Mauro Palma: “Gli arresti non servono, se manca la rieducazione non c’è più sicurezza” di Marco Grasso Il Secolo XIX, 4 giugno 2019 Il Garante nazionale dei detenuti lancia l’allarme: “Senza reinserimento le azioni politiche sono destinate al fallimento”. “In cella c’è tutto ciò che non affrontiamo più. Dalle malattie mentali alla povertà, dalle dipendenze alle diseguaglianze”. Quando si parla di sicurezza, si pensa solo ad arrestare la gente. E spesso ci si dimentica una cosa delle persone in galera: prima o poi usciranno. E se non facciamo niente per recuperarli, il problema non è solo loro, ma anche nostro, perché ritorneranno a delinquere”. Mauro Palma, matematico e giurista, già fondatore e presidente dell’associazione Antigone, del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e del Consiglio europeo per la cooperazione penalistica, è l’attuale Garante nazionale dei detenuti. È abituato a navigare controcorrente, come quando pubblicò un rapporto molto critico sul regime del 41bis, il carcere duro per i mafiosi. “So che parlare di temi come la rieducazione e il recupero dei carcerati non va molto di moda ma il mio non è un discorso buonista: io parlo di prevenzione della sicurezza”. Cosa intende, professore? “Non possiamo solo occuparci di come rinchiudere le persone. È fondamentale, anche per la sicurezza delle nostre città, accompagnarne il percorso di ritorno alla vita civile. Altrimenti è un circuito vizioso. Sento invocare spesso la galera. Attenzione: questo approccio non è la soluzione, ma un rinvio dei problemi”. Può spiegare meglio? “È semplice: il 70% delle persone che scontano una pena in cella, nell’arco di 5 anni torna a commettere reati. In carceri modello, come Bollate, dove i detenuti lavorano e le celle non sono chiuse, questa percentuale scende al 18-20%”. Una delle critiche a questo argomento mette in luce il fatto che quei detenuti sono selezionati a monte. “È vero. Io non affermo che tutti possano essere rieducati. Penso però che potremmo limitare, e molto, i danni. Tra il 70 e il 20% c’è un mondo”. Chi c’è oggi è in prigione? “Purtroppo il carcere è un contenitore di questioni irrisolte”. A cosa si riferisce? “Parlo di povertà, di dipendenze, di malattie mentali. Più lo Stato si indebolisce, e rende più fragili le strutture sul territorio, il welfare, più deleghiamo tutto alla repressione. Ma è un’illusione”. Qual è la fotografia delle carceri oggi? “Quella di un mondo diseguale. Basta guardare i numeri: bassa alfabetizzazione, spesso nessun posto dove andare. È chiaro che una volta fuori, senza un accompagnamento, sostegno, si troveranno disorientate. Oggi stiamo ritornando a una situazione simile a quella del Regno d’Italia: in carcere c’è soprattutto marginalità”. Che tipo di reati scontano i carcerati in Italia? “La metà dei 60mila detenuti italiani sono in carcere per droga. Cinque su sei, parliamo di circa 50mila persone, se aggiungiamo a questa popolazione chi ha commesso reati contro il patrimonio o predatori. Droga, furti, rapine. Ovvero i reati con la più alta percentuale di recidiva”. Quali sono le sue ricette? “Prima di tutto bisogna ridare responsabilità ai detenuti. Il lavoro è un modo di affrancarsi, ma le percentuali sono molto basse. Ciò che accade spesso è il contrario: l’infantilizzazione di queste persone. Se trattiamo degli adulti come fossero bambini, se li teniamo a non fare niente, non usciranno mai dalla mentalità assistenzialista. Una volta fuori, si aspetteranno un sostegno che non arriverà. E quindi ritorneranno sulla vecchia strada”. Cosa manca? “Percorsi che indirizzino la seconda fase, il reinserimento. Penso a commissioni che seguano il detenuto, lo supportino ed eventualmente valutino se merita o no di compiere un percorso di riabilitazione. Una sorta di libertà vigilata, un organo di supporto e controllo. E fino a questo punto non ho ancora fatto cenno a un altro aspetto: che la pena debba tendere alla rieducazione lo dice la nostra Costituzione”. Ritorniamo alla questione sicurezza. I reati diminuiscono, ma aumenta l’insicurezza. Come lo spiega? “Da un lato è un meccanismo psicologico. La società italiana di trent’anni fa era molto più violenta, c’erano il doppio degli omicidi. Oggi ci sono meno crimini violenti. E l’allarme sociale arriva dalla minaccia alle cose. Un fenomeno tipico di una società che si è arricchita”. Le periferie sono in forte sofferenza… “Quando dico che non si può pensare di risolvere il problema sicurezza solo con il carcere, penso soprattutto alle periferie. Un tempo c’erano le parrocchie, i partiti. Oggi tutto questo non c’è più. Dobbiamo trovare vie per rendere il territorio vivo, ricreare un senso di comunità”. Esistono