Il reato ostativo e il 41bis all’esame della Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2019 Il prossimo 22 ottobre i giudici dovranno decidere sul divieto di accesso ai benefici. Oltre all’avvocato Vianello, difensore dell’ergastolano Cannizzaro, fra le parti ammesse c’è anche nessuno tocchi caino, che denuncia il carattere crudele, inumano e degradante della misura. Siamo nell’anno domini che mette in discussione soprattutto il 4bis (l’articolo dell’ordinamento penitenziario che prevede la preclusione all’accesso dei benefici), e non è la politica a farlo, vista la forte componente populista che prevale trasversalmente nella visione del diritto penale, ma sono i giudici, che hanno investito la Corte costituzionale ritenendo fondate le questioni sollevate di legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis comma 1 della legge del 1975. La data, quella più importante, è fissata per il 22 ottobre 2019, alle ore 9.30, presso il palazzo della Consulta, e si terrà l’udienza pubblica nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, la parte che vieta la concessione dei benefici ai condannati per taluni reati, se non in presenza della collaborazione ai sensi dell’art. 58 er, quando non sia impossibile o inesigibile. In questo caso specifico parliamo del divieto del permesso premio nei confronti di un ergastolano ostativo condannato per il 416bis, l’associazione di tipo mafioso. La questione è unica, perché in sostanza il permesso (come recita il comma 1 del 4bis) può essere concesso solo con la collaborazione. Parliamo dell’ordinanza della Cassazione relativa all’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, assistito dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti, che accoglie quasi totalmente la questione del ricorrente, ovvero la sospetta incostituzionalità dell’art. 4bis per violazione degli art. 27, comma 3 e 117 Cost., in relazione all’art. 3 Cedu. Ad opinione del ricorrente la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata “si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, costituzionalmente garantita, sia perché impedisce il raggiungimento delle finalità riabilitative proprie del trattamento penitenziario, sia perché appare disarmonica rispetto ai principi affermati dall’art. 3 Cedu”. La Corte costituzionale, quindi, il 22 ottobre, dovrà decidere se disinnescare almeno parzialmente il meccanismo di preclusione all’accesso dei benefici di cui all’art. 4 bis. Parzialmente, perché il quesito rimesso alla Consulta riguarda solo i condannati all’ergastolo ostativo per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c. p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che richiedono la concessione di un permesso premio nonostante la mancanza di una condotta di collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario. Oltre all’avvocato Valerio Vianello, che rappresenterà l’ergastolano Cannizzaro, fra le parti ammesse a partecipare all’udienza vi è anche l’associazione, costituente del Partito Radicale, Nessuno Tocchi Caino che, nell’ambito di un progetto teso a sensibilizzare l’opinione pubblica sul carattere crudele, inumano e degradante dell’ergastolo ostativo, ha presentato alla Consulta un intervento amicus curiae. L’ammissione di Nessuno Tocchi Caino a partecipare e avanzare i propri argomenti all’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 - ove sarà presente l’Avvocato Andrea Saccucci del Foro di Roma - rappresenta sicuramente una grande notizia, non solo per l’associazione, ma soprattutto per tutti gli “ergastolani ostativi”, che ora sanno di poter contare su un autorevole rappresentanza dinnanzi alla Corte costituzionale. Infatti, con il proprio intervento, Nessuno Tocchi Caino fornirà alla Corte informazioni in merito alle condizioni concrete cui sono sottoposti gli oltre 1.100 individui, che stanno scontando la pena dell’ergastolo ostativo nelle carceri italiane, soprattutto per quello che riguarda la possibilità di accedere e completare con successo programmi trattamentali senza godere dei permessi premio e degli altri benefici penitenziari, e indicherà parametri normativi e giurisprudenziali di diritto internazionale dei diritti umani di immediata rilevanza per la soluzione della questione. Da una prospettiva più generale, inoltre, l’ammissione di Nessuno Tocchi Caino all’udienza pubblica rappresenta un ulteriore passo verso la progressiva “apertura” del giudizio incidentale di legittimità costituzionale ad associazioni della società civile portatrici di interessi qualificati - quale è sicuramente Nessuno Tocchi Caino per quanto riguarda la questione dell’ergastolo ostativo. Le altre questioni dinanzi alla Corte costituzionale Se il 22 ottobre sarà una data importante, intanto la Corte Costituzionale dovrà affrontare comunque altre questioni sempre legate al reato ostativo. Il 5 giugno dovrà pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del 4 bis nei confronti di chi ha in corso espiazione di pena inflitta per un fatto che, pur qualificato ai sensi dell’art. 630 cod. pen., sia stato riconosciuto di lieve entità, e per il quale la presunzione (praticamente assoluta) che lo stesso costituisca espressione di criminalità esercitata in forma organizzata o comunque particolarmente pervasiva che giustifichi il regime di esclusione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione - non sembra, secondo la Cassazione, avere fondamento ragionevole. Ma si aggiungono altre ordinanze, come quella depositata qualche giorno fa dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia (estensore dottor Fabio Gianfilippi) che rimette alla Corte Costituzionale la stessa questione di Cannizzaro, quindi la costituzionalità del 4bis nella parte in cui preclude, al condannato all’ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l’associazione di cui all’art. 416bis, l’accesso al permesso premio. Per questo è probabile che venga accorpata alla questione proposta dalla Cassazione relativa a Cannizzaro e quindi discussa in Corte Costituzionale lo stesso 22 ottobre prossimo. Così come con altra ordinanza di qualche giorno fa, la prima sezione della Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente fondata la questione di costituzionalità riguardante il 41bis (il cosiddetto carcere duro), per contrarietà agli art 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui prevede che “siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicuratala assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità”. Tale ordinanza è stata emessa grazie al reclamo proposto dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila, in seguito al cui accoglimento, dinanzi al magistrato di sorveglianza di Spoleto, l’Avvocatura di Stato aveva proposto reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Perugia: il ricorso veniva respinto, ma non contenta l’Avvocatura di Stato proponeva ricorso per Cassazione e in quella sede la Corte trasmetteva gli atti alla Consulta, come del resto aveva sin dall’inizio auspicato l’avvocato Barbara Amicarella. Bonafede: “Le carceri diventino luogo di riscatto e cambiamento” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 5 giugno 2019 “La legalità è precondizione irrinunciabile di qualsiasi cammino di realizzazione del cittadino. Giustizia e legalità sono due componenti essenziali per esercitare una cittadinanza attiva, consapevole e proficua. L’università, così come la scuola, in quanto basilari istituzioni educative, culturali e arene dove si sperimenta la passione per la conoscenza e per il confronto tra le idee, possono e devono svolgere un ruolo decisivo in questo sforzo di diffusione tra le nuove generazioni dei valori della solidarietà, della responsabilità sociale, del rispetto, dell’uguaglianza: principi che costituiscono la fedele e concreta attuazione della nostra Carta Costituzionale”. Con queste parole il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è intervenuto alla cerimonia conclusiva della seconda edizione del Progetto Legalità e Merito, frutto di un Protocollo d’Intesa tra Autorità nazionale anticorruzione, Direzione nazionale antimafia, Consiglio superiore della magistratura e università Luiss. Il progetto, che ha visto la collaborazione del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del ministero della Giustizia, ha coinvolto, oltre all’ateneo romano e diverse scuole superiori del Paese, anche gli istituti penali minorili di Nisida e Roma-Casal del Marmo. Una scelta che, secondo il ministro Bonafede, rappresenta una nota di merito indiscussa del protocollo: “Le carceri devono diventare luoghi dove si prepara il riscatto e il cambiamento di persone che hanno commesso errori ma che meritano una seconda opportunità. Per dare sostanza alla funzione rieducativa della pena, sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione, il ministero della Giustizia, in sinergia con gli enti territoriali, sta investendo su progetti di risocializzazione fondati sull’arte, la cultura, lo sport e il lavoro di pubblica utilità. L’investimento sulla dimensione culturale ed educativa è, perciò, un fondamentale investimento nella prevenzione dell’illegalità e, di conseguenza, nella sicurezza a beneficio di tutti i cittadini. La cultura e il lavoro rappresentano il ponte verso un’esperienza di vita nuova e diversa. Recuperare anche un solo minore alla vita onesta significa sottrarre risorse al crimine organizzato e assicurare maggiori opportunità di sviluppo economico, sociale e culturale al Paese”. Il Guardasigilli ha concluso il suo intervento rivolgendo un messaggio ai giovani studenti, protagonisti del futuro del Paese: “L’istruzione e la legalità sono il mezzo per raggiungere i propri sogni, per seguire le proprie aspirazioni, per realizzarsi in modo consapevole all’interno di una società più libera e giusta. La giustizia non è mera applicazione delle norme. È prima ancora consapevolezza del valore profondo della legalità. Il sistema giustizia può funzionare davvero soltanto se la cultura della legalità e del rispetto delle regole viene posta alla base della vita sociale”. Lavoro in carcere. Il prezzo del riscatto di Sergio Segio Il Manifesto, 5 giugno 2019 La parola chiave è “domani”: prima lavorare gratis, poi, chissà. Intanto, spazi e manodopera gratis: e lo chiamano libero mercato. Il carcere è fabbrica ma chi ci vive non ha riconosciute la dignità e le prerogative del lavoratore. “Viaggio nelle carceri”: così si chiama il programma di visite deciso dai giudici della Corte costituzionale per illustrare ai reclusi principi e lettera della Carta. Un fatto storico, di grande significato e sollecitazione, coerente e richiamante il giuramento che fecero i padri costituenti, che la detenzione avevano dovuto personalmente patire durante il fascismo: “Mai più un carcere cimitero dei vivi”. Una promessa certo sentita e sincera, ma in seguito tradita dalle scelte, o dall’indifferenza, di chi, governando il paese, quella Costituzione è stato chiamato a implementare, nonché da una “ontologica” resistenza del sistema alla sua umanizzazione. In causa non vi è solo il bistrattato articolo 27. Per chi vive in prigione, ancor più che per chi gode della libertà ma costretto ai piani bassi della scala sociale, vi è l’incipit del primo articolo che suona beffardo. Per i reclusi ormai dovrebbe anzi essere emendato in questo modo: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, purché gratuito”. Hanno infatti frequenza quasi quotidiana i protocolli di intesa tra istituti penitenziari, enti pubblici o imprese private che prevedono l’impiego di detenuti a titolo di “lavoro volontario e gratuito” in attività di manutenzione di spazi pubblici e di aree verdi, riparazione di strade, raccolta dei rifiuti e così via. I progetti, dal significativo titolo “Mi riscatto per…” seguito di volta in volta dal nome della città, hanno visto come capostipite Roma e si sono rapidamente diffusi. A quest’affermata tendenza (in verità spesso praticata anche nel mondo libero a danno di giovani e precari sottoposti ai ricatti di stage e promesse di futuri inserimenti) si è aggiunta ora una tappa significativa, perché la importa anche nel regime intramurario. Il 23 maggio il direttore del carcere di Torino aveva annunciato che Amazon avrebbe aperto laboratori all’interno di due penitenziari, tra cui il suo, ma il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria lo aveva immediatamente smentito. Una settimana dopo si è capito il perché: l’intesa non riguarda il colosso statunitense del commercio elettronico, bensì la e-Price (la ex Banzai di Paolo Ainio), società tutta italiana, attiva nello stesso settore. Una scelta, insomma, coerente con lo spirito dei tempi e con la voga sovranista che governa l’Italia, e dunque anche le sue carceri. Il 30 maggio la e-Price (che, per coincidenza e comodità, ha sede a Milano davanti a San Vittore) e il ministero di Giustizia-Dap hanno firmato il protocollo d’Intesa in base al quale la società “potrà impiegare spazi inutilizzati all’interno degli istituti penitenziari per metterli a disposizione della filiera commerciale e logistica di e-Price”. Gli spazi, concessi in comodato gratuito, riguardano inizialmente gli istituti di Roma e Torino, dove saranno coinvolti detenuti che potranno fruire “dell’opportunità di una adeguata formazione professionale che domani potrebbe portare a possibilità di assunzione lavorativa o potrà comunque risultare spendibile nel mondo del lavoro”. Tutto ciò per lo “sviluppo della cultura della restituzione, intesa come riparazione indiretta dei danni provocati dai reati”. La parola chiave è “domani”: prima lavorare gratis, poi, chissà. Intanto, spazi e manodopera gratis: e lo chiamano libero mercato. Il carcere è fabbrica ma chi ci vive non ha riconosciute la dignità e le prerogative del lavoratore. Due le domande: Il XV Rapporto di Antigone certifica che vi sono 60.439 detenuti per 50.511 posti “ufficialmente” disponibili. Come si concilia l’esistenza di “spazi inutilizzati” con questo drammatico sovraffollamento? Che cosa pensano di questo uso intensivo del lavoro non retribuito di detenuti i Garanti dei diritti delle persone private della libertà e i sindacati? Il generale Labianco “esperto” per