C’è chi parla di abolire il carcere. Ascoltiamoli. di Giacomo Biscontini medium.com, 6 giugno 2019 Il carcere non è mai andato di moda. Ci sono stati periodi nella nostra Repubblica in cui giornalisti, politici e giuristi sono stati obbligati a parlarne. Dieci anni fa, ad esempio, quando la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha iniziato a chiedere con forza ed impegno una profonda revisione del sistema penitenziario italiano, questo perché alcuni detenuti, dopo un lungo percorso giudiziario hanno chiesto la tutela dei loro diritti, violati proprio dalle condizioni inumane di molte delle nostre prigioni. La popolazione detenuta da diversi decenni è al centro di un enorme problema, quello del sovraffollamento carcerario. Gli indulti dopo gli anni 2000 hanno messo un cerotto a questa ferita che continua a sanguinare, perché, evidentemente, si tratta di un crisi che non va ad interessare la sola capienza degli istituti, che non riguarda solo i numeri. Il carcere è spesso disegnato dalla politica come un vaso che cela il suo contenuto e che non deve mai essere scoperchiato. Viene aperto quando occorre buttarci dentro qualcuno, si sigilla di nuovo e (ora fa tendenza dire che) si butta via la chiave se alla condanna si accompagna il disprezzo politico e sociale, spesso manifestazioni dell’ignoranza e dell’incapacità di scovare le cause dell’illecito, il perché quella persona è entrata nelle maglie dell’illegalità. Questo giustizialismo è causa ed effetto di un regime trattamentale che si muove soltanto sul piano della minore o maggiore restrizione detentiva e che non fa nessuna distinzione rispetto agli utenti interessati ai provvedimenti della privazione della libertà. Evocare la giustizia, sempre, dovunque e in ogni modo, può giustificare il mantenimento dello status quo, ma il cambiamento, anche se fa paura, non può essere rinviato. I dati del quadro penitenziario italiano (rapporto annuale dell’Associazione Antigone: http://www.antigone.it/quindicesimo-rapporto-sulle-condizioni-di-detenzione/) ci dimostrano che non basta considerare nuovi istituti premiali, non bastano le attività lavorative e i corsi di formazione organizzati dentro le mura, non bastano più agevoli contatti con l’esterno e un aumento dello spazio vitale minimo concesso ai detenuti. Bisogna spingere per l’inserimento di più professionisti del settore educativo che lavorino sulle problematicità delle persone, occorre mettere al centro la relazione tra custodi e custoditi, cercare di conoscere meglio le storie di ogni detenuto per poter attivare un processo di umanizzazione il più possibile individualizzato. La penuria di risorse non può essere la scusa che permette di oscurare i diritti più basilari delle persone che scontano la pena e le difficoltà del personale addetto ai servizi carcerari, che è costretto a rimanere indifferente di fronte alle ingiustizie e a diventare ingranaggio del processo di “normalizzazione” di una situazione fatta di aggressività e violenze. Considerando che il numero dei reati è in costante calo da anni, la popolazione detenuta aumenta perché aumentano le pene (il legislatore spesso si attiva per sfamare il mostro della percezione pubblica, fatta di stereotipi, fake news e pregiudizi, cavalcando quello che gli esperti chiamano un “populismo penale”) e rimane altissimo il tasso di recidiva. Soprattutto su quest’ultimo punto, è difficile non capire che il lavoro educativo sul singolo è fondamentale. Inoltre le persone più difficili da trattare, che sono classificabili come pericolose, cioè che risultano essere un concreto e attuale pericolo per la società, sono in realtà molto poche sui più di 60.000 detenuti (circa il 10% del totale). Il carcere minorile è un’altra istituzione sulla quale si dibatte molto, considerando che la responsabilità penale in Italia scatta ai 14 anni, spesso si tratta di adolescenti con dei brevi ma difficili vissuti, che sono nati in situazioni di marginalità e di degrado, vittime dell’imperdonabile assenza dello Stato. Almeno per loro l’opinione pubblica da quasi per scontato che sia necessario un intervento rieducativo più preciso e attento, non si spiega però il motivo per il quale non si debba trasferire anche la gestione della rieducazione di molti dei condannati maggiorenni, come tossicodipendenti e spacciatori cosiddetti “giovani adulti” (tra i 18 e i 24 anni), ai servizi sociali ed educativi. La maggior parte di loro, infatti, impersona il fallimento dello Stato, esso si preoccupa di fare la guerra ai poveri e agli immigrati soltanto per le strade, gridando slogan e proclami. La tutela della dignità dei carcerati dovrebbe riguardare la politica e tutti quanti noi. E non è solo una questione di condizioni disumane, torture e suicidi oppure di mala gestione di un’importante voce di spesa del bilancio economico dello Stato (stiamo parlando di un settore dove lo Stato ogni anno spende quasi tre miliardi). Se il numero di suicidi dietro le sbarre ha registrato un numero record (67) rispetto agli ultimi dieci anni e se più della metà dei carcerati rischia di tornare a delinquere una volta uscito (il tasso di recidiva in Italia supera il 60%) significa che è inutile continuare a buttare lo sporco sotto il tappeto. Occorre chiedersi se le riforme del sistema penale e di quello penitenziario stanno funzionando, se il personale che ogni giorno si interfaccia con i detenuti è preparato, se bisogna aumentare le risorse destinate ad una profonda ristrutturazione architettonica delle carceri (non un mero ampliamento dei posti letto). Ma prima di tutto ciò forse è necessario domandarsi se davvero vogliamo caricarci sulle spalle il peso di una rivoluzione culturale, perché per rendere il carcere un luogo più umano ed efficace bisogna andare al cuore della questione, cambiare prospettiva e stravolgere l’immagine che ci siamo fatti della reclusione che da più di due secoli è rimasta quasi la stessa. Se non se ne vuole fare una questione morale (“ è giusto chiudere in gabbia i propri simili per un lungo periodo di tempo per poi farli riuscire e tentarli di reintegrarli in una società che non li vuole?”), che se ne faccia allora una questione di utilità ed efficacia di un sistema cardine di uno Stato democratico. Siamo davvero sicuri che non si possa fare a meno delle carceri? La domanda può essere anche solo considerata provocatoria, ma dietro ad un eufemistico modo di porre la questione sorgono dubbi, contraddizioni e soluzioni interessanti. Ripensare il carcere fin dalle sue fondamenta significa non lavorare più in emergenza ma adottare un nuovo modo di punire chi ha sbagliato, magari cominciando dal riconsiderare il maggiore ricorso alle misure alternative al carcere (un percorso già iniziato in passato ma che sta vedendo un’inversione di tendenza) oppure stravolgendo la gestione ed i numeri del carcere in favore di un ampliamento del personale educativo specializzato (introducendo il concetto di “diritto del detenuto ad una relazione umana”). Il carcere è un luogo pericoloso, sia per i detenuti che per coloro che lavorano al suo interno. È il luogo del rigido controllo e dell’annullamento di ogni diritto, più che della sicurezza, del riscatto e della redenzione. L’ossessione della punizione e della sorveglianza potrebbe allentarsi per lasciare spazio ad una vera opera rieducativa che mette al centro la vita del detenuto, quella dentro al carcere ma soprattutto quella che dovrà per forza ricominciare fuori da quelle mura. Anche per questo motivo iniziare a coinvolgere la società tutta (e non solo poche e senza dubbio virtuose associazioni di volontariato) in un processo di riavvicinamento dei condannati (non pericolosi e quindi la stragrande maggioranza) alle persone libere. Nessuno di noi, se ci pensiamo sa cosa succede là dentro, nonostante ci ostiniamo a chiedere a gran voce che proprio lì si compia parte del contratto sociale con lo Stato e si completi la fase finale della giustizia (e mai vendetta) sociale. Affrontare il problema significa perciò farlo tornare di moda nel dibattito politico, riflettere in toto sul sistema penitenziario attuale e ragionare sui numeri, che sono preoccupanti e che ci informano che l’opera di “riabilitazione” e “risocializzazione” del detenuto è spesso assente o così com’è non sta funzionando. Un po’ come sta accadendo oggi sul fronte del contrasto al cambiamento climatico dovuto all’inquinamento dell’uomo, abbiamo bisogno di ripensare a quale ruolo dobbiamo giocare noi comuni cittadini in tematiche di importanza vitale per la comunità in cui viviamo. Per troppo tempo ci siamo disinteressati di queste istituzioni, da decenni il “problema delle carceri” non ha un’alternativa, perché, in fondo, “la prigione è sempre esistita, cosa bisognerebbe fare?”. Si potrebbe dar voce e ascoltare chi sta cercando di rivedere in modo drastico e intelligente il funzionamento degli istituti penitenziari o il sistema punitivo in generale, perché è stato solo nell’Ottocento grazie al divergente pensiero di alcuni illuminati che la pena di morte e la tortura hanno lasciato spazio all’isolamento e alla segregazione, una riforma certamente meno brutale ma che presenta dei grossi limiti e deve essere rivista. Fermarsi a due secoli fa significa considerare il carcere la riforma più umana ed efficace che possiamo desiderare e accettare implicitamente l’incapacità di cambiare la nostra rappresentazione del mondo e della realtà per migliorare la società in cui viviamo, come invece hanno fatto nel corso di questa lunga storia i nostri antenati. I detenuti comuni come al 41bis: niente tv dopo la mezzanotte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2019 Nuova Circolare del Dap. I detenuti protestano in diversi istituti penitenziari dopo l’emanazione di una nuova circolare del Dap che obbliga di spegnere la televisione dopo la mezzanotte. Mentre nel carcere di Perugia c’è stata una pacifica protesta ben gestita dalla direttrice, circa 270 detenuti del carcere di Valle Armea, a Sanremo, hanno protestato per tre ore. Critico il coordinatore nazionale dei Garanti territoriali dei detenuti Stefano Anastasìa, raggiunto da Il Dubbio, contro il provvedimento. I detenuti protestano in diversi istituti penitenziari dopo l’emanazione di una nuova circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che obbliga di spegnere la televisione dopo la mezzanotte. Mentre nel carcere di Perugia c’è stata una pacifica protesta ben gestita dalla direttrice, circa 270 detenuti del carcere di Valle Armea, a Sanremo, hanno protestato per tre ore, a partire dalla mezzanotte, contro la nuova circolare. Per sedare gli animi sono intervenute tutte le unità di polizia penitenziaria, anche quelle fuori servizio per una cinquantina di agenti in totale. I detenuti hanno dato libero sfogo a urla, schiamazzi, lancio di bombole ed hanno sbattuto le stoviglie contro le grate delle celle. Il coordinatore nazionale dei garanti dei detenuti territoriali Stefano Anastasìa, raggiunto da Il Dubbio, muove aspre critiche contro questo provvedimento che sembra essere partorito anche per mettere fine ai diversi reclami, per la maggior parte accolti dalla magistratura di sorveglianza, dei detenuti al 41bis contro l’obbligo di non guardare la televisione dalla mezzanotte fino alle prime ore del mattino. Se prima sembrava essere un discrimine solo nei loro confronti, ora tale disposizione - più volte censurata dai giudici - è estesa anche per i detenuti comuni. “Proprio ieri (martedì, ndr) c’è stata una pacifica protesta - spiega il garante Anastasìa - gestita in maniera esemplare dalla direttrice, nel carcere di Perugia. Si tratta di una circolare assurda che andrebbe semplicemente ritirata, con tante scuse ai detenuti e agli operatori penitenziari che sono stati costretti ad applicarla in periferia, nei singoli istituti”. Il coordinatore nazionale dei Garanti regionali aggiunge: “Preoccupa, poi, che essa sia stata motivata esclusivamente dall’intenzione di non attuare la giurisprudenza di sorveglianza che ha dichiarato l’illegittimità di una simile vessazione in 41bis. Preoccupa per due ragioni: perché conferma la prassi dell’Amministrazione penitenziaria di sottrarsi al controllo giurisdizionale nella gestione del 41bis e perché - conclude Anastasìa - vede pericolosamente riflettersi il regime speciale del 41bis sul regime ordinario cui è sottoposta la stragrande maggioranza dei detenuti”. Il garante Anastasìa si riferisce in particolare alle restrizioni del Dap avviate tramite la circolare n. 3676/ 6126 del 2 ottobre 2017, la quale ha disposto ai detenuti al 41bis che “la fruizione del televisore sarà consentito solo in orari stabiliti, con accensione dalle ore 07.00 e spegnimento non oltre le ore 24.00, al fine di non disturbare il riposo degli altri detenuti/internati”. Va ricordato che su questa previsione si è di recente espresso il Garante nazionale delle persone private della libertà nel Rapporto sul regime detentivo speciale, dove ha sollevato perplessità rispetto alla limitazione oraria della fruizione della TV e ha ritenuto la restrizione ingiustificata e sproporzionata, condividendo, sul punto, la valutazione posta alla base di un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Roma. Proprio per questo motivo, il Garante nazionale ha raccomandato la revisione della Circolare, in modo da assicurare l’accesso all’informazione e, quindi, la fruizione dei canali televisivi senza il limite temporale oggi previsto. Ma ora, con la nuova circolare, tale limite temporale è stato esteso anche per i detenuti comuni. Una decisione che ha creato proteste, inevitabilmente ci saranno nuovi reclami e toccherà, ancora una volta, alla magistratura di sorveglianza metterci mano. Caso nomine al Csm, l’Anm chiede le dimissioni dei 4 togati coinvolti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2019 Dimissioni immediate. Sono quelle che l’Anm, con un documento votato all’unanimità dal Comitato direttivo di ieri, chiede ai 4 consiglieri del Csm che si sono, per ora, “solo” autosospesi. Troppo poco, però. Per l’Anm devono lasciare subito un incarico istituzionale per il quale, si sottolinea con durezza, “evidentemente non appaiono degni”; troppo grave l’opacità delle condotte messa in evidenza dall’inchiesta della Procura di Perugia. Si tratta di Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e del presidente della commissione Direttivi Paolo Criscuoli. Che però davanti alla richiesta hanno fatto muro considerandola “infondata”. Cartoni, per esempio, ribadisce la correttezza del proprio operato, sottolineando come “evidentemente ormai in magistratura si è perso il senso della moderazione e della ragione”. Dal Comitato Anm arriva poi anche il deferimento al collegio dei probiviri dei 4 consiglieri, più il dimesso, lui sì, consigliere Luigi Spina, indagato per favoreggiamento, e dell’”architetto”, secondo il quadro dei Pm, Luca Palamara, indagato per corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. In più, per accertare violazioni al codice etico dell’Associazione, davanti ai probiviri finirà anche Cosimo Maria Ferri, magistrato e oggi deputato Pd. E proprio dal Pd, dopo giorni di silenzio, ieri sono arrivate, sollecitate anche dall’ex procuratore Antimafia e ora neoparlamentare europeo Franco Roberti che chiedeva parole di condanna per i rappresentanti del partito coinvolti (l’ex sottosegretario Luca Lotti e Ferri), le dichiarazioni del segretario Nicola Zingaretti che, ribadendo la difesa del principio di autonomia dei corpi istituzionali, da una parte chiede alle indagini di fare chiarezza, dall’altra, sollecita interventi per assicurare procedure più trasparenti al funzionamento del Csm. Al tema delle proposte di riforma, entrando nel dettaglio e provando a giocare d’anticipo rispetto alle tentazioni della politica, si aggancia però anche un primo “pacchetto” di linee di intervento messe a punto dall’Anm. L’Associazione magistrati, infatti, nel convocare per il prossimo 14 settembre l’Assemblea generale di tutti gli iscritti, segnala innanzitutto la necessità di mettere in campo, mentre torna d’attualità il tema del sorteggio già in maniera prudente avanzato in tempi meno critici dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, proposte di modifica del sistema elettorale per i componenti togati del Csm, per assicurare maggiore rappresentatività e partecipazione. Di più, se impatta sul solo fronte “interno” l’introduzione di forme di incompatibilità tra incarichi associativi e istituzionali, portata diversa ha la richiesta di modificare il recente Testo unico della dirigenza in maniera tale da privilegiare nell’assegnazione degli incarichi direttivi l’esperienza giudiziaria svolta positivamente rispetto ad altri parametri. E ancora, spazio alla proposta di calendarizzazione delle pratiche relative alla nomina di direttivi e semi-direttivi secondo criteri cronologici più rigorosi, legati all’effettiva vacanza del posto da coprire; innalzamento dei limiti minimi di valutazione di professionalità necessari per concorrere agli incarichi direttivi e semi-direttivi. Reintroduzione poi della norma che prevedeva il divieto per almeno 2 anni per i consiglieri superiori uscenti di presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi o per essere collocati fuori ruolo; introduzione di analoga norma che preveda che i magistrati fuori ruolo possano presentare domanda per incarichi direttivi o semi-direttivi solo trascorsi almeno 2 anni dal rientro in ruolo; divieto di ritorno all’esercizio delle funzioni giudiziarie per magistrati che hanno assunto incarichi politici, che dovranno essere ricollocati in funzioni amministrative. Tutta “acqua fresca” però se non sarà accompagnata, e l’Anm lo riconosce, da un lavoro soprattutto culturale per sradicare la pianta del carrierismo che (già il rischio era stato denunciato all’ultimo congresso di Siena, ma ora è deflagrato) “sembra interessare settori sempre più ampi della magistratura”. Dove a fare da riferimento dovrebbe essere quella norma etica, quanto distante dai fatti che stanno emergendo, che vieta ai magistrati di adoperarsi impropriamente per ottenere promozioni. Ora è in gioco lo stesso modello di autogoverno della magistratura Sarà magari giustizialista la richiesta dell’Anm di dimissioni immediate da parte di tutti i consiglieri del Csm anche solo lambiti dalle indagini di questi giorni. E tuttavia ha almeno un pregio, quello di lanciare un chiaro e netto segnale di rottura, all’altezza di una questione morale ormai non eludibile. Come pure l’avere lanciato subito un “pacchetto”, anche circostanziato, di temi di discussione e riforma, ha il vantaggio, senza entrare nel merito di ciascuno degli interventi ipotizzati, di volere da subito promuovere il cambiamento senza aspettare l’esito delle vicende giudiziarie. Tanto più che una realtà e un paradosso appaiono sempre più evidenti. La realtà è che la bufera che ha investito il Csm ha una portata sistemica; se a venire messo in discussione è lo stesso modello di autogoverno della magistratura, cardine costituzionale della sua autonomia e indipendenza anche se non soprattutto rispetto alla politica, a cascata rischiano di seguire temi da decenni discussi e oggetto di polemiche come l’obbligatorietà dell’azione penale o la separazione delle carriere. Con il paradosso che ciò che non è stato possibile nel ventennio berlusconiano, diventi molto attuale ora sulla scia delle (male)condotte di alcuni magistrati. Di questo si trova traccia, a volerli ascoltare, in molti dei tesi interventi che echeggiano nelle assemblee autoconvocate nei principali uffici giudiziari del Paese, da Milano a Torino. Come pure ve ne è consapevolezza nelle posizioni assunte martedì