soluzioni? “Dovremmo investire nella battaglia contro la dispersione scolastica, finanziare chi intercetta ragazzini che stanno sulla strada invece di andare a scuola. Dovremmo lavorare sulle dipendenze, sostenere il lavoro e le strutture sul territorio. Più questi presidi vanno in difficoltà, più il senso di insicurezza crescerà. La scorciatoia repressiva piace perché è più rassicurante e immediata. In inglese è più facile che in italiano, dove l’ambiguità è anche linguistica. Sicurezza si dice con due parole: “security” e “safety”. Noi pensiamo molto alla prima, sperando che arrivi anche la seconda. Mai due concetti sono diversi. Non saremo più “safe” solo con politiche securitarie”. La Corte Costituzionale entra nelle carceri di Nicoletta Tamberlich ansa.it, 4 giugno 2019 Film documentario di Fabio Cavalli, speciale Tg1 il 9 giugno. In celle affollate, dove si fanno i turni per giocare a calcetto, dove la luce filtra obliqua attraverso le grate ingombre di panni, in corridoi dove braccia coperte di tatuaggi si allungano al di là dei chiavistelli, in quelli femminili in reparti appositi ci sono anche donne con bimbi piccoli di un anno, ma nelle celle di massima sicurezza anche chi stende il tappeto verso La Mecca. “La Corte sentiva il bisogno di uscire dal Palazzo, per conoscere e per farsi conoscere”, sostiene il presidente Giorgio Lattanzi. “Viaggio in Italia”, un film di Fabio Cavalli, prodotto da Rai Cinema e Clipper Media, è la storia di molti incontri, di un’umanità dolente e di vite che la Carta costituzionale non trascurava. Va in onda domenica 9 giugno in seconda serata all’interno dello Speciale Tg1 su Rai 1- con una anteprima mercoledì 5 giugno alle 20.30 all’Auditorium Parco della Musica, alla presenza del presidente della Repubblica Mattarella. Sette giudici della Corte Costituzionale (Lattanzi, Amato, Cartabia, Coraggio, De Pretis, Sciarra, Viganò) incontrano i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile, il carcere minorile di Nisida. Ad accompagnarli, l’agente di Polizia penitenziaria Sandro Pepe. Per la prima volta dalla sua nascita, nel 1956, la Corte costituzionale - giudice delle leggi e non delle persone, anche se le sue decisioni incidono profondamente nella vita delle persone - decide di entrare nelle città con le sbarre. Il Viaggio parte da Rebibbia, con la partecipazione di 12 giudici e del Presidente Giorgio Lattanzi, alla presenza di 220 detenuti, pubblico e autorità istituzionali. Una diretta streaming consente di “esserci” anche a 11mila detenuti di altre carceri d’Italia, per seguire un incontro assolutamente inedito, che non ha precedenti nel mondo. Il film è il racconto dell’incontro (iniziato nel 2018 e diventato oggi un docu-film) tra due umanità: da un lato la legalità costituzionale, dall’altro l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Attraverso la fisicità, l’ascolto, il dialogo, il Viaggio diventa occasione di uno scambio reciproco di conoscenze, esperienze. Ma è anche la metafora di un linguaggio che non conosce muri, e che anzi li attraversa, perché ritrovato e condiviso della Costituzione, “la casa di tutti, soprattutto di chi è più vulnerabile”. “Voi siete parte di questa comunità che è la Repubblica italiana”, dice la vicepresidente della Corte, Marta Cartabia. Molto toccante il viaggio di Giuliano Amato al minorile di Nisida. Per sei giovani vi sarà dopo l’occasione di andare a Roma a una riunione a incontrare oltre a tutti i rappresentati della Corte le più oltre a alte cariche dello stato. “Il diritto all’affettività merita un’attenzione speciale”: ha spiegato alle detenute rinchiuse nel carcere femminile di Lecce la giudice De Pretis. Dietro la macchina da presa Fabio Cavalli, attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Nel 2012 è sceneggiatore di “Cesare deve morire” dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Orso d’oro alla 62a edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, candidato italiano agli Oscar 2012). “L’intento - spiega Cavalli - è aprire lo sguardo sugli aspetti della realtà che non stanno in luce, coperti dal bagliore dei rilievi; trovare l’ombra nel tuttotondo. Storie di viaggi e incontri; uomini, donne, persone uniche e comuni (i Giudici, i Carcerati, il Personale penitenziario); storie di luoghi inaspettati (le Carceri, il loro habitat architettonico e il loro contesto antropologico); e storie di paesaggi visivamente potenti, il loro spirito profondo, quello che il tempo disegna, incidendo anche lo spirito del popolo che li abita. Dare tridimensionalità alla Costituzione della Repubblica Italiana, attraverso i punti di vista dei suoi custodi e interpreti: i giudici. E fare altrettanto con