il Garante Nazionale dei detenuti estense.com, 5 giugno 2019 Il generale dei Carabinieri Antonio Labianco, attuale assessore alla sicurezza per il Comune di Cento, è stato nominato “esperto” del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. L’incarico, assegnato a seguito di pubblicazione di un bando per titoli nei quali ha particolarmente influito l’oltre quarantennale esperienza quale ufficiale dei Carabinieri con diversificati incarichi ed in varie zone d’Italia ed all’estero in organismi internazionali, consiste nel fornire una propria consulenza al presidente garante Mauro Palma nelle attività di monitoraggio e consulenza nei luoghi di privazione della libertà personale, in particolare istituti penitenziari e caserme delle forze di Polizia statali e locali, per il rispetto dei diritti umani in ossequio alle normative statali ed alle dichiarazioni dell’Onu. La figura del Garante rappresenta una delle authority dello Stato italiano nominata da alcuni anni su indicazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, in particolare la Convenzione Onu contro la tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumane o degradanti del 18/12/2002 e la Direttiva 2008/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio Europeo “Norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”. Si tratta quindi di un organismo statale indipendente in grado di monitorare i luoghi di privazione della libertà (oltre al carcere, i luoghi di polizia, i centri per immigrati, le Rems e gli spdc, reparti per i trattamenti sanitari obbligatori). Il garante inoltre sul piano nazionale coordina il lavoro dei garanti regionali. Lo scopo dei controlli è quello di individuare criticità in collaborazione con le autorità responsabili e trovare risoluzioni, per eliminare le situazioni che formano occasioni di ostilità, da cui scaturiscono reclami, rinviando però alla Magistratura di Sorveglianza i reclami giurisdizionali. Gli “Esperti” sono impiegati in cinque aree vale a dire: “psichiatrica ed assistenza alla disabilità, tutela della salute in carcere, accoglienza e trattamento di immigrati irregolari, custodia di polizia e privazione della libertà in ambito penale per adulti o minori”. Il generale Labianco fornirà la sua collaborazione nelle ultime due aree: “la custodia di Polizia” e “la privazione della libertà in ambito penale per adulti o minori”, continuando a ricoprire l’incarico di assessore alla sicurezza del Comune di Cento, trattandosi di cariche per le quali sussiste completa compatibilità. “Il nostro viaggio nelle carceri”. Il racconto di giudici e detenuti di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2019 Viganò: “Forse chi ha tratto più beneficio da questa esperienza siamo proprio noi”. Ogni contatto lascia una traccia. E quelli avuti dalla Corte Costituzionale nel suo viaggio nelle carceri lasciano “una consapevolezza nuova, e assai più precisa, del significato che le nostre decisioni future avranno nella vita di persone in carne e ossa”. Quelle persone vere che Francesco Viganò, come altri giudici della Corte, è andato ad incontrare, lontano dal palazzo della Consulta, nell’istituto penitenziario di Marassi, a Rebibbia, a San Vittore, a Nisida o Lecce, proprio là dove cioè i detenuti scontano la pena. Persone, di cui ha scoperto le storie, stretto le mani, incrociato gli sguardi, “percepito l’entusiasmo di essere ascoltati dalle istituzioni, per avere la possibilità - aggiunge il giudice - di esprimere le loro sofferenze, le loro speranze, le loro ansie per il futuro”. Ma ora che questo percorso è diventato anche un docu-film “Viaggio in Italia, la Corte Costituzionale nelle carceri”, proiettato in anteprima questa sera a Roma, alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella - lui non sembra aver dubbi: “Forse - riflette Viganò con il Sole 24 Ore - chi ha tratto più beneficio da questo viaggio siamo stati proprio noi”. I giudici delle leggi e non delle persone, andati a conoscere gli effetti delle loro decisioni, direttamente - per dirla col garante nazionale, Mauro Palma - nello sterminato “contenitore dei problemi non risolti di fuori”, che è il carcere. Là dove incontrano l’immigrato, entrato con regolare permesso di soggiorno, che uscirà da clandestino; la donna che rivive le violenze del marito, la transgender, che considera le nuove condanne, occasioni di restare nell’unico posto che sente come casa; c’è chi racconta di aver commesso reati, per non aver mai trovato lavoro e chi lamenta come il lavoro, da ex detenuto, non lo trovi mai. C’è la donna, “finita dentro per amore”, dice, e ci sono mamma e figlia, inquadrate dalle telecamere con le loro vite, da sempre scandite dal carcere, prima da visitatrici, ora da detenute. E intorno a queste vite c’è il dilemma della giudice Daria de Pretis, del peso del contesto. La Costituzione stabilisce che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona”. Ma avviene fino in fondo? È la domanda dei detenuti, che in questi incontri hanno scoperto nella Carta il loro principale scudo, spalanca la riflessione condivisa da Giuliano Amato: “C’è un pezzo di Costituzione - scandisce - che aspetta ancora di essere attuato”. Davanti a giovanissimi, reclusi nel carcere minorile di Nisida, il giudice, che non ha fatto il magistrato come voleva il padre, “per non avere il potere di togliere la libertà” - confida, rievoca l’aspettativa trasmessa dai padri della Repubblica. “L’aspettativa che quel documento sarebbe servito a far rimanere quel clima. Altrimenti, non saremmo riusciti a trattarci da eguali”. Riflessioni che nel film preludono allo sconforto di un ragazzo, convinto che “non è vero che siamo tutti uguali davanti alla legge”. Ma se tra le parole della Costituzione e la realtà c’è distanza, se la realtà a volte contraddice gli ideali, “bisogna lavorare sulla realtà - avverte la vicepresidente della Corte, Marta Cartabia - non mettere in discussione gli ideali”. E loro, i giudici di leggi e non di persone, col potere di bocciare le leggi, a difesa delle persone, anche per questo si sono “voluti mettere in gioco”, riconosce il presidente Giorgio Lattanzi, e andare nel carcere più vero. Per far capire che “la Costituzione esiste per loro”, avverte Viganò. Per i più deboli, che anche dopo un reato, possono proiettarsi verso il futuro. E così l’ultima tappa del viaggio è da Nisida verso Roma, dal carcere al palazzo della Consulta, da dentro a fuori. In direzione ostinata e contraria. Carceri, cosa ci raccontano i tatuaggi dei detenuti di Ketty Volpe articolo21.org, 5 giugno 2019 I detenuti scrivono sui muri segni e parole. Lasciano messaggi criptati, frasi semplici e pensieri elementari. Cuori con nomi e anelli inanellati d’amore giurato, d’amore tradito, d’amore ucciso. Disegni di case con finestre aperte, fiori e uccelli che volano. È una comunicazione, il più delle volte, nascosta, per dire di esserci o di essere transitato per quella cella. Tra il nudo e il vestito esperienze di vita indelebili. Per non dimenticare ne scrivono su pelle. Tatuaggi, come scrittura sul corpo, per dire di sé e non dimenticare di amori e pene patite in galera. Come biglietti da visita su lembi di pelle. Al gomito, al braccio, sul fondo schiena e, visibilmente, sulla fronte, sul collo, dietro l’orecchio e di lato all’occhio. Sugli occhi due tipi di tatuaggio, sono simboli che li identificano come carcerati o ex detenuti. Una simbologia che trasmette messaggi, codici e pensieri pesanti. Quattro punti tatuati ai lati degli occhi stanno per non vedo, non sento, non parlo. Una lacrima tatuata a fianco dell’occhio significa che chi se l’è fatta fare è stato in carcere per omicidio. Una corona di filo spinato, tatuata sulla fronte, simboleggia una condanna all’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata. Tre teschi sull’anulare stanno per gli omicidi compiuti dal detenuto. Ogni punta di una stella rappresenta un anno passato in carcere. Una croce può indicare una predisposizione per il bondage o per il masochismo. Alcuni tatuaggi vengono imposti con la forza come avvisi o come punizione. I violentatori vengono marchiati con una spada tra la scapola e il collo. I carcerati se ne facevano e se ne fanno rudimentalmente in cella, sulla propria pelle e su quella dei compagni di detenzione. Pur di scrivere con indelebili segni, nomi, figure e disegni, tra verità, metafore e mezzi sogni, osano, i detenuti, tanto, da rischiare grossi danni per la salute. Nella Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia, proprio per scongiurare eventuali rischi di infezioni, nel 2002, fu avviato un laboratorio di tatuaggio con l’hennè, ma, anche, per utilizzare, proprio il tatuaggio come elemento di raccordo con i reclusi. L’iniziativa prendeva corpo dall’esigenza di trasmettere consigli e suggerimenti di giusta precauzione nel fare, in carcere, il tatuaggio. Ne fu tirato anche un opuscolo con le informazioni utili, a cominciare dalle condizioni igienico-sanitarie, indispensabili, per sottoporsi a un tatuaggio in cella. L’idea era quella di trasmettere, i suggerimenti, nei vari istituti di pena, dove rimane, sempre, in uso fare e farsi fare il tatuaggio. Chi si tatua sceglie di dire sulla propria pelle qualcosa di personale. C’è una vera e propria grammatica simbolica ricca di segni. La libertà del carcerato sta proprio nella scelta del tatuaggio che si fa, o si fa fare e mostra o, a seconda, nasconde. Gli ex detenuti, i galeotti, portano evidenti segni di tatuaggi che svelano un’appartenenza. Sono segni di riconoscimento diversi da altri tatuaggi, che pure oggi, sono in voga e scelti dai giovani e non. Qualche anno fa, a testimonianza della fede attraverso i tatuaggi, una raccolta di frasi e immagini religiose sulla pelle dei detenuti nel libro “Cristo dentro” per i tipi Itaca editore, prefazione di Papa Francesco, nel racconto di Francesca Sadowski, Eugenio Nembrini e le foto di Pino Rampolla. La questione morale anche tra i magistrati di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 giugno 2019 Se la nomina del capo della più importante Procura d’Italia viene discussa in presenza di un parlamentare imputato di quella stessa Procura, significa che aver smarrito ogni bussola. L’accorato allarme del vicepresidente David Ermini al plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura arriva direttamente dal Quirinale. “Gli eventi di questi giorni hanno inferto una ferita profonda e dolorosa; o sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi, o saremo perduti”, ha detto. È ciò che pensa il capo dello Stato, che guida l’organo di autogoverno e nell’ultima settimana ha assistito con grande preoccupazione alle trame politico-consiliari emerse dall’inchiesta per corruzione sul conto di un magistrato ex componente del Consiglio. Preoccupazione e allarme pienamente giustificati, perché certi comportamenti mettono in discussione la credibilità dell’istituzione che governa, in maniera autonoma e indipendente come previsto dalla Costituzione, la magistratura italiana. Cioè la categoria chiamata ad applicare le leggi, a cui ogni giorno si rivolgono decine di migliaia di cittadini che chiedono e pensano di poter avere giustizia. Mettere in crisi quell’istituzione significa mettere in crisi uno dei capisaldi su cui si fonda lo Stato democratico; dare l’idea che i giudici e chi ne gestisce le carriere, anziché rispondere solo dalla legge e alle regole scritte e non scritte dell’autogoverno, si adeguano anche a voleri e richieste che arrivano da altre entità, o sono frutto di accordi sottobanco, vuol dire incrinare un rapporto di fiducia. Che forse scricchiola già da tempo, ma di fronte a certe evidenze rischia di rompersi definitivamente. Qualcuno, dentro un Csm in cerca di riscatto che ieri ha avuto una prima reazione, ha evocato lo scandalo della P2 che coinvolse anche quell’organismo. I rapporti incestuosi con poteri esterni, che siano la politica, qualche congrega occulta o anche solo semplici combriccole a sostegno di brame personali o soluzioni di problemi privati, rappresentano un inquinamento che può rivelarsi fatale. Tanto più se, una volta venuto alla luce, non si attivano anticorpi efficaci, celeri e credibili. La vicenda penale in cui è rimasto invischiato qualche magistrato farà il suo corso, ma indipendentemente da come finiranno l’inchiesta e i processi si stagliano davanti agli occhi di tutti episodi di malcostume che lasciano attoniti. A parte regalie e favori, da cui chi amministra giustizia o gestisce il sistema giudiziario dovrebbe comunque restare estraneo, è il sistema in sé che si mostra permeabile a giochi e interessi inconfessabili. Come pure è stato detto ieri in quella sorta di seduta di autocoscienza interna al Csm, se la nomina del capo della più importante Procura d’Italia viene discussa in presenza di un parlamentare imputato di quella stessa Procura, significa aver smarrito ogni bussola. È il segno tangibile di una “questione morale” tra le toghe di cui forse nemmeno si rende conto fino in fondo. Invece, proprio per la gravità del momento richiamata dal presidente della Repubblica, si attende ora una prova di responsabilità da parte di tutta la categoria, a cominciare dagli organi istituzionali e di rappresentanza, che porti a risposte rapide e convincenti. Per i cittadini, prima di tutto. Ciò che negli ultimi decenni la magistratura ha chiesto per la politica compromessa, e cioè condotte e reazioni di rottura senza aspettare l’ultimo verdetto dell’ultimo giudice, dovrebbe ora avere la forza di applicarlo a se stessa. Prima che ci pensi qualcun altro, ad esempio la politica, per regolare vecchi conti in sospeso. Csm, Mattarella “sconcertato” per il mercato delle toghe di Marzio Breda Corriere della Sera, 5 giugno 2019 Ha dettato il durissimo aut aut di Ermini. Per il Colle va rivisto il sistema delle nomine. “O sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”. L’aut aut pronunciato ieri al plenum straordinario del Csm dal vicepresidente David Ermini ricalcava parola per parola ciò che nel fine settimana gli aveva raccomandato l’uomo che di quest’organo ha - a norma di Costituzione - la guida: Sergio Mattarella. Definirlo “sconcertato e molto contrariato” per il mercato delle toghe emerso