontri con la musica e la voce”. Il programma prevede appuntamenti di due ore durante i quali, oltre alle tecniche di respirazione e all’individuazione delle voci, le allieve impareranno a cantare insieme un repertorio che accoglie brani della tradizione sarda ma anche canti di differenti matrici. Sarà poi organizzata un’esibizione conclusiva nell’Istituto. Palermo: le attività del carcere Pagliarelli in mostra al Teatro Garibaldi di Elvira Martino palermotoday.it, 7 giugno 2019 Si è svolto ieri pomeriggio presso il Teatro Garibaldi di Palermo il convegno finale del progetto Neverland dal titolo “Il carcere come non luogo. Il senso della rieducazione attraverso percorsi creativi e produttivi in Sicilia”. Nel teatro è stato allestito uno spazio espositivo con i lavori realizzati dalle ragazze coinvolte nel progetto, detenute presso la Casa Circondariale Antonio Lorusso - Pagliarelli, e realizzato un libro che è una raccolta fotografica delle opere create dentro le mura dell’istituto. Sono stati tanti i temi trattati, dal progettare interventi rieducativi in carcere al creare vere e proprie opere d’arte, espressione dell’IO delle ragazze, fino alla possibilità di creare storie nuove seppur dentro un istituto penitenziario. Sono intervenuti, tra gli altri, l’assessore alle politiche sociale del comune di Palermo Giuseppe Mattina, che ha testimoniato la vicinanza del Comune di Palermo al nostro progetto; Rosalba Romano e Emilia Tripoli di Sartoria Sociale - Lab & Shop; il professore Vincenzo Merlo del Cpia Palermo 1- Nelson Mandela. Un ringraziamento particolare va a Manifesta Biennial, per la splendida location, e all’ente di formazione I.N.F.A.O.P. “È stata una giornata fantastica. La cittadinanza ha risposto in maniera convinta e coinvolta al messaggio che abbiamo lanciato: il carcere è reinserimento e rieducazione e il nostro progetto Neverland ne è testimonianza. Le ragazze coinvolte ci hanno permesso di entrare nel loro mondo e di portarlo poi fuori per farlo conoscere ai più. Un mondo difficile e pieno di contraddizioni che però, per fortuna, continua a lanciare messaggi felici e creativi. La nostra speranza è che la progettazione sociale in questo ambito sia sempre più proficua e produttiva di momenti come quello appena vissuto” lo dichiara Manuela Ligotti, presidente dell’Associazione A.R.P.E.S., destinataria del finanziamento pubblico con cui è stato realizzato il progetto. Milano: “Io e Bach dietro le sbarre” di Enrico Paola Corriere della Sera, 7 giugno 2019 Parte da San Vittore la tournée della pianista Maria Cefalà. Una tournée tutta dedicata a Bach non sarebbe certo una notizia, ma destano più impressione che curiosità i luoghi che Maria Cefalà toccherà fino al 6 luglio: tutte carceri. La pianista milanese è partita dal carcere della sua città, San Vittore, poi farà tappa a Pavia, Brescia, Poggio Reale e Vigevano; ogni volta un recital di un’ora circa, preceduta da un’introduzione sul tema della bellezza tenuta da personalità legate alla cultura e alla spiritualità; e anche lei, oltre a suonare, racconterà ai detenuti la figura del sommo Johann Sebastian, la sua vita e la sua musica. “L’idea è stata di Arnoldo Mosca Mondadori, un uomo che crede fortemente in ideali come bellezza, umanità, verità; i concerti sono organizzati dalla sua fondazione, la Casa dello Spirito e delle Arti”. Facile pensare che gli stati d’animo con cui Cefalà affronta queste platee così insolite non siano gli stessi suscitati da un teatro o una sala da concerto: “All’inizio - racconta - ero terrorizzata. Non sapevo cosa aspettarmi, ma mi ha da subito confortato la fiducia di Arnoldo nella capacità della bellezza di parlare a tutti e di toccare tutti i cuori, anche quelli che ci sembrano più induriti e lontani da una certa sensibilità. Questo genere di sfida è quanto di più vicino a