quel “sistema della pena”, tanto evocato, vilipeso o invocato, e, fondamentalmente, sconosciuto. Gli uomini e donne dell’Istituzione e gli uomini e donne che l’hanno violata, potrebbero riuscire, nel loro incontro, a gettare un po’ di luce fra le ombre”. Gli universitari Luiss “ambasciatori di legalità” tra i liceali e gli studenti dei carceri minorili di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2019 Una missione, una sfida. Diventare “ambasciatori della legalità”: 80 universitari della Luiss, guidati da 23 tutor, hanno incontrato in tutt’Italia gli studenti di venti istituti scolastici superiori, uno per regione. E quelli degli istituti penali minorili di Nisida e Casal del Marmo. In ogni scuola è nato un laboratorio su temi come la lotta alla corruzione e alla mafia, l’integrazione sociale, la cittadinanza attiva, la lotta al bullismo. Giovani e giovanissimi a discutere e progettare azioni concrete, a condividere idee, a confrontarsi sul modo di pensare e di reagire, a trovare una sintesi unitaria di valori e di cultura nonostante esperienze e identità differenti. Nato da un’idea di Paola Severino il progetto “Legalità e Merito”, giunto alla seconda edizione, ieri ha visto la premiazione alla Luiss con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il vincitore: la “Scala Legale”. I liceali dell’istituto “G. Caboto” di Chiavari hanno ideato “Scala legale”, un gioco da tavola per educare alle regole di realizzazione corretta di un’opera pubblica: primi classificati. Ma tra i finalisti ci sono stati anche i ragazzi di Nisida e le loro riflessioni su legalità e istituzioni. E un cortometraggio su un padre di famiglia che si rifiuta di pagare il pizzo a cura degli studenti del liceo classico Garibaldi di Palermo. Giuseppe Conte sottolinea: “La cultura delle regole è il tessuto connettivo che innerva di sé la nostra società. In sua assenza la pacifica convivenza non sarebbe possibile”. Tra i ragazzi, la politica e le istituzioni trovano una nuova dimensione di riconoscimento e legittimazione. Si rinnova così il loro senso più nobile. Una “nuova narrazione sul senso della giustizia”. Nell’aula magna della Luiss gremita dagli studenti si riconosce un clima di entusiasmo, di speranza e di ostinato ottimismo. Oltre al premier Conte ci sono il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il numero uno della direzione nazionale Antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero de Raho, il presidente dell’Authority anticorruzione Raffaele Cantone. Alte cariche dello stato che nulla tolgono ai sorrisi dei ragazzi, anzi rilanciano le loro energie e il desiderio di cambiamento. “Il progetto Legalità e Merito è testimonianza di una nuova narrazione sul senso della giustizia e della lotta alla corruzione - sottolinea la presidente della Luiss, Emma Marcegaglia - aumenta il capitale sociale, è un dialogo tra giovani e giovanissimi per alimentare il valore delle regole. Quest’anno per la prima volta ha coinvolto anche i ragazzi reclusi a Nisida e Casal del Marmo: hanno commesso errori ma vogliamo aiutarli in un cammino rieducativo”. Un processo di impegno e responsabilità personale e collettivo. Può e deve partire fin da quando si è giovani per avere forza e continuità. Il senso di un lavoro e di un incontro. Non era scontato ottenere risultati e progetti in quantità e qualità dall’incontro tra gli studenti universitari, quelli liceali - in molte zone urbane svantaggiate - e i ragazzi degli istituti di pena. È Paola Severino, vicepresidente Luiss, a spiegare il senso profondo di questo processo. “Confrontandosi sui valori della giustizia e del merito si coltiva una cultura comune basata sulla responsabilità individuale e il senso della collettività. Luiss crede alla necessità di formare una generazione di giovani ambasciatori della legalità”. E aggiunge: “Ai giovani che vivono in aree disagiate o ad alta densità criminale occorre spiegare che il rispetto della legge premia sempre. E che i sogni di crescita si possono realizzare se si coltiva il merito”. Premiati anche i ragazzi impegnati nel percorso di recupero nelle carceri minorili. I temi sono tutti sul tavolo: stop alla corruzione, lotta contro la cultura mafiosa, il bullismo, impegno per l’accoglienza e l’integrazione. La sfida è dare concretezza di azione duratura a questo impegno, certo l’entusiasmo e ogni progetto raccontato ieri mettono al bando ogni retorica. Il paradosso della legittima difesa di Luigi Manconi La Repubblica, 4 giugno 2019 La norma, brandita come una spada da Salvini per affermare una concezione privatistica della sicurezza, gli si è ritorta contro. Una sentenza ha affermato che è legittima la difesa destinata a tutelare