in uno dei più drammatici plenum della storia del Consiglio. Anche consiglieri come Piercamillo Davigo, che facilmente sarebbe potuto passare all’incasso dopo avere condotto una campagna un anno fa contro le logiche correntizie e spartitorie, hanno avuto toni di unità e fortissima preoccupazione per la salvaguardia delle istituzioni. La magistratura, soprattutto quella organizzata se ancora vuole avere credibilità davanti a un’opinione pubblica sconcertata dalla permeabilità alla politica di alcuni dei suoi principali esponenti, dovrà procedere a cambiamenti importanti, rimettendo in discussione anche approdi recenti, come il Testo unico della dirigenza, dove qualcuno rimpiange la vecchia “anzianità senza demerito” e chiede di limitare, se non azzerare i margini di discrezionalità delle scelte, suggerendo, per esempio, la rotazione dei vertici degli uffici. Margini di discrezionalità che il ritorno di attualità di una soluzione di dubbia costituzionalità come il sorteggio dei componenti del Csm, ugualmente vorrebbe azzerare. Di certo c’è che il totem dell’Esecutivo gialloverde, il contratto di governo, alle prime righe, guarda un po’, della parte dedicata alla giustizia, espressamente si propone di modificare il sistema elettorale del Consiglio. Più politica nelle procure e nel Csm: le riforme in arrivo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 giugno 2019 Separazione delle carriere, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, nuova legge elettorale del Consiglio. La bufera sui magistrati offre l’occasione alla politica per portare avanti progetti sempre fermati dall’Anm. Nell’inerzia dei 5 Stelle, la Lega va avanti a braccetto con Forza Italia. La magistratura è sotto botta e la politica - che pure è l’altra metà del problema evidenziato dalle indagini della procura di Perugia - può approfittarne per spingere avanti alcune proposte di riforma che la magistratura associata è sempre riuscita a bloccare. Non c’è solo Salvini che ha un’idea medievale della giustizia - andrebbe esercitata nel nome del governante - anche i 5 Stelle adesso propongono interventi sul funzionamento del Csm, anche se nessun parlamentare grillino ha osato in tutta la legislatura presentare un solo disegno di legge. Lo ha fatto invece il Pd, con il deputato Stefano Ceccanti che ha individuato nel sistema di elezione dei membri togati del Consiglio il punto debole: il collegio unico nazionale e il sistema proporzionale aumenterebbero il peso delle correnti. Anche per il Csm, così, Ceccanti propone il maggioritario uninominale, magari con il sistema del voto alternato “per dare più peso alle persone che alle correnti”. L’ex ministro della giustizia Pd Andrea Orlando, che nella scorsa legislatura vagheggiò una riforma complessiva del Csm ma non riuscì a presentare un disegno di legge, ieri ha detto che ci vuole una riforma vera, “fatta dal legislatore”, e dunque non basta l’autoriforma già conclusa dallo scorso Csm. I 5 Stelle a questo punto richiamano il contratto di governo, che nella parte sulla giustizia si apre con alcuni spunti sull’ordinamento giudiziario. Ma nell’inerzia grillina si è mossa la Lega, trascurando la parte sull’organizzazione e puntando dritta su due riforme del codice penale a costo zero ma dall’evidente sapore propagandistico. Nell’eterna attesa dei nuovi codici di procedura promessi dal ministro Bonafede ormai sette mese fa, gli unici due punti realizzati del contratto sulla giustizia sono la legittima difesa e l’abolizione del rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. I disegni di legge che prevedono riforme di più ampia portata li ha firmati invece Forza Italia, e nel lavoro di commissione ha subito raccolto il sostegno della Lega. Sono due progetti che sotto traccia stanno andando avanti alla camera e al senato ormai da alcuni mesi. Chiusa la fase delle audizioni, sono entrambi alla vigilia delle prime votazioni. Il primo prevede la rigida separazione delle carriere tra magistrati requirenti e magistrati giudicanti ed è in realtà un disegno di legge di iniziativa popolare. promosso dagli avvocati penalisti dell’Unione camere penali. Forza Italia lo ha pienamente abbracciato e il relatore è il deputato berlusconiano Francesco Paolo Sisto. La proposta è quella di cambiare l’articolo 104 della Costituzione - cosa che anche secondo Ceccanti non dev’essere considerata un tabù - spaccando in due l’organo di autogoverno dei magistrati: un Csm per i giudici e uno per i pm. Entrambi presieduti dal capo dello stato ma entrambi composti per metà da membri laici, eletti cioè dal parlamento. Oggi la proporzione è in favore dei membri togati, due terzi a un terzo. Il disegno di legge costituzionale apre anche una porta all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale che andrebbe esercitata “nei casi e nei modi previsti dalla legge”. L’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale è il cuore dell’altro disegno di legge, presentato dall’ex sottosegretario alla giustizia di Forza Italia Luigi Vitali e in discussione al senato. Prevede che sia il governo a dettare le priorità per l’azione penale, per iniziativa del ministro della giustizia ma anche di quello dell’interno (cosa che evidentemente Salvini apprezza). I pm avrebbero l’obbligo di attenersi alle indicazioni nella scelta delle indagini da mandare avanti. Le proposte per curare la “politicizzazione” della magistratura sono, dunque, quelle di far pesare di più la politica. Lotta di potere (in toga) di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 6 giugno 2019 Le inchieste su alcuni membri del Csm sono rilevanti soprattutto per l’atmosfera ambientale che illustrano. Le inchieste in corso su alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura non sono rilevanti per le fattispecie penali a cui esse finiranno (o non finiranno) per mettere capo. Al pari delle inchieste su Mani Pulite di venticinque anni fa esse sono rilevanti per qualcosa di ben più importante: per l’atmosfera ambientale che illustrano. Per la luce che gettano vuoi sulle condizioni con cui da tempo funzionano parti cruciali della nostra vita pubblica, vuoi sulla qualità antropologica e sulla tenuta etica di coloro che ne sono protagonisti. Che in questo caso sono dei protagonisti particolari: i magistrati, e cioè in pratica i padroni della vita e dei beni di ciascuno di noi. Diciamo le cose senza giri di parole, come del resto ha già fatto più che a proposito il presidente Mattarella. Proprio nella misura in cui non si tratta di un’associazione di allibratori di corse ippiche o di grossisti dei mercati ortofrutticoli, bensì dell’Associazione nazionale dei magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura, l’immagine che esce dalle inchieste è devastante. E tanto più obbliga a considerazioni generali in quanto la fanghiglia che oggi emerge a proposito del Csm si aggiunge a quella che solo poco tempo fa è emersa riguardo a un’altra importante magistratura come il Consiglio di Stato. Una fanghiglia fatta di comportamenti illegali che si ha diritto di presumere forse non tanto circoscritti. A base di regali, di “omaggi” vari, di vacanze, e di quant’altro rappresenti un agognato miraggio di status per borghesucci ineducati a caccia di privilegi. Ma se questa è l’eccezione - e vogliamo credere che lo sia - essa non nasce dal nulla. Nasce dalla prassi abituale che da molti anni a questa parte caratterizza un Csm ridotto a “mercato delle vacche” (copyright Marco Travaglio) tra le varie correnti politiche in cui è divisa la magistratura. Assatanati rappresentanti di tali correnti usi a combattere senza esclusione di colpi e di compromessi per far nominare i propri candidati agli uffici più importanti, l’abitudine non infrequente dei dossier come strumento di pressione e di ricatto, regole calpestate pur di ottenere la meglio, contatti abituali dei vari magistrati con rappresentanti di questo o quel partito politico per tessere le opportune strategie all’interno del Consiglio stesso, e via di questo passo. Il Csm è da sempre (diciamo da qualche decennio) l’insieme di tutte queste più o meno commendevoli attività. Le quali hanno un nome: politica. Di infima qualità, politica degenerata, ma politica. E come sempre quando si tratta della politica l’obiettivo è stato ed è sempre uno: il potere e ciò che esso di volta in volta significa. Ormai da molto tempo i membri laici e togati del Consiglio Superiore della Magistratura costituiscono in realtà un gruppo di persone impegnate quotidianamente in una più o meno aspra competizione per ottenere la guida di uno dei tre poteri fondamentali di ogni collettività politica: il potere giudiziario. Da questo punto di vista è difficile sottrarsi all’impressione che sia stata perlomeno un’ingenuità da parte dei costituenti immaginare di affidare tale potere e l’inevitabile lotta politica per il suo esercizio esclusivamente a un ristrettissimo gruppo di persone perlopiù prive di legame con la sovranità popolare (in un democrazia l’unica fonte di legittimazione di qualunque potere pubblico), dunque irresponsabili, e oltre tutto ovvie beneficiarie del potere da esse esercitato ai fini delle proprie carriere personali. Ingenuità dei costituenti aggravata, poi, da una legge per l’elezione dei magistrati membri del Consiglio (quella attuale stabilisce un sistema maggioritario puro con collegio unico nazionale) la quale non ha visto eleggere mai, dicesi mai, un candidato che non appartenesse a una corrente organizzata. Aggravando in tal modo la degenerazione politicista del Csm, la subordinazione di tutto all’appartenenza ideologica, l’elevazione di tale appartenenza a criterio supremo della qualità delle persone: cioè il morbo che ha avviato quell’organo alla vergogna e alla rovina attuali. La prima riga di quella parte della nostra Costituzione che è dedicata alla magistratura recita testualmente: “La giustizia è amministrata in nome del popolo”: per poi aggiungere “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Ora, è davvero difficile dire che cosa oggi possa mai concretamente significare questa solenne evocazione del “popolo” nella realtà di un’amministrazione della giustizia che non solo è circondata dal massimo sospetto e da innumerevoli critiche da parte dell’opinione pubblica, ma che non a caso vede il democratico istituto della giuria popolare (pure previsto dall’articolo 102) strettamente limitato ai soli processi in Corte d’Assiste (cioè solo per i reati gravissimi), e per giunta inficiato dalla presenza accanto ai giurati popolari di due magistrati messi lì apposta per “guidarli” e condizionarli. Quanto ai giudici “soggetti soltanto alla legge”, non mi pare sbagliato chiedersi se possono essere considerati davvero tali dei magistrati i quali se ambiscono a incarichi importanti, se desiderano ottenere un giusto riconoscimento per le loro capacità, devono per forza ingraziarsi il capetto di una corrente del Csm, mostrare di condividerne le idee (naturalmente pugnacemente orientate a difesa dell’indipendenza della magistratura…) e magari, per soprammercato, andare pure a cena insieme a lui con un sottosegretario del Pd o un deputato della Lega. Se la magistratura si ammala di politica la sua indipendenza viene mortificata di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 6 giugno 2019 Lo scontro tra Consiglio Superiore e pubblici ministeri, sul metodo utilizzato per la scelta dei ruoli direttivi negli uffici giudiziari, in particolare di quelli inquirenti, ha dimostrato in maniera lampante che la magistratura da “ordine autonomo” è diventato “potere” e il potere ha sempre un valore politico. In tante battaglie che abbiamo portato avanti in Parlamento e in numerosi scritti anche di valore scientifico e non solo politico, abbiamo denunziato questa anomalia che senza dubbio avrebbe portato ad uno scontro all’interno della stessa magistratura dopo le aspre contese politiche e con i politici. Negli anni 80 un pubblico ministero di valore come Gherardo Colombo teorizzò, a nome di magistratura democratica, che “il ruolo del magistrato dovesse essere quello di controllore del potere politico non essendoci alcuna forza politica compreso il Pci che a quell’epoca fosse in grado di contestare, a suo parere, il potere del partito di maggioranza”. Dagli anni 90 in poi con Tangentopoli, ma non solo, si è rafforzato questo ruolo anomalo della magistratura che non fa riferimento soltanto alla corrente di sinistra ma ha investito tutto l’ordine divenuto appunto “potere”. La conseguenza è che il Csm non riesce ad essere un organo di “garanzia” che tutela l’indipendenza, ma un organo che tutela solo l’autonomia come separatezza, fuori da ogni responsabilità e, da ogni controllo, come oggi possiamo agevolmente constatare. Le pratiche di lottizzazione che da anni si praticano anche in maniera spregiudicata, che potrebbero essere giustificate (e non lo sono) per le questioni politiche, non sono ammesse per scelte che dovrebbero essere fatte per garantire appunto la imparzialità di chi deve dirigere un ufficio giudiziario. Orbene tutto quello che la stampa ci rivela, di incontri, di colloqui riservati, di presunti reati e certamente di comportamenti deontologicamente condannabili, fa ricadere sulla magistratura i tormenti che per tanti anni con le loro iniziative hanno colpito la sfera privata di politici o di amministratori per normali incontri che naturalmente, questi si, sono doverosi e necessari per accordi istituzionali e politici. Diventa evidente purtroppo e veritiero il luogo comune che si sussurra da anni che “il procuratore della Repubblica, in particolare quello di Roma, vale tre ministeri!”. L’ufficio di presidenza del Csm ha auspicato che “si impone un confronto responsabile tra tutti componenti per la forte affermazione della funzione istituzionale del Csm a tutela dell’intera magistratura”. Dopo tutto quello che abbiamo letto sulla stampa e dopo le dimissioni di un suo componente, e altre che stanno per arrivare non credo sia possibile ridare credibilità e trasparenza al Csm alla magistratura se non affrontando il problema della giustizia che è stato trascurato da governi ben più consistenti, figuriamoci se può essere affrontato da quello in carica. È chiaro che noi come cittadini abbiamo interesse a correggere le deviazioni istituzionali che inficiano la divisione dei poteri perché se ci sono fenomeni di corruzione la situazione diventa certamente più grave, e scandalosa, ma interesserà i responsabili e certamente inciderà sul prestigio e sulla credibilità della magistratura. La nostra speranza è che la stessa magistratura riconosca che la supplenza politica a lungo andare deprime e delegittima la stessa istituzione. Lo diciamo da anni sempre inascoltati e bisognerebbe riconoscere che è arrivato il momento di porre mano ad alcune riforme che sono fondamentali per il funzionamento della giustizia. Il ruolo del pm così delicato e così determinante per l’equilibrio istituzionale non può essere subordinato al potere delle correnti o di singoli magistrati, e al tempo stesso essere subordinato al potere politico. Le correnti nella magistratura e nel Csm non sono manifestazioni di contenuto culturale o di forte pensiero: riconosciamolo con molta sincerità: si tratta di piccoli o grandi posizioni di potere che mortificano l’indipendenza. Come non riconoscere questa patologia?! Se la magistratura vuole superare questa prova durissima che inevitabilmente la segnerà per sempre, dovrebbe accettare alcune riforme e per prima la riforma del pm il cui ruolo deve essere diverso da quello del giudice per dare valore al processo penale che negli anni 90 tutti abbiamo voluto accusatorio: bisognava superare quello “inquisitorio” che sembrava meno democratico e meno garantista. La stessa magistratura deve riconoscere soprattutto dopo queste evidenti disfunzioni che è urgente modificare il rapporto tra laici e togati nel Csm per determinarne la parità in modo da attribuire un ruolo più incisivo agli stessi laici all’interno del consiglio; stabilire che anche il pubblico ministero come il giudice non possa permanere nella stessa sede più di cinque anni per evitare che si determinino aderenze e solidarietà negative. Queste elementari proposte sono presenti in parlamento dagli anni 70 e purtroppo l’insofferenza e il veto della associazione nazionale dei magistrati ha condizionato il legislatore. Magistrati fuori dal sottogoverno di Livio Pepino Il Manifesto, 6 giugno 2019 Il problema non è tanto l’organo di autogoverno, quanto la magistratura. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Lo scandalo sulle frequentazioni di Luca Palamara e dei maneggi tra componenti del Csm e politici (tra cui Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, e Luca Lotti, ex ministro renziano inquisito a Roma) per pilotare la nomina del Procuratore della capitale ha aperto una crisi gravissima nel Csm. Il Consiglio superiore della magistratura è messo in condizioni prossime alla paralisi dalle dimissioni di un componente e dall’autosospensione di altri quattro (evidentemente suggerite dal colle più alto) e con un drammatico dibattito in corso sulla sua stessa sopravvivenza (solo momentaneamente sopito dal documento approvato ieri l’altro dal plenum). La gravità della vicenda ha prodotto reazioni all’apparenza molto dure, culminate da ultimo nella richiesta di ulteriori dimissioni da parte del presidente dell’Associazione magistrati. Ma l’impressione è che ancora sfugga, per superficialità o per scelta, la reale entità dei problemi e dei rimedi necessari. Concentrare l’attenzione e le critiche sul Csm è, infatti, fuorviante. Il problema non è tanto l’organo di autogoverno, quanto la magistratura. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Il ruolo di Cosimo Ferri come cerniera tra la magistratura e il sottobosco (bipartisan) della politica è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi. E da sempre l’adesione a Unità per la costituzione è una sorta di assicurazione per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Il Consiglio non è un organismo con logiche proprie ma quel che vuole una parte consistente (anche se non maggioritaria) della magistratura. A ciò le correnti interne (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui. Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”… Se poi posso citare un’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò l’ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati. Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono una novità, ancorché sottovalutate dalla corporazione (e dai rapporti dei capi degli uffici). A questa situazione occorre cercare di porre rimedio se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni. Che fare, dunque? Non ci sono scorciatoie e nessuno ha la bacchetta magica. Ma qualche indicazione è possibile. Non servono esercizi di ingegneria istituzionale o, peggio, soluzioni bizzarre come il sorteggio dei componenti del Consiglio (che, a tacer d’altro, non toccano la struttura della corporazione). Ciò che occorre è, anzitutto, una forte ripresa di iniziativa delle componenti progressiste della magistratura per denunciarne e combatterne cadute e compromissioni ché, da sempre, il malcostume si contrasta contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Dopo un lungo appannamento vedo, al riguardo, incoraggianti segnali di ripresa. Soprattutto in Magistratura democratica, tornata finalmente a occuparsi di analisi critiche della magistratura e della giurisdizione più che di nomine e di incarichi, come si vede dalle pagine della sua rivista online “Questione giustizia”. E poi occorre acquisire la consapevolezza che non si correggono i vizi del Consiglio ripristinando modelli burocratici peggiori degli attuali. Gli antidoti alle degenerazioni sono una vera temporaneità degli uffici direttivi (che riporti i dirigenti al ruolo di primi inter pares e ne elimini o attenui il carattere di centri di potere che - come nel caso della Procura di Roma - valgono nel Cencelli della politica come due o tre ministeri) e la fuoruscita dei magistrati dai luoghi, per essi impropri, del sottogoverno, a cominciare dai ministeri (dai quali è oggi possibile transitare direttamente negli uffici più delicati del Paese). Salvini indica per nome i giudici “pro migranti”: devono astenersi di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 6 giugno 2019 L’Arci: dossieraggio. Forse già giovedì il presidente Mattarella riceverà il leader della Lega. Sarà il presidente Sergio Mattarella a sondare le intenzioni di Matteo Salvini. Il capo dello Stato riceverà in tempi brevissimi, forse già oggi, il vicepremier leghista. Rapporti con l’Unione europea, stato di salute del governo e, probabilmente, anche il contorno della controversa iniziativa di ieri del Viminale: non soltanto l’impugnazione della sentenza del Tar di Firenze contro le cosiddette zone rosse e il ricorso contro quelle di alcuni Tribunali in merito all’iscrizione anagrafica di alcuni stranieri. Il nuovo scontro con la magistratura nasce dal fatto che in una nota si legge che “il Viminale intende rivolgersi all’Avvocatura dello Stato anche per valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri, per l’assunzione di posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini”. Nel comunicato si fa riferimento alle idee dei magistrati “espresse pubblicamente o attraverso rapporti di collaborazione o vicinanza con riviste sensibili al tema degli stranieri come “Diritto, immigrazione e cittadinanza” o con avvocati dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) che hanno difeso gli immigrati contro il Viminale”. E soprattutto citando esplicitamente alcuni magistrati tra cui Luciana Breggia, giudice del Tribunale di Firenze, relatrice della sentenza che ha escluso il ministero dal giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato: “Si candidi - ha detto Salvini - per cambiare le leggi che non condivide”. Immediata la replica dell’Associazione nazionale magistrati, che ha chiesto al Csm di tutelare i colleghi mentre l’Arci parla esplicitamente di “dossieraggio” da parte del ministro. Di qui, una seconda nota da parte del Viminale: “L’Avvocatura dello Stato saprà consigliarci per il meglio: ci chiediamo, col dovuto rispetto, se alcune iniziative pubbliche, alcune evidenti prese di posizione di certi magistrati siano compatibili con un’equa amministrazione della giustizia. Parliamo di iniziative pubbliche e riportate dai media”. Ma il capo dello Stato certamente chiederà a Salvini con quale approccio intenda rapportarsi all’Europa, che potrebbe avviare la procedura d’infrazione. Il leader leghista si è impegnato, con Luigi Di Maio e anche con il premier Conte, a non alzare i toni nei confronti dell’Unione. Non è detto, tuttavia, che l’impostazione contenuta nella lettera di risposta del governo all’Unione veda il leader leghista entusiasta, anzi. Non per nulla le persone al ministro osservano che la lettera “l’ha letta, il che non significa condividerla al cento per cento”. Di certo, il leader leghista ieri ha ribadito che la flat tax non si tocca: “L’unico modo per ridurre il debito creato in passato è tagliare le tasse e permettere agli italiani di lavorare di più e meglio”. Commissione a parte, l’Europa ieri ha dato anche altri dispiaceri a Salvini. Il leader Brexit Nigel Farage ha annunciato che il suo partito non farà parte del gruppo sovranista: “C’era stata una conversazione preliminare amichevole che loro hanno deciso di utilizzare in modo politico e direi piuttosto disonesto”. Mentre l’arrivo dei Pirati con i Verdi fa scendere il gruppo Salvini-Le Pen al quinto posto per numero di eurodeputati. Salvini fa controllare la vita privata dei giudici “scomodi” di Riccardo Chiari Il Manifesto, 6 giugno 2019 Dopo il motivato stop dei giudici amministrativi della Toscana alle “zone rosse” di Firenze, ritenute apertamente anticostituzionali, e le decisioni dei tribunali civili della stessa Firenze, di Bologna e di Genova, che in base alle leggi oggi in vigore hanno autorizzato i richiedenti asilo ad essere iscritti all’anagrafe, il Viminale avvia un dossieraggio sui magistrati e annuncia ricorsi su ricorsi. Il motivato stop dei giudici amministrativi della Toscana alle “zone rosse” di Firenze, ritenute apertamente anticostituzionali, e le decisioni dei tribunali civili della stessa Firenze, di Bologna e di Genova, che in base alle leggi oggi in vigore hanno autorizzato i richiedenti asilo ad essere iscritti all’anagrafe, hanno fatto infuriare Matteo Salvini. Il vicepremier e ministro dell’interno, in risposta, ha annunciato il ricorso al Consiglio di Stato contro il provvedimento del Tar di Firenze; altri ricorsi sulle sentenze che permettono l’iscrizione all’anagrafe dei migranti; ma soprattutto un ricorso all’Avvocatura dello Stato “per valutare se i magistrati che hanno emesso le sentenze avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri, per l’assunzione di posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini”. Un concetto ribadito la sera in tv al programma Otto e Mezzo su La7. Le mosse del Viminale fanno tornare alla mente momenti bui delle recente storia italiana, come la delegittimazione messa in pratica dai media di casa Berlusconi ai danni del giudice Raimondo Mesiano, reo di aver condannato la Fininvest nelle pieghe del processo sul lodo Mondadori. Questo caso appare ben più grave, perché ad agire è una istituzione statale che, nei fatti, avvia un “dossieraggio” contro magistrati considerati scomodi. Non altrimenti è possibile giudicare la decisione di Salvini di far analizzare le uscite pubbliche dei magistrati firmatari delle sentenze, e i loro rapporti di “vicinanza e collaborazione con chi difende gli immigrati contro il Viminale”. Il calcolo politico del leader della Lega, in un momento in cui l’Associazione nazionale magistrati e lo stesso Consiglio superiore della magistratura vivono giorni difficilissimi, a causa di ben altre, gravi vicende, è evidente. Ma l’Anm reagisce comunque: con un documento approvato all’unanimità, l’organo sindacale dei magistrati chiede “che il Csm effettui tutti i passaggi necessari a tutela della collega Luciana Breggia, presidente della sezione specializzata in materia di immigrazione del Tribunale di Firenze, e dell’autonomia e indipendenza della giurisdizione”. Nel ripercorrere la vicenda, l’Anm denuncia: “In seguito a un provvedimento collegiale che ha dichiarato inammissibile il reclamo del ministero dell’interno, si è ipotizzato l’intento “politico” del giudice diretto a disapplicare norme di legge, a fronte di un provvedimento sgradito. La critica non si è rivolta quindi al contenuto del provvedimento, ampiamente motivato, ma alle supposte “idee politiche del giudice” e alla sua partecipazione a convegni, peraltro di carattere scientifico, in ragione dei partecipanti e dei relatori evidentemente loro sgraditi”. Il documento dell’Anm richiama sul caso anche un post pubblicato su facebook dallo stesso Salvini, che “riportando un articolo de ‘Il Giornalè che contiene i medesimi attacchi alla persona del giudice, è stato seguito da commenti contenenti insulti e minacce che non risultano essere stati rimossi”. Ma di cosa dovrebbero essere “colpevoli” Luciana Breggia ma anche Matilde Betti, presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna? Soprattutto Breggia di aver detto in una intervista a Famiglia Cristiana che i Centri di accoglienza straordinaria sono un “limbo di insicurezza”, e che “le leggi che costituiscono il diritto non sempre vanno nella direzione della giustizia”, ricordando le leggi razziali. Poi di essere stata relatrice alla presentazione del libro “L’attualità del male, la Libia dei lager è verità processuale”, scritto dall’avvocato Maurizio Veglio che collabora con l’Asgi, al fianco della portavoce di Mediterranea, Alessandra Sciurba. Quanto allo stop del Tar toscano alle “zone rosse” fiorentine, dopo un ricorso dell’Aduc sul caso di Matteo Innocenti, attivista di Pap denunciato per possesso di cannabis e per questo considerato “pericoloso”, è la stessa associazione a tirare le somme dopo il ricorso del Viminale al Consiglio di Stato: “Stato libero di Bananas? È il primo pensiero che viene in mente, ma vogliamo credere e sperare che non sia così. Perché ancora crediamo che l’Italia sia uno Stato di diritto, coi poteri separati e l’autonomia di ogni potere rispetto agli altri”. L’associazione infine ricorda: “A noi preme la sicurezza di tutti, e ci preme che possa essere preservata a partire dai diritti costituzionali degli individui, quelli che la sentenza del Tar della Toscana ha evidenziato essere stati violati con l’ordinanza della Prefetto di Firenze. Preservando i diritti individuali, le autorità dovrebbero essere in grado di preservare anche i diritti della collettività. Altrimenti si passa dallo Stato di diritto a quello di Polizia”. Dossier del Viminale contro le toghe sgradite a Salvini di Andrea Carugati La Stampa, 6 giugno 2019 Nel mirino chi ha pronunciato recenti sentenze favorevoli ai migranti. Contestate le partecipazioni a dibattiti e le collaborazioni con riviste. Matteo Salvini contro i giudici: quelli che a suo dire stanno ostacolando la politica del governo su immigrati e sicurezza. “Mi chiedo se certe iniziative pubbliche e alcune evidenti prese di posizione di certi magistrati siano compatibili con un’equa amministrazione della giustizia”, dice il ministro leghista dopo aver fatto annunciare al Viminale il ricorso al Consiglio di Stato contro alcuni provvedimenti presi da magistrati di Firenze e Bologna, e dopo aver diffuso la black-list delle toghe che hanno firmato le sentenze. “Una schedatura”, attaccano il Pd e associazioni come l’Arci. L’intervento del Viminale arriva dopo la decisione del Tar della Toscana di accogliere il ricorso dell’Aduc (associazione per i diritti degli utenti e consumatori) contro le “zone rosse” istituite a Firenze dal prefetto e vietate a determinati soggetti. Una sentenza che fa seguito a quelle di altri due giudici di Bologna e Firenze, contrarie al Viminale, sull’iscrizione all’anagrafe di cittadini stranieri. I giudici in questione sono accusati da Salvini di aver espresso pubblicamente le loro opinioni contrarie alla linea del governo, collaborando con riviste e associazioni pro-migranti. Il Viminale ha quindi tracciato alcuni profili di giudici “ostili”. Uno di questi è Luciana Breggia del tribunale di Firenze: è stata relatrice della sentenza che ha escluso il ministero dal giudizio sull’iscrizione anagrafica di un immigrato. In alcuni dibattiti pubblici ha chiarito le sue idee sull’ immigrazione censurando l’uso della parola “clandestini” e ha rapporti con l’Asgi (associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione). E proprio un avvocato dell’Asgi, Noris Morandi, precisano fonti del Viminale, ha assistito lo straniero che ha fatto ricorso e a cui il giudice Breggia ha dato ragione. La giudice è accusata dal ministro leghista anche di aver partecipato alla presentazione di un libro con la portavoce della ong Mediterranea (quella di Luca Casarini) e col professor Emilio Santoro, reo di aver definito quello gialloverde “il governo della paura”. Nel mirino di Salvini la rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, con cui collaborano anche Rosaria Trizzino (presidente della seconda sezione del Tar toscano che ha bocciato le zone rosse) e Matilde Betti, presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna, che a marzo non ha accolto il ricorso del Viminale contro l’iscrizione all’anagrafe di due cittadini stranieri. Uno di questi era difeso da un altro legale dell’Asgi, Nazzarena Zorzella, per anni co-direttrice della rivista e ora nel comitato editoriale dove siede anche la giudice Betti. L’Anm definisce “sconcertanti” gli attacchi di Salvini che prendono di mira le “opinioni” e non il “merito dei provvedimenti”. “Le modalità adottate” dal ministro, secondo l’associazione magistrati, “gettano discredito sull’intera funzione giudiziaria” e producono “una perdita di serenità da parte di chi la esercita”. Di qui la richiesta al Csm di tutelare “l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione”. “Non intendiamo controllare nessuno né creare problemi alla magistratura in un momento così delicato”, replica Salvini.”Contesto però che se un giudice fa un dibattito a favore dell’immigrazione e poi il giorno dopo emette una sentenza su un immigrato, allora non fai il giudice, ti candidi alle elezioni, vai in parlamento e cambi le leggi”. “Siamo davanti a un ministro che pretende che i giudici si adeguino alle politiche del governo”, attacca il sindaco di Firenze Dario Nardella (Pd). “Il dossieraggio rimanda a uno scenario putiniano, dove ai giudici è richiesto di adeguarsi ai voleri del governo”, rincara il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova. Il presidente dell’Arci Filippo Miraglia parla di “macchina del fango”, “atto scellerato di chi adotta metodi eversivi occupando una carica istituzionale rilevante per la sicurezza del Paese”. Chi sono le tre toghe nel mirino di Salvini (una ha bocciato le zone rosse) di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 6 giugno 2019 Cosa hanno fatto per sollevare i dubbi di Salvini? Tutte e tre hanno preso provvedimenti su migranti e sicurezza, in contrasto con quelli del Viminale. Sono tre donne i giudici che hanno suscitato ieri la presa di posizione del ministro Matteo Salvini: la presidente della seconda sezione del Tar della Toscana Rosaria Trizzino, la presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna Matilde Betti e il magistrato del tribunale di Firenze Luciana Breggia. Cosa hanno fatto per sollevare i dubbi di Salvini? Luciana Breggia è il giudice del Tribunale di Firenze, relatrice della sentenza che ha dichiarato inammissibile il ricorso del ministero contro l’iscrizione all’anagrafe di un immigrato. Il titolare del Viminale ha sottolineato ieri che in dibattiti pubblici ha censurato la parola “clandestini”. Ha partecipato alla presentazione del libro dell’avvocato dell’Asgi Maurizio Veglio dal titolo “L’attualità del male, la Libia dei lager è verità processuale”. Molto stimata da avvocati e colleghi, Luciana Breggia è presidente degli osservatori sulla giustizia civile che promuove le buone prassi ed è a capo della sezione immigrazione. I colleghi la descrivono come una lavoratrice instancabile e una vera autorità in una materia complessa e sempre in evoluzione come l’immigrazione. Matilde Betti è il presidente della prima sezione del tribunale civile di Bologna che il 27 marzo 2019 non ha accolto il ricorso proposto dal ministero dell’Interno contro la decisione del giudice monocratico del capoluogo emiliano che disponeva l’iscrizione nel registro anagrafico di due cittadini stranieri. Il Viminale faceva notare che scrive per la rivista “Diritto, immigrazione e cittadinanza”, sensibile ai temi sul diritto di asilo. Non è piaciuta a Salvini neanche la partecipazione di entrambe al dibattito “Dovere d’accoglienza” organizzato da Asgi, Libera e Magistratura democratica. Carlo Sorgi, segretario della sezione bolognese di Md, ieri ha sentito Matilde Betti al telefono: “È completamente serena fa il suo lavoro con grande serietà e con grande impegno. Abbiamo commentato la pochezza di queste cose rispetto a fatti più gravi come la vicenda del Csm. Ha ricevuto attestati di stima da ogni parte”. Rosaria Trizzino, infine, è la presidente della sezione del Tar che ha bocciato le “zone rosse”: anche lei collabora con la rivista sui diritti degli immigrati. Bonafede difende Salvini: “Non vedo liste di proscrizione” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 6 giugno 2019 Il ministro della Giustizia: “Allucinante quanto emerge sul Csm, va riformato”. Con gran sollievo dalle parti di via Arenula sono state accolte, alla fine di un’altra giornata tesissima tra M5S e Lega, le parole sui giudici del ministro dell’Interno, ospite di Lilli Gruber su La7: “Sarei matto se volessi indagare sulle idee dei magistrati...”, ha detto Matteo Salvini a “Otto e Mezzo”. Una chiosa che ci voleva, per smorzare i toni, dopo che il Viminale in mattinata aveva annunciato il ricorso contro il Tar della Toscana sulle “zone rosse”, chiamando poi in causa direttamente con i loro nomi le tre giudici donne (Rosaria Trizzino, Matilde Betti e Luciana Breggia) che hanno dato torto a Salvini su sicurezza e migranti in questi ultimi mesi. “Pronti a eventuali proposte” - E così il ministro M5S della Giustizia, Alfonso Bonafede, può permettersi adesso toni concilianti, nonostante le proteste vibranti dell’Anm contro lo stesso Salvini e le accuse di “dossieraggio” rivolte al vicepremier leghista dall’Arci: “A noi non risulta esserci alcuna lista di proscrizione e del resto nessuno nel governo ha fatto riferimento a ciò...”, puntualizza il Guardasigilli. Dialogo, non scontro - Lungi da lui l’intenzione di minare ulteriormente la strada del governo, già alle prese con diverse questioni. E a Salvini che continua da giorni a martellare pure sulla necessità di riformare la giustizia, Bonafede non dice di no: “Siamo comunque sempre pronti ad ascoltare eventuali proposte”. Se c’è qualcosa da normare, fa capire il ministro, si può fare insieme, col contributo di tutti. Un concetto che il Guardasigilli ha ripetuto spesso, in questo primo anno trascorso in via Arenula. Come quando, a giugno scorso, ospite a Roma del convegno del Consiglio superiore della magistratura (Csm) sul codice di organizzazione degli uffici giudiziari, dopo aver annunciato il blocco della riforma sulle intercettazioni del precedente governo, da lui definita “legge bavaglio”, disse tra gli applausi dei tanti magistrati presenti: “Il mio impegno prioritario è capire le linee della riscrittura del provvedimento e su questo avvierò un confronto già la prossima settimana con procure e avvocati”. Insomma, la linea che ha sempre preferito è quella del dialogo, mai dello scontro. No al sorteggio - Però, visto che questi sono i giorni bui del Csm, decimato da dimissioni (Luigi Spina, indagato per violazione di segreto e favoreggiamento di Luca Palamara) e autosospensioni (Corrado Cartoni, Antonio Lepre, Gianluigi Morlini e Paolo Criscuoli), dopo l’inchiesta della Procura di Perugia sul cosiddetto “mercato delle toghe”, il ministro della Giustizia accantona per un attimo il riserbo abituale e dice finalmente la sua: “Noi siamo comunque per il rispetto della magistratura! E anche per questo motivo, ritengo allucinante quanto sta emergendo nell’inchiesta sull’operato di alcuni consiglieri del Csm”. Nei giorni scorsi, dopo l’avvio dell’inchiesta della Procura di Perugia, Bonafede aveva subito investito l’ispettorato del ministero del compito di svolgere “accertamenti, valutazioni e proposte”. In via Arenula, è chiaro, c’è molta preoccupazione data la delicatezza della vicenda, ma il ministro, nel pieno rispetto dell’autonomia della magistratura, dall’inizio si era imposto il silenzio, proponendosi di assumere un’iniziativa solo quando il quadro fosse più chiaro. Così, ora Bonafede lo annuncia scandendo bene le parole: “È arrivato il momento di intervenire. Le istituzioni devono intervenire per cambiare sia la composizione, sia il meccanismo di elezione del Csm. Stiamo studiando una riforma adeguata”. Già, la riforma del Csm. Ma a chi propone una composizione del Csm per sorteggio in via Arenula hanno mostrato