come intendo io la musica e l’attività del concertista. Per me la musica non è un passatempo per le élite, non mi è mai piaciuto il rito del concerto con i musicisti in livrea e la platea elegante; io sono per circuiti alternativi, per allargare i confini e toccare chi normalmente non ascolta orchestre o pianoforti”. Una tale visione, ma si potrebbe parlare quasi di vocazione, deriva dalla storia di Cefalà, classe 1989. “Sono nata a Milano e ho studiato alla Civica; mi sono diplomata con lode a 21 anni, ma da privatista perché già le aule e i corridoi del Conservatorio mi stavano stretti: per me l’arte è condivisione e gioia per suonare assieme, lì invece c’erano competizione e invidia. Appena dopo il diploma ho avuto un grosso problema ai nervi e non riuscivo più a suonare: ci ho provato ma niente, la situazione peggiorava inesorabilmente e ho dovuto smettere completamente per tra anni”. Tre anni, confessa la pianista, vissuti malissimo. Crisi totale. Il problema nervoso che interessava le mani è diventato un problema di nervi generale; le confesso senza vergogna che ho anche pensato di buttarmi giù da una finestra, non vedevo più un futuro”. A farla ripartire è stato il desiderio di suonare. Però è stata dura: ci ho messo due anni a tornare a un livello dignitoso, e quando ce l’ho fatta, mi dicevano che ormai ero vecchia per far carriere. A 24 anni: un’età che in quasi tutti gli ambiti lavorativi appartiene ancora alla verde giovinezza. “Già, il concertismo ha le sue leggi e i suoi tempi. Poi, per fortuna, ho trovato come insegnante Anna Kravchenko, che è rimasta colpita da come suonavo Bach e mi ha spinto ad approfondirlo. Da lì sono ripartita, senza pensare a concerti o carriera; ho continuato a insegnare pianoforte alla scuola francese a Milano e pian piano ho ricominciato a suonare davanti alla gente, ma spesso per un pubblico particolare. Certo, non così particolare come i carcerati, però comunque in contesti dove la musica non è mai fine a se stessa, ma rientra in una visione più ampia di che cosa sia la bellezza”. Mai abbandonare i sogni. Nelle carceri porta Bach: “Partite, Invenzioni a due voci, il Concerto italiano. Dico qualcosa sulla vita di Bach, ma di volta in volta è guardando in faccia le persone che capisco cosa raccontare”. Radio Radicale, passa l’emendamento Lega- 5S Il Pd: così non si salva di Valentina Stella Il Dubbio, 7 giugno 2019 Convenzione prolungata di tre anni per la messa in sicurezza dell’archivio. Con 138 voti a favore, 45 no e 57 astenuti, l’aula del Senato ieri ha approvato, con i soli voti del Movimento 5 Stelle e della Lega, la mozione di maggioranza su Radio Radicale riformulata dal governo con le correzioni del sottosegretario Vito Crimi. La convenzione sarà prolungata di tre anni per il completamento della digitalizzazione e la messa in sicurezza dell’archivio, mentre il Parlamento - “in tempi brevi” - varerà una legge per trovare una soluzione definitiva al problema delle gare per i servizi radiofonici istituzionali. Per le opposizioni il documento giallo- verde “non salva Radio Radicale”. Il Pd ha votato contro, mentre Sel, Fdi e Forza Italia si sono astenuti. Radio Radicale, in una nota, ha fatto sapere che “saluta con favore l’indizione di una gara per l’assegnazione del servizio di trasmissione delle sedute del Parlamento, gara che chiede pubblicamente dal 1998, e al contempo chiede che si arrivi rapidamente ad una soluzione per la copertura del periodo transitorio, che va dal 21 maggio scorso all’assegnazione della medesima gara. Senza questa rapida soluzione transitoria il servizio svolto da Radio Radicale fino ad oggi rischia di interrompersi”. Respinta invece, la mozione del Pd che chiedeva il rinnovo della convenzione per altri sei mesi. Il primo firmatario Andrea Marcucci ha puntato il dito contro il governo che “odia