dall’inchiesta di Perugia rientra tra gli eufemismi tipici del Quirinale, e va tradotto in scandalizzato e peggio. La crisi, infatti, è senza precedenti e, dopo le dimissioni a catena di cinque consiglieri coinvolti nel caso Palamara, avrebbe secondo qualcuno potuto perfino sfociare in un autoscioglimento dello stesso Csm. Di fronte a una ferita così “grave, anzi, gravissima”, per il momento si è scelto di intervenire attraverso gli strumenti di cui si dispone a Palazzo dei Marescialli: cioè elezioni suppletive di quanti si sono autosospesi. È chiaro però che il quadro emerso finora impone un ripensamento profondo sui criteri seguiti finora per le nomine ma anche sul peso politico (e non solo) che le correnti interne alla magistratura esercitano. Che cosa è emerso di tanto patologico da gettare nell’inquietudine Mattarella? Un’ipotesi di vaste collusioni, passate attraverso “la inspiegabile” accelerazione che si voleva imporre alla nomina del successore di Giuseppe Pignatone al vertice della procura di Roma. Un blitz che avrebbe dovuto sollevare dubbi fin da certi salti istruttori, come la mancata audizione dei candidati a quel ruolo. Basta pensare che in città come Torino, dov’è andato da mesi in pensione Armando Spataro, risultano ancora sguarnite analoghe posizioni senza che nessuno se ne sia preoccupato granché. Qui invece si voleva correre e per fortuna la svolta lampo è stata scongiurata. Come andrà a finire non lo sa nessuno. Neppure il presidente della Repubblica e capo del Csm, consapevole che può accadere di tutto e che potrebbe anche affiorare un nome nuovo, per una poltrona dal peso politicamente così sensibile. Si sa solo che i tempi del confronto sono destinati ad allungarsi. Del resto, in questo clima non è possibile procedere ad alcuna nomina perché scatterebbe subito la rincorsa dei sospetti, visto che con le manovre spartitorie smascherate si voleva evitare una “continuità giudiziaria” alla procura della capitale. Uno scenario che sta lesionando l’immagine della magistratura. Così la pensa Mattarella, turbato all’idea che le soluzioni preconfezionate attraverso lotte fra correnti delle toghe (degenerate in centri di potere sui quali tentano d’interferire i partiti) si sostituiscano al metodo del confronto aperto e comparativo. Quando la situazione si sarà decantata il presidente si farà sentire. A modo suo, che non somiglierà certo alle ruvidezze di Cossiga verso i magistrati. Ricordate? Una trentina d’anni fa il picconatore minacciò addirittura di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli per bloccare un’iniziativa “politica” contro l’allora premier Craxi, “approvando con un ordine del giorno non concordato una sorta di sfiducia nei suoi confronti”. Era il culmine di tanti scontri e anomale autoconvocazioni cominciati con la cosiddetta “guerra dei cappuccini”: 27 milioni di spesa annua per questo genere di conforto rivendicato dalle toghe. “Basta correntismi, riscattiamo questa ferita o il Csm sarà perduto” di Errico Novi Il Dubbio, 5 giugno 2019 Drammatico appello di Ermini ieri al plenum sul caso Palamara. Era il 1992. Sono passati ventisette anni. In mezzo Tangentopoli, il conflitto fra Berlusconi e i magistrati, il protagonismo anche politico di tanti pm. Però, quel quarto di secolo abbondante ha un punto d’inizio: Milano. Fa dunque pensare il fatto che lunedì sera sia stata proprio la sezione Anm del capoluogo lombardo a formalizzare, al temine di un’assemblea incredibilmente affollata, il riconoscimento di una “questione morale” all’interno della magistratura. È con questo macigno psicologico e, appunto, morale sulle spalle che inizia il plenum del Csm più pesante nella storia dell’autogoverno. Peso che vibra nelle parole del vicepresidente David Ermini: basta con le “degenerazioni del correntismo: o sapremo riscattare con i fatti il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”. E il riscatto, secondo Ermini, passa per l’addio alle “logiche spartitorie” nell’assegnazione degli incarichi, che devono essere “messi al riparo da interessi esterni”. Un discorso così coraggioso che a riconoscerne il valore, nel dibattito subito apertosi ieri pomeriggio, sono tutti: togati e laici. A cominciare dalla consigliera magistrata, Alessandra Dal Moro, a cui l’intero plenum affida una dichiarazione congiunta, che in sé rappresenta un piccolo spiraglio: l’onda nera del caso Palamara e della cena con Lotti rappresenta un “tragico epilogo della degenerazione” dell’associazionismo giudiziario, a cui si risponde con “percorsi di riforma e di autoriforma”. Sia il vertice che il cuore dell’assemblea danno vita dunque a una seduta aperta all’autocritica e a propositi di rinnovamento. Un atto di “responsabilità”, parola che risuona spesso, in tutti gli interventi, e che ha due matrici. La prima viene dal Colle. Il discorso di Ermini è fortissimo, di una intensità senza precedenti almeno nella storia delle ultime consiliature, e ha ottenuto la piena approvazione di Sergio Mattarella, presidente anche del Csm. La seconda chiave decisiva è nel passo indietro dei togati colpiti dalle indagini o solo dall’uragano mediatico. Sono definitive le dimissioni di Luigi Spina, acquisite formalmente ieri, l’ormai ex consigliere di Unicost indagato, con Luca Palamara e Stefano Fava, dai pm di Perugia. Si autosospendono altri tre componenti togati: oltre ai consiglieri di Magistratura indipendente Corrado Cartoni e Antonio Lepre, anche a due colleghi neppure citati nei retroscena. Uno è Paolo Criscuoli, anche lui di “Mi” come i due magistrati (Cartoni e Lepre) “accusati” di aver visto a cena Cosimo Ferri e Luca Lotti, e parla di “un pericoloso clima di caccia alle streghe”. L’altro è Gianluigi Morlini, di “Unicost” come Spina e Palamara e soprattutto ormai ex presidente della quinta commissione, l’organismo ristretto del Csm deputato alle nomine e teatro della discussione da cui si è sprigionato il terremoto, quella relativa al futuro procuratore di Roma. Mai nulla del genere si era verificato. Mai la magistratura italiana era stata devastata da un sisma così violento - e sempre più assimilabile, anche in queste drammatiche autoesclusioni, a quella stagione di Mani pulite in cui proprio i magistrati ebbero ben altro ruolo. Lo sa bene Ermini, che apre una seduta destinata a segnare il futuro dell’organo di autogoverno, al di là della parziale attenuazione dello scontro fra i diversi gruppi in Consiglio. “Gli eventi di questi giorni hanno inferto una ferita profonda e dolorosa alla magistratura e al Consiglio superiore”, dice il vicepresidente, “che senza una forte assunzione di responsabilità perderà irrimediabilmente la sua credibilità”. Tradotto: basta degenerazioni correntizie, basta “appartenenze” che prevalgono sulla funzione del Consiglio, che “è e deve essere la nostra sola casacca, altre non ne abbiamo” ; e ancora, ciascuno “tenga conto dell’esempio che proviene dal Capo dello Stato”, citato da Ermini non a caso. E, per arrivare al sodo, si faccia in modo che “le nomine seguano il rigoroso criterio cronologico” senza raggrupparle in modo da indurre “il sospetto di essere state compiute nell’ambito di logiche spartitorie”. Niente “preventivi accordi” anche su “uffici” come la Cassazione, terreno dove più tipicamente si attua la pratica delle nomine “a pacchetto”. Fino all’affondo durissimo che Ermini rivolge alle correnti: siano “luogo di impegno civico e laboratorio di idee valori, di dibattito sulla giustizia”, ma basta con i “giochi di potere” e i “traffici venali di cui purtroppo è evidente traccia nelle cronache di questi giorni”. L’appello del vicepresidente a una reazione “chiara e rapida” viene colta da tutti. Aiuta a distendere gli animi la scelta di affidare la dichiarazione congiunta di tutti i togati e di tutti i laici a chi, come Dal Moro, proviene dal gruppo di Area, quello passato dalla minoranza in molte decisioni all’attuale “posizione di forza” perché estraneo, finora, all’indagine di Perugia e alla scena velenosa allestita dai retroscena. Nel documento letto da Dal Moro si apprezza anche la “dignitosa scelta” delle dimissioni o dell’autosospensione compiuta da Spina e dagli altri. Ma la tenuta della tregua armata tra le correnti dovrà reggere intanto alla prova del direttivo dell’Anm convocato per oggi, in cui proprio la componente progressista potrebbe uscire dalla giunta unitaria e provocare lo “scioglimento anticipato” dell’attuale “parlamentino”. La concorrenza si riproporrà a breve nelle elezioni suppletive da cui verrà il nome del sostituto di Spina. Il capogruppo di Area Giuseppe Casini, nel plenum di ieri, si associa ai propositi di “autoriforma” ma non si trattiene dal denunciare la “smania di potere” che ha prevalso sulle stesse “correnti”, ormai “deboli come altri corpi intermedi”. A parlare per “Mi”, gruppo dell’attuale leader dell’Anm Pasquale Grasso e messo in difficoltà al pari di Unicost da cui proveniva Palamara, è Paola Braggion, che mette nel mirino però anche “attacchi, illazioni e critiche”, e dà così idea di non voler accettare ogni retroscena come una sentenza di condanna irrevocabile. Se dev’essere diversa da Tangentopoli, la crisi del Csm dovrà almeno evitarne le sentenze anticipate. Riccardo De Vito: “Mele marce? No, nel Consiglio c’è una questione morale” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 5 giugno 2019 “È il momento più drammatico della storia del Csm, assimilabile allo scandalo P2”. Non usa mezzi termini Giuseppe Cascini, membro togato di Area, il gruppo di cui fa parte Magistratura democratica (Md). Il suo è l’intervento più duro del plenum di ieri, convocato per affrontare le conseguenze dell’inchiesta della procura di Perugia che vede indagato l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara e coinvolti cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Uno di loro, Luigi Spina, indagato anch’egli, si è dimesso, gli altri si sono autosospesi. “Cascini ha ragione, ora bisogna ascoltare la richiesta di trasparenza che viene dalla base della magistratura”, sostiene Riccardo De Vito, che di Md è il presidente. Dottor De Vito, la vicenda è sconcertante: politici come Luca Lotti, indagato dalla procura di Roma, che incontrano consiglieri del Csm e l’ex presidente dell’Anm per decidere chi nominare a capo di quella stessa procura… Al di là delle responsabilità penali individuali, sulle quali vale la presunzione di non colpevolezza, colpisce la trasformazione dell’autogoverno della magistratura in etero-direzione. Non si tratta di “mele marce”, c’è una vera questione morale: la nomina dei dirigenti mediante accordi tra esponenti della magistratura e una parte della politica, di ogni colore, interessata ad aggirare l’indipendenza della giurisdizione. Per fortuna c’è una reazione corale della magistratura di base che chiede le dimissioni delle persone coinvolte con responsabilità istituzionali. Una reazione importante, perché viene da quei magistrati che ogni giorno difendono con il lavoro il valore dell’autonomia, venendo a volte attaccati proprio per la loro indipendenza. Emerge un intreccio tra pezzi del Pd renziano e parti di due correnti delle toghe: quella di destra, Magistratura indipendente, il cui leader Cosimo Ferri è ora deputato del Pd, e quella di centro, Unità per la Costituzione… Si delinea un consociativismo patologico che lega magistrati, politici e, nel caso di Ferri, politici ex magistrati interessati alla gestione della magistratura. Il contrario del progetto costituzionale di autogoverno: siamo a una politica di basso profilo, di pura gestione e spartizione interessata, opaca. E fatta, chiaramente, in luoghi opachi. Il ruolo di capo delle procure è così al centro delle attenzioni da quando la riforma voluta da Berlusconi ha ridisegnato in modo gerarchico le procure, giusto? È chiaro che la nomina negoziata dei dirigenti delle procure scaturisce dalla struttura ordinamentale che concede molti poteri al capo in assenza di un effettivo sistema di controllo. Se ne può uscire in due modi: o consegnando alla politica il controllo dei pm, come sento riemergere nei discorsi sulle priorità decise dalla maggioranza e sulla separazione delle carriere, oppure cercando seriamente gli anticorpi per adeguare la realtà di fatto a quella voluta dalla Costituzione, grazie alla consapevolezza della propria autonomia dei magistrati. A proposito dei discorsi in voga: un evergreen è l’attacco alle correnti, tutte indistintamente. E tornano a farsi sentire le proposte di nominare il Csm tramite sorteggio… Vicende come queste spalancano le porte all’attacco ai gruppi associati della magistratura e al principio di rappresentanza. Sono assolutamente contrario al sorteggio, ma so che molti magistrati con la schiena dritta pensano che sia l’unico sistema per evitare riforme volte a codificare quello che ora è patologia, cioè l’etero-direzione: con loro bisogna confrontarsi. Ma voi di Md restate contrari… Esatto. Per molti motivi: oltre a tagliare le gambe al principio di rappresentanza e controllo degli eletti, non garantirebbe che i “cani sciolti” non venissero poi “accalappiati” dalla politica. La tracotanza e l’ingerenza della politica hanno trovato terreno fertile non nella forza della correnti, ma nella loro debolezza politico-culturale, come giustamente ha ricordato Cascini al plenum. Questa vicenda mostra cosa accade quando le correnti si concentrano sulla gestione della corporazione. Cosa deve succedere ora? Una risposta unitaria, come ha fatto l’assemblea dell’Anm milanese. Non è il momento delle divisioni, ma dell’autocritica e della necessità di restituire con immediatezza la rabbia e il disagio dei colleghi. E poi servono cambiamenti, come il ridimensionamento del ruolo dei dirigenti. E non solo. La temporaneità degli incarichi direttivi ha finito per trasformarsi nel grimaldello per la costruzioni di carriere, così come i parametri di accesso alla dirigenza sono diventati medaglie che hanno incentivato il carrierismo. E una magistratura a caccia di poltrone diventa ricattabile. La giudice scrive a Salvini: “Espellete quei 4 stranieri prima del processo” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 giugno 2019 La gip Paola Di Nicola, in magistratura dal 1994, è in servizio al