perplessità “perché potrebbe capitare di far entrare in Consiglio magistrati alle prime armi e dunque ugualmente non in grado di garantire piena indipendenza”. Giovani e legalità, se è sulla strada il primo test per comprendere il disagio di Antonio Coppola* Il Mattino, 6 giugno 2019 I giovani costituiscono il nostro futuro e la nostra speranza di un domani migliore. Peccato che questa primaria risorsa non riesca ad essere sempre al centro dell’attenzione politica quando si parla di scuola, formazione, legalità, occupazione, sicurezza. O meglio, la questione giovanile torna puntualmente in auge in concomitanza di fatti di cronaca più o meno tragici, dando vita, sovente, a vuote disquisizioni sociologiche che, una volta esauritasi l’onda emotiva mediatica, difficilmente si tramutano in progetti concreti. E, così, sempre più ragazzi trovano accoglienza negli ambienti malavitosi, attratti da accattivanti illusioni che, in realtà, celano orizzonti di vita limitati e disperati. Sottrarli a questa triste realtà, che qui al Sud è più consistente, è possibile, purché la politica decida effettivamente di prendersene cura in termini di investimenti nella scuola, nella famiglia, nella cultura e nel lavoro. Bisogna, cioè, offrire loro reali prospettive di inserimento nella società, per rafforzarne dignità ed autostima, impedendo, così, che il bisogno di affermazione si manifesti mediante azioni eccessive, illegali e violente. La strada è un tipico esempio in cui il disagio giovanile trova sfogo in comportamenti tracotanti dalle conseguenze, spesso, lesive se non addirittura letali. Non è un caso, infatti, se, a tutt’oggi, gli incidenti stradali costituiscono la prima causa di mortalità nella fascia d’età tra O e 29 anni. Certo, non tutte le tragedie sono riconducibili ad esperienze di devianza sociale, però è indubbio che nella maggioranza dei casi trovano un comune denominatore in un difetto di preparazione culturale e tecnica dei conducenti, che impedisce l’assunzione di comportamenti corretti e consapevoli, soprattutto in situazioni di emergenza ed improvviso pericolo. Per prevenire questi rischi e migliorare il percorso formativo dei giovani, in più di un’occasione abbiamo proposto di introdurre l’obbligo di corsi di guida sicura per il conseguimento della patente. Ciò consentirebbe di acquisire una maggiore consapevolezza dei propri limiti, una più approfondita conoscenza del corretto funzionamento dei più diffusi sistemi di sicurezza di cui sono dotati i veicoli, nonché una piena confidenza con le manovre da effettuare in situazioni critiche nelle quali spesso l’istinto suggerisce comportamenti errati, talvolta nocivi per sé e per gli altri. L’obbligatorietà di questi corsi, inoltre, comporterebbe la diffusione di appositi centri di “guida sicura”, almeno uno per provincia. Tali strutture, oltre a formare conducenti più abili e responsabili, potrebbero essere rivolte, altresì, ai docenti e discenti delle scuole, alla informazione e sensibilizzazione di tutti gli utenti della strada, alla riqualificazione ed aggiornamento dei conducenti professionali, degli stranieri, dei vecchi patentati e, persino, alla preparazione di piloti sportivi. Senza considerare l’indotto generato dalla presenza di questi centri, in termini economici, con l’organizzazione di eventi, convegni, raduni e competizioni motoristiche. In questo modo, la sicurezza stradale, non solo salverebbe vite umane, ma si trasformerebbe pure in una vantaggiosa opportunità sul piano occupazionale per migliaia di giovani, contribuendo, nel contempo, a ridurre i costi sociali della sinistrosità e migliorare le condizioni di vita della collettività. Queste proposte, che lanciammo proprio dalle pagine del Mattino, due anni fa, in occasione del convegno sul tema del lavoro giovanile organizzato dal cardinale Crescenzio Sepe nell’ambito della conferenza episcopale delle regioni meridionali, sembrano trovare adesso spiragli di luce in seno alla riforma del Codice della Strada. Un testo, si spera, più snello e leggibile di quello attuale, capace di orientare con chiarezza i comportamenti degli utenti della strada. Non ci illudiamo certo di risolvere in questo modo la complessa e fondamentale questione giovanile, ma semplicemente intendiamo contribuire a dare risposte concrete ai nostri ragazzi che chiedono, soltanto, una fondata speranza per il loro avvenire. *Presidente Aci Le ‘ndrine calabresi entrano nel business degli attacchi informatici di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 6 giugno 2019 Aumentano le denunce di attacchi finanziari: le piccole e medie imprese sono nel mirino. Mentre le banche si stanno attrezzando a difendersi, i criminali puntano gli ospedali. Il numero di denunce relative agli attacchi finanziari subiti da grandi, piccole e medie aziende italiane dal 2017 al 2018 è aumentato del 340%, mentre quello delle frodi del 172%. Lo ha detto il Direttore della Polizia Postale e delle Comunicazioni Nunzia Ciardi nel corso del suo intervento al Security Summit organizzato da Clusit e Astrea ieri a Roma. Ciardi ha anche ricordato un altro dato preoccupante, riferito nel Rapporto Clusit 2019, relativo al raddoppio dei furti di dati sanitari che hanno subito un’impennata del 99%. Informazioni anagrafiche, indirizzi email, storia medica dei pazienti, operazioni, immagini mediche, farmaci prescritti, risultati dei test, malattie diagnosticate, tutti i dati trattati con dispositivi connessi a Internet sono un bottino ghiotto per i criminali soprattutto se associati a informazioni assicurative e bancarie. Gli attacchi informatici agli ospedali si registrano ormai con cadenza regolare: i ransomware bloccano i dati dei pazienti, i virus cancellano visite e operazioni, altri attacchi esfiltrano informazioni di ogni tipo. L’anno scorso ne è stato vittima persino il Primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong. Quindi quando parliamo del furto di dati personali non parliamo solo dei dati fiscali e delle nostre carte di credito, dei conti correnti, o delle maschere digitali, ma perfino di informazioni relative a test medici sulla dipendenza da droghe, alla cura di malattie croniche, sessualmente trasmissibili o a gravidanze indesiderate. Un fatto economico ma soprattutto di privacy. Per Ciardi tuttavia uno degli aspetti più preoccupanti è che il crimine finanziario ha una forte un’incidenza sulla nostra infrastruttura economica quando colpisce le piccole e medie imprese che poi fanno fatica a riprendersi. “Abbiamo la certezza che in questo business criminale sono entrate organizzazioni come le ‘ndrine calabresi e gruppi criminali stranieri”, ha detto. Non è difficile immaginare che questi attacchi servano a finanziare i racket della droga, della armi e della prostituzione. E per questo è necessario diffondere una cultura della sicurezza, fatta di investimenti, di partenariati pubblico-privato, di collaborazione internazionale, perché su questo tema si gioca, secondo Ciardi, la competitività di un Paese. Le banche, dopo le batoste degli ultimi anni, sembrano averlo capito. Dall’Ottavo Rapporto sulla sicurezza online di Abi Lab si capisce quanti sforzi stanno facendo per veicolare tematiche di sicurezza pubblicando news e tutorial nelle intranet aziendali, con la formazione online e veri e propri giochi a squadre per preparare in modo capillare tutto il personale bancario. Per sensibilizzare la clientela sui rischi del cybercrime le banche italiane hanno invece sviluppato campagne attraverso i portali di Internet Banking (per l’89% delle banche rispondenti secondo il rapporto), e mediante informative presso le filiali (per il 67%). Si sono fatte anche promotrici di collaborazioni intersettoriali, come il Certfin, l’iniziativa cooperativa pubblico-privata diretta dall’Abi e dalla Banca d’Italia orientata a innalzare la capacità di gestione dei rischi cyber degli operatori bancari e finanziari e la condivisione delle informazioni tecniche su minacce e attacchi accaduti. È la stessa direzione presa dal Poligrafico e Zecca dello Stato e dalla Consob che, in qualità di operatori di servizi essenziali, hanno appena chiuso un accordo di collaborazione con la Polizia postale. Difendere il bene comune della sicurezza rimane però un compito di tutti. Mae: eseguibile se cella inferiore a 3 metri quadri è compensata da elementi positivi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 giugno 2019 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 5 giugno 2019 n. 25066. Un regime carcerario che nei diversi step di espiazione della pena preveda anche la reclusione in celle inferiori a tre metri quadrati può comunque non integrare quel regime carcerario umanamente degradante che impedisce di dare esecuzione alla consegna della persona oggetto di un mandato di arresto europeo. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 25066 depositata ieri spiega che - nel caso sussistano parametri compensativi del limite spaziale prescritto - è possibile dare esecuzione al Mae senza incorrere nella violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’articolo 18 (lettera h) della legge italiana n. 69/2005 che ha dato attuazione della decisione quadro 2002/584/Gai del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. Una procedura giudiziaria semplificata di consegna ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privativa della libertà, sottoposta al vaglio delle condizioni umane - complessivamente considerate - in cui si verrà a trovare l’estradato nel Paese Ue richiedente. La presunzione e la compensazione - La dimensione spaziale della cella non è quindi elemento che vale di per sé senza tener conto della previsione che alcuni momenti della detenzione consentono un trattamento nel suo complesso umanamente accettabile compensando la violazione dell’esplicita prescrizione spaziale. Prescrizione che, in caso non sia rispettata, di fatto costituisce - come dice la Cassazione - una “forte presunzione” di disumanità della situazione restrittiva della libertà del recluso. Presunzione che, per quanto “forte”, può però essere superata dalla compresenza di altri fattori compensativi che sono rappresentati dalla possibilità per il detenuto di beneficiare di significativi momenti all’aria aperta, di svolgere attività in spazi esterni alla cella “troppo piccola”, partecipare a programmi di assistenza psicosociale negli altri spazi del luogo di detenzione o all’esterno, attività lavorative dentro o fuori dalla casa di reclusione. Ovviamente in tal caso si parla di un regime carcerario semi-aperto, che si raggiunge solo a fronte di una valutazione positiva della condotta di chi espia la pena della reclusione. Il caso specifico - E va sottolineato la particolarità del caso concreto risolto dalla Corte con il responso positivo alla consegna del cittadino romeno. Infatti, tutti gli elementi “positivi” compensativi riguardavano proprio l’eventuale approdo al beneficio di un regime semiaperto inficiato, appunto, dalla presenza di celle più piccole delle prescrizioni internazionali e nazionali. Infatti, la prima parte dell’esecuzione della pena riguarderebbe la reclusione in celle di 3 metri quadrati esatti. L’ok alla consegna si è raggiunto in base alle informazioni aggiuntive fornite dalla Romania sul prevedibile excursus della detenzione: la previsione di un iniziale regime chiuso in celle di 3 metri quadrati (dopo 21 giorni di quarantena in spazi sempre di 3 mq), ma in condizioni di luce naturale, areazione e arredi congruenti con una vita dignitosa e la possibilità successiva, legata alla condotta del condannato all’espiazione di un quinto della pena, di un regime semiaperto, ma inficiato dall’attribuzione di celle di soli 2 metri quadrati. Limite superato dalle compensazioni suddette. Lazio: nelle carceri l’assistenza religiosa e diritto al culto non sono una priorità osservatoreitalia.eu, 6 giugno 2019 Il loro rispetto affidato alla volontà e responsabilità degli operatori penitenziari. Nelle carceri spicca la centralità della figura del cappellano cattolico nell’opera quotidiana di tutela del diritto universale al culto. Nelle carceri del Lazio l’assistenza religiosa e il diritto al culto non appaiono una priorità. Il loro rispetto viene assicurato, all’interno di ciascun istituto, con modalità operative figlie delle buone pratiche quotidiane e della responsabilità dei singoli operatori nell’evitare rapporti conflittuali. Nonostante la varietà delle confessioni presenti, nelle carceri spicca la centralità della figura del cappellano cattolico nell’opera quotidiana di tutela del diritto universale al culto. È questo il quadro che emerge dalla ricerca “L’assistenza religiosa in carcere - Diritti e diritto al culti negli istituti di pena del Lazio”, condotta in 10 dei 14 Istituti di pena della regione dal Centro Studi e Documentazione su Religioni e Istituzioni Politiche nella Società Postsecolare (Csps) dell’Università di Roma Tor Vergata, con il contributo del Consiglio Regionale e del Garante dei detenuti. “Garantire il rispetto delle diversità religiose sta diventando una priorità - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Tra le molte questioni legate al mutamento multiculturale e multi-religioso della popolazione carceraria vi sono, infatti, anche quelle legate al rispetto del culto di ognuno e del diritto dei detenuti di praticare il proprio credo. Nelle condizioni in cui, attualmente, versa il sistema penitenziario italiano, credo che una piena tutela del diritto alla Fede possa contribuire a migliorare la qualità complessiva della vita in carcere”. Nelle carceri del Lazio sono presenti 7.130 reclusi, oltre 2.300 in più rispetto alla capienza regolamentare. La popolazione carceraria straniera (quasi il 40% dei reclusi) rappresenta oltre 150 diverse nazionalità. Una pluralità che rispecchia il mutamento in senso multiculturale della società italiana legato a processi di globalizzazione ed immigrazione. Accanto a tutto il resto, muta anche il panorama religioso nazionale che, da una composizione largamente cattolica, si avvia verso una pluralizzazione delle appartenenze religiose. In altri termini, pur in assenza di dati ufficiali, il pluralismo religioso nelle carceri è più forte di quanto non si percepisca. La ricerca (scaricabile nella versione integrale dal sito www.csps.uniroma2.it) ha mappato le modalità con cui le carceri assicurano l’assistenza religiosa e rispondono al diritto al culto, mediante 103 interviste realizzate a coloro che sono più coinvolti su tale versante (direttori e vice direttori, educatori, agenti di polizia penitenziaria, psicologi, mediatori, volontari, cappellani, ministri di culto o referenti di diverse confessioni). Dal lavoro emerge che l’assistenza religiosa e il diritto al culto, oltre a non essere oggetto di programmazione, non fanno parte dei percorsi di formazione degli operatori penitenziari. La religione non rientra fra le informazioni raccolte sui detenuti all’ingresso in carcere, perché considerata un tratto intimo e privato dei reclusi. E nella vita quotidiana in carcere è carente, per gli stessi motivi, una comunicazione efficace dei diritti riguardanti la professione religiosa. Il sistema penitenziario regionale non è, però, insensibile a tali problemi, anche se le risposte nascono più dalle buone pratiche quotidiane e dalla buona volontà degli operatori che non da una efficace pianificazione istituzionale. La ricerca mette in evidenza la citata centralità della figura del cappellano cattolico, che non solo garantisce diversi aspetti dell’assistenza (materiale, umano, spirituale, religioso) ma interviene anche nelle problematiche legate agli altri culti, anche se con intensità diversa a seconda delle confessioni. Funge da mediatore ed organizzatore nell’attività dei ministri ortodossi, cui mette a disposizione gli spazi di culto, e provvede spesso alle necessità dei musulmani. È, invece, meno legato all’attività dei protestanti ed è distante dai Testimoni di Geova, con i quali si avverte una più o meno esplicita tensione. Il cappellano gioca un ruolo importante anche nella diffusione dei testi sacri di altre confessioni (spesso facilita l’accesso al Corano ai musulmani) e nel favorire, con la propria intercessione, l’ingresso in carcere di altri ministri di culto (vale per gli ortodossi). La ricerca evidenzia come, invece, sia carente l’assistenza non cattolica. I ministri incontrati sono Testimoni di Geova (33), delle varie famiglie del Protestantesimo (6) e delle Chiese Ortodosse (4). È evidente, considerando la numerosità dei musulmani, l’assenza di imam che svolgano regolarmente il servizio (ad eccezione del periodo del Ramadan). Una situazione, per altro, poco funzionale rispetto all’esigenza di sicurezza e controllo dei rischi di proselitismo e integralismo. La centralità della religione cattolica si rivela sull’analisi degli spazi per il culto e la preghiera. A fronte di una capillare presenza di cappelle, sono scarsi gli spazi per le altre confessioni. Il carcere di Civitavecchia può essere citato per i pregevoli spazi dedicati al culto buddista, mentre a Cassino e Viterbo piccole salette o ex-camere di detenzione sono state messe a disposizione dei musulmani per la preghiera del Venerdì o per essere adibite a moschea. Carenza di spazi, diversità fra religioni e complessità dei riti rendono difficoltosa la gestione della celebrazione dei culti in carcere. Rara risulta, ad esempio, l’osservanza della preghiera del Venerdì secondo i precetti dell’Islam. Solo in un paio di istituti questo momento è rispettato. Sostanzialmente rispettate in tutte le carceri, invece, le regole del Ramadan, grazie anche all’intervento di comunità esterne come l’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche in Italia) e l’Alcumi (Alternativa Culturale dei Marocchini in Italia). L’alimentazione differenziata in funzione dei culti è, invece, un principio pacificamente accettato. La domanda di menù su base religiosa proviene dai musulmani (si ha una media indicativa di 50 richieste; nei due istituti più ampi considerati, Rebibbia N.C. e Regina Coeli, il numero sale rispettivamente a 250 e 190). La criticità è rappresentata dall’assenza di cucine aderenti alle tradizioni religiose, come la cucina halal per l’Islam o la cucina kasher per l’Ebraismo. Nelle conclusioni del lavoro del Csps sono indicati alcuni suggerimenti per innalzare il livello della tutela del diritto al culto in carcere. Fra le indicazioni, la formazione del personale; l’invito a una riflessione sulla riforma dell’istituto del cappellanato sulla base di quanto accaduto nel sistema penitenziario inglese; l’apertura di spazi multi-fede e, più in generale, l’invito a pensare una piena implementazione dell’assistenza religiosa come risposta di diritto ai rischi di radicalizzazione religiosa in carcere. Perugia: suicidio in carcere, detenuto 60enne si impicca in cella di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 6 giugno 2019 L’uomo è stato trovato morto dal compagno di cella, inutili i soccorsi. Luciano Naticchi, condannato a sei anni e 8 mesi di reclusione e al ricovero in una Rems a fine pena per l’omicidio della madre Ofelia Tiburi, si è tolto la vita nel carcere di Capanne ieri mattina. L’uomo era stato riconosciuto semi infermo di mente, ma in grado sostenere il processo. Naticchi, 60enne, era accusato di omicidio volontario per aver strangolato la madre Ofelia Tiburi, di 79 anni, nel suo appartamento a Montelaguardia. La donna, rimasta da un anno vedova del marito deceduto a causa di un infarto, divideva l’appartamento con il figlio, da poco andato in pensione proprio per stare vicino alla donna. L’uomo, difeso dall’avvocato Francesco Falcinelli, dopo il delitto aveva