la libertà di informazione perché è abituato a raccogliere il consenso con le fake news”. Un’accusa che Crimi ha respinto: “Non è possibile ad oggi procedere con un rinnovo della convenzione in assenza di una legge. L’impegno è che si farà nel più breve tempo possibile”. Ieri in aula si sono rivisti ricompattati pentastellati e leghisti, quando fino a qualche giorno fa i secondi accusavano i primi alla Camera di voler chiudere l’emittente radiofonica non avendo reso ammissibili gli emendamenti per il rinnovo della convenzione. Per la senatrice Tiziana Nisini della Lega la mozione approvata “va incontro anche alle esigenze e alle richieste di Radio Radicale, che ha chiesto più volte, con i suoi editori, che venisse indetto un bando di gara”. Dinanzi all’atteggiamento schizofrenico della Lega, a tracciare una strada possibile per il futuro è il senatore dem Roberto Rampi: “Ora tutta la pressione della società civile deve concentrarsi sul voto della Camera che può dare attuazione ai principi della mozione di maggioranza votando un emendamento al cosiddetto decreto Crescita che garantisca intanto la copertura dei costi per il tempo necessario alla realizzazione del progetto di legge annunciato dalla mozione di maggioranza. Ho regalato al sottosegretario Crimi una radio a fine seduta come gesto simbolico invitandolo ad ascoltare Radio Radicale che dalle sue parole sembra non conoscere”. Radio Radicale, il M5S salva il passato. Non il futuro di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 giugno 2019 Pluralismo mediatico. Approvata al Senato una mozione di maggioranza. Il sottosegretario Vito Crimi apre uno spiraglio: fondi per l’archivio e riforma del settore. Ma niente proroga. L’ostracismo esibito contro Radio Radicale e contro il pluralismo mediatico evidentemente non paga. Deve averlo capito pure il sottosegretario pentastellato con delega all’Editoria, Vito Crimi, che ieri in Senato ha brigato a lungo con una parte dei suoi e con gli alleati di governo per mantenere la posizione intransigente di cui si era fatto baluardo. Ma poi, facendo onore al proprio incarico, ha aperto un sia pur “minimo e confuso spiraglio” (come l’ha definito la senatrice di Leu, Loredana De Petris), presentando una mozione insieme alla Lega (e soprattutto riformulandola in modo più favorevole a Radio Radicale, come chiesto dall’opposizione). Il testo, che ha ottenuto 138 sì (Lega e M5S), 45 no (Pd) e 57 astensioni (Gruppo misto, FI, Autonomie e FdI), impegna il governo ad “attivare una separata convenzione triennale, volta esclusivamente a concludere l’attività di digitalizzazione e messa in sicurezza degli archivi”, a patto che “l’archivio digitale resti formalmente vincolato al servizio pubblico”. Nel frattempo l’esecutivo dovrà spendersi, secondo il documento, per una riforma complessiva del settore dell’informazione e della comunicazione istituzionale nell’ambito della quale si colloca la gara vinta nel 1994 dall’emittente radicale. (Nella prima versione, si stabiliva l’abolizione del divieto antitrust imposto alla Rai che impedisce l’ampliamento della rete radiofonica dedicata ai lavori parlamentari). La riforma del settore era quanto vivamente caldeggiato dall’Agcom nella segnalazione urgente inviata al governo oltre un mese fa e ribadito proprio alla vigilia del voto al Senato dove erano state presentate, prima di quella M5S-Lega, cinque mozioni fotocopia firmate da Leu, dal Pd, da FdI e da FI, tutte volte ad ottenere una proroga della convenzione con il Mise fino a nuova gara. Su tutte però il governo ha dato parere negativo e così sono state affossate (a favore solo un centinaio di voti ciascuna), insieme alla promessa di Vito Crimi di trovare un “testo condiviso”. Per farlo infatti bisognava seguire fino in fondo le raccomandazioni dell’Agenzia per le garanzie nelle comunicazioni