il primo dei diritti umani: quello alla vita. Per un malizioso paradosso della storia, la norma sulla legittima difesa, brandita come una spada fiammeggiante dal ministro dell’Interno per affermare una concezione privatistica e proprietaria della sicurezza, gli si è ritorta contro. Una sentenza del 23 maggio scorso del Tribunale di Trapani ha affermato che è legittima la difesa destinata a tutelare il primo e fondamentale dei diritti umani: quello alla vita, quando essa è minacciata da un potere dispotico, dai suoi apparati armati e dai suoi istituti di privazione della libertà. Un passo indietro. L’8 luglio del 2018, 67 tra migranti e profughi vengono soccorsi nel Mar Mediterraneo dalla motonave italiana Vos Thalassa, che si dirige verso la Libia per “restituirli” nelle mani di coloro dai quali sono fuggiti. I naufraghi, tuttavia, impongono un cambiamento di rotta verso le coste italiane, sono raccolti dal pattugliatore Diciotti e avviati al porto di Trapani, dove dovranno aspettare cinque giorni prima che sia loro consentito lo sbarco. Il ghanese Ibrahim Amid, 27 anni, e il sudanese Ibrahim Tijani Busharano, 32 anni, indicati come capi “dell’ammutinamento”, vengono arrestati e portati nel carcere di Trapani, accusati di “violenza, minaccia e resistenza aggravata a pubblico ufficiale” e di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Dieci giorni fa, il giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Trapani, Piero Grillo, ha emesso una sentenza nella quale si afferma che “il fatto non costituisce reato” e ha mandato assolti Ibrahim Amid e Ibrahim Tijani Busharano, ordinandone la scarcerazione immediata. La sentenza è di elementare e assoluta ragionevolezza: e segna, oggi più che mai, un passaggio importante nella storia materiale dei diritti umani e del loro faticoso combattimento per la sopravvivenza (un vero e proprio corpo a corpo) in un mondo ostile. Il procedimento ha seguito un iter complesso. Su richiesta del pm, il giudice per le Indagini preliminari aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e l’ordinanza di custodia cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame di Palermo. Poi, il 23 maggio, l’udienza per il rito abbreviato, richiesto dagli imputati, ha un esito tutt’affatto diverso. Come si è detto, il gup assolve gli imputati, ritenendo sussistente la legittima difesa. Attendiamo di leggere le motivazioni, come usa dire, ma da quanto si può sapere e dedurre viene ribadito un principio essenziale: di fronte al pericolo rappresentato dalla consegna a un regime liberticida resistere è legittimo. Di più, è un diritto. E dovrebbe essere superfluo ricordare che la non ottemperanza a un ordine ingiusto è parte integrante del processo di formazione del diritto moderno e ne costituisce una delle leggi per così dire “sacre”. Alla luce di queste, e della loro trascrizione nei codici, va considerata la questione della natura legittima o illegittima della difesa nei confronti di un pericolo quale quello rappresentato per i profughi dal ritorno coatto in Libia. Così, dopo i dettagliati rapporti delle Nazioni Unite e degli organismi indipendenti, dopo le decine e decine di reportage e testimonianze, raccolte laddove si consumano le crudeltà più efferate, oggi è un giudice italiano ad affermare, con la forza di una sentenza, che la Libia non è un luogo sicuro. Fuggirne è, dunque, giusto. Parallelamente, è stato attivato un altro procedimento presso la Corte europea dei Diritti umani, che già ha dichiarato l’ammissibilità di un ricorso presentato dagli avvocati Marina Mori e Paolo Oddi. Sulla base di una consolidata giurisprudenza della Corte, si è sollevata la questione della pesante interferenza a opera di autorità pubbliche, che potrebbe condizionare la regolarità del “giusto processo” sui fatti del luglio 2018 e la loro valutazione da parte dell’opinione pubblica. Già prima che i naufraghi sbarcassero in Italia, i ministri Salvini e Toninelli sbraitavano contro “i facinorosi” e “i violenti dirottatori”, che “dovevano scendere in manette” ed essere “puniti senza sconti”. Un’interpretazione davvero strampalata del principio costituzionale della presunzione di innocenza e una rivendicazione tracotante del garantismo per censo. Csm a rischio scioglimento, oggi il plenum della verità di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 giugno 2019 Sarà una seduta da resa dei conti. O forse sarà l’inizio della ricomposizione. In ogni caso il plenum previsto per le 16.30 di oggi si annuncia come il crocevia decisivo per il Csm. Con i rappresentanti di Magistratura indipendente Antonio Lepre e Corrado Cartoni pronti a difendersi e i togati di Area che potrebbero raccogliere le sollecitazioni, arrivate dal loro gruppo, che spingono addirittura per uno scioglimento del Consiglio superiore. “Ma perché dovremmo dimetterci? Cosa abbiamo fatto?”