chiamato i carabinieri e aveva confessato il delitto senza, però, dare alcuna spiegazione del gesto. L’uomo ha deciso di togliersi la vita impiccandosi nella Casa Circondariale Capanne di Perugia dov’era detenuto. Ricostruisce l’accaduto Fabrizio Bonino, segretario nazionale per l’Umbria del Sindacato autonomo polizia penitenziaria: “L’uomo si è suicidato in una cella del Reparto a regime aperto, impiccandosi. Aveva problemi psichiatrici. Lo ha trovato il compagno di cella rientrando nella stanza dopo un colloquio. Lo stesso è stato prontamente soccorso dal personale di polizia penitenziaria e tempestivamente sono intervenuti il medico che hanno provato più volte a rianimarlo ma non c’era più nulla da fare”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, commenta: Questo nuovo drammatico suicidio di un detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Negli ultimi 5 anni, dal 2014 al 31 dicembre 2018, i detenuti suicidi in carcere sono stati 230. Il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni, un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Firenze: a Sollicciano 800 detenuti e un monitoraggio contro il terrorismo jihadista di Gilda Giusti firenzepost.it, 6 giugno 2019 Il ruolo di reinserimento dei detenuti, la scoperta di uno dei corpi più giovani e più attivi tra le forze di polizia, la Polizia penitenziaria, i compiti di monitoraggio che negli istituti di pena vengono svolti per contrastare il terrorismo internazionale, le criticità che si presentano nella gestione della collettività dei detenuti talvolta in situazioni di sovraffollamento, il difficile compito dei cronisti che devono raccontare l’universo carcerario: sono stati questi alcuni dei temi sviluppati dal corso di formazione per giornalisti che, organizzato dall’Associazione Stampa Toscana insieme al Corpo di polizia penitenziaria, si è svolto nel carcere di Sollicciano, la struttura carceraria più importante della Toscana. Il corso si è aperto con un commosso ricordo del collega Enrico Pini, per anni fiduciario Casagit in Toscana, del quale proprio oggi si sono svolti i funerali. Il senso del corso lo ha spiegato il presidente dell’Ast, Sandro Bennucci (che è anche direttore di Firenze Post), ricordando il primo contatto tra il sindacato dei giornalisti e la Polizia penitenziaria i cui agenti fornirono la scorta d’onore alla sorella della collega Dafne Caruana Galizia, quando due anni fa ricevette a Firenze il premio Giornalisti Toscani assegnato alla memoria della giornalista uccisa a Malta. “Da allora - ha detto Bennucci - è cresciuto l’interesse professionale per il mondo carcerario, del quale dobbiamo spesso scrivere, e verso gli uomini e le donne che con il loro lavoro ne assicurano la funzionalità”. È stato il direttore del carcere di Sollicciano, Fabio Prestopino, a sottolineare il ruolo fondamentale che nel moderno trattamento penitenziario svolgono gli agenti, assicurando poi ai giornalisti il massimo di trasparenza e di accessibilità possibile alle informazioni del “pianeta carcere” che provengono dalla casa circondariale di Firenze. Una testimonianza preziosa quella del Procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Creazzo, che ha evidenziato anche il ruolo investigativo di un corpo di polizia che non ha soltanto il compito della custodia, ma anche quello del monitoraggio dell’insieme dei detenuti e che, in molti casi, si è tradotto in un contributo importante alle indagini della magistratura. Il collega Stefano Fabbri ha ricordato le procedure di approccio alle “fonti” per i giornalisti che si occupano di carcere, a cominciare proprio dai detenuti che è possibile intervistare previa autorizzazione, ma anche quanto prevedono le norme deontologiche dell’Ordine dei giornalisti per questo genere di particolare attività fissate dalla Carta di Milano e che si incentrano sul rispetto sostanziale della persona privata della libertà personale. A concludere l’evento formativo, organizzato grazie al sostanziale apporto del commissario comandante del Nucleo traduzioni e piantonamenti di Sollicciano, Giuseppe Simone, è stato l’approfondito intervento del Comandante del reparto della Polizia penitenziaria della Casa circondariale. Massimo Mencaroni. Il Comandante ha insistito sul concetto di sicurezza non fine a se stesso, ma come elemento fondamentale del trattamento penitenziario, cioè dello sforzo compiuto per aderire al principio di recupero e reinserimento fissato dalla Carta costituzionale. Particolare attenzione viene posta anche nella vigilanza contro la radicalizzazione in carcere di elementi potenzialmente pericolosi sul fronte del terrorismo internazionale: sui 60.000 detenuti italiani circa un terzo sono stranieri e in gran parte provenienti dalle aree più a rischio, soprattutto dal Maghreb; una proporzione che a Firenze è del tutto invertita poiché su circa 800 detenuti, a fronte di circa 450 agenti di polizia penitenziaria, solo un terzo sono italiani. L’istituto di Sollicciano è uno dei sei istituti di pena pilota in Italia del progetto per il contrasto alla radicalizzazione jihadista. E, sempre a proposito di numeri, i posti letto regolamentari per i detenuti sono 500, mentre 760 quelli tecnicamente disponibili. Dopo la cosiddetta “sentenza Torreggiani” della Corte europea dei diritti dell’uomo, che fissa in tre metri quadrati lo spazio minimo per ogni detenuto, paradossalmente, e per fortuna solo teoricamente vista la particolare configurazione architettonica di Sollicciano, i posti letto potrebbero essere 1.500. Infine il rapporto con la città e con il tessuto sociale: oltre agli agenti di Polizia penitenziaria, al personale educativo e amministrativo, ad assistere ed occuparsi dei detenuti sono il personale sanitario della Asl, i docenti scolastici, decine di volontari impegnati nelle attività culturali e sportive. Riguardo ai detenuti, solo un terzo è impegnato in attività rieducative e circa 160 in attività lavorative. “Non ci basta - ha detto il direttore Prestopino - perché il lavoro è una componente fondamentale della vita in carcere e della vita che attende i detenuti una volta fuori. E per migliorare - ecco l’appello - abbiamo bisogno della collaborazione delle imprese”. Sanremo (Im): obbligo di spegnere la tv alle 24, in carcere esplode la rivolta di Fabrizio Tenerelli Il Giornale, 6 giugno 2019 In segno di protesta contro l’obbligo di spegnere i televisori a mezzanotte, dettato da un nuova circolare, tra i detenuti del carcere di Sanremo è esplosa la rivolta, durate circa tre ore. Molto probabilmente volevano dimostrare, che un televisore acceso era nulla al confronto del caos che avrebbero potuto scatenare 270 detenuti infuriati. È una vera e propria rivolta quella esplosa, la scorsa notte, nel carcere di Sanremo. All’origine della protesta la circolare del Dipartimento, che spegne i televisori a partire dalle 24. E loro, proprio allo scoccare della mezzanotte, hanno dato libero sfogo a urla, schiamazzi, lancio di bombole ed hanno sbattuto le stoviglie contro le grate delle celle. Per sedare la protesta, durata circa tre ore, sono dovuti intervenire una cinquantina di agenti della penitenziaria. Sono state allertate tutte le unità, anche quelle a riposo. “Solo grazie all’intervento del personale, si è riusciti a gestire la protesta - avverte Fabio Pagani, segretario regionale Uil-Pa Polizia Penitenziaria - e a mantenere l’istituto in sicurezza”. E poi. “Per fortuna, non si registrano feriti, ma potrebbe non andare sempre così bene - prosegue Pagani, che ancora una volta punta il dito verso il sovraffollamento del penitenziario -. È normale che quando si ammassano persone in pochi centimetri quadrati, dove manca pure l’aria per respirare, possano verificarsi episodi di questo genere”. Conclude: “Avevamo lanciato per tempo l’allarme ed eravamo consapevoli, che prima o poi sarebbe scoppiata una rivolta”. Milano: Francesco Maisto nuovo Garante dei 3.600 detenuti ospitati nelle carceri di Zita Dazzi La Repubblica, 6 giugno 2019 È stato per dieci anni giudice di sorveglianza a San Vittore negli anni di piombo, negli anni delle rivolte. Ha lavorato anche al tribunale dei minori di Milano, ha seguito processi di appello di Tangentopoli, ma il suo nome è legato soprattutto alla nascita della legge Gozzini, che ha cambiato faccia all’ordinamento penitenziario e alla esecuzione delle misure limitative della libertà. Da ieri Francesco Maisto è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune. Lo ha nominato il sindaco Giuseppe Sala al termine di un percorso di selezione pubblica dedicato a profili di primo piano e di chiara fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani ovvero nelle attività sociali. E Maisto a Milano è sicuramente un uomo di legge che gode di grande fama e stima collettiva. Il Garante dal 2012, oltre a sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani di chi sta in galera - quasi 3.600 persone fra gli istituti di Opera, Bollate e San Vittore - ha il delicato compito di segnalare il mancato rispetto delle garanzie anche costituzionali a tutela di chi ha commesso reati e sta scontando una pena, o è in attesa di giudizio. Ieri Palazzo Marino, c’è stato il convegno “Vagli a spiegare che è primavera”, per presentare le attività svolte dalla Garante uscente, Alessandra Naldi. Sono stati distribuiti i numeri che parlano del sovraffollamento. A marzo di quest’anno San Vittore aveva 1.035 detenuti, il 30 per cento in più del previsto; Opera 1.302, cioè quasi il 42 per cento in più; Bollate, con i suoi 1.260 ospiti appena lo 0,6 per cento in più. In totale a Milano risulta un 21 per cento di persone “ristrette” in più rispetto alla capienza prevista degli istituti di pena. Un dato che preoccupa, anche se rispetto al passato comunque si sono fatti dei progressi visto che nel 2013 a Milano la popolazione detenuta era di 4.200 persone e San Vittore era stabilmente affollato da almeno 1.600 carcerati, con celle da uno o due posti allestite invece con due letti a castello a tre piani. Roma: quando il lavoro in carcere nasce da una vocazione di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 6 giugno 2019 Intervista a Nadia Cersosimo, direttrice della Casa di Reclusione di Rebibbia. Dalle finestre della sua stanza non vede più la “Selva” e le terre dell’antico feudo della famiglia Colonna. Il verde di querce, vigne e uliveti della Valle del Sacco oggi è stato sostituito dal grigio asfalto, da sbarre a vista e da un via vai di agenti di Polizia Penitenziaria, educatori, avvocati, personale amministrativo e, qualche volta, volontari che animano quella che da pochi giorni è diventata la sua nuova sede di servizio: la Casa di Reclusione di Rebibbia. Nadia Cersosimo oggi è la direttrice di questo storico carcere della Capitale che ospita persone “che conoscono il proprio destino”. Ovvero, quelli già condannati. Ma Roma non è la “sua” Paliano. Non lo dice apertamente, ma i ricordi e le foto che riesco a intravedere sparse qua e là (è ancora in fase di trasloco) dicono molto della storia che oggi raccontiamo. Il mio approccio questa volta è diverso e sono io ad aprire l’intervista esordendo così: “Sono latore di un messaggio”. Intuisce che tira aria di commozione. “In occasione della prima plenaria del neonato Dicastero per la comunicazione - le spiego - venni presentato dall’allora prefetto, monsignor Dario Edoardo Viganò, a Papa Francesco come volontario nel carcere di Paliano. Il Santo Padre non mi chiese il motivo per cui ero finito nella sala del Concistoro, ma interruppe il piccolo corteo e mi chiese subito di lei, definendola una “mamma” e chiedendomi di portarle i suoi saluti”. Papa Francesco scelse proprio il carcere di Paliano per la messa in Cena Domini il mese prima. Era il 13 aprile 2017. “L’incontro con il Pontefice è stato un dono incommensurabile, in un momento della mia vita particolarmente delicato, segnato da eventi quali la perdita di mia madre, la malattia di mio padre e le difficoltà del lavoro”, mi interrompe la direttrice aggiungendo particolari della sua sofferenza. Poi il suo viso si allarga in un sorriso: “Ma le parole del Papa hanno fatto sì che la tristezza e le lacrime, la preoccupazione e la fatica prendessero altra forma. Le lacrime hanno assunto quell’accezione positiva di “grazia e bontà”. Quell’incontro ha rappresentato per me un punto di svolta, ha reso tangibile quello che nella mia vita già c’era, la Compagnia di Cristo”. E a proposito dell’episodio che le ho appena raccontato, rivela: “Mi accompagna sempre la gioia del dono della sua visita e il fatto che abbia visto in me una figura per i detenuti quale quella di una mamma riempie il mio lavoro di un valore maggiore e mi impone di essere ancor più responsabile. Vivo di quella giornata che ha segnato la storia del carcere di Paliano, che ha mutato i cuori degli ospiti e ha lasciato un segno indelebile nel mio stesso cuore”. Qualsiasi giornalista si piegherebbe agli stereotipi e la definirebbe “una persona al servizio delle istituzioni” oppure “una donna di Stato”. Ma fin dalle prime battute emerge un profilo che ci impedisce di esprimerci con frasi fatte. Siamo di fronte a una donna che è in carcere per vocazione. “La vocazione nasce dal desiderio di poter essere parte dello Stato, di far parte dello Stato in un’amministrazione che, come altre, ha quali destinatari della propria azione uomini, donne, persone” mi spiega. Ma quali sono le radici di questa vocazione. “Nasce dall’incontro nelle aule universitarie con amici che già lavoravano in carcere e dall’interesse forte che alcuni insegnamenti hanno suscitato nel mio percorso di studi. Ma la più incisiva delle spinte motivazionali per me è stata la possibilità di lavorare quotidianamente rinnovando l’incontro con Cristo, il Cristo carcerato delle opere di misericordia”. La direttrice Cersosimo torna poi a parlare dei suoi affetti: “Da sempre la mia famiglia, mia madre per prima, ha segnato la mia vita di figlia con quei valori cristiani, che oggi rendono il mio lavoro non il mero adempimento di un compito ma una vera e propria missione. In particolare l’attenzione al Prossimo (lo scriva con la p maiuscola, mi raccomando), quel Prossimo che spesso risulta fastidioso perché rappresenta quello che la società preferisce mantenere lontano dal proprio mondo ristretto”. Di fronte a una evidente mancanza di risorse economiche, sono sempre la creatività e le giuste motivazioni di chi ci lavora che pilotano le iniziative più belle in carcere. Le chiedo come potenziarle anche quando il supporto istituzionale non è costante. “È fondamentale per chi opera in carcere non cadere nell’errore di arrendersi davanti al dato incontrovertibile della carenza di fondi che affligge tutte le pubbliche amministrazioni”. Facile a dirsi, meno a metterlo in pratica. Lei non si disorienta di fronte alla mia perplessità e risponde elencando alcune sue iniziative vincenti: “Mi viene in mente un episodio avvenuto nell’istituto di Paliano. A causa della caduta dell’intonaco del muro che delimita la zona destinata ai colloqui all’aperto vennero contattate delle ditte per l’intervento, le quali chiesero una cifra esorbitante a partire dai costi del ponteggio” puntualizza con rammarico e aggiunge: “Eppure dai detenuti è arrivata la soluzione maggiormente economica, con poche migliaia di euro siamo riusciti a mettere in sicurezza la parte del muro senza necessità di ponteggio, unicamente con la loro manodopera. In tempi brevi e con pochi soldi l’area verde è stata riaperta per detenuti e familiari. Nel tempo ho imparato che quando gli obiettivi si condividono anche con la comunità esterna al carcere i progetti si realizzano”. E a proposito di esterno, le ricordo che tra i suoi compiti, c’è quello di rompere l’isolamento con il “fuori”, per riportare una finestra aperta, una speranza per ricominciare. Come ci riesce con i limitati mezzi a disposizione? “È vero che non tutti gli istituti penitenziari hanno la possibilità di garantire le attività che concretizzano gli elementi del trattamento. Così come non si può negare che le carceri, anche quelle di nuova costruzione, non sempre presentano quegli spazi vitali necessari alla realizzazione di percorsi scolastici e lavorativi, a ciò si aggiunga il disagio del sovraffollamento, fenomeno che connatura i nostri istituti” precisa la direttrice. “Tuttavia - riprende - altrettanto vero è che il direttore deve intraprendere anche percorsi di recupero di spazi esistenti inutilizzati”. È noto che il percorso rieducativo passa attraverso il lavoro, lo studio e la presa di coscienza del proprio ruolo sociale, ma nella totalità delle carceri è impossibile creare un’attività lavorativa per tutti e anche studiare diventa difficile in una cella sovraffollata. Cosa dice al detenuto il direttore? “Cosa deve dire il direttore spesso si deve tradurre in cosa deve fare il direttore per rendere credibile la propria missione, il proprio lavoro” risponde prontamente. Passo a parlare dell’altra nota dolente: chi visita questi luoghi avverte la sofferenza di chi non è più libero ed è lontano dalle famiglie e dai figli. C’è un modo per alleviare tanto dolore? “Il carcere non può più essere il luogo in cui la pena riversa la sofferenza a chi come i familiari spesso sono vittime innocenti e inconsapevoli, come i figli. I bambini, specie quelli più piccoli, crescono e costruiscono la relazione con il genitore in ambiente che certo non è quello più idoneo”. Nell’ordinare le carte sparse, indica un modus operandi che punta sul lavoro di squadra: “La nostra amministrazione impegna molte risorse proprio perché la relazione genitori figli possa proseguire anche con l’apporto professionale degli operatori penitenziari. Sì, sono proprio gli operatori di polizia penitenziaria, gli educatori, gli psicologi, il cappellano che riescono, mantenendo grande professionalità profusa da un senso di umanità che raramente si trova in altri ambienti lavorativi, che riescono a infondere serenità a quegli incontri con le famiglie”. Mi congeda con un “Grazie per aver pensato a me in occasione di questo viaggio nelle carceri…” ma la sua riflessione si interrompe perché per l’ennesima volta prova a riordinare la scrivania. Si imbatte in una penna a sfera in legno di olivo. Me la mostra e, con un pizzico di nostalgia mista a commozione, mi dice: “Vede? Questa è un’opera d’arte. Se un giorno rivedrò Papa Francesco gliela donerò e gli dirò che l’ha realizzata uno dei miei figli”. Roma: detenuti per la cura delle strade e a Rebibbia apre anche un ristorante La Repubblica, 6 giugno 2019 Si chiama “Osteria degli uccelli in gabbia”, è a Rebibbia ed è il primo ristorante in Italia all’interno di un carcere aperto al pubblico: il venerdì, da giugno a luglio, per 80 posti su prenotazione. I detenuti, in tutto dieci, amministrano il locale, servono ai tavoli, cucinano un menù ideato da chef professionisti. Il ristorante si trova nella zona verde del carcere, dove si fanno i colloqui, tra le celle della sezione maschile che ospita 1.500 detenuti: chi lavora al ristorante fa parte della cooperativa Men at Work, ha una pena definitiva e non è socialmente pericoloso. Quasi tutti gli ingredienti sono a km zero, prodotti nel carcere: pollame, verdura, caffè. Non saranno ammessi parenti dei detenuti o chi ha precedenti penali, né cellulari o registratori: l’obiettivo è riabilitare i detenuti con il lavoro. “È un progetto che aiuta chi ha sbagliato a reinserirsi - spiega Luciano Pantarotto presidente di Men at Work - eliminando il pregiudizio secondo cui i detenuti sono irrecuperabili”. Si chiama pena riabilitativa e il Campidoglio la sostiene con il progetto “Mi riscatto per Roma”: a oggi più di 100 detenuti escono ogni giorno da Rebibbia a