Tribunale di Roma. Ha chiesto che sia “valutata la possibilità di espellere gli indagati, accusati di violenza su donne, al momento della scadenza” dell’arresto e prima ancora del processo. C’è chi lo leggerà come un assist togato a Matteo Salvini: un magistrato (peraltro di una corrente di sinistra) che sollecita più espulsioni di stranieri arrestati per violenza sulle donne. E chi invece, al contrario, vi ravviserà una critica messa in mora del ministro: un magistrato che fa rilevare il mancato ricorso alle espulsioni. Certo non capita tutti i giorni che un giudice delle indagini preliminari, mettendo insieme i precedenti di 4 stranieri da lei arrestati di recente con accuse di violenza sessuale o maltrattamenti di donne, scriva “per conoscenza al capo di gabinetto del ministero dell’Interno”, oltre che a Questore e Prefetto, affinché sia “valutata la possibilità di espellere gli indagati, per motivi di pericolosità sociale, al momento della scadenza” dell’arresto e prima ancora del processo. L’espulsione, per la gip, sarebbe lo “strumento per evitare, da parte delle istituzioni italiane, la vittimizzazione secondaria delle persone offese” (cioè delle donne vittime di violenza) “attraverso il rischio di reiterazione dei reati subìti”: e ciò alla luce della “Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne”, che “impone agli Stati di garantire alle donne il diritto a un’esistenza libera dalla violenza”. La gip è Paola Di Nicola, in magistratura dal 1994, in servizio al Tribunale di Roma dove fu una dei giudici dei clienti delle prostitute minorenni dei Parioli, toga di area progressista e già candidata nel 2014 alle primarie per il Csm nella corrente di sinistra. Nella sua inconsueta lettera spedita prima delle elezioni, il 20 maggio, la gip fa riferimento agli arresti capitatile di un egiziano accusato di frustare da anni la moglie che non voleva lavorasse; di un giovane del Bangladesh accusato di tentata violenza sessuale dopo già due condanne per analogo reato; di un polacco indiziato di stalking dopo una condanna in primo grado per maltrattamenti; e di un romeno accusato di violenza sulla compagna e già gravato da diverse condanne. E riassume che “si tratta di soggetti pericolosi, che hanno già commesso reati nel nostro Paese e per i quali - si spinge - è certa la reiterazione di delitti di violenza di genere alla luce della motivazione delle misure cautelari”. Perché certa? Perché “la modalità con la quale hanno esercitato violenza esprime un atteggiamento proprietario e predatorio rispetto al genere femminile che disprezzano, dileggiano, limitano nelle sue minimali forme di libertà, assoggettano, maltrattano, violano perché non ne riconoscono la dignità”. Autocertificata dalla gip è poi la certezza che “l’espulsione amministrativa non contrasti con i principi di non respingimento del rifugiato nella Convenzione di Ginevra”, verifica che spetta però non a un giudice penale ma a una diversa e apposita giurisdizione; “né con il divieto di sottoposizione a tortura e a pene o trattamenti inumani e degradanti nei loro Paesi”, che il gip ritiene di escludere in automatico per Egitto e Bangladesh, anche perché gli indagati vi facevano spesso rientro. Infine la lettera della gip al capo di gabinetto di Salvini caldeggia anche due asseriti “indubbi ulteriori vantaggi per l’intera collettività”, e cioè “la sensibile riduzione della sovrappopolazione carceraria, e la non celebrazione del processo penale”. Nel casellario l’archiviazione per tenuità del fatto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2019 Corte di cassazione, sezioni unite penali, informazione provvisoria 30 maggio 2019. Il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto va iscritto nel casellario giudiziale. E tuttavia non ne va fatto cenno nei certificati richiesti dall’interessato, dal datore di lavoro oppure dalla pubblica amministrazione. Lo hanno deciso le Sezioni unite della Cassazione, con pronuncia nota per ora solo nell’informazione provvisoria. Le motivazioni saranno disponibili solo tra qualche tempo e, nel frattempo, le ragioni a favore della soluzione individuata dalle Sezioni unite possono essere in parte tratte dall’ordinanza di rinvio. Qui si sosteneva la tesi della necessità dell’iscrizione sulla base di tre considerazioni. La prima: la mancata iscrizione ha come conseguenza l’impossibilità di tracciare con compiutezza la personalità del soggetto interessato “così pregiudicando le successive valutazioni del requisito della non abitualità che la stessa disposizione pone a fondamento dell’istituto”. Situazione tanto più rilevante nel caso di reiterazione di fatti della stessa indole. Inoltre, a favore dell’iscrizione milita anche una ragione sistematica, con riferimento alla previsione esplicita di iscrizione nel casellario di altri provvedimenti non definitivi e, per certi versi, di contenuto analogo. È il caso per esempio della messa alla prova, per la quale è disposta l’iscrizione della disposizione che sospende il procedimento. Si tratta di un provvedimento che la legge delinea come revocabile con l’obiettivo di permettere al giudice di valutare le condizioni di accesso alla misura e di impedire una illegittima seconda concessione. Considerazione identica che deve essere fata valere anche nel caso della tenuità del fatto, “perché il giudice è tenuto a verificare che l’indagato non tenga un comportamento abituale ovvero reiteri le condotte illecite, sicché l’autorità giudiziaria deve essere informata del provvedimento di archiviazione per tale causa di non punibilità”. La stessa relazione al decreto che ha istituto la nuova causa di non punibilità precisa che è stata prevista l’iscrizione di tutti i provvedimenti che l’hanno riconosciuta, compresi i decreti e le ordinanza di archiviazione. Sottrazione internazionale: necessario l’ascolto del minore per il decreto di rimpatrio Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Ordinanza 4 giugno 2019 n. 15254. In un caso di sottrazione internazionale di minori il bambino va ascoltato anche ai fini dell’eventuale radicamento all’estero se si è superato l’anno dalla partenza. Lo ha precisato la Cassazione con l’ordinanza 4 giugno 2019 n. 15254. Nel caso esaminato il padre chiedeva ai giudici il rientro immediato in Messico della figlia sottratta dalla madre e portata in Italia con un sotterfugio. Una richiesta respinta dal tribunale dei minori. Contro questa decisione il padre è ricorso in Cassazione e ha ottenuto dai giudici di legittimità il rinvio della decisione al tribunale dei minori in diversa composizione perché la figlia non era stata ascoltata direttamente dai giudici ma solo dai servizi sociali. I giudici della Cassazione con l’occasione hanno definito il seguente principio di diritto: “in materia di sottrazione internazionale di minore, l’ascolto del minore costituisce adempimento necessario ai fini della legittimità del decreto di rimpatrio ai sensi dell’art. 315-bis c.c. e degli artt. 3 e 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata con l. n. 77 del 2003), essendo finalizzato, ex art. 13, comma 2, della Convenzione de l’Aja del 25 ottobre 1980, anche alla valutazione della sua eventuale opposizione al rimpatrio nella valutazione della integrazione del minore stesso nel suo nuovo ambiente, estremo ostativo all’accoglimento della domanda di rimpatrio che risulti esercitata, ex art. 12, comma 2, della medesima Convenzione, oltre l’anno”. Mobbing, il datore deve intervenire sulla causa del disagio psichico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2019 Corte di cassazione - Sentenza 4 giugno 2019 n. 15159. Se il lavoro ingenera una malessere psichico questo medesimo malessere non può essere poi usato dal datore di lavoro, accusato di mobbing, per sostenere che non gli era possibile intervenire. Lo ha affermato la Cassazione, sentenza n. 15159 del 4 giugno, così di evitando di cadere in un circolo vizioso che avrebbe penalizzato il lavoratore. Il caso era quello di un dipendente del Ministero dell’Economia e delle Finanze, impiegato per oltre dieci anni come funzionario tributario, prima presso l’ufficio imposte di Camerino, poi di Tolentino e infine alla Agenzie delle Entrate, che aveva chiesto il risarcimento del danno “per comportamenti datoriali persecutori e mobbing”. In primo grado aveva avuto ragione ma la Corte di appello di Ancona aveva rovesciato il verdetto. Secondo il giudice territoriale infatti sebbene fosse “evidente, quanto meno nel periodo finale della vicenda, la causa lavorativa dell’affezione”, ciò “non ingenerava un obbligo giuridico, in capo al datore di lavoro, di adottare le misure necessarie per interrompere e disinnescare il rapporto causale tra malessere lavorativo e malattia conseguente, non essendo agevole, e forse neppure possibile organizzare un intervento efficace”. Si doveva infatti dare per acquisito (come “nozione di fatto” non necessitante dunque di prova, ex articolo 115 c.p.c) che “la malattia psichica si manifesta proprio con la incapacità di percepire l’effettiva realtà dei rapporti interpersonali, addebitando ad essi effetti che non sono veramente collegati casualmente”. Il dipendente dunque avrebbe offerto una “versione prettamente narcisistica della sua attività lavorativa attribuendo al contesto lavorativo, ed agli “altri” tutta la responsabilità delle sue delusioni”. Per la Cassazione, però, un simile ragionamento non è accettabile. Con riguardo ai comportamenti di un soggetto affetto da una generica patologia psichica, infatti, non esiste alcun “fatto notorio” che può essere dato per acquisito e da cui possono desumersi determinate conseguenze. Si versa infatti in un ambito, quello medico scientifico, che per la sua “specificità” esula da una “acquisita tangibilità diffusa” e necessita sempre di un apprezzamento “tecnico”. Quanto dunque sostenuto dalla Corte territoriale, ovvero che “vi sia un nesso addirittura notorio, tra una generica “malattia psichica” e la capacità di affrontare le relazioni interpersonali, al punto di ingenerare un’impossibilità datoriale di porre rimedio allo scaturire dal lavoro di un danno per il lavoratore interessato, è affermazione apodittica e non riportabile ad una regola o ad un fatto di comune esperienza e che si colloca come tale al di fuori dell’ambito di cui all’art. 115, co. 2, c.p.c.”. “Infatti - prosegue la Cassazione - le conseguenze interpersonali o socio relazionali delle malattie psichiche appartengono, allo stato, al patrimonio tipico dello conoscenze e degli apprezzamenti scientifici dell’ambito specialistico medico-legale e psichiatrico, palesemente non surrogabile da valutazioni, consequenzialmente sommarie e grossolane, del c.d. quisque de populo”. Ne consegue, conclude la Corte, che risulta viziato il ragionamento attraverso cui la sentenza impugnata ha escluso la responsabilità datoriale “per impossibilità di impedire l’evento (ovverosia il danno consequenziale alle condizioni lavorative)”. Diffamazione su Facebook, Corte Ue in panne di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2019 Corte Ue - Sentenza causa C-18/18. Facebook potrebbe essere costretta a individuare tutte le informazioni “identiche” a un commento diffamatorio di cui sia stata accertata l’illiceità, e anche “equivalenti” se provenienti dallo stesso utente, e a rimuoverle. Lo afferma l’avvocato generale Maciej Szpunar nelle conclusioni, presentate ieri, alla causa C-18/18. Il condizionale è d’obbligo, dato che il diritto dell’Unione non disciplina la questione. La vicenda prende le mosse da un commento diffamatorio ai danni di una deputata alla Camera dei rappresentanti del Parlamento austriaco. Il commento era stato fatto in seguito alla pubblicazione di un articolo di una rivista austriaca online. La deputata (dopo un’inutile richiesta diretta a Facebook) aveva chiesto ai giudici austriaci di emettere un’ordinanza cautelare nei confronti di Facebook per bloccare la pubblicazione del commento, consultabile da qualsiasi utente di Facebook. Comunque, dopo che il giudice di primo grado aveva emesso l’ordinanza richiesta, Facebook aveva disabilitato in Austria l’accesso al commento. Ma la richiesta della deputata all’Oberster Gerichtshof (la Corte Suprema), mirava alla rimozione del commento a livello mondiale. L’Oberster Gerichtshof aveva quindi chiesto alla Corte di giustizia di interpretare in tale contesto la direttiva 2000/31. Nel concreto, però, l’avvocato generale ritiene solo che la direttiva sul commercio elettronico “non osti” (cosa ben diversa da un obbligo) a che un host provider che gestisce una piattaforma di social network, come Facebook, sia costretto, con provvedimento ingiuntivo, a cercare e a individuare, tra tutte le informazioni diffuse dagli utenti di tale piattaforma, quelle identiche a quella qualificata come illecita dal giudice. La direttiva, infatti, non disciplina la portata territoriale di un obbligo di rimozione. La deputata avrebbe dovuto piuttosto far valere non il diritto dell’Unione ma le disposizioni generali del diritto civile austriaco in materia di violazione della vita privata e dei diritti della personalità. Quindi, ha concluso Szpunar “per quanto riguarda la portata territoriale di un obbligo di rimozione imposto a un host provider nell’ambito di un’ingiunzione, si deve ritenere che quest’ultima non sia disciplinata né dall’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 né da nessun altra disposizione di siffatta direttiva e, pertanto, che (..) non osti a che un host provider sia costretto a rimuovere informazioni diffuse a mezzo di una piattaforma di rete sociale a livello mondiale. Inoltre, detta portata territoriale non è neanche disciplinata dal diritto dell’Unione, nella misura in cui, nella specie, il ricorso della ricorrente non è fondato sul medesimo”. Abruzzo: Garante dei diritti dei detenuti, finalmente la Regione accelera di Natalfrancesco Litterio ilcapoluogo.it, 5 giugno 2019 Dopo 10 anni di inadempienze, la Regione Abruzzo si appresta a eleggere il garante dei diritti dei detenuti. È stata istituita per la prima volta in Svezia a metà dell’Ottocento la figura del garante, con funzione di controllo dell’applicazione delle leggi e dei regolamenti contro ogni tipo di