. È una difesa “pancia a terra” quella di Lepre e Cartoni, accusati, nelle ricostruzioni giornalistiche, di aver “tramato” per nominare Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze, al vertice della Procura di Roma. I due togati sono finiti nel mirino per un incontro a cinque, avvenuto all’inizio di maggio, a cui hanno preso parte anche i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti e Luca Palamara, l’ex segretario dell’Anm al centro dell’inchiesta dei pm di Perugia. Dell’incontro si è avuta notizia a causa del telefono di Palamara, sotto indagine nella Procura del capoluogo umbro per presunti episodi corruttivi legati ad alcune nomine avvenute nella scorsa consiliatura. Il cellulare, infettato con il micidiale virus trojan, ha funzionato da microfono. Lepre e Cartoni hanno fatto sapere che parleranno oggi in plenum. Ieri hanno diramato un comunicato in cui ribadiscono che il loro “comportamento” è stato “improntato alla massima correttezza” e che “Marcello Viola è il miglior candidato per la Procura di Roma”. Le tensioni fra i gruppi della magistratura associata si sono scatenate all’indomani del voto in commissione sul successore di Giuseppe Pignatone alla guida dell’ufficio inquirente della Capitale. Di cosa si sia discusso nella cena di inizio maggio non è noto. Ma il “faro” è inevitabilmente puntato sui carichi pendenti di Lotti, indagato dalla Procura di Roma nell’indagine Consip e renziano di ferro. Come l’attuale vicepresidente del Csm David Ermini. Dietro le accuse ai due togati di “Mi”, a Palazzo dei Marescialli c’è chi vede un attacco all’ex responsabile Giustizia dei dem. Nel plenum straordinario convocato per oggi pomeriggio, dunque, le tensioni saranno fortissime. Area non nasconde di voler andare a nuove elezioni. Si tratterebbe anche dell’occasione per rimodulare gli equilibri usciti dalle urne della scorsa estate, che hanno visto in calo le quotazioni della componente progressista. In questo quadro confuso, il presidente dell’Anm, Pasquale Grasso, per ironia della sorte esponente di punta di Magistratura indipendente, sta cercando di salvare il salvabile. Mediando fra chi vuole nella giunta Anm la linea dura e chi gli ricorda che un consigliere del Csm avrà tutto il diritto di interfacciarsi con esponenti politici, anche se indagati. Ma considerate pure le distanze su altri temi, la giunta unitaria fra le correnti dell’Anm sembrerebbe destinata a vita breve. Sullo sfondo resta il nodo della scelta dei capi degli uffici. Con la fine del criterio dell’anzianità, la discrezionalità del Csm si è amplificata a dismisura. Dopo la bocciatura della modifica del Testo unico sulla dirigenza, proposta all’epoca dal togato di Mi Claudio Galoppi, che voleva introdurre paletti alle decisioni del Csm, come extrema ratio si sta ora pensando al sorteggio. Meglio affidarsi alla dea bendata che lasciar scegliere ai magistrati. L’inchiesta sui giudici e “l’idea che non muore” di Armando Spataro La Repubblica, 4 giugno 2019 Per ovvie ragioni le riflessioni che seguono non riguardano il merito del caso Palamara - di cui si occupano la Procura di Perugia, il Csm e i titolari dell’azione disciplinare - ma le sue ricadute sull’immagine della magistratura e dell’Associazione magistrati, nonché le ipotesi di riforma ordinamentale che strumentalmente sono state subito messe in campo. Tra i magistrati circolano sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che le conversazioni e gli incontri di cui si parla in questi giorni costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali. Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla Associazione nazionale magistrati e alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche. Si invoca, per porvi rimedio, la trasparenza piena delle motivazioni di ogni scelta consiliare pur se a tal fine non basta certo la pubblicità delle sedute delle Commissioni consiliari, inidonea a far emergere possibili influenze esterne. Di qui le proposte di modifica della legge elettorale per evitare - si dice - che i 16 magistrati eletti dai loro colleghi quali componenti del Csm siano semplici esecutori delle direttive dei gruppi di rispettiva appartenenza. È giunto il momento, allora, di essere chiari per uscire dal guado, anche perché in certe situazioni non sono ammesse difese corporative di alcun tipo, essendo innegabile che all’interno della magistratura e dei suoi organi rappresentativi si manifestano talvolta condotte incompatibili con il codice deontologico dell’associazione o, addirittura, previste