turno per curare e pulire strade, tombini e parchi. L’ultimo è Villa Borghese. “I nostri giardinieri - scrive la sindaca su Facebook - insegnano tecniche di giardinaggio utili per il reinserimento”. Il modello della pena riabilitativa sarà esportato in Messico, con la sinergia dell’ufficio Onu contro droga e crimine (Unodc): in questi giorni è in visita a Roma una delegazione guidata da Antonino De Leo rappresentante Unodc in Messico. Padova: coppia di detenuti gay autorizzata a stare nella stessa cella di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 6 giugno 2019 Protesta del Sindacato di polizia penitenziaria: situazione vergognosa. Il direttore del carcere: “Motivi di sicurezza, sono nel reparto protetto”. Sono entrambi detenuti nella Casa di reclusione Due Palazzi, due giovani uomini tunisini (uno dei quali uscirà a breve) che hanno fatto outing in carcere, firmando anche una dichiarazione sulla loro volontà di sposarsi. E vabbè, non c’è nulla di strano pur essendo una situazione inusuale in quel contesto. Hanno chiesto fin da subito di essere messi in cella insieme e, non tanto per agevolare l’amore che il carcere tutto è fuorché un’agenzia matrimoniale, quanto per motivi organizzativi interni, nella stessa cella sono stati sistemati. Il che ha sollevato le vibratissime proteste dello Spp (Sindacato di polizia penitenziaria): “Non è questo il modo di affrontare il problema dell’affettività in carcere” scrive il segretario generale Aldo Di Giacomo “di fatto favorendo coppie omosessuali di detenuti o detenute. Come sindacato non eravamo certo favorevoli alle “camere dell’amore” ma questa situazione è diventata intollerabile e va ben oltre il sistema delle “celle aperte” ampiamente diffuso nelle carceri italiane”. Il sindacato specifica inoltre che quella di Padova risulterebbe l’ultima di una lunga serie di autorizzazioni in questo senso in ambito nazionale. “I casi sono decine e decine”, aggiunge e continua specificando che oggi il sistema utilizzato per mantenere relazioni affettive con il proprio partner è quello dei permessi premio, periodo da trascorrere in famiglia che il magistrato di sorveglianza concede ai detenuti meritevoli. Anche se non si può far finta di non sapere che la popolazione detenuta è molto giovane (il 54% ha meno di 40 anni) e spesso non ha una famiglia (il 39% non è sposato) quindi non può accedere non solo ai permessi premio ma nemmeno a misure alternative al carcere. Ed è un problema gigantesco, questo sì crea discriminazioni e discrepanze nel trattamento e nelle chance di rifarsi una nuova vita. Ché se fuori non c’è nessuno, se fuori il detenuto non ha un appoggio, non se ne parla di permessi. E quando esce, se è solo, ha il deserto attorno. Tornando alla love story, di certo non è così facile, al Due Palazzi. “I due detenuti in questione” spiega Claudio Mazzeo, direttore della casa di reclusione Due Palazzi “come qualsiasi altra persona dichiaratamente omosessuale, per motivi di sicurezza noi la mettiamo in un reperto protetto. Perché non sono bene accetti dal resto dei detenuti. Anche i due tunisini sono quindi in una sezione protetta, e nella stessa camera”. Onde ridurre i rischi al minimo, ché evidentemente di rischi ce ne sono e parecchi. “Hanno fatto una dichiarazione scritta riguardo alla loro volontà di contrarre matrimonio, ma questo se lo vedranno loro quando usciranno tutti e due. Noi abbiamo fatto la scelta più sicura e semplice, anche se non possiamo essere certi che la loro omosessualità sia vera”. Difficile pensare che due ragazzi tunisini abbiano altri motivi per manifestare pubblicamente il loro amore dentro un carcere se non perché è la verità. Genova: “Parole che liberano”, confronto sui temi legati al mondo del carcere di Andrea Carotenuto Il Secolo XIX, 6 giugno 2019 Un incontro-seminario dell’Ordine dei Giornalisti della Liguria sulla vita in carcere e sulle problematiche legate alla detenzione e al reinserimento dei detenuti. Dai luoghi comuni che viaggiano sui social a “sproposito” del carcere e dei suoi ospiti alla denuncia del mancato rispetto delle “pene alternative” che potrebbero ridurre la popolazione carceraria e sino agli interventi che molte associazioni portano all’interno delle mura carcerarie per rendere più umana e davvero riabilitativa l’esperienza della detenzione. “Parole che liberano” sono quelle pronunciate nella sala dei Chierici, alla Biblioteca Berio, dai molti ospiti del convegno, organizzato dall’Ordine dei Giornalisti insieme a molte realtà collegate alle attività di recupero e volontariato e che ha affrontato il tema sotto più punti di vista ma con la stessa attenzione per i soggetti di cui spesso si parla - e a sproposito - ma senza voler approfondire. Il seminario ha ospitato al mattino i contributi dei protagonisti del lavoro in carcere, professionisti e volontari, nei diversi ruoli sociali, di sorveglianza e di recupero e reinserimento. Ad introdurre l’argomento la proiezione di un video informativo, realizzato dall’associazione Antigone per sfatare le “fake news” che circolano attorno alla Giustizia italiana e al mondo del carcere. Sfatato il mito secondo cui il numero dei reati è in costante aumento e le carceri sarebbero luoghi “di riposo” nei quali i delinquenti vivono “come in albergo”. L’associazione Antigone ha chiarito che il numero dei reati è in costante diminuzione e che il numero di indagati che finisce dietro le spalle in Italia è tra i più alti d’Europa, paragonabile a quello della Francia e più addirittura doppio rispetto alla Germania o al Belgio. Pochi e ben inferiori al possibile i “permessi” e le autorizzazioni a scontare la pena in modo diverso dal carcere. Un problema che anzi viene denunciato ad ogni occasione in quanto l’Italia è inadempiente rispetto a queste possibilità che, oltretutto, consentirebbero di alleggerire il peso del numero dei detenuti in ogni carcere. Luoghi dove non si vive come in un albergo visto che in buona parte di essi non c’è doccia nelle celle, il bagno è spesso vicino ai letti o addirittura ai luoghi dove si mangia e dove manca spesso persino l’acqua calda. Da sfatare anche la necessità di nuove carceri visto che si potrebbero invece attuare le leggi che consentono di scontare le cosiddette pene alternative che potrebbero anche ridurre il fenomeno della recidiva che si innesca con la detenzione in carcere. “Un nuovo carcere costa almeno 25 milioni di euro - è stato spiegato - ed ogni carcerato costa alla collettività circa 136 euro al giorno, sarebbe quindi preferibile lasciar scontare ai detenuti la pena in modo diverso e più “produttivo”, ad esempio con corsi di formazione e di reinserimento”. “Misure che già esistono - ha spiegato Ramon Fresta, educatore del Centro di Solidarietà di Genova (Ceis) da tempo impegnato in progetti di recupero - ma molto lavoro deve ancora essere fatto e deve cambiare la sensibilità comune sull’argomento. Noi crediamo in un percorso che porti a tener lontane le persone dal carcere anche e soprattutto fornendo una formazione e una preparazione al re-inserimento nella Società che passa anche attraverso il lavoro”. Nel pomeriggio c’è stato il confronto con due ospiti di Pontedecimo e Marassi autori di due libri testimonianza che vedono ufficialmente la luce proprio in occasione del seminario. Insieme a loro anche il contributo di don Giacomo Martino, cappellano in carcere a contatto con storie personali tragiche e profonde. Spazio anche all’esperienza terapeutica e formativa del Teatro Sociale dell’Arca, il primo teatro costruito direttamente dentro le mura di un carcere, a Genova. Anna Solaro, regista e teatro terapeuta, ha raccontato dell’esperienza straordinaria dei corsi di teatro e dell’attività di incontro e confronto con detenuti anche per reati particolarmente “odiosi” come le violenze sulle donne ed ha raccontato di persone in realtà fragili, spesso abusate a loro volta da piccole e con storie terribili alle spalle e che oggi si definiscono con il numero che identifica il reato che hanno commesso. Persone che possono e devono essere recuperate anche attraverso un percorso di rieducazione al sentimento e alla gestione delle proprie emozioni e che non possono semplicemente essere reclusi tra le sbarre di un carcere. Trieste: incontro letterario alla Casa circondariale con Elena De Vecchi di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2019 L’8 giugno Elena De Vecchi torna a varcare i cancelli della Casa Circondariale di Trieste assieme all’ispettore Kaucich, al sovrintendente Casertano, all’assistente Zingerle, all’agente Bregant e al capo dell’anticrimine di Nova Goriza Marko Devetak, personaggi che si è già avuto modo di conoscere in occasione della presentazione del primo romanzo dell’Autrice, “Stanca morta”. In questo secondo appuntamento Elena De vecchi ci condurrà tra le pagine e tra i luoghi di “Papir”; ci troveremo a percorrere le strade di Gorizia e di Nova Gorica, ad ammirare i paesi e i luoghi del Carso goriziano, al di qua e al di là del confine, quel confine “fatto d’aria, che basta allungare un braccio fuori dalla finestra” per trovarsi in Slovenia. Sullo sviluppo delle indagini svolte dai due commissariati - quello italiano e quello sloveno - che tornano ad operare in totale sinergia e collaborazione, la lettura scorre e l’abile narrazione ci porta a conoscere le ricerche genealogiche dell’assistente Zingerle che s’intrecciano con le lettere del soldato austroungarico Isidoro con sorprendenti risvolti; riemerse dalle cantine le antiche lettere ci riportano ai tempi della Prima Guerra Mondiale alcune, sfuggite alla censura, raccontano di una guerra non voluta né condivisa dalla popolazione. Papir ci porta poi a conoscere il nostro territorio anche per quanto concerne alcuni edifici storici: il castello di Kromberk nei pressi di Nova Gorica appartenuto alla famiglia Coronini Cromberg (ora sede del Goriski Musej) e della villa - sempre dei conti Coronini a Gorizia (oggi Museo della Fondazione Coronini Cromberg) Non mancano neppure le note di grande umanità che si apprezzano sicuramente nella collaborazione e reciproca fiducia che muove il personale dei due commissariati, e nella rete di solidarietà che sostiene e aiuta Chantal e il suo bimbo e Dolores “Doli” nel momento in cui la sua Susina non potrà più prendersi cura di lei. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Aversa (Ce): musica e solidarietà nelle carceri grazie all’associazione Casmu atellanews.it, 6 giugno 2019 “Due iniziative animate dall’intento di donare un segno concreto di solidarietà e svago ai detenuti e alle loro famiglie. Con la musica in particolare ci proponiamo di regalare delle emozioni profonde attraverso melodie che da secoli sono fortemente radicate nel tessuto sociale delle nostre terre e di conseguenza sono parte pregnante del nostro vissuto. A queste note, i detenuti, associano ricordi ma anche speranze di poter andare oltre il momento difficile che si ritrovano a vivere”. Parole di Mario Guida, presidente dell’associazione Casmu che così presenta i due appuntamenti che si terranno nelle carceri casertane. Sabato 9 giugno, alle 9.30, presso la Casa di Reclusione di Aversa partirà il progetto “Genitorialità” finalizzato ad incentivare i contatti tra genitori reclusi e figli ed a rafforzare il vincolo familiare, nonostante la lontananza e le forti limitazioni dovute allo stato detentivo. Il progetto sarà attuato grazie alla proficua sinergia avviata tra la dirigenza dell’istituto penitenziario e alcune associazioni del territorio. Giochi, dolci e animazione caratterizzeranno i colloqui tra genitori reclusi e figli, che in alcune giornate si svolgeranno all’aperto in bellissimi giardini, il tutto servirà ad alleggerire le tensioni e le ansie di chi entra nel carcere, soprattutto dei bambini. All’evento di presentazione del progetto parteciperanno l’artista Ida Piccolo, la psicologa Tiziana Grimaldi, la giornalista Daniela Del Prete, le volontarie Concetta Palma e Ida Nazzara mentre il maestro Sio Giordano curerà la direzione artistica. Presenzieranno la direttrice Carla Mauro, il comandante Francesco Serpico e il capo area pedagogica Angelo Russo. L’evento si concluderà con un viaggio nel gusto grazie all’assaggio di prodotti tipici della terra aversana curato dalla pasticceria Mario D’Anzi di Teverola. Mercoledì 12, invece, presso il Teatro del carcere di S.Maria C.V. l’associazione Casmu di Mario Guida in collaborazione con la “Borgo e musica” di Aversa, organizza uno spettacolo di musicale classica napoletano con la partecipazione straordinaria dell’artista Flavio Fierro, figlio d’arte di Aurelio, accompagnato al pianoforte dal maestro Nunzio Ricci, nonché dalla nota posteggia napoletana dei maestri Carmine Pignalosa e Pasquale Rosolino. Presenzieranno la direttrice Elisabetta Palmieri, il comandante Gaetano Manganelli e il capo area pedagogica Antonella De Simone. Roma: a Rebibbia Femminile un triangolare di calcio per il diritto allo sport in carcere Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2019 L’11 giugno, a partire dalle ore 14.00 e fino alle ore 16.00 presso la Casa Circondariale femminile di Rebibbia, si terrà un triangolare di calcio a 5 promosso da Atletico Diritti, polisportiva fondata nel 2014 dalle associazioni Progetto Diritti e Antigone. Alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati, On. Roberto Fico, si sfideranno sul campo dell’istituto la squadra di calcio di Atletico Diritti femminile, composta esclusivamente da atlete detenute nel carcere, una squadra delle studentesse dell’Università Roma Tre e una squadra composta dagli operatori della stessa Casa Circondariale. Oltre al Presidente della Camera, saranno presenti le giocatrici dell’AS Roma (Serie A di calcio femminile) Claudia Ciccotti, Federica Di Criscio, Camilla Labate e il Pro Rettore dell’Università Roma Tre, nonché vice-presidente di Atletico Diritti, Prof. Marco Ruotolo. “Lo sport è uno straordinario strumento di integrazione e di affermazione dei valori della solidarietà. L’accesso allo sport deve costituire un diritto per tutti, liberi o detenuti che siano”. A dirlo è Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e presidentessa di Atletico Diritti. “Dal 2014 cerchiamo di promuovere tali valori attraverso le attività sportive delle nostre squadre di calcio maschile, basket, cricket e per ultima quella del calcio femminile”. “Abbiamo scelto di fondare una squadra di calcio all’interno del carcere femminile di Rebibbia - aggiunge Arturo Salerni, vice-presidente della Polisportiva - per affermare con forza che non esistono barriere nello sport, siano esse sociali, di nazionalità, di genere o quant’altro. Questo torneo, ma più in generale le attività della nostra società, sono lì a volerlo ribadire”. Durante l’iniziativa saranno donati dal Rotaract Club Roma Olgiata Tevere materiali per l’attività sportiva di Atletico Diritti femminile, la squadra composta dalle atlete detenute del carcere romano. Per i giornalisti è obbligatorio accreditarsi scrivendo all’indirizzo segreteria@antigone.it, entro e non oltre le ore 13.00 di sabato 8 giugno, indicando: dati anagrafici, numero di tesserino, eventuale strumentazione (videocamere, fotocamere, registratori). Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Radio Radicale, oggi il voto sulle mozioni al Senato. E spunta quella di Lega-M5S di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 giugno 2019 L’Agcom insiste, arriva la schiarita dalla maggioranza. Due i punti: non rinnovare la concessione senza una vera gara e mettere in sicurezza e digitalizzare gli archivi dell’emittente, risorsa preziosa. C’è un nuovo appello al governo da parte dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni affinché si proroghi in qualche modo, anche se già scaduta il 21 maggio, la convenzione con Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari. Dopo la segnalazione urgente inviata più di un mese fa, l’Agcom torna a mettere in guardia l’esecutivo: “Secondo la Legge Finanziaria del 1998 che rinnovava la convenzione scaduta nel 1994 (e più volte prorogata, ndr) andava eseguita una nuova gara - ha ricordato ieri Antonio Nicita, commissario AgCom - ma prima di ciò andava eseguita una riforma complessiva del settore radio-televisivo. Quindi evidentemente il combinato stabilito dalla legislazione fa sì che, prima che si compia una nuova gara, questo servizio che è un servizio di interesse generale non possa essere interrotto”. La soluzione, se ci sarà, è rinviata comunque almeno a lunedì, quando alla Camera, nelle commissioni congiunte Bilancio e Finanza, si riprenderà l’esame degli emendamenti al Dl crescita. Con la speranza che il M5S segua la strada che sembra indicare nelle ultime ore il presidente della Camera Fico e riammetta alla discussione dell’Aula gli emendamenti che possono salvare Radio Radicale. Molto importante dal punto di vista politico però è il voto, previsto per oggi pomeriggio al Senato, della mozione presentata da Leu con Pd, FI e FdI che “impegna il governo a reperire le risorse per il rinnovo della convenzione dopo il 21 maggio 2019 e fino alla fine dell’anno” e “a rinnovare, conseguentemente, la convenzione con lo Stato italiano”. Dopo la batosta elettorale, Di Maio sta riflettendo sull’impatto mediatico di un voto che li vedrebbe, soli contro tutti, tifare per la morte della più importante radio politica italiana, che fornisce un servizio pubblico d’eccezione da 43 anni. E infatti, secondo fonti di “palazzo”, le mozioni si potrebbero moltiplicare e forse potrebbe spuntare perfino una di maggioranza che cerca di far dimenticare la rabbiosa opposizione del sottosegretario Crimi. In serata i 5 stelle annunciano: “Abbiamo depositato, d’accordo con la Lega, una mozione con cui facciamo prendere due impegni al governo: il primo è volto a non rinnovare la concessione senza una vera gara; e il secondo è a mettere in sicurezza e digitalizzare gli archivi di Radio Radicale, che rappresentano una risorsa preziosa. Nessuno vuole chiudere la radio” è la conclusione, ma una “radio privata” “non può stare in piedi solo grazie ai soldi delle vostre tasse, soldi pubblici”. Giornata mondiale dell’ambiente, lo smog causa 7 milioni di morti l’anno di Franco Brizzo La Stampa, 6 giugno 2019 Nel mondo, oltre 9 persone su 10 vivono in luoghi con livelli di qualità dell’aria superiore ai limiti fissati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Una situazione che porta conseguenze drammatiche in termini di “costo” di vite umane, visto che 7 milioni di persone muoiono per problematiche riconducibili a questa condizione. Tra le principali cause dell’inquinamento atmosferico dell’ambiente esterno (outdoor) sono stati individuati i trasporti, le attività agricole, il consumo energetico degli edifici, l’industria, la produzione di energia elettrica. In questo quadro, proprio la produzione agricola gioca un ruolo cruciale, visto che genera ben il 24% delle emissioni di gas serra globali (più dell’industria, 21%, e dei trasporti, 14%). Inquinamento atmosferico che, inoltre, incide anche sul sistema alimentare contribuendo all’insicurezza alimentare (impattando negativamente sulla disponibilità di materie prime). È questa, in sintesi, la fotografia di un Pianeta che sta letteralmente bruciando, scattata dalla Fondazione Barilla in vista della Giornata Mondiale dell’Ambiente (5 giugno), che quest’anno sarà dedicata proprio al tema dell’inquinamento dell’aria. La Commissione Economica Europea delle Nazioni Unite (Unece) conferma una relazione biunivoca tra la produzione alimentare e l’inquinamento atmosferico: da una parte, infatti, contribuisce significativamente all’inquinamento, dall’altra ne subisce gli effetti. La produzione