abuso contro le persone private o limitate nella libertà personale. C’è voluto più di un secolo perché questa figura vedesse la luce anche entro i confini nazionali. E ancor di più perché la Regione Abruzzo recepisse la legge nazionale. A ricordare il lungo iter, il segretario regionale dei Radicali, Alessio Di Carlo, che al microfono del Capoluogo.it spiega: “Da oltre 10 anni, la Regione Abruzzo è inadempiente rispetto a questa figura prevista dalla legge nazionale, un’inadempienza che ha generato grande mobilitazione da parte dei Radicali, a seguito della quale nell’agosto 2011 è stata finalmente approvata la legge regionale, anche se per molto tempo non è stato emesso il bando relativo. Anche quando è arrivato il bando, si è creato un problema con l’elezione del garante che, secondo la legge regionale, doveva avere i due terzi dei voti del Consiglio, senza prevedere la semplice maggioranza nelle successive votazioni. Questo ha bloccato l’iter, fin quando allo scadere dell’ultima legislatura la legge è stata modificata”. A questo punto non dovrebbero esserci altri impedimenti: “A seguito delle elezioni si era creata una nuova situazione di stallo, per cui come Radicali Abruzzo abbiamo chiesto un incontro al presidente Sospiri. Non avendo avuto risposta, ho iniziato uno sciopero della fame, a seguito del quale il presidente si è subito attivato ed ha accettato di incontrarci. In quella sede ci ha informato del nuovo bando (scaduto oggi, ndr) e del fatto che, se avrà il consenso della Conferenza dei Capigruppo, si occuperà personalmente dell’audizione di coloro che hanno fatto domanda, al fine di arrivare al più presto possibile al Consiglio per eleggere il Garante dei detenuti. È stato molto disponibile anche per quanto riguarda il Garante dell’Infanzia e altre figure di garanzia che le leggi regionali prevedono”. A questo punto, se non sorgono ulteriori impedimenti, entro l’anno anche l’Abruzzo dovrebbe avere il Garante dei detenuti, previsto per legge da oltre 10 anni. A riguardo si è espresso anche l’ex consigliere regionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo: “Come autore della legge - approvata con grande ritardo dopo una lunga battaglia - non posso che esprimere amarezza per il fatto che il Consiglio Regionale non sia stato capace di convergere nella passata legislatura regionale sulla nomina di Rita Bernardini proposta dallo scomparso Marco Pannella. La mediocrità del ceto politico abruzzese - dal Pd al centrodestra al M5S - ci ha privato del contributo di una delle maggiori esperte di problemi carcerari che ci sia nel nostro paese. In particolare demenziale che il M5S abbia negato il proprio voto favorevole perché Rita era stata condannata per la disobbedienza civile contro il proibizionismo sulla cannabis. Ho sentito Rita oggi e mi ha detto che non intende ripresentare la domanda. Un’occasione persa per la nostra regione. Spero che ora non si proceda a una nomina con logica spartitoria di maggioranza ma venga scelta una persona che nel carcere e con i detenuti abbia lavorato sul serio e che possa effettivamente svolgere il ruolo che la legge assegna al Garante. Il grado di civiltà di un paese si giudica dalle sue galere, insegnava Voltaire” Catania: il calvario del detenuto in coma, ora la moglie pretende giustizia di Antonio Giordano livesicilia.it, 5 giugno 2019 La permanenza in carcere in condizioni di coma e il successivo ricovero sono al centro di una denuncia presentata questa mattina. Respira senza macchinari ma le sue condizioni restano critiche. È ancora ricoverato in terapia intensiva l’uomo catanese colpito da un ictus dentro il carcere di Floridia, in provincia di Siracusa, poco più di un mese fa. Il detenuto è rimasto in cella per dieci giorni prima di essere trasferito in ospedale. La permanenza in carcere in condizioni di coma e il successivo ricovero sono al centro di una denuncia presentata questa mattina dalla moglie del detenuto. Il suo stato di salute è ancora critico, anche se l’uomo è stato staccato dal respiratore: di fatto, il catanese M.F. è stato svegliato dal coma in cui è stato tenuto in seguito all’ictus che ha avuto in carcere, ma per l’avvocato Alessio Di Carlo, che si occupa del suo caso per conto dell’Osservatorio per i diritti umani e dell’associazione Sicilia Risvegli, non si può ancora dire che sia fuori pericolo. Come raccontato da Livesicilia, l’uomo ha passato i primi dieci giorni di coma dentro la sua cella in compagnia di un altro detenuto, e solo dopo lo spostamento all’ospedale di Siracusa la sua famiglia ha potuto sapere che era ricoverato in terapia intensiva. Questo solo dopo essersi vista sbarrare la strada per più di un giorno da un piantone, senza la possibilità di vedere il proprio parente o di avere notizie sul suo stato di salute. Proprio per fare chiarezza sui motivi di questa detenzione e sulle cure ricevute in carcere e in ospedale la moglie dell’uomo ha presentato, questa mattina, una denuncia alla procura di Siracusa. Come fa sapere ancora l’avvocato Di Carlo, la denuncia per il momento è contro ignoti, e mira a ottenere le relazioni di servizio del carcere di Floridia e la cartella clinica del catanese. L’obiettivo è di verificare se ci siano ipotesi di reato nel trattamento ricevuto dall’uomo nei giorni in cui è stato lasciato in cella e in quelli del ricovero ospedaliero. Ivrea (To): un detenuto denuncia “pestato dagli agenti” di Andrea Bucci La Stampa, 5 giugno 2019 “Aprirono l’idrante e mi stordirono con un getto d’acqua ghiacciata. Poi nella cella entrarono le guardie, mi buttarono a terra per ammanettarmi e mi colpirono con un manganello”. E ancora: “Nel tragitto dalla cella al quarto piano all’infermeria situata al piano terra mi riempirono di schiaffi e manate in testa. In attesa della visita mi lasciarono per qualche ora senza vestiti chiuso nella stanza “acquario” (cella di contenimento)”. Infine: “Davanti al medico mi costrinsero a dire che ero caduto dalle scale. Ritornato in cella trascorsi tutta la notte sulla branda di ferro, senza materasso”. Sono stralci di una lettera scritta da un detenuto italiano, sottoposto a misura cautelare, vittima di presunti pestaggi e inviata all’associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. La lettera racconta dei pestaggi ai detenuti avvenuti in carcere nella notte tra il 25 e 26 ottobre 2016 per sedare la rivolta. Su quell’episodio la procura di Ivrea aveva aperto un fascicolo, contro ignoti, ma poi aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta cui si era opposto il Garante comunale tramite l’avvocato Marialuisa Rossetto e che è stata poi respinta dal gip Stefania Cugge. Ora toccherà al sostituto procuratore Alessandro Gallo riprendere in mano l’indagine. Non si tratta dell’unico caso in cui si sarebbero verificati eccessi nel carcere eporediese. Questa mattina, davanti al Gip, si discuterà sulla richiesta di archiviazione avanzata dalla procura per presunti pestaggi avvenuti in una cella nel novembre 2015. Ad opporsi all’archiviazione sono stati il Garante comunale e l’avvocato Simona Filippi, legale dell’associazione Antigone. Per quei fatti erano anche stati anche individuati i presunti autori della violenta repressione. Ieri, le osservatrici della sezione Piemonte di Antigone, Benedetta Perego e Perla Allegri, hanno anche acceso i riflettori sulla situazione sicurezza in cui versa il carcere: “La Casa circondariale di Ivrea ha una capienza di 197 posti, ma al 31 maggio i detenuti presenti erano 280”. Roma: padiglione del carcere di Rebibbia ristrutturato dai detenuti askanews.it, 5 giugno 2019 La struttura è stata mostrata anche alla delegazione Messico-Unodc. Un padiglione del carcere di Rebibbia-Nuovo Complesso è stato interamente ristrutturato dai detenuti. Questa iniziativa, portata a termine all’interno del penitenziario romano - si spiega in una nota del ministero della giustizia - è stata seguita dal direttore Rosella Santoro e dal commissario comandante del reparto della casa circondariale Luigi Ardini. La struttura - si aggiunge - è stata mostrata anche alla delegazione Messico-Unodc attualmente in Italia per studiare da vicino il funzionamento del modello di lavoro di pubblica utilità “Mi riscatto per?”. Torino: piatti gourmet per il reinserimento dei detenuti, dalla pizza al cioccolato di Alessandra Iannello Il Messaggero, 5 giugno 2019 Il reinserimento sociale per gli ex detenuti si fonda sulla creazione di una professionalità che può essere spesa una volta usciti dal carcere. Forti di questa teoria, sono nati a Torino due progetti che sono da esempio per molte case circondariali nel resto del Paese. Per i minorenni del Ferrante Aporti l’opportunità per il futuro si chiama Spes@labor. Il programma prevede l’apprendimento da parte di alcuni giovani detenuti delle competenze dell’addetto alla produzione del cioccolato attraverso la formazione teorica e la pratica nel laboratorio allestito all’interno del carcere. Inoltre, attraverso un sistema di borse lavoro, beneficiano di questo percorso anche i ragazzi in penale esterna che svolgono la pratica presso la Fabbrica del Cioccolato. Hanno partecipato al progetto 36 ragazzi, 3 di questi hanno poi proseguito la loro esperienza nella Fabbrica di Cioccolato SPeS e altri 5, concluso il progetto, hanno continuato a lavorare con SPeS. Dal lavoro dei ragazzi è nata una nuova linea di prodotto “La Vita”, tavoletta di cioccolato al latte e fondente. È invece rivolto agli adulti il progetto che Liberamensa ha messo a punto con Endemol, produttore fra l’altro, di MasterChef e di MasterChef All Stars. “Complessivamente - spiega di Piero Parente, presidente Liberamensa - all’interno della cooperativa trovano opportunità d’inserimento lavorativo, nei diversi servizi gestiti, 22 persone, di cui 15 sono assunte e 7 sono in tirocinio formativo retribuito. All’interno del carcere sono impiegate 10 persone tra panificio e servizi ristorativi. Le altre 12 lavorano all’esterno tra Caffetteria del Tribunale, bar del Museo Egizio e tavola calda-ristorante di corso Giulio Cesare”. Il progetto prevede la creazione di una linea gourmet di street food pensata dal vincitore dell’edizione di MasterChef All Stars Michele Cannistraro per Liberamensa. Le 16 proposte comprendono focacce, panini, pizze e patate farcite e prevedono ricette estive e invernali, tra cui anche vegetariane. Il tutto realizzato con prodotti freschi e di stagione mentre le farine per le produzioni a lievito madre sono macinate a pietra da Viva, i cui grani provengono da coltivazioni del Piemonte. “Gli ingredienti semplici - spiega Michele Cannistraro, chef ideatore del menù gourmet e vincitore di Masterchef All Stars - sono stati elaborati in chiave gourmet da ragazzi molto volenterosi che volevano dimostrare di essere preparati. Questa per loro è stata un’opportunità di crescita in un percorso che, grazie a occasioni simili, li gratifica”. La linea di street food sarà distribuita nei punti ristoro di Torino gestiti da Liberamensa: la caffetteria del Tribunale, quella del Museo Egizio, il bar agenti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e nel nuovo locale di corso Giulio Cesare. Attivo già da diversi anni, il forno all’interno del carcere sforna pane e grissini che vengono commercializzati con il marchio Farina nel Sacco non solo nei punti vendita Liberamensa ma riforniscono anche alcuni ristoratori di Torino, in particolare hamburgherie e paninoteche. “Grazie anche al contributo ricevuto da Endemol - conclude Parente - entro settembre dovrebbe aprire un nuovo negozio in Torino, dedicato alla vendita di tutti i prodotti da forno di Farina nel Sacco, con uno spazio importante anche per la somministrazione di panini e pizze gourmand”. Nello stesso periodo dovrebbe partire il nuovo orario del locale di corso Giulio Cesare che passerà dal solo servizio pranzo all’apertura serale con uno spazio bimbi e la possibilità di organizzare eventi. Asti: il Film Festival va in carcere con il progetto Libera-Mente lavocediasti.it, 5 giugno 2019 Premiati tre film da una giuria composta da detenuti che hanno visionato 24 opere. Che cosa può provare una persona ristretta in carcere? Cosa pensa della vita e degli errori che si è lasciata alle spalle? Cosa pensa del futuro se mai ci potrà essere un futuro? Sono queste, ma anche molte altre, le domande che ci si pongono varcando la soglia (o meglio le sbarre) di un carcere di massima sicurezza, quale è il carcere di Asti. L’occasione di queste riflessioni le ha offerte il progetto Libera-Mente collegato all’Asti Film Festival diretto da Riccardo Costa che oggi, nel carcere di Asti, ha premiato alcuni film e corti valutati da una giuria di detenuti che hanno partecipato ad un progetto settimanale “illuminato” e propositivo. Prima di “spogliarsi” di telefoni, borse e ammennicoli vari della quotidianità, per entrare occorre liberarsi soprattutto di pregiudizi e diffidenze. Chi è ristretto ad Asti ha commesso gravi crimini, qualcuno probabilmente non uscirà mai ma l’entusiasmo e la volontà con cui i 36 hanno aderito a Libera-mente è palpabile ed emozionante. Il bisogno di normalità (cancellata sicuramente con le proprie mani) si sente, si tocca. Grazie anche alla collaborazione di Effatà Onlus i detenuti, portano avanti diversi progetti quotidiani, anche editoriali con “La Gazzetta Dentro”, hanno gruppi di preghiera, fanno bricolage. L’associazione, con l’Atc, gestisce anche 5 alloggi per l’accoglienza di parenti di detenuti. “C’è stata una partecipazione entusiasta sull’Asti Film Festival - ci hanno spiegato Maria Bagnadentro presidente Effatà e la volontaria Ornella Petroni - hanno analizzato i film con grandi riflessioni ed emozioni”. Già le emozioni. Come hanno avuto modo di spiegarci questi speciali giurati: Emanuel, Giovanni, Salvatore 1, Salvatore 2 (“il siciliano e il calabrese” ci dicono) e Luca. “Questa esperienza ci ha fatto crescere, abbiamo imparato a valorizzare le cose e cercato di capire anche quando qualcosa non ci piaceva, grazie ai laboratori settimanali con Riccardo. Grazie per questa opportunità”. La giuria ha visionato otto film per ognuna delle sezioni dell’Asti Film Festival, La Prima Cosa Bella, Asti Short e Asti Doc con la guida di Riccardo Costa si