come reati dal codice penale, frutto spesso di contiguità politiche. Ma se ciò è inaccettabile, non è facile comprendere come oggi sia possibile, persino per molti magistrati, dimenticare i valori e i fini che furono alla base, nel 1909, della fondazione dell’Associazione generale magistrati italiani (come allora si chiamava), capace di auto-sciogliersi, alla fine de11925, per il rifiuto di trasformarsi in sindacato fascista. L’Agmi lo annunciò sulla sua rivista con un editoriale dal titolo “L’idea che non muore”. Quei valori (a partire da indipendenza assoluta, indifferenza alle aspettative della politica, professionalità, attenzione al pubblico interesse e ai diritti di tutti) vanno oggi posti nuovamente in primo piano: devono vincere sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di “sindacato delle toghe” è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’Anm. Ma ciò non significa affatto disconoscere il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E - passando alle valutazioni dei disegni di legge - è accettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fondamentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Sono le regole fondamentali della democrazia. Ecco perché all’interno dell’Associazione magistrati si sono formate le tanto vituperate correnti: luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa. Certo, non si deve trascurare quanto emerso in questi giorni ma, al di là delle indagini penali e disciplinari da svolgersi nel rispetto dei diritti di tutti, la soluzione di simili problemi sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera - nel Csm, nell’associazione e nel suo lavoro quotidiano - nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza. Si deve però chiedere a politici, studiosi e a chi osserva la realtà che ci circonda di evitare ingiustificate generalizzazioni e strumentalizzazioni delle criticità nel tempo emerse. Si avrà modo di tornare sulla separazione delle carriere, nonché sui test psicologici peri magistrati, rispettivamente la più inutile e la più comica delle riforme immaginabili (di entrambe si parla pure in questi giorni), ma auspicare il sorteggio - immagino ad opera di una dea bendata che infili la mano libera nell’urna - per designare i componenti del Csm è proposta illogica, di segno qualunquistico e sicuramente anticostituzionale. Se accolta, porterebbe ad annullare la rappresentatività della magistratura che i padri costituenti vollero per il Csm, in quanto organo di autogoverno, finendo con l’umiliare proprio l’elettore e la sua dignità. E si potrebbe anche scommettere, in tempi di “giustizia predittiva” (il nuovo “verbo” dilagante anche tra molti magistrati), che qualcuno arriverebbe ad invocare, nel Csm, i robot al posto degli eletti o sorteggiati, salvo accusarli di degenerazione torrentizia alla prima occasione di malfunzionamento del software. Csm e nomine ai vertici delle procure: la scoperta dell’acqua calda camerepenali.it, 4 giugno 2019 Basta ipocrisie, è l’ordinamento giudiziario che va cambiato: separazione delle carriere e del Csm, riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nell’idea di processo dei penalisti mai posto per veline di polizia e linciaggi preventivi. La posizione della Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane. La diffusione indebita e sapiente di brandelli di notizie relative ad indagini giudiziarie in vario modo collegate alla imminente nomina dei vertici di alcune importanti Procure italiane, sta mandando in scena un avvilente spaccato della Magistratura italiana e dei suoi meccanismi di governo, ma anche un formidabile festival della ipocrisia nazionale. Come è ovvio, i penalisti italiani non intendono partecipare al morboso dibattito su presunte responsabilità penali date in pasto al pubblico senza ritegno da regie occulte, che andrebbero esse per prime individuate e perseguite. Nella nostra idea del processo penale, non c’è posto per veline di polizia, intercettazioni telefoniche sbocconcellate fornite sottobanco ad una stampa famelica, e linciaggi preventivi. L’unica cosa positiva di questo spettacolo indecoroso è che esso aiuterà almeno a facilitare la comprensione di quale autentica devastazione può comportare, nella vita di una persona, anche solo una informazione di garanzia irresponsabilmente resa pubblica. Ma è la cifra dell’ipocrisia quella che vogliamo denunziare in questa vicenda, grazie alla quale staremmo dunque scoprendo l’acqua calda, e cioè che le dinamiche sottese alla nomina dei vertici degli uffici giudiziari sono tutte interne a logiche correntizie e perciò stesso schiettamente politiche. Ci si dovrebbe piuttosto interrogare sulla ragione per la