agricola, la trasformazione e la distribuzione, generano notevoli inquinanti atmosferici, soprattutto gas serra, NH3 e particolato. L’agricoltura si conferma il principale settore responsabile dell’inquinamento da ammoniaca e delle emissioni di altri composti azotati. L’inquinamento atmosferico - oltre a impattare negativamente sulla disponibilità di materie prime - produce danni anche a livello di approvvigionamento alimentare, nella trasformazione e nella distribuzione. Ma allo stesso tempo le emissioni dei cosiddetti “precursori dell’ozono” - come gli ossidi di azoto e i composti organici volatili - minano la sicurezza alimentale globale perché, penetrando la struttura della pianta, ne compromettono la sua capacità di sviluppo. Infatti, è stato stimato che queste emissioni causano perdite complessive nei raccolti di soia, frumento e mais nell’ordine rispettivamente del 6-16%, del 7-12% e del 3-5%5. “L’inquinamento atmosferico preoccupa perché strettamente correlato anche ai cambiamenti climatici, una minaccia per la salute globale e per il sistema alimentare (causando ondate di calore torrido e inquinamento atmosferico, malattie infettive e malnutrizione), oltre che per l’agricoltura, visto che riducono la quantità e la qualità delle forniture alimentari. Studi ci mostrano che senza misure efficaci di mitigazione dei cambiamenti climatici, ogni aumento di un grado Celsius della temperatura media del pianeta ridurrà in media la resa globale di grano, riso, mais e soia rispettivamente del 6%, del 3,2%, del 7,4% e del 3,1% oltre a portare a una possibile riduzione di elementi nutrizionali quali proteine, ferro e zinco nell’ordine del 3-17%. Le soluzioni passano sia sul piano industriale, spingendo verso un’agricoltura sempre più sostenibile, sia su quello del consumatore, chiamato a ripensare i propri modelli alimentari puntando sulle diete sostenibili, ossia in grado di far bene sia alla nostra salute che a quella del Pianeta”, ha spiegato Anna Ruggerini, Direttore Operativo di Fondazione Barilla. I dati analizzati mostrano la centralità del cibo e la necessità di produrlo in modo sostenibile, anche per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sdgs) posti dall’ONU con l’Agenda 2030. Con l’obiettivo di capire il livello di conoscenza degli SDGs e della centralità del cibo nel loro raggiungimento da parte di Millennials e “Generazione Z”, Fondazione Barilla ha chiesto a Ipsos di realizzare una ricerca dal titolo “I giovani, gli SDGs e il cibo”, che sarà presentata proprio il 5 giugno a Roma al Miur (Viale di Trastevere 76/A, sala Aldo Moro, a partire dalle 9,30), nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2019. L’agricoltura gioca un ruolo cruciale rispetto all’inquinamento atmosferico, stime confermano che una riduzione del 50% delle emissioni in agricoltura potrebbero evitare oltre 200 mila morti all’anno in regioni e paesi come Europa, Russia, Turchia, Stati Uniti, Canada e Cina. Nell’Unione Europea, la mortalità causata dall’inquinamento atmosferico potrebbe essere ridotta del 18%, generando un beneficio economico annuo di 89 miliardi di dollari. Ecco perché serve puntare su un’agricoltura sostenibile. Dal punto di vista del singolo individuo, invece, una soluzione semplice e sana è quella di adottare regimi alimentari sostenibili. Il modello della “Doppia Piramide Alimentare e Ambientale”, ideata dalla Fondazione Barilla, consente di visualizzare rapidamente le scelte alimentari che hanno un’importanza fondamentale per la nostra salute e per quella dell’ambiente. La Piramide alimentare si basa sui principi della dieta mediterranea, che suggerisce un ampio consumo di ortaggi, frutta, frutta secca, cereali integrali, un consumo moderato di pesce e un consumo limitato di carne rossa e grassi saturi. La Piramide ambientale, invece, riclassifica gli alimenti in base al loro impatto ambientale relativo, producendo così una piramide rovesciata, in cui gli alimenti più dannosi per l’ambiente sono proprio quelli che dovremmo consumare con più moderazione, mentre quelli più salutari per noi presentano effettivamente minori impatti ambientali, dimostrando così che i cibi buoni per la nostra salute sono anche “buoni” per la salute del Pianeta. Lo Stato italiano rischia di finire in tribunale per non aver agito contro l’emergenza climatica di Alberto Abburrà La Stampa, 6 giugno 2019 Associazioni e movimenti lanciano “Giudizio universale”, la prima causa legale collettiva per obbligare il governo a impegnarsi seriamente nella difesa del Pianeta. Che la Terra sia in pericolo ormai non è più un mistero e che i suoi abitanti debbano fare qualcosa di concreto per assicurarsi un futuro, neppure. Ma che cosa? E soprattutto come? Un gruppo di associazioni, movimenti e semplici cittadini riuniti in una campagna dal titolo emblematico, “Giudizio universale”, ha deciso di passare dalle parole ai fatti, o meglio, dalle manifestazioni dei Fridays for future ai tribunali. Sì perché l’obiettivo della mobilitazione lanciata proprio oggi in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente ha un obiettivo preciso: portare davanti a un giudice lo Stato italiano per non aver agito di fronte allo sconvolgimento climatico. L’iniziativa è la prima nel suo genere in Italia e si ispira a un’azione simile lanciata nel 2015 in Olanda dalla “Urgenda Foundation”. Il presupposto era lo stesso e cioè un’accusa al governo (olandese) di non aver fatto abbastanza nella lotta contro l’inquinamento e il surriscaldamento globale. Oggi i promotori di Giudizio Universale si augurano di ottenere lo stesso risultato perché a distanza di 4 anni la causa legale olandese ha superato i primi due gradi di giudizio, ha ottenuto sentenze di condanna ed è entrata nella fase cruciale, quella in cui il governo dovrà dare delle risposte. Le indicazioni del mondo scientifico sulla strada da intraprendere non mancano. L’ultimo rapporto dell’Ipcc (Internationl Panel on Climate Change) invita i Paesi ha un drastico cambio di rotta che porti a dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 e ad azzerarle del tutto entro il 2050 considerato come l’anno del non ritorno. Finora gli Stati hanno fatto poco e male. I “progressi” in questo senso sono fermi all’accordo di Parigi del 2015 quando venne firmato un accordo (peraltro non vincolante) di mantenere l’aumento delle temperature entro la soglia di +1,5°C rispetto al periodo preindustriale. Ma questo proposito non si è tradotto in azioni concrete. A marzo l’Italia ha presentato il “Piano energia e Clima 2030” che dovrebbe recepire gli obiettivi europei e in questi giorni a Torino il governo ha lanciato il protocollo “Aria pulita”, ma il percorso è tutt’altro che in discesa: “L’impegno del nostro Paese è insufficiente a garantire il rispetto degli obiettivi suggeriti dai più importanti scienziati del clima - spiega Fabio Ciconte, fra i referenti della campagna Giudizio Universale. Il Piano non contiene gli interventi radicali di cui abbiamo bisogno per azzerare le emissioni nette entro il 2050. Con questa azione legale vogliamo spingere l’Italia a fare un passo in più nella lotta al cambiamento climatico, che è la più grande emergenza del nostro tempo”. Restano 11 anni per cercare di arginare i mutamenti climatici e le sue conseguenze, fenomeni estremi come inondazioni, ondate anomale di caldo, siccità, alluvioni e uragani. Calamità che non risparmiano nessuna area del mondo. E la conferma arriva dai numeri diffusi dai promotori di “Giudizio universale” secondo cui sono oltre 1000 i contenziosi che vedono la società civile in 25 Paesi portare alla sbarra lo Stato, le imprese o singoli progetti dal forte impatto sul clima. La causa legale italiana verrà depositata in autunno e la data non è casuale. A novembre in Cile si terrà la prossima Conferenza sul clima (Cop25). In quella sede serviranno pressioni esterne e una forte mobilitazione della società civile se non vogliamo veder naufragare un’altra volta le speranze e insieme anche il Pianeta. Migranti. Nella scuola italiana l’inclusione è la normalità di Francesca Sironi L’Espresso, 6 giugno 2019 Fuori impazza la propaganda del governo contro stranieri e minoranze di ogni tipo. Ma dentro le aule l’integrazione è ormai routine quotidiana. E la normalità è fatta da tante diversità. L’Italia ha già un nuovo dna. Più ricco di quanto vogliano i politici dell’odio, più universale di quanto gridi la Lega, più aperto di quanto sembri ad ascoltare le paure servite a cena dai tg sovranisti. Il dna dell’Italia ha già i colori, le tradizioni e le culture dei suoi studenti. “Nella mia classe ho 24 alunni. Sono di cinque etnie diverse, hanno cinque religioni diverse”, scrive Filippo, un maestro delle elementari precario, in un post condiviso da migliaia di persone: “Sul muro abbiamo appeso la foto di Mattarella, il Crocifisso, la mano di Fatima, un’immagine di Buddha e la bandiera della pace”. Non è straordinario, affatto, né strano. È l’assoluta normalità nelle classi italiane. Anche Salvini se ne sarà accorto, forse, alla recita di sua figlia in prima elementare (postata dal padre): nelle scuole diversità è una parola amica, una certezza diffusa, con numeri più ampi tra l’altro del previsto, come rivela una ricerca appena pubblicata a Torino. Ad ascoltare la propaganda è emergenza, in aula è routine. Una routine dell’inclusione che ora, però, di fronte al razzismo sdoganato dai vertici, rischia di diventare questione di frontiera. Con i ritardi negli investimenti nazionali e la mancata cura per l’integrazione che rendono difficili percorsi assodati da tempo. E mentre le classi si confrontano ogni mattina con il nuovo dna del Paese servono adesso nuovi anticorpi per fermare l’intolleranza. Alessio Surian insegna pedagogia all’università di Padova. Esperto di interculturalità, sta attraversando le scuole del Veneto per uno studio su come i bambini percepiscono la diversità. “Quando ero piccolo nel mio quartiere si parlava veneto. In classe ho aiutato miei compagni, spesso più intelligenti di me, a capire cosa dicevano i maestri solo perché a casa mia si parlava italiano. Le lingue non sono né possono essere un ostacolo allo sviluppo delle competenze. Anzi. Così come non lo devono essere le origini dei genitori”, spiega: “Diciamo bambini “stranieri”, ma stranieri per chi? Per i loro compagni non lo sono. Parliamo di “problemi”, ma problemi per chi? Le diversità sono un vantaggio, oggi, non una tara da cui liberarsi”. Surian cita uno dei pilastri della riflessione contemporanea sul tema, gli scritti di Scott Page dell’università del Michigan, che dimostrano come non per “buonismo”, “ma per crescere nell’attuale sistema economico, sapersi muovere fra culture e identità plurali è una capacità fondamentale”. Davanti a quest’esigenza il corpo scolastico è attivo. Ma la burocrazia in ritardo. Surian elenca tre questioni chiave: “Mancano tavoli di concertazione fra ministero, uffici regionali e comunità per la formazione delle classi. Ogni settembre leggiamo episodi non più accettabili di sezioni ghetto, vediamo azioni estemporanee di amministratori locali. Secondo: la lingua. È necessario che gli alunni possano raggiungere il prima possibile il livello base per la comprensione delle lezioni. Allo stesso tempo, gli insegnanti devono essere formati a cogliere l’occasione che l’avere conoscenze plurali rappresenta. E questo è il terzo punto: l’integrazione non è mimetismo. È imparare a riconoscere la diversità e valorizzarla”. Sono punti semplici. Ma in un paese dove ogni mattina il leader dell’attuale primo partito si sbraccia per criminalizzare gli immigrati, diventano scelte di campo. Il dibattito intossicato a cui sono esposte le famiglie non può non avere ripercussioni in aula, conclude il professore, con preoccupazione: “Le scuole devono attrezzarsi ad affrontare il razzismo e l’intolleranza. Non possono lasciarlo scorrere”. Il tema non sembra essere fra le priorità del ministro Marco Bussetti però. Un esempio? Fra la primavera e l’estate del 2017 erano stati pubblicati i bandi per i fondi europei alla scuola pubblica. Erano organizzati per “assi”: alternanza scuola-lavoro, ad esempio, arte, educazione all’imprenditorialità, sport in classe. In cantiere ci sono anche 50 milioni di euro destinati a “Integrazione e accoglienza”. Al Miur sono arrivati centinaia di progetti. Ma mentre gli altri settori sono partiti (alcuni sono già alla seconda edizione), il bando sull’inclusione è fermo. Sono passati due anni e ancora non sono state nemmeno pubblicate le graduatorie di chi ha diritto alle risorse. “Gli uffici scolastici manderanno le loro valutazioni entro la metà di giugno”, assicurano ora dal Miur. L’ultimo intervento pubblicato dal ministero per l’area “intercultura”, intanto, risale al settembre del 2017, prima delle elezioni. “Oggi più che mai è opportuno fare educazione interculturale, e parlare di razzismo”, riflette il direttore editoriale di Lœscher, Sandro Invidia, nell’editoriale di dicembre per la rivista “La Ricerca”: “Parlarne a scuola, in primo luogo, come nel posto che meglio si presta per verificare la fondatezza delle affermazioni che circolano sul tema. Occorre farlo con sapienza e giudizio, senza mai dimenticare il grande dubbio che resta sullo sfondo della questione. Come può la differenza - etnica, linguistica, culturale - entrare nella quotidiana pratica educativa, al punto da diventare oggetto di riflessione? Non sarebbe meglio comportarsi come non esistesse? La questione è cruciale”. E le testimonianze raccolte nel dossier - reperibile online - provano a affrontarla da prospettive non scontate. Di sicuro però c’è un dato che non può essere tralasciato: il fatto incontrovertibile, statistico, della nuova normalità vissuta su milioni di banchi. Una normalità che è più estesa di quanto avvertiamo. Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli di Torino, lo ha dimostrato andando oltre le cifre del ministero dell’Istruzione, per il quale sono circa 800mila gli alunni stranieri immatricolati. Molina ha esplorato un registro più ampio: le iscrizioni all’anagrafe di bambini con uno o due genitori non italiani. Ricostruendo le serie degli ultimi 18 anni, è arrivato così alla cifra di un milione e 150mila minorenni nati nel nostro paese da genitori stranieri. A cui si aggiungono 450mila figli di coppie miste, per la stragrande maggioranza con padre italiano e madre di cittadinanza estera. Considerando anche i 400mila nati fuori dai confini si arriva così a due milioni di bambini che hanno radici internazionali. “Dal 2012 le nascite sono calate, anche per gli stranieri”, spiega il ricercatore: “Ma l’elemento più interessante da osservare è l’invisibilità di questi “grandi numeri”. Intorno alle nostre scuole si muovono due milioni di nuovi cittadini senza fare rumore”. È il segno che il sistema educativo è molto più avanti dello strillismo mediatico-politico. “La “non visibilità” è infatti indice di integrazione. In Francia si parlava di “scomparsa degli italiani”, perché i nostri emigrati semplicemente non erano vissuti più come estranei, e i loro figli o nipoti - Nino Ferrer, Michel Platini - erano considerati del tutto francesi”. Che il paese dei piccoli sia più cosmopolita di quello degli adulti lo racconta anche un altro dato, passato in sordina. Nell’ultimo rapporto nazionale sui test Invalsi, oltre all’italiano e alla matematica - dove i ragazzi di prima e seconda generazione continuano a mostrare maggiori difficoltà rispetto ai coetanei, seppure con molti distinguo - ci sono le risposte all’esame di inglese, sottoposto per la prima volta in quinta elementare e terza media. Bene: su questo aspetto qui non c’è alcuna distinzione per provenienza. Anzi, i “2G” vanno mediamente molto meglio degli italiani. Non ditelo a Salvini, che alla scuola di formazione della Lega, lo scorso dicembre, sosteneva che gli insegnanti vogliono formare giovani “senza patria, senza storia, senza lingua”. No: li stanno aiutando a crescere con molte patrie, molte storie, molte lingue comuni. Francia. L’accanimento contro la solidarietà di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 giugno 2019 In Francia offrire cibo a chi ha fame, acqua a chi ha sete, coperte a chi ha freddo e un tetto a chi ne è rimasto privo sono attività sempre più rischiose. Da Calais a Dunkirk, chi aiuta migranti e rifugiati è preso regolarmente di mira dalle autorità. Nelle scorse settimane, qui e qui, abbiamo raccontato due di queste vicende, cui ora però Amnesty International dedica un intero rapporto. I volontari e le volontarie incontrati da Amnesty International nel corso della stesura del rapporto hanno descritto le intimidazioni, le minacce d’arresto e le violenze come “parte della giornata di lavoro”. Particolarmente inquietanti sono le segnalazioni di umilianti e insistenti perquisizioni di donne da parte di agenti di sesso maschile, così come le ricorrenti “promesse” di denunce per diffamazione nei confronti di chi osa segnalare i comportamenti contrari alla legge da parte della polizia. Tra novembre 2017 e giugno 2018 vi sono stati 646 casi di intimidazioni e violenza da parte della polizia francese. Quest’anno ne sono stati registrati almeno 72, ma il numero effettivo potrebbe essere più alto. Libia. Grandi (Unhcr): “I Centri per migranti sono campi di concentramento” La Repubblica, 6 giugno 2019 L’alto commissario Onu per i rifugiati rivela: stiamo cercando di portare via il maggior numero di persone. Ma i nuovi detenuti sono sempre di più. A livello mondiale, i profughi sono oltre 70 milioni. Il numero più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. “Quello che ho avuto davanti agli occhi nei centri di detenzione in Libia non l’ho mai visto in nessun’altra parte del mondo. Si tratta di veri e propri campi di concentramento. L’Unhcr sta cercando di portare via il maggior numero di persone possibile ma non si tratta certo della soluzione al problema. Dovrebbe essere la politica a prendere in mano la situazione e cercare di risolverla definitivamente”. A dichiararlo è l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, intervenuto a Trento al 14° Festival dell’Economia. Interventi ormai quotidiani. A causa dei violenti scontri e del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza a Tripoli, gli interventi in Libia dell’Unhcr sono sempre più intensi. L’ultimo il 30 maggio: 149 persone tra rifugiati e richiedenti asilo vulnerabili, provenienti da Eritrea, Somalia, Sudan ed Etiopia, sono state evacuate e trasferite a Roma. Molti di loro erano malnutriti e hanno necessitato di cure mediche. Tra loro, 65 minori di cui 13 di meno di un anno; uno è nato appena due mesi fa. Il gruppo è stato trasferito dal Centro di Raccolta e Partenza dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, dopo mesi trascorsi in condizioni disperate all’interno dei centri di detenzione in altre zone della città. Pochi giorni prima, un altro trasferimento: in quel caso, 62 rifugiati sono stati evacuati da Tripoli in direzione Timisoara (Romania), prima di proseguire il viaggio verso la Norvegia, che ha dato disponibilità all’accoglienza. La punta di un iceberg. Ma il problema rimane: i detenuti nei centri libici aumentano più rapidamente di quanti ne vengano evacuati: da inizio anno, mille rifugiati sono stati portati fuori dal Paese africano ma, nel solo mese di maggio, oltre 1200 persone sono state riportate indietro dalla guardia costiera libica, dopo essere state intercettate in mare. Il nodo libico, per chi si occupa di rifugiati, è solo la punta di un iceberg le cui dimensioni non sono mai state così enormi: “Il numero ha ormai raggiunto i 70 milioni di unità - spiega Grandi - una cifra mai così