sono messi in gioco. “In due anni - ha spiegato appunto Costa - hanno imparato a tirare fuori le loro emozioni. Un bel percorso. A volte sono rimasto spiazzato dalle loro intuizioni. Spero di ripeterlo”. Una platea attenta, detenuti, autorità, insegnanti ha seguito gli spezzoni delle proiezioni premiate. Tra loro Alessia Chiosso, Comandante Polizia Penitenziari e la direttrice Francesca Daquino:”un modo per riconoscere che il carcere è un pezzo della città, accogliamo sempre con gioia queste proposte”. Con i premiati anche il critico cinematografico e musicale Filippo Mazzarella. I Premiati - Sezione la Prima Cosa Bella: Il film “Nove lune e mezza” di Michela Andreazzi. Questa la motivazione della giuria Libera-Mente: “Per aver trasmesso un messaggio d’amore universale in grado di superare le barriere delle convenzioni sociali attraverso una commedia brillante che fa riflettere con il sorriso sulle labbra”. Ha ritirato il premio il marito, l’attore Massimiliano Vado (che ha recitato nel film). “Per me - ha detto - ricevere questo premio è preziosissimo”. Sezione Asti Short: “Come la prima volta “ di Emanuela Mascherini. La motivazione: “Aver presentato senza retorica una commovente storia d’amore aldilà dei confini del tempo che lascia una speranza, la sensazione che l’uomo possa qualsiasi cosa quando opera con il cuore”. Emozionata Emanuela Mascherini “Sono felice che il mio lavoro sia entrato in carcere (ha ricordato la sua amicizia con Domenico Diele, l’attore arrestato per omicidio stradale n.d.r.) e che vi siate riconosciuti nel mio sguardo”. Sezione Asti Doc: “(A)Social, dieci giorni senza smartphone” del regista Lucio Laugelli. La motivazione: “In un’epoca in cui siamo totalmente assuefatti alle dipendenze da telefono, ricordare com’era la vita prima di internet. Abbiamo deciso di valorizzare un’opera che fa riflettere focalizzando l’attenzione sui giovani”. “Un documentario girato con 15mila euro per Infinity - ha raccontato il regista - era un tema che due anni fa ci incuriosiva molto. Interessante sondare le esperienze di persone rimaste dieci giorni senza telefono”. Un progetto davvero fondante e ricco di sfaccettature e di insegnamenti. Scevri appunto, da giudizi o pensieri retroattivi. Con la speranza che, chiudendosi le sbarre alle spalle, ci si ricordi che la libertà è il bene più prezioso in assoluto. Bologna: teatro-carcere con “Figlie di Lear”, protagoniste 11 detenute ansa.it, 5 giugno 2019 Undici detenute di diverse nazionalità della Sezione femminile della Casa circondariale di Bologna sono protagoniste di “Figlie di Lear sorelle-matte-comari - primo studio”, spettacolo del Teatro del Pratello, regia di Paolo Billi, che andrà in scena giovedì 6 giugno (ore 14) nella Sala Teatro del carcere via del Gomito. Nell’estate 2020 ‘Figlie di Lear’ sarà presentato nella versione definitiva per il momento viene messo in scena n primo copione composto partendo dalle scritture delle detenute-attrici che hanno partecipato da ottobre ai laboratori di scrittura e di teatro. Nel corso di dieci incontri del Laboratorio di scrittura creativa condotto da Filippo Milani, le detenute hanno letto e scritto su diverse tematiche presenti nell’opera di Shakespeare, in particolare sulla figura del Fool (“elogio della follia”, “le profezie dei fools”); sulle tre figlie di Re Lear (“figlie che guardano in faccia i padri”, “figlie che rifiutano l’eredità dei padri”), inserendo nuovi temi, nati in corso d’opera, legati alla figura delle “comari”: rammendatrici che lavorano cantando e che giocano una folle tombola. Il tutto accade di fronte a un padre, che immobile, osserva e aspetta una morte che si fa beffe di lui. “Figlie di Lear” si inserisce nell’ambito del più ampio programma Stanze di Teatro Carcere del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, che vede i detenuti di otto istituti penitenziari e i minori e giovani adulti in carico ai Servizi di giustizia Minorile della Regione impegnati in un percorso teatrale comune. Il tema scelto dai registi del coordinamento, per il triennio 2019-2021, è “Padri e figli”, ed è affrontato nei laboratori teatrali attivi negli istituti di Modena, Castelfranco Emilia, Parma, Forlì, Ravenna, Ferrara, Bologna, Istituto Penale per i Minorenni di Bologna e presso i Servizi di Giustizia Minorile. Napoli: Secondigliano, Mussida dona un’audio-teca al carcere di Enzo Gentile Il Mattino, 5 giugno 2019 Un gesto coraggioso e innovativo, che ha aperto un varco nella vita dei detenuti della carceri dove sinora si è realizzato e il cui merito è stato riconosciuto ufficialmente anche con la medaglia della Presidenza della Repubblica nel 2017: il “Progetto CO2- Controllare l’odio” arriva oggi anche alla casa circondariale di Secondigliano, dove alle 11 si annuncia la cerimonia di donazione e intitolazione dell’audio-teca messa a punto da Franco Mussida, con il coordinamento del Cpm music institute. Sarà la quarta tappa di un primo circuito di dodici carceri distribuiti sul territorio nazionale, in cui la sperimentazione è iniziata già nel 2013. “Quella della audio-teche è una rete che consente ai detenuti”, spiega il chitarrista, storico fondatore della Premiata Forneria Marconi, oggi solista e impegnato sul fronte della didattica, capofila di questa esperienza umanitaria, “di fruire di un database di circa tremila brani tutti strumentali che rappresentano e testimoniano i diversi stati d’animo che la musica sa infondere. Il tutto è spiegato in dieci lingue per consentire l’accesso e l’utilizzo alle diverse popolazioni migranti e giungere ad un ascolto emotivi consapevole, al fine di assumere quella speciale vitamina sonora che noi chiamiamo musica, giunta a noi grazie all’opera e al genio di compositori di ogni epoca. Le audio-teche messe a punto da Mussida, vengono continuamente aggiornate e implementate, abbracciando i vari generi, colonne sonore, pop, rock, musica classica, etnica, elettronica per aiutare ciascuno a scoprire meglio il proprio mondo interiore. Tutto questo è stato possibile grazie al ministero della Giustizia e alla Siae, nei vari governi e nei vari presidenti succedutisi: un impegno collegiale di grande valore civile”. La cerimonia di oggi, segue quella di ieri a Rebibbia, Roma, e consisterà nella donazione pratica delle attrezzature e dei contenuti - computer, iPad, file - alla presenza delle autorità e della popolazione carceraria, che verrà prima istruita e informata sul significato di “CO2” per poi essere coinvolta in un gioco di approccio collettivo alla dimensione dell’ascolto. Ogni audio-teca viene anche intitolata a una personalità particolarmente distintasi in campo professionale: a Venezia porta il nome di Pino Donaggio, a Roma quello di Nicola Piovani, la settimana prossima a Genova sarà il turno di Gino Paoli, mentre a Napoli è stata individuatala figura di Eleonora Amato, “dirigente penitenziario, donna di grande preparazione e di acuta lungimiranza nell’attenta gestione penitenziaria dei detenuti e delle loro esigenze”. Airola (Bn): Luca Pugliese in concerto al carcere minorile ilquaderno.it, 5 giugno 2019 Il concerto, fortemente voluto dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Marianna Adanti, e patrocinato dal Comune di Airola, sarà eccezionalmente aperto al pubblico. Venerdì 7 giugno alle ore 21.00 l’artista Luca Pugliese si esibirà gratuitamente in concerto per i detenuti del carcere minorile di Airola presso il teatro di corte del complesso monumentale ospitante l’istituto penitenziario. Sarà la diciannovesima tappa della tournée musicale “Un’ora d’aria colorata”, missione artistico-culturale intrapresa da Pugliese nel 2013 e ancora in fieri, iniziativa solidale che punta il dito sullo stato dei nostri istituti penitenziari e chiama in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. “La dignità dell’uomo - afferma Pugliese - è un diritto universale che non ammette deroghe e l’arte è un diritto di tutti. La musica è aria dipinta. Portare un po’ di musica in luoghi dove tutto è troppo poco e troppo stretto, mi rende vivo e mi fa sentire utile al mondo”. La tappa di Airola è la prima dedicata dall’artista campano al popolo detenuto minorenne. Il concerto, fortemente voluto dalla direttrice dell’istituto penitenziario, dottoressa Marianna Adanti, e patrocinato dal Comune di Airola, sarà eccezionalmente aperto al pubblico, previa prenotazione e compatibilmente con la capienza del teatro. “La magia di questo tour - commenta Pugliese - è quella di aver scoperto e toccato con mano il potere aggregativo della musica, la capacità della musica, in luoghi come il carcere, di farsi vero e proprio focolaio di libertà. Le emozioni che questa esperienza mi ha finora restituito sono veramente rare, le mie canzoni e la mia musica godono di un’energia totalmente diversa da quando ho deciso di regalarle a chi ne ha veramente bisogno”. Luca Pugliese si esibirà per i giovanissimi dell’istituto penitenziario nella veste live che, proprio a partire dalla tournée carceraria, si è consolidata come quella da lui preferita: la versione “one man band” (voce, chitarra, percussioni a pedale). Strabiliante “uomo orchestra” e cantautore e interprete raffinato, porterà in scena il background più profondo della sua esperienza musicale, da sempre aperta alla contaminazione e costantemente alla ricerca di nuove suggestioni. Ultime, ma solo in ordine di tempo, le suggestioni musicali tratte dal repertorio classico napoletano - che della tournée nelle carceri sono la colonna portante - e da quello latinoamericano, che assieme a brani propri e a grandi classici del cantautorato italiano offriranno un viaggio musicale unico nel suo genere, in cui epoche, stili e tradizioni differenti trovano un epicentro comune grazie a un grintoso talento interpretativo e a una rara capacità di farli propri. Radio Radicale, in arrivo la mozione per salvarla. Di Maio sblocca il no dei 5S di Silvio Buzzanca e Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 5 giugno 2019 Atteso un documento di maggioranza per concedere un contributo ponte di 4 milioni. Svolta nella vicenda di Radio Radicale. Domani la maggioranza di governo potrebbe presentare una mozione che prevede di concedere all’emittente quattro milioni di euro come misura ponte in attesa di nuove norme sulla trasmissione dei lavori parlamentari. Nel testo ci sarebbe anche lo slittamento del via ai tagli alla legge sull’editoria dal primo gennaio al primo febbraio 2020. E questo darebbe respiro finanziario all’emittente consentendo l’erogazione dei contributo per il 2019. La svolta sarebbe arrivata su iniziativa del ministero dello Sviluppo economico e di Luigi Di Maio che avrebbe fatto pressioni sul sottosegretario Vito Crimi, sempre contrario a qualsiasi ipotesi che impedisca la chiusura di Radio Radicale. Del resto Di Maio, durante la campagna elettorale per le Europee, aveva detto che si sarebbe occupato della questione dal 27 maggio. I leghisti, invece, da tempo sono schierati per trovare una soluzione alla chiusura della radio. Massimiliano Mollicone, il deputato leghista che ha presentato l’emendamento al decreto Crescita pro Radio Radicale, spiega che “si lavora per cercare una soluzione temporanea in attesa di rivedere tutto il quadro generale”. Secondo il deputato la soluzione nasce dalle motivazioni con cui il presidente della Camera Roberto Fico ha spiegato le difficoltà a prorogare una convenzione che è scaduta. Un ostacolo che si pensa di superare passando, sempre nel decreto Crescita, dalla proroga della convenzione con il ministero dell’Economa all’erogazione di un contributo ad hoc che copra tutto il 2019. La questione sarebbe stata oggetto ieri di confronto fra leghisti, - favorevoli a fare arrivare fino a dicembre Radio Radicale - e i grillini, durante un tavolo convocato per discutere i dettagli dei decreti in discussione alla Camera e al Senato. Novità nella complessa vicenda, oggetto di una grande mobilitazione del mondo dell’informazione e della società civile, si erano registrate anche in mattinata. Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera, impegnate nella discussione del dereto Crescita, avevano infatti riammesso alcune parti degli emendamenti su Radio Radicale. Un passo che era stato letto come la volontà di ripristinare il finanziamento del fondo per il pluralismo, visto che la formulazione sembra prendere in considerazione proprio il profilo di Radio Radicale. In pratica la novità si riassumerebbe, come detto, nello spostamento al primo febbraio 2020 dell’entrata in vigore del taglio, che permetterebbe alla radio di ricevere i soldi per il 2019. Domani, comunque, si discuterà al Senato di Radio Radicale, con le mozioni presentate dalle opposizioni che intendono dare battaglia. “Finalmente voteremo e sarà chiaro al Paese chi vuol difendere la democrazia e la libertà e chi invece non vuole farlo”, dice il capogruppo del al Senato Andrea Marcucci. Giudici reclusi per un giorno, la Consulta in carcere diventa film di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 giugno 2019 Anteprima con il presidente Mattarella del “Viaggio in Italia” della Corte Costituzionale. C’è la giurista Daria de Petris che davanti al dolore di una donna dietro le sbarre non riesce a trattenere le lacrime. C’è il costituzionalista di lungo corso Giancarlo Coraggio, abituato ai quesiti dei suoi studenti, che improvvisamente si sente in difficoltà nel rispondere perché “le vostre domande vi riguardano direttamente”. C’è il presidente Giorgio Lattanzi che si intenerisce al cospetto dei bambini reclusi con le loro mamme. C’è la vicepresidente Marta Cartabria che tenta di spiegare la contraddizione tra gli ideali fissati nella Carta e la realtà. C’è Giuliano Amato che quei ragazzi finiti sulla strada sbagliata se li riporta in autostrada a Roma, per farli entrare nel tempio della Costituzione. Ci sono insomma i giudici della Corte Costituzionale che perdono le loro sicurezze nell’incontro con i detenuti, le detenute, le trans costrette nei bracci maschili, gli uomini che hanno una dignità malgrado 29 anni di vita in carcere di cui 12 a regime duro, le agenti penitenziarie che “non possiamo farci coinvolgere perché altrimenti non lavoriamo più”, e le donne malavitose che “non rinnego nulla perché fare le rapine, spacciare, usare le armi, stare su piazza, ti dà un’adrenalina come niente al mondo”. Senza dogmi, le loro storie tragiche e cattive riacquistano dignità, nel film prodotto da RaiCinema che questa sera sarà presentato all’Auditorium Parco della Musica di Roma, alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella, dei giudici della Consulta e del regista Fabio Cavalli. Andrà poi in onda il prossimo 9 giugno in seconda serata all’interno dello Speciale Tg1 Rai 1. Ma dovrebbero proiettarlo nelle scuole, il docu-film Viaggio in Italia, girato in sette Istituti penitenziari italiani (Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile) durante la visita di altrettanti giudici quando, durante lo scorso anno, in occasione del settantennale della Costituzione, l’intera Corte decise di uscire dal Palazzo della Consulta e iniziare un viaggio nell’Italia vera. Cominciando dagli ultimi, dai carcerati. Perché, come ebbe a dire il presidente Lattanzi quando nell’ottobre 2018 inaugurò a Rebibbia un’iniziativa senza precedenti al mondo, vista in streaming da 11 mila detenuti, “i nostri padri costituenti avevano conosciuto nel Ventennio fascista la mortificazione del carcere, e dietro la Carta costituzionale ci sono tante persone che sono state detenute”. E perché siamo ancora nella civiltà di Voltaire. Malgrado Salvini. “Primula rossa”. La storia italiana vista dalle sbarre di un manicomio di Chiara Nicoletti Il Dubbio, 5 giugno 2019 Il docu-film opera prima di Franco Jannuzzi. È il 1978 quando in Italia arriva, grazie allo psichiatra Franco Basaglia, la legge 180 che sancisce la chiusura dei cosiddetti “manicomi” promuovendone la trasformazione in istituti per i servizi di igiene mentale. Cosa è cambiato da allora? L’Italia che si presenta come il primo e forse unico paese ad aver abolito l’esistenza, almeno formalmente, degli ospedali psichiatrici, è avanti in quanto a riabilitazione e cura di chi presenta disturbi psichici? Una risposta a questa domanda prova a darla Primula Rossa, diretto da Franco Jannuzzi e interpretato da David Coco, Salvo Arena, Fabrizio Ferracane, Roberto Herlitzka, Annalisa Insardà. Il film è prodotto dalla Fondazione di Comunità di Messina e Fondazione Horcynus Orca con l’intento di valorizzare l’esperienza di un programma, “Luce è libertà”, che ha permesso di liberare in soli due anni sessanta persone dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Jannuzzi il suo intento lo chiarisce sin dall’apertura: percorrere la linea sottile tra le buone intenzioni e la loro realizzazione, il nome comunità che sostituisce quello di ospedale, il comodo non voler vedere con l’impegno molto più coinvolgente di garantire welfare e vita dignitosa a chi non ragiona, pensa e vede il mondo “normalmente”. Primula Rossa si ispira alla storia di Ezio Rossi, ex terrorista dei NAP (Nuclei Armati Proletari), che ha passato gran parte della sua vita tra il carcere e l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg) e sul suo difficile percorso ed quello di altri “malati” ripercorre 40 anni di Italia, nel bene e nel male. Attraverso un linguaggio cinematografico che mischia materiale d’archivio, documentario e fiction grazie alla ricostruzione delle vicende salienti della vita di Rossi, impersonato sul grande schermo dall’attore Salvatore Arena, il film, nella sua parte recitata, si concentra sull’arrivo di un nuovo psichiatra, il dottor Lucio, interpretato da David Coco, all’interno di una struttura che da subito si capisce essersi sempre comportata come ospedale psichiatrico e non come comunità o residenza. Non edulcora Franco Jannuzzi che anzi sceglie di far parlare innanzitutto e prima di ogni cosa, le immagini di archivio. Le prime che vediamo sono infatti in bianco e nero, datate 1994 dall’archivio dell’Ospedale Psichiatrico “Lorenzo Mandalari” di Messina, talmente estreme e lesive della dignità umana che non solo impostano i toni del film ma si impongono a ridefinire l’umore dello spettatore. Il dottor Lucio fa da subito fin troppe domande, ha metodi poco ortodossi perché è attraverso la sua figura che capiamo la divisione interna che c’è in queste strutture, tra chi punta a riabilitare e chi a nascondere e contenere. Indaga sul passato dei suoi pazienti, specialmente su Ennio Ferraris (il nome di finzione di Ezio Rossi) incontrando persone vicende criminali che hanno coinvolto Rossi), testimonianze dello stesso Rossi e di altri pazienti. Per entrare nel mondo visionario e bizzarro che spesso chi è affetto da disturbi psichici si immagina e inventa, Primula Rossa mette in scena delle storie complementari a quella di Rossi: c’è la Spia, L’Uomo che visse due volte, Il pastore solitario. Queste esistenze, frutto dell’immaginazione di queste persone, sono abbastanza affascinanti da portare chi guarda a porsi delle domande. Possibile che le persone intervistate, che parlano delle procedure messe in pratica dagli operatori per tenerli a bada, non siano “degne” di potersi ricostruire una vita fuori da una struttura che internando, di fatto, pone fine definitivamente, ad ogni slancio di interazione con l’altro, ogni voglia o desiderio dell’essere umano di sentirsi utile al prossimo, alla comunità? Che cammino è stato intrapreso in tal senso? Cosa si può fare per replicare situazioni felici come quella del programma Luce e Libertà? Jannuzzi riesce nel suo scopo, più didattico e formativo che cinematografico di fare un punto della situazione e insinuare il dubbio in chi si approccia a Primula Rossa. A risentirne è lo stile del film stesso che alla potenza delle immagini e testimonianze d’archivio non riesce a restituire altrettanta forza nelle ricostruzioni di finzione, nonostante le buone prove di David Coco e del sempre magistrale Herlitzka. Con tutte le sue imperfezioni, Primula Rossa svolge il suo compito con chiarezza e senza perdere di vista l’obiettivo iniziale e questa è una qualità da premiare, guardandolo in sala. “A mano disarmata”. Contro la mafia può servire anche un film di Arianna Di Cori La Repubblica, 5 giugno 2019 Alle nove meno un quarto nel foyer del Cinema Adriano a Roma restano solo alcuni uomini della scorta di Federica Angeli. Stasera sono in tanti, basta guardarsi intorno per incrociare i loro occhi che scrutano. Alcuni saranno in sala con lei per l’anteprima del film “A mano disarmata”, regia di Claudio Bonivento, al cinema da domani, che racconta le vicende della giornalista di Repubblica sotto scorta dal 2013, la prima che in quarant’anni abbia avuto il coraggio di denunciare gli atti perpetrati da cosche criminali nei confronti della popolazione di Ostia. Una battaglia che ha portato al maxiprocesso per mafia contro i clan del litorale romano iniziato il 6 giugno del 2018. Un anno dopo, “A mano disarmata” segna una tappa importante, non certo l’ultima. La star è Federica, elegante in bianco, quasi gemella dell’attrice che la interpreta nel film, Claudia Gerini. Angeli ride, saluta, si presta ai selfie, si guarda intorno un po’ confusa, “non ho la più pallida idea di dove siano la mia borsa, la mia giacca, non so nemmeno cosa sto facendo” dice ridendo, mentre mani la prendono e la portano via, prima sul red carpet, poi davanti alle telecamere per le riprese tv. E ancora altre mani che si stringono alle sue, qualche lacrima di commozione. “In questo film si vedrà la mia vita, le mie difficoltà di giornalista, certo, ma anche di mamma e moglie, la mia lotta contro la paura e il desiderio di cercare di vivere una vita il più normale possibile” spiega Angeli, madre di tre figli costretti a condividere la sua vita costantemente “dietro una grata, esattamente come un carcerato”. “Ho vissuto solo per un mese ciò che Federica vive ogni giorno - spiega Gerini - ed è stato un inferno. Penso che Matteo Salvini, quando parla di tagliare le scorte, non si renda conto di cosa significhi non poter nemmeno uscire per prendere un gelato con i propri figli”. Al cinema sfilano amici e colleghi. C’è il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, ci sono gli uomini di giustizia che l’hanno sostenuta nella sua battaglia. C’è il colonnello degli uomini del nucleo scorte, i pm della Procura di Roma che hanno arrestato gli Spada, il senatore Stefano Esposito da sempre vicino alla cronista, il magistrato antimafia Alfonso Sabella, che poco prima del film si allontana dalla bagarre per andare a prendere i popcorn. “Questo film è importante per la memoria di un paese che non impara dagli errori né dai successi - spiega il magistrato - la sua è una storia vera, soprattutto una storia umana”. Una realtà che Sabella conosce, vissuto sotto scorta dal 1992 al 2007. Gli ultimi arrivati si affrettano verso la sala, resta la speranza di chi ha scelto di combattere il crimine con una sola arma, la penna. “Se qualcuno, dopo aver visto il film, penserà che quello che ho fatto si può imitare - conclude Angeli - anche questa sarà una vittoria contro la mafia”. Al film è stato attribuito il Nastro d’argento della Legalità, assegnato dal Sindacato giornalisti cinematografici insieme a Trame, il festival dei libri sulle mafie diretto da Gaetano Savatteri per sottolineare il valore di denuncia di quel cinema di impegno civile che ha ritrovato una nuova stagione di vivacità. Settemila soldati italiani nel mondo e spiccioli per la cooperazione di Luciano Bertozzi Il Manifesto, 5 giugno 2019 Missioni italiane all’estero. Sotto egida Nato, Onu o Ue, truppe tricolori su molti fronti caldi e non si parla più di ritiro. Per le missioni militari all’estero 2019 il costo complessivo è di oltre 1.100 milioni di euro ed appena un centinaio di milioni per la cooperazione allo sviluppo, con un rapporto spesa militare/cooperazione pari a 10 a 1. Ecco i numeri del provvedimento con cui il governo ha chiesto al Parlamento l’autorizzazione alla proroga delle missioni stesse. La consistenza massima annuale è di oltre 7.000 soldati (- 624 unità rispetto al 2018). Le missioni sono decine, di ogni tipo: Onu, Nato, Unione europea e bilaterale. Il costo delle missioni è a carico del ministero dell’Economia e Finanze, non della Difesa, con scarsa trasparenza. Il maggior numero di soldati è utilizzato in quelle in Asia (Afghanistan e lotta al Daesh). La spesa per il sostegno alle forze armate dell’Afghanistan di 120 milioni rappresenta circa il 10% dell’intera spesa delle missioni: la decisione, assunta nel 2012, appare assurda, visto che non aiuta il processo di pace e di fronte al fallimento dell’intervento militare Nato visto che, dopo 18 anni, gran parte del Paese asiatico è controllato dai guerriglieri. L’Italia è lì ufficialmente per ripristinare i diritti umani, ma addestriamo e sosteniamo anche la polizia nazionale afghana che secondo l’Onu utilizza da molti anni anche bambini, in spregio al diritto internazionale. E supportiamo l’esercito di Kabul che pure, in violazione del diritto internazionale distrugge scuole e centri sanitari e si è reso responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. Continuano gli attacchi alle scuole ed agli insegnanti, secondo le Nazioni Unite, anche da parte delle forze di sicurezza di Kabul. Continuano, sempre secondo l’Onu, gli abusi sessuali (denominati bacha bazi) praticati dai poliziotti. Sarebbe opportuno, invece, una forte pressione italiana per porre fine a tali abusi e condannare i responsabili. Il Movimento 5 Stelle aveva chiesto, dall’opposizione, il ritiro del contingente, ora però non ne fa più parola. L’Africa totalizza il maggior numero di missioni (le principali sono in Libia, Niger e Corno d’Africa). La missione europea in Somalia, per l’addestramento dell’esercito di Mogadiscio (Eutm Somalia), comandata da un generale italiano e con oltre cento militari italiani, permane, anche se l’Onu denuncia da anni l’utilizzo in combattimento di minori e la distruzione di scuole ed ospedali, nonché gravi violazioni dei diritti umani. Anche la polizia somala è destinataria di una missione italiana formativa che avviene nonostante le denunce di Human Right Watch di gravi violazioni dei diritti umani. Non sembra che l’Italia abbia condizionato tali aiuti al rispetto delle libertà fondamentali. Nel mediterraneo centrale e in Libia, per il “contrasto all’immigrazione clandestina” sono previste più missioni, incluso l’assistenza e l’addestramento della Guardia costiera libica e la manutenzione delle navi cedute. Nella missione europea Eunavformed-Sophia la partecipazione italiana è di 520 militari e alcuni aerei. Tale missione ha sospeso il dispiegamento di navi ma continua la formazione della Guardia costiera e della Marina libica. Non si tiene conto che in Libia c’è una guerra e si persevera nell’aiutare la Guardia costiera libica, delegando ai libici il “lavoro sporco”, per evitare che i disperati in fuga dalla fame e dalle guerre arrivino sulle nostre coste. Infine nella missione bilaterale in Niger, dove sono presenti quasi trecento soldati. Ma il Niger, uno dei Paesi più poveri del mondo, ha bisogno di cooperazione, non di armi. Salvini: “Migranti malati di tubercolosi e scabbia”. Cosa c’è di falso e di vero di Francesco Spinazzola (Medico infettivologo) Il Fatto Quotidiano, 5 giugno 2019 La scabbia, la tubercolosi (TB) possono farci veramente paura, oggi nel XXI secolo? Qualcuno grida: “dagli all’untore!” come scriveva con celata ironia nei primi decenni dell’ottocento, Don Lisander, nel rievocare un’epoca lontana e tramontata definitivamente anche per lui. Può fare paura la scabbia allora? E corro il rischio di contrarla al giorno d’oggi, io cittadino della Repubblica italiana? E la TB, è veramente uno spauracchio, o solamente una malattia che se riconosciuta e isolata posso curare e debellare e soprattutto è così difficile evitare di essere contagiati? Ma per la scabbia direi, continuando a citare (saccheggiare) la grande letteratura: “So much ado for nothing”. La trasmissione avviene per stretto contatto diretto, sufficientemente prolungato ed efficace, della cute del ricevente con quella dei malati o con l’uso di effetti letterecci. Il contatto per essere efficiente deve consistere appunto di particolari condizioni di contiguità e adesione tra le superfici cutanee: nei rapporti sessuali, nell’allattamento dei bambini, nel dormire in camerate in condizioni di precaria igiene ecc. Al giorno d’oggi è un problema sanitario solo nelle RSA per anziani, nelle carceri, anche asili o scuole in alcuni casi e naturalmente nelle concentrazioni di reclute. Una categoria a forte rischio di contrarla in forma grave, tale da mettere a repentaglio l’esistenza, è quella degli ammalati di Aids: la cosiddetta scabbia norvegese o iper disseminata. Le odierne terapie combinate per l’Hiv hanno però pressoché azzerato questi casi, che sono diventati veramente eccezionali. Il trattamento prevede l’uso per due-tre giorni di creme basate su sostanze anti parassitarie come permetrina, benzoato di benzile, malathion. In alcuni casi si può somministrare anche ivernectina per os. Comunque la notificazione tempestiva e l’intervento delle autorità sanitarie preposte ha sempre consentito di circoscrivere agevolmente i focolai e sottoporre ad adeguate cure i casi. Questo è sempre avvenuto anche nell’eventualità di persone affette da scabbia provenienti da sbarchi. Non è un problema emergente di carattere sanitario la scabbia. Malattia facilmente riconoscibile e prontamente curabile. Non c’è dubbio, non lo si può negare, invece che la TB costituisce un problema sanitario di primaria importanza per la popolazione immigrata, soprattutto se incontrollata; è un grande problema che riveste un pubblico interesse per il nostro paese come per altri a bassa incidenza. La tendenza crescente dei casi, la gravità della malattia spesso associata all’infezione da Hiv e soprattutto la crescente resistenza ai farmaci, le fa assumere connotazioni drammatiche. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che la tubercolosi è principalmente una malattia sociale, che colpisce ingiustamente soprattutto i poveri. In realtà i fattori legati alla povertà di pari passo con il peggioramento delle condizioni di vita e del conseguente stato nutrizionale aumentano le probabilità di infezione e anche la successiva progressione verso la malattia attiva. L’attuale situazione epidemiologica della tubercolosi in Italia è caratterizzata comunque da una bassa incidenza nella popolazione generale, e i casi sono per lo più concentrati in alcuni gruppi a rischio. Dal 2004 al 2014, sono stati notificati circa 4300 casi/anno di TB; il 52% si sono verificati in soggetti stranieri con un aumento su base fissa, parallelamente all’aumento del numero di immigrati in Italia, nella percentuale dei casi segnalati fra “cittadini non italiani”. Per cui si è passati dal 44% nel 2005 a 66% nel 2014. La presenza di immigrati da zone altamente endemiche è considerato da molti autori il co-fattore più importante, insieme con l’infezione da Hiv, del recente rinfocolarsi della tubercolosi segnalato in Italia Il miglioramento delle condizioni di vita e la libera offerta a chiunque ne sia affetto di farmaci specifici e di cure di buon livello ridurrebbero certamente l’incidenza di TB e azzererebbero ancor di più un rischio che per il cittadino è comunque pressoché zero. È pertanto un problema di organizzazione sanitaria appropriata, capace di erogare un servizio di pronta sorveglianza e isolamento dei casi, nel contesto di un’efficiente accoglienza degli immigrati. Si tratta di consentire un facile e immediato accesso, non solo alle cure specifiche, ma anche ad un’assistenza completa e sicura, fino alla sterilizzazione dei casi e dei focolai eventuali. Del resto uno degli obbiettivi dell’Oms-Who è proprio quello di agire attivamente anche sui determinanti della salute, la povertà in primo luogo, e in senso lato la protezione sociale per ridurre il carico finanziario e umano che comporta la diffusione dei casi di TB e/o altre temibili malattie. Libia. L’Unhcr assicura il rilascio di 96 detenuti dal centro di detenzione di Zintan unhcr.it, 5 giugno 2019 Novantasei persone sono state trasferite ieri dal centro di detenzione di Zintan, situato a Tripoli, in Libia, a un Centro di Raccolta e Partenza. Il gruppo era composto da detenuti provenienti da Somalia, Eritrea ed Etiopia, e includeva due neonati. L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sta garantendo che il gruppo riceva cibo, alloggio, assistenza medica, supporto psicosociale, nonché indumenti, scarpe, kit igienici e coperte. Le persone resteranno nella struttura in attesa di essere evacuate fuori dal Paese. Nel centro di Zintan le condizioni sono terribili. Le aree comuni sono sovraffollate e non dispongono di sufficiente aerazione. In alcune zone del centro i servizi igienici sono intasati e necessitano urgentemente di riparazioni. Di conseguenza, rifiuti solidi e organici si sono accumulati da giorni nelle celle e comportano seri rischi per la salute. Le tensioni fra i detenuti aumentano, a causa di agitazione e disperazione. In totale, 654 rifugiati e migranti restano ancora detenuti a Zintan. È necessario percorrere immediatamente tutte le opzioni disponibili per liberare i detenuti restanti. Dal momento che a Tripoli non vi è attualmente alcun centro di detenzione adeguato per ospitare rifugiati e migranti, in parte a causa delle ostilità in corso, l’Unhcr ribadisce l’appello alla comunità internazionale affinché siano effettuate ulteriori evacuazioni di rifugiati dalla capitale. Il numero delle persone condotte nei centri di detenzione dopo essere state soccorse o intercettate al largo delle coste libiche aumenta assai più rapidamente del numero di coloro che vengono evacuati. Nel solo mese di maggio la Guardia Costiera libica ha ricondotto in Libia un numero di persone (1.224) più elevato di quello registrato nell’insieme dei restanti mesi del 2019. È necessario rinnovare gli sforzi volti a impedire che le persone soccorse o intercettate nel Mediterraneo centrale siano ricondotte in Libia. Fra gli altri fattori, poiché le condizioni di sicurezza in Libia sono estremamente instabili, non vi è alcun porto sicuro nel Paese dove i rifugiati e i migranti soccorsi possano essere fatti sbarcare. Condannati a morte in Iraq, la sorte degli europei dell’Isis lanuovabq.it, 5 giugno 2019 La magistratura irachena ha condannato a morte i primi 11 foreign fighters, cittadini francesi arruolati volontari nell’Isis. Gli attivisti dei diritti umani accusano il tradimento del diritto. Il governo non vuole intervenire nelle decisioni dell’Iraq. E il ritorno dei foreign fighters è visto da tutti i paesi come un pericolo. Il diritto europeo è a un bivio. La magistratura irachena ha concluso la prima tornata di processi a carico di undici cittadini francesi, accusati di essersi uniti alle fila dello Stato Islamico. Per tutti, identica sentenza: pena di morte per reati connessi al terrorismo. Una vicenda che solleva una profonda riflessione all’interno della società francese e, più in generale, di quella europea. Il dilemma tra il rimpatrio dei foreign fighter e la loro condanna a morte riguarda tutti i Paesi europei, sospesi tra la critica morale della pena capitale e l’accettazione della sentenza, che risolverebbe la questione, tra le più complesse, del ritorno di propri cittadini, divenuti combattenti in terra straniera, e possibili “schegge impazzite” del Califfato. I foreign fighter condannati - i primi di almeno 450 cittadini francesi, detenuti all’interno dei campi curdi siriani - erano stati catturati dalle forze curde siriane, poi estradati in Iraq lo scorso febbraio, grazie alla collaborazione tra il presidente francese, Emmanuel Macron, e il suo omologo iracheno, Barham Salih. I processi che hanno portato alla loro condanna a morte si sono tenuti in poco più di una settimana, tra il 26 maggio e il 3 giugno. I combattenti francesi sono stati accusati di aver violato la legge sul terrorismo irachena, essendosi uniti a un’organizzazione terroristica - lo Stato Islamico. Secondo il giudice Ahmed Ali Mohammed, presente ai processi, gli undici avrebbero avuto un ruolo importante nella legittimazione dell’organizzazione a livello internazionale. I francesi potrebbero non aver mai messo piede in Iraq prima del processo, ma questa circostanza non è stata considerata per determinare la loro colpevolezza, dal momento che i crimini dell’Isis in Siria avrebbero avuto conseguenze dirette sull’Iraq. Con la sconfitta territoriale dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, Baghdad si è offerto di gestire i processi contro le centinaia di persone catturate dai curdi siriani, sospettate di avere legami con l’organizzazione terroristica. Tra le pene previste dalle norme irachene vi è anche la condanna a morte. L’Iraq sarebbe uno dei Paesi con il più alto tasso di pene capitali a livello internazionale, mantenendo il primato insieme a Iran e Arabia Saudita all’interno della regione Mena. Nel 2018, le condanne a morte eseguite in questi Paesi sarebbero state il 91% del totale delle pene capitali nella regione. Per questo, la reazione delle organizzazioni per i diritti umani e di avvocati di spicco sulla scena francese non si è fatta attenere. Oltre a condannare il ricorso alla pena capitale come principio, essi hanno accusato il governo francese di mancare nella tutela dei suoi cittadini all’estero. In particolare, quarantacinque avvocati difensori hanno firmato una lettera - pubblicata da France Info - accusando l’Eliseo di aver violato la costituzione e di aver strumentalizzato la minaccia del terrorismo per giustificare l’erosione delle protezioni per sospettati e detenuti. Una posizione difficile quella in cui si trova il governo francese, che da un lato, sul piano dei principi, ha condannato il ricorso alla pena di morte; dall’altro, ha però riconosciuto la competenza statuale delle autorità irachene. Si tratta di processi giusti, secondo Parigi, che ha ripetutamente rifiutato il ritorno in patria dei suoi foreign fighter. “Sono persone che hanno lasciato il territorio francese per combattere, tra l’altro, la Francia, e sono colpevoli di violenze terribili, in particolare in Iraq” - ha dichiarato Laurent Nuñez, segretario di Stato agli affari interni francese - “L’Iraq è uno Stato sovrano che dispensa giustizia. Non abbiamo alcun motivo per opporci al fatto che questi individui vengano giudicati là”. Allo stesso tempo, la Francia ha assicurato che si impegnerà a trasformare la sentenza da pena capitale all’ergastolo. Parigi non è l’unica a dover affrontare questo dilemma. Al momento, nelle prigioni curde siriane, sono detenuti almeno 800 cittadini europei. Se la nazionalità europea dà diritto ai jihadisti di tornare nei Paesi di origine, il loro rientro rappresenta tuttavia una possibile minaccia per la sicurezza nazionale, a causa della profonda ideologizzazione e delle competenze acquisite sul campo di battaglia. Una questione che merita una riflessione preventiva, dal momento che, se non rimpatriati, questi individui potrebbero essere giudicati da tribunali iracheni, rischiando la stessa sorte dei cittadini francesi. Stati Uniti. Ex carcerato diventa influencer raccontando la vita in prigione di Riccardo Luna agi.it, 5 giugno 2019 Si chiama Joe Guerrero e dopo aver scontato una condanna di 7 anni per reati non violenti ha aperto un canale YouTube, “After Prison Show”, che ha 1,2 milioni di iscritti ai suoi video quotidiani dove vende magliette e disegni di galeotti. Questo e altri canali simili hanno il merito di restituire umanità ad un mondo di persone che hanno sbagliato e cercano di reinserirsi. “Questa è una storia di speranza. Di determinazione. Di ispirazione. Ma anche di divertimento”. Sono parole di Joe Guerrero, 36 anni, il più improbabile influencer del web. È un ex carcerato: sette anni di galera, si è fatto, prima di aprire, nel 2015, un canale YouTube. Lo ha chiamato After Prison Show, lo spettacolo dopo la galera, e l’idea era di raccontare com’è la vita una volta che torni in libertà, i tentativi di reinserirti nella società, trovare un lavoro. Una specie di “Orange is the new black”, la serie tv di Netflix. Ma vera. Oggi il canale ha 1,2 milioni di iscritti, molti dei quali sono abbonati che pagano 4,99 dollari al mese per avere l’anteprima dei video che Joe Guerrero pubblica con regolarità quotidiana o quasi. Molti sono ironici, come quello che mostra il confronto fra quello che puoi mangiare in carcere spendendo un dollari o con dieci dollari (oltre due milioni di visualizzazioni in un anno). Ma il record di traffico lo ha fatto il video che ti insegna a parlare come un galeotto, lo slang del carcere, che è arrivato a tre milioni; battuto soltanto da quello in cui Joe racconta come il saper fare i tatuaggi gli abbia salvato la vita dietro le sbarre (oltre quattro milioni). Negli ultimi giorni Guerrero si è dedicato a raccontare come giocare a poker, o come cucinarsi del cibo cinese, o fare i soldi in carcere. Ma ci sono anche storie molto meno allegre, come la serie che Guerrero ha dedicato ad un galeotto che è uscito dopo 40 anni di carcere per reati molto gravi. Il più importante però è il video pubblicato il 24 gennaio 2017 in cui Guerrero racconta perché è finito in carcere: in breve, perché lo hanno beccato con un po’ di cocaina e una pistola che non aveva mai usato. Banalità, ma lui racconta quel giorno come fosse un film. Allora, stava guidando un’auto che non poteva guidare perché non aveva la patente, era della sua fidanzata, e la polizia lo ha inseguito perché stava parlando al telefonino con un tale che gli doveva sessanta dollari, “ci pensate? Ho fatto 7 anni di galera per 60 dollari?”, e da lì sono partiti una serie di rocamboleschi inseguimenti che manco in una scena dei Blues Brothers. Ma questo non era un film, Joe Guerrero si è fatto sette anni di carcere davvero, e oggi quel canale YouTube è il suo lavoro, pare guadagni più di 100 mila dollari l’anno: lo usa anche per vendere t-shirt griffate di After Prison e i disegni dei galeotti, come quelli di un certo Doug, che sta scontando 1800 anni di galera, avete capito bene, 1800, io non so cosa devi aver fatto per meritare 1800 anni di carcere e certo Doug non deve essere una bella persona. Ma il vero merito di After Prison e degli altri canali dedicati alla vita in carcere, è di restituire una umanità a questo mondo, di rendere più facile ricominciare daccapo. Perché anche a questo dovrebbero servire le pene.