quale queste guerre senza quartiere, che possono giungere perfino -come in questo caso- all’uso della indagine penale per determinarne gli esiti, riguardino sempre e solo gli assetti degli Uffici di Procura, ed assai meno quelli degli uffici giudicanti. Si scoprirebbe allora che la ragione è la stessa per la quale i vertici della rappresentanza politica della Magistratura appartengono da decenni (con l’autentica eccezione del nuovo Presidente da poco eletto) a magistrati del Pubblico Ministero, pur rappresentando costoro poco meno del 20% della platea dei magistrati italiani. È la titolarità dell’azione penale il cuore pulsante del potere giudiziario, quella azione penale che la nostra Costituzione si ostina a pretendere obbligatoria, ma che è da sempre talmente discrezionale da consentire di distinguere addirittura, e con quale drammatica virulenza, nientedimeno che una continuità “pignatoniana” dalla sua discontinuità. Ora sarà più facile capire perché la magistratura italiana reagisce compatta e con tanta veemenza alla idea di separare le carriere e di affidare -come pure vuole quella legge di iniziativa popolare da noi propugnata- al Parlamento sovrano (che ne risponderà al corpo elettorale al più tardi cinque anni dopo) la individuazione dei criteri di priorità dell’esercizio dell’azione penale. La ragione sta non nella difesa dell’autonomia e della indipendenza della Magistratura, che nessuno intende mettere in discussione, ma nella difesa della esclusività di un potere immenso e tutto politico che appunto risiede nella titolarità dell’azione penale, e che si vuole assoluto, incontrollato e tecnicamente irresponsabile. Quando gli equilibri correntizi, dunque politici, funzionano, tutto sembra procedere per il meglio; quando quegli equilibri saltano, come oggi sta succedendo in modo clamoroso e catastrofico, si scopre l’esistenza di un’azione penale “pignatoniana” e una no, di un’azione penale a trazione fiorentina ed una a trazione palermitana, una azione penale perugina di un segno ed un’azione perugina di segno opposto. E che quelle differenze sono a tal punto decisive da meritare l’esplosione di velenose inchieste giudiziarie incrociate e di agende fitte di incontri con politici e parlamentari (e poi saremmo noi penalisti ad attentare alla indipendenza della magistratura dalla politica!). Non ci appassiona sapere come andrà a finire questa storia, perché essa è già chiarissima, per chi la vuole capire. Occorre una radicale riscrittura dell’ordinamento giudiziario che, ferma e sacra la autonomia e la indipendenza della magistratura, separi inquirenti da giudicanti anche negli organi di governo della magistratura, rafforzando in essi in modo paritario la percentuale dei membri laici, e affidando al Parlamento, cioè ad un organo politicamente responsabile e rieleggibile, criteri e priorità dell’esercizio dell’azione penale. Questa proposta di riforma costituzionale è già in discussione in Commissione Affari Costituzionali, voluta dalle Camere Penali Italiane e sottoscritta da 72mila cittadini: forse ora sarà più semplice comprenderne l’importanza e la necessità. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane I clan uccisero sua sorella ma lo Stato le nega i soldi: “Ha parenti ‘ndranghetisti” di Simona Musco Il Dubbio, 4 giugno 2019 La donna fece condannare i killer. “Ma ha parlato troppo tardi”. Ha testimoniato contro gli assassini di sua sorella Lea, costituendosi parte civile al processo. Ha raccontato quella storia in giro per l’Italia, invitando alla ribellione contro la ‘ndrangheta. Ma troppo tardi, secondo la Prefettura di Crotone, che ha deciso di negare nuovamente a Marisa Garofalo il risarcimento stabilito dai giudici che hanno condannato all’ergastolo gli assassini di sua sorella: 75mila euro, di cui 50mila a lei e 25mila alla madre ormai morta. Proprio mentre uno degli assassini - Vito Cosco - scrive in carcere una lettera con la quale si dichiara pentito del suo gesto, pur negando di aver partecipato all’omicidio e ammettendo il solo occultamento del cadavere, Ferdinando Guida, capo dell’ufficio territoriale del Governo a Crotone, ha respinto il ricorso contro la decisione già presa a dicembre del 2017 dal Comitato per il Fondo di rotazione. Con una motivazione paradossale: “Sono risultati elementi pregiudizievoli ostativi nei confronti della signora Garofalo Marisa per la stretta contiguità della famiglia originaria dell’istante alla criminalità organizzata operante in Petilia Policastro, nella quale peraltro l’istante ha continuato a vivere senza essersi dissociata”. Insomma, a macchiare il curriculum di Marisa - la cui fedina penale è totalmente immacolata - sono le parentele