alta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”. Eppure, la dotazione economica a disposizione dell’Unhcr è di circa 3,5-4 miliardi l’anno, “per occuparsi di operazioni spesso costosissime perché si svolgono in aree di conflitto”, ricorda l’Alto Commissario. Se lo sguardo si allarga a tutte le agenzie per gli interventi umanitari “la spesa è di circa 20-22 miliardi di euro l’anno, cifra irrisoria se paragonata a qualsiasi voce dei bilanci degli Stati, ad esempio, per le spese militari. Nel caso dell’Unhcr peraltro, si tratta di contributi volontari da parte degli Stati”. Il pericolo che quindi i venti populisti e xenofobi che spirano in molti Stati ricchi riducano i fondi è reale. Niger. La vita dei rifugiati liberati dalle carceri libiche di Annalisa Camilli Internazionale, 6 giugno 2019 Il primo giorno in Libia l’hanno presa a botte con un tubo di ferro. I carcerieri libici frustano gli uomini, se non pagano il riscatto: vogliono lasciargli i segni dei tagli sulla pelle come un marchio. Le donne invece le picchiano con dei tubi di ferro in modo da far rimanere solo degli ematomi. “Ci hanno chiesto ventimila dollari per liberarci, diecimila dollari ciascuno. Soldi che non avevamo. Questo è successo il primo giorno in cui siamo arrivati in Libia dal Sudan”. C’è un odore intenso nella veranda in cui Jamila ci accoglie nell’afa densa di Hamdallaye, un villaggio a 40 chilometri dalla capitale del Niger, Niamey. È l’odore inconfondibile dell’olio che le donne del corno d’Africa usano per tenere in ordine i capelli. Jamila è di origine somala, ha 23 anni, il volto incorniciato da una sciarpa nera, il vestito fiorato la avvolge fino alle caviglie, il volto ancora morbido di una donna giovane. Viene da una famiglia di allevatori al confine tra la Somalia e il Kenya, è scappata insieme a suo marito due anni fa per sottrarsi agli attacchi del gruppo terroristico Al Shabaab. “Mio cognato era morto in un attentato, mio marito era stato minacciato, non volevamo morire anche noi. Siamo scappati una notte. Non potevamo più rimanere”. Jamila scoppia a piangere molte volte mentre ricorda un viaggio che non avrebbe mai immaginato. “In Libia pensavo di morire: ero in un campo con altre mille persone e tutti i giorni vedevo persone morire per la tubercolosi o per le infezioni. I carcerieri prendevano i corpi e li gettavano nel deserto”, ricorda. “Decine di cadaveri sono stati buttati nella sabbia come sacchi. Quando vedi tutti i giorni cose così, non riesci più a pensare a nulla”. Da quando è arrivata in Niger la tormentano i sogni, impedendole di dormire. Torna continuamente con la memoria a quei giorni dentro un centro di detenzione a Beni Walid. “Non potevamo pagare, non avevamo ventimila dollari, allora ci prendevano e ci portavano fuori dal centro sotto al sole, ci cospargevano di acqua e zucchero e ci lasciavano all’aperto per ore. Così gli insetti ci assalivano e il sole ci bruciava la pelle, poi ci gettavano addosso acqua fredda”. Gli occhi allungati di Jamila si chiudono come per respingere il ricordo, le lacrime scendono sulle guance. Dal terreno di sabbia rossa sale un’insopportabile arsura. È la stagione calda in Niger, le temperature toccano i quaranta gradi e un vento implacabile alza la sabbia e gonfia le vene delle tempie. “Se sei una donna in Libia la violenza sessuale è una certezza: ogni notte i carcerieri vengono a prendersi le donne che vogliono stuprare”, racconta, mentre è seduta su un tappeto di rafia viola e verde. Un anno e quattro mesi è il tempo che Jamila ha passato in Libia: sempre in detenzione. La violenza che ha subìto non la vuole raccontare, le lacrime le segnano il volto, poi irrompe il silenzio. Quando torna a parlare, sembra riemersa da un’altra dimensione. “Mio marito è riuscito a ottenere i soldi dai parenti, una colletta credo. Soldi che non avevamo. Così siamo stati liberati e ci hanno portati sulla spiaggia a Sabrata, dove eravamo pronti a imbarcarci per l’Europa”. Ricorda la sensazione di sollievo quando ha capito che si sarebbero lasciati la detenzione alle spalle. Ma dopo qualche ora di navigazione a bordo di un gommone, una motovedetta della cosiddetta guardia costiera libica li ha fermati e li ha riportati indietro. Jamila e suo marito sono stati trasferiti in un centro di detenzione governativo per altri sette mesi. “Ci davano da mangiare una volta ogni tre giorni, le persone si ammalavano, eravamo in tanti”. È in quel centro che ha incontrato gli operatori dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) che hanno conosciuto il suo caso, le hanno fatto un’intervista e hanno capito che poteva rientrare nei programmi di trasferimento d’emergenza dei rifugiati verso il Niger (Emergency transit mechanism, Etm). Ora le sue giornate passano lente: “All’arrivo a Niamey non riuscivo a dormire, mi tormentavano gli incubi, avevo continui flashback che mi portavano indietro a quello che avevo visto e vissuto in Libia”. L’aria è densa, sono gli ultimi giorni del Ramadan: non ha bevuto né mangiato per tutto il giorno. Jamila sa che presto partirà per la Francia con un programma di reinsediamento: sarà tra le poche persone che riusciranno ad affrontare il viaggio per l’Europa in maniera legale dopo essere passata dall’inferno libico, senza doversi mettere ancora una volta nelle mani dei trafficanti di esseri umani. “Ora voglio solo dimenticare quello che mi è successo in Libia”, dice, mentre osserva i passi di alcuni uomini eritrei che camminano davanti alla sua tenda. Le loro voci sembrano molto lontane. “Da quando sono partita non sono riuscita a comunicare con mia madre, mi manca, ma non so dove sia, né che ne è stato di lei”. Dal novembre 2017, dal Niger sono state trasferite 1.248 persone in paesi sicuri come il Belgio, il Canada, la Finlandia, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi, la Norvegia, la Svezia, la Svizzera, il Regno Unito e gli Stati Uniti con il programma Etm rivolto alle persone più vulnerabili, soprattutto eritrei e somali che hanno subìto torture e violenze nei paesi di origine e durante la loro permanenza in Libia. Da Tripoli sono state evacuate 3.612 persone, di queste 561 sono arrivate direttamente in Italia. Numeri irrisori se si pensa che secondo l’Unhcr in Libia ci sono almeno 57mila profughi, quattromila dei quali già individuati dai funzionari dell’organizzazione internazionale che hanno un accesso limitato ai centri di detenzione gestiti dal governo di Tripoli. “Questo è un centro di transito”, spiega Alessandra Morelli, rappresentante dell’Unhcr in Niger. “Qui arrivano le persone che sono state portate via dai lager libici: si fermano nel campo dai cinque mesi a un anno prima di riprendere il viaggio, questa volta legale verso l’Europa”, continua. “Quando le persone arrivano sono spesso sotto shock, poi piano piano riprendono a vivere”. Il centro di transito di Hamdallaye è l’unico di questo tipo in tutta l’Africa, è nato proprio per permettere il trasferimento d’emergenza dei rifugiati dai centri di detenzione libici. Ma il governo nigerino ha accettato di accogliere al massimo 1.560 persone, così finché i rifugiati non sono trasferiti verso le destinazioni finali attraverso i canali umanitari, non è possibile trasferire verso il Niger altre persone dalla Libia, un paese martoriato da una guerra civile che va avanti dal 2011. Se le persone non partono dal Niger, non ne possono essere liberate altre dalla Libia. Questo meccanismo dipende quindi dalla disponibilità dei paesi considerati sicuri ad accogliere. “Al momento nel centro ci sono seicento persone”, spiega Morelli, romana con una lunga esperienza umanitaria alle spalle. “Per noi è molto difficile gestire le aspettative delle persone che sono in questo campo. I tempi del loro trasferimento dipendono dai governi che accettano i reinsediamenti. Garantire che ci sia almeno un volo al mese verso i paesi terzi sicuri consentirebbe di assicurare il funzionamento di un meccanismo salvavita”, continua la rappresentante dell’Onu in Niger. Dalla Libia è molto difficile evacuare le persone: non ci sono ambasciate se non quella italiana. Per questo i rifugiati sono portati in Niger prima di raggiungere l’Europa o il Nord America. “Purtroppo è trasferito solo chi è in una condizione di estrema vulnerabilità, quelli che hanno subìto le violenze peggiori”, spiega la portavoce dell’Unhcr per l’Europa meridionale Carlotta Sami. “Non è una scelta, è proprio una questione di vita o di morte: nei centri libici non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è accesso ai servizi sanitari. Anche salvare una vita sola vale tutta la complessità di questo meccanismo”, conclude. Dalla Libia per il momento possono essere trasferite solo le persone che sono riconosciute come altamente vulnerabili dall’Onu e che appartengono a un gruppo di sette nazionalità, quelle che per il governo di Tripoli possono ambire al riconoscimento della protezione internazionale: la Libia infatti non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951. “Il conflitto nel paese si sta inasprendo e la situazione sta peggiorando sia per i libici sia per i migranti: le persone continuano a partire, non hanno alternative. Muoiono in mare, oppure le intercetta la cosiddetta guardia costiera libica che le riporta indietro nei centri di detenzione”, spiega Carlotta Sami. Non ci sono canali per uscire dalla Libia, nemmeno chi vuole tornare a casa riesce a farlo, le persone rimangono di fatto intrappolate nel paese. “Solo a causa degli ultimi scontri, ci sono 82mila sfollati interni in Libia. Questa cifra dà un’idea della gravità della situazione”. Nel 2019, tuttavia, sono state intercettate in mare 2.350 persone dalla guardia costiera libica, finanziata dal governo italiano e dai governi europei, che le ha riportate indietro, nei centri di detenzione. Sulle trecento casette prefabbricate del centro di transito di Hamdallaye soffia un vento caldo, i rifugiati hanno tirato delle reti sopra ai tetti per creare un ricircolo di aria. Alcuni, nonostante l’afa, si sono raccolti in un cortile e si allenano con un maestro di taekwondo, Tommy. Quest’arte marziale è tra le più praticate in Niger e anche i rifugiati, dopo mesi di allenamento, ne apprezzano i benefici. “Tra i rifugiati ci sono delle promesse del taekwondo”, assicura il maestro. “Le lezioni, che si tengono due volte alla settimana nel centro, sono solo una delle attività offerte ai rifugiati, con l’idea che usino questo tempo di attesa per ricostruirsi, riprendersi da quello che hanno subìto”, spiega Marzia Vigliaroni, responsabile della salute mentale e del benessere psicosociale per l’Unhcr. Le attività più importanti sono però quelle sanitarie e psicologiche. I rifugiati hanno in molti casi contratto tubercolosi, malattie dermatologiche e traumi fisici. E le ferite psicologiche sono ancora più insidiose. “Incubi notturni ricorrenti, flashback quotidiani in cui si rivivono gli eventi traumatici, dipendenza da alcol, depressione. Sono sintomi molto diffusi tra i rifugiati arrivati dalla Libia”, spiega Vigliaroni. “Ma al di là del dolore e della sofferenza, troviamo spesso un profondo senso di colpa, legato al sentimento di impotenza per non aver evitato la violenza. Questo sentimento è diffuso soprattutto tra le donne che hanno subìto violenza”. Il senso di colpa spesso impedisce soprattutto alle donne di raccontare tutto quello che hanno visto e vissuto, e quindi di liberarsene: “Da una parte si vergognano, temono che le famiglie possano disconoscerle e allontanarle, oppure in generale si sentono responsabili per quello che hanno subìto”. “Solo una volta una ragazza somala è riuscita a raccontarmi della violenza sessuale subita la prima volta che mi ha incontrato, perché ne aveva già parlato con sua madre. Le parole tranquillizzanti della madre l’avevano aiutata a raccontare”, spiega l’operatrice. Sugli uomini le torture sessuali diventano ferite ancora più profonde e segnate dallo stigma, e anche in questo caso è molto difficile per queste persone anche solo raccontare quello che hanno subìto: “In un anno e mezzo in Niger abbiamo seguito l’80 per cento delle persone che sono passate dal centro. Normalmente in una popolazione rifugiata, ce n’è sempre una parte enorme che ha bisogno di un accompagnamento psicologico, ma nel caso della Libia abbiamo proporzioni impressionanti, senza precedenti nella mia esperienza”, confessa Vigliaroni, che vive da sette anni in Niger e ha lavorato anche nella Repubblica Centrafricana. “Pensavo di avere ascoltato storie di violenza indicibile, ma sono niente in confronto alle storie che sto ascoltando dalle persone che fuggono dalla Libia. E sia chiaro: le persone che sono più povere, quelle che non hanno soldi per pagare il riscatto, sono quelle che sono sottoposte alle violenze più brutali”. “La storia a cui sono più legata è quella di una ragazza che è partita a 16 anni. Lungo il viaggio è stata ripetutamente violentata, una sua amica è morta tra le sue braccia a causa delle violenze, lei è rimasta incinta. Nel momento in cui ha dato alla luce suo figlio, frutto dello stupro, ha provato a togliersi la vita. Poi l’hanno portata in Niger. Ha fatto un percorso incredibile su se stessa, una volta arrivata qui”, racconta Vigliaroni. Ora, dopo una lunga attesa, è riuscita a raggiungere finalmente l’Europa. L’Unione europea e l’Italia sono state denunciate alla Corte penale internazionale per “crimini contro l’umanità” il 3 giugno 2019 per aver adottato politiche di deterrenza totale, aver sospeso le missioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale e aver affidato alla guardia costiera libica il compito di intercettare i migranti in fuga dalla Libia e riportarli indietro nel paese in guerra. La denuncia è stata presentata dal giornalista Juan Branco e dall’avvocato Omer Shatz. L’esposto di 245 pagine accusa numerosi politici italiani ed europei tra cui l’ex presidente del consiglio Paolo Gentiloni e l’ex ministro dell’interno Marco Minniti di aver “sacrificato la vita dei migranti in difficoltà in mare con l’unico obiettivo di dissuadere gli altri in situazioni simili dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. Il tribunale internazionale dell’Aja dovrà decidere se aprire un fascicolo in seguito alla denuncia. Cina. Come svelare i dati sui campi uiguri di Danilo Taino Corriere della Sera, 6 giugno 2019 Adrian Zenz, un antropologo tedesco, ha fatto un lavoro straordinario per rivelare la portata del programma di detenzione di massa, di sorveglianza hi-tech e di creazione di campi di internamento nella regione dello Xinjiang. Con la Cina ci sono seri problemi di statistica. Nonostante il governo di Pechino raccolga quantità enormi di dati sulla vita dei cittadini, per lo più a scopo di controllo, questo tesoro di Big Data non è trasparente e non sempre è reso pubblico correttamente. Per non dire di ciò che viene tenuto nascosto. Informazioni accurate, quindi, devono trovare canali diversi da quelli controllati dal Partito Comunista Cinese per venire alla luce. Piuttosto straordinario è il lavoro fatto da Adrian Zenz, un antropologo tedesco, per rivelare la portata del programma di detenzione di massa, di sorveglianza hi-tech e di creazione di campi di internamento nella regione dello Xinjiang. Un’operazione di polizia finalizzata a frustrare la società e le tradizioni turco-musulmane della popolazione uigura maggioritaria nella provincia. Un po’ come Pechino ha fatto in Tibet. Da un piccolo ufficio nelle vicinanze di Stoccarda - ha raccontato il Wall Street Journal - Zenz si è assunto il compito di cercare documenti cinesi, ufficiali e non, che chiarissero la portata dell’operazione repressiva contro gli Uiguri, che fino ai primi mesi del 2018 Pechino ha negato esistesse. I suoi primi risultati, basati su documenti di Stato, su budget di intervento e testimonianze dirette, lo portarono a calcolare che le autorità avessero internato tra centomila e un milione di cittadini dello Xinjiang. Solo a quel punto, quando Zenz è stato sentito dal Congresso americano e dal Parlamento canadese e dopo che le sue stime sono state portate alla Nazioni Unite, Pechino ha ammesso l’esistenza dei campi. Ma per dire che si trattava di un modo innovativo per contrastare il terrorismo islamico. Il lavoro di Zenz è poi continuato, raccogliendo rapporti stilati da giornalisti giapponesi, nuove testimonianze e studi di altri ricercatori, come quello di uno studente cinese a Vancouver, Shawn Zhang, che ha incrociato documenti ufficiali sulla costruzione dei campi con immagini da Google Earth e ha individuato 66 centri di detenzione. Lo scorso marzo, Zenz ha testimoniato alla sede di Ginevra delle Nazioni Unite e ha alzato la stima degli internati a un milione e mezzo. “Molto del lavoro non è emotivo, trattando dati - ha detto Zenz al Wall Street Journal - Ma ci sono stati momenti in cui ho pianto”. La statistica al suo meglio. Sudan rosso sangue: cento dimostranti uccisi di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 6 giugno 2019 Feroce repressione della giunta militare: i corpi ripescati nel Nilo. Con oltre cento persone uccise si aggrava sempre di più il bilancio di sangue degli scontri tra i militari e le organizzazioni della società civile sudanese. Dopo la deposizione del presidente Omar Bashir, avvenuta l’11 aprile scorso, la popolazione guidata principalmente dallo Spa (Associazione dei professionisti sudanesi) non ha mai smesso di occupare le piazze della capitale Karthoum, da settimane erano in corso trattative con l’esercito per concordare un periodo di transizione che avrebbe portato il paese verso elezioni democratiche. I negoziati, almeno nelle intenzioni, prevedevano un lasso di tempo di tre anni durante i quali il governo sarebbe stato gestito dai esponenti non militari. Lunedì però si è verificato un radicale cambio di rotta. I generali, attraverso una dichiarazione del leader, Abdel Fattash al- Burhan, hanno fatto sapere che ogni dialogo sarebbe stato interrotto e che si sarebbe tornati alle urne entro nove mesi, immediatamente dopo è iniziata una violenta repressione. Ieri la BBC ha aggiornato la macabra contabilità dei morti parlando di almeno 60 vittime, il doppio rispetto solo a due giorni prima. Secondo moltissime testimonianze dei manifestanti la repressione è stata affidata ai famigerati gruppi paramilitari dei Janjaweed, che si distinsero per la loro efferatezza già durante il conflitto in Darfur nel 2003. Questa milizia è poi stata integrata nelle Forze Armate sudanesi come forza di intervento rapido. Uno dei suoi compiti, ad esempio, è quello di bloccare i migranti che tentano di arrivare il Libia. Dietro la mossa dei militari si nasconde probabilmente il tentativo da parte del vecchio apparato di mantenere intatto il suo potere. Bashir era ormai diventato impresentabile e la sua destituzione appare ora come un “male necessario” per conservare l’equilibrio preesistente. In questo contesto un reale protagonismo popolare riformatore non trova evidentemente spazio. Un ragionamento rilanciato anche da diversi osservatori come l’analista ed ex ambasciatore britannico in Sudan, Rosalind Marsden il quale parlando al Newsday della BBC, ha argomentato che le elezioni anticipate “avrebbero semplicemente spianato la strada a gran parte del vecchio regime per tornare al potere”. I militari inoltre possono contare su un contesto internazionale frammentato. Nonostante Regno Unito e Germania abbiano diffuso una bozza di dichiarazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu che condanna la morte di civili e sollecita i militari e i manifestanti a “continuare a lavorare insieme” verso una soluzione, Cina e Russia hanno subito respinto ogni tentativo di mettere in pratica misure concrete.