che chiedeva al governo di non interrompere il servizio pubblico garantito da 43 anni dalla radio di Marco Pannella e Massimo Bordin. E invece ieri, durante le dichiarazioni di voto in Aula, la parola proibita tra i banchi della maggioranza era proprio “proroga”. Vietato usarla. Comprensibilmente, in parte, perché è difficile prorogare ormai una convenzione scaduta il 21 maggio scorso. Esattamente ciò a cui puntavano i 5 Stelle e Crimi, che non a caso ora spiega: “Ad oggi non è possibile un rinnovo in assenza di una legge; l’impegno è che si farà nel più breve tempo possibile in ambito parlamentare con una legge”. Il sottosegretario si prende pure lo spazio per rivendicare la propria posizione: “Non accetto che si dica che affamiamo Radio Radicale, nell’anno 2019 il Centro produzioni Spa ha ricevuto un intervento pubblico pari 9 ml di euro a fronte dei 12 ml percepiti negli anni precedenti”. Il servizio pubblico? Quello “è esclusivamente limitato alla trasmissione delle sedute parlamentari, il resto è altro. Ben venga quindi che per la prima volta un governo ha apportato un cambiamento. Uno choc al sistema per poi poterlo regolamentare bene”. Una frase che tradisce una certa megalomania, ma tant’è. “Ben venga una gara, che Radio Radicale chiede pubblicamente dal 1998”, commenta l’emittente che però al contempo chiede “che si arrivi rapidamente ad una soluzione per la copertura del periodo transitorio, che va dal 21 maggio scorso all’assegnazione della medesima gara. Senza questa rapida soluzione transitoria il servizio svolto da Radio Radicale fino ad oggi rischia di interrompersi”. Passare per un disegno di legge in Parlamento equivale alla chiusura dell’emittente. Occorre, fa notare l’Fnsi che si affianca alla lotta della testata radicale, “un provvedimento urgente che assicuri la continuità del servizio scongiurandone l’interruzione”. Perché altrimenti salvare e digitalizzare l’archivio storico, interrompendone contemporaneamente l’aggiornamento, è atto da mummificatore, non da Governo. L’intelligenza artificiale applicata alla giustizia: i giudici-robot di Alice Bassoli altalex.com, 7 giugno 2019 Mentre in Italia si continua a discutere sul pericolo di attacchi informatici, sui rischi per la privacy, sulla paura di ledere i diritti umani e sulla minaccia dei robot, c’è un Paese in Europa, che è stato ribattezzato “The Digital Republic”. Questo paese è l’Estonia. Grande come Lombardia e Veneto, si affaccia sul mar Baltico, conta 1,3 milioni di abitanti ed è uno dei leader del digitale nel mondo. Paese del Nord Europa, ex stato sovietico, ha puntato tutto sul futuro tramite un’operazione, di cui in Italia si sente molto parlare in questi anni, ovvero la digitalizzazione. Non scannerizzando atti e documenti, trasformando atti da world in pdf o mandando pec e magari, perché no, ripentendo tale invio anche in modo cartaceo con una semplice raccomandata, così tanto per essere più sicuri del suo arrivo. L’Estonia si è affidata ad un importante progetto tecnologico e-Estonia, tramite il quale sono stati digitalizzati tutti i servizi per i cittadini in un’unica piattaforma chiamata X-Road: tutti i dati di ogni cittadino confluiscono su tale piattaforma a cui si accede tramite una carta di identità elettronica (volendo anche un app sullo smart-phone) che funge nello stesso tempo da documento di identificazione, patente di guida, carta di debito, tessera sanitaria. Tutto si può fare on line solo sposarsi, divorziare e vendere casa richiede la presenza delle persone. Ora l’Estonia ha deciso di sperimentare dei robot che svolgano la funzione di giudici per risolvere le controversie di minore entità, fino a € 7.000,00, al fine di smaltire l’arretrato. Il Ministero della Giustizia estone ha costituito un pool di esperti con il compito di creare un sistema di intelligenza artificiale in grado di svolgere la funzione di giudice, il sistema ideato prevede che le parti carichino atti e documenti su una piattaforma per poi lasciare ad un algoritmo la decisione sulla questione, salva la possibilità di fare appello ad un giudice umano. Questo automatismo spaventa molti paesi tra cui il nostro. Mentre nel campo della medicina, accogliamo con entusiasmo le tecniche robotiche che sono state introdotte, in quanto ci permettono di essere più precisi nelle operazioni chirurgiche rispetto a quanto sarebbe la mano di un chirurgo, così come nel campo dei trasporti in alcuni paesi vi sono già metropolitane e treni a guida automatizzata e a breve, nel 2020, in Giappone e in altri paesi, vedremo commercializzare auto driverless senza guidatore (quest’ultimo è un altro argomento oggetto di confronto in Italia, si è pensato a chi intestare l’assicurazione e chi risponderà di un eventuale danno in caso di incidente provocato da tali autoveicoli, invece di pensare che tali mezzi permetteranno di ridurre in misura notevole gli incidenti e soprattutto le migliaia di vittime di incidenti stradali). Nel campo della giustizia, al contrario, non si guarda di buon occhio il fatto che una questione possa essere risolta da un robot anziché da un giudice. E questo perché non ci fidiamo delle macchine e in particolare dei computer e degli algoritmi, ma ciò avviene per la mancata conoscenza. Si ha paura delle cose che non si conoscono. Dato che in Italia pochissimi conoscono tecnicamente gli algoritmi e l’informatica in genere, si teme che si possa sbagliare. Ma che cosa è un algoritmo? È un procedimento che permette la risoluzione di specifici problemi mediante l’applicazione di una sequenza di istruzioni semplici e chiare, che devono essere seguite alla lettera. Gli algoritmi devono presentare alcune fondamentali caratteristiche: i passi devono essere elementari; devono essere interpretabili in modo univoco e diretto dall’esecutore; l’algoritmo deve essere composto da un numero finito di passi; l’esecuzione deve avere un termine e deve portare ad un risultato univoco. Sono state individuate tre modalità tramite le quali le macchine basate su un sistema di algoritmi possono agevolare il lavoro degli operatori del diritto: analisi di documenti e predisposizione di atti; previsione dell’esito di una causa e formulazione di giudizi salvo il controllo da parte dell’uomo. Ora più difficile è l’applicazione di tali tecnologie nell’ambito del diritto penale, ma pensiamo alle cause civili di recupero crediti o di risarcimento dei danni da incidente stradale. Come ha spiegato il Prof. Carlo Vercellis, responsabile dell’Osservatorio Big Data analytics &Business Intelligence presso il Politecnico di Milano, gli algoritmi trovano correlazioni nascoste che l’occhio umano non può cogliere. E ciò implica che essi possano trovare nuovi fattori esplicativi e fare previsioni sul futuro. Eppure l’Europa non è così contraria a tali tecniche tant’è che, il 4 dicembre 2018, la Commissione Europea per l’Efficacia della Giustizia ha emanato la “Carta etica europea per l’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi di giustizia penale e nei relativi ambienti”. In particolare, la Carta enuncia i seguenti principi: Principio del rispetto dei diritti fondamentali; Principio di non discriminazione; Principio di qualità e sicurezza; Principio di trasparenza; Principio di garanzia dell’intervento umano. Quest’ultimo principio vuole escludere l’approccio deterministico, ossia un eccessivo automatismo e garantire un controllo sulle scelte effettuate. Pertanto, secondo questo documento l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale nella giustizia penale sarebbe possibile a due condizioni: soggetti competenti e specializzati nella IA e possibilità di controllo da parte dell’uomo.