sbagliate, dalle quali, secondo la Prefettura, non avrebbe mai realmente preso le distanze. Ma quei legami, di fatto, sono stati spezzati anni prima che sua sorella Lea venisse uccisa: un padre ammazzato nel 1975 e un fratello fatto fuori trent’anni più tardi, entrambi caduti nella guerra tra cosche. L’unica superstite è proprio Marisa, da sempre estranea alla criminalità e per la quale “il vincolo di parentela finisce per essere una mera accidentalità”, scriveva nel suo ricorso l’avvocato Roberto D’Ippolito. Marisa, assieme alla nipote Denise, figlia di Lea, è la testimone chiave del processo che ha permesso di condannare gli assassini della testimone di giustizia, sulla cui testa pendeva una sentenza di morte sin dal 2000. Una sentenza concretizzatasi nove anni dopo, quando Carlo Cosco, ex marito di Lea, assieme al fratello e altri membri del suo gruppo criminale la rapirono a Monza, con l’obiettivo di farsi raccontare cosa aveva detto agli inquirenti, per poi ucciderla e scioglierne i resti nell’acido. Sono state dunque le parole di Marisa, costituitasi parte civile al processo, a far sì che per la sorella Lea arrivasse giustizia. Una testimonianza che, poi, ha continuato a rendere in giro per l’Italia, raccontando il sacrificio di Lea e l’importanza di dire no alla criminalità organizzata. Uno sforzo che, come ha raccontato ieri il Quotidiano del Sud, a quanto pare non basta. Il Prefetto Guida si è richiamato al “tenore letterale” dell’articolo 15 della legge 122/ 16 e all’articolo 2 quinquìes della legge 186/ 2008: Marisa Garofalo non meriterebbe quel risarcimento in quanto “la condotta dissociativa dal fenomeno mafioso, anche attraverso la costituzione di parte civile, si è manifestata solo successivamente al tragico evento”. Sottolineando, però, “l’impatto” che un provvedimento negativo rischierebbe di avere sulla “politica della collaborazione”, data anche “la notevole rilevanza mediatica delle vicende riconducibili alla famiglia Garofalo, dopo il brutale assassinio di Lea”. Ma non solo: il Prefetto ha anche fatto riferimento ad una “campagna di stampa ostile e dissacratoria” nei confronti delle istituzioni dopo il primo diniego, “che presumibilmente non mancherebbe anche in questa occasione”. Insomma: pensateci bene, altrimenti ci attaccheranno. L’altro elemento valorizzato negativamente dal Prefetto è quella telefonata tra due affiliati alla cosca di Petilia Policastro, Salvatore Comberiati e Vincenzo Carvelli, finita nell’inchiesta “Tabula Rasa” nel 2014. “Comberiati Salvatore precisava a seguito del rifiuto del programma di protezione da parte di Garofalo Lea, Miletta Santina e Garofalo Marisa, rispettivamente madre e sorella di Garofalo Lea, si rivolsero all’esponente della “locale di Petilia Policastro” onde propiziarne il ritorno nel borgo natio, al riparo da eventuali ritorsioni. Le donne però dissimularono lo stato di “pentita” di Garofalo Lea, altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino. Comberati Salvatore narrava di aver ottenuto, a tal fine, le rassicurazioni dei fratelli Cosco”. Insomma, secondo la Prefettura, “piuttosto che invocare la protezione da parte delle istituzioni, si affidò alla ‘ ndrangheta”. Ma la verità, secondo quanto spiegato dall’avvocato D’Ippolito, è diversa. Lea era allora esasperata per come veniva trattata dallo stesso Stato a cui chiedeva protezione, ma anche per il concreto pericolo che correva nonostante la tutela: l’ex marito era infatti venuto a sapere, tramite un carabiniere infedele, quale fosse la località protetta in cui si rifugiava. Molto allarmata, decise allora di uscire dal programma per tornare a Petilia, chiedendo a Marisa di intercedere per poter tornare in sicurezza a casa. Santina e Marisa si rivolsero dunque ad un esponente della locale di Petilia Policastro per consentirle di rientrare senza ritorsioni. Quella richiesta di “permesso” era dunque il sintomo della condizione di intimidazione rispetto a Carlo Cosco e sodali. Ma secondo i carabinieri, le due donne avrebbero nascosto il suo stato di testimone di giustizia, “altrimenti non avrebbero ottenuto alcuna possibilità di protezione del sodalizio petilino”. E quello fu l’unico contatto con la criminalità da parte di Marisa. “C’è una legge del cuore - scrive l’avvocato D’Ippolito nelle controdeduzioni inviate al Ministero - per cui nessuno può vietare a una sorella di aiutare la propria sorella, che vive la minaccia, l’abbandono, la solitudine”. L’impegno attivo di Marisa nella lotta alla criminalità “deve trovare un riconoscimento e un incoraggiamento. Lo Stato - conclude D’Ippolito - deve sostenere anche Marisa se vuole debellare il fenomeno della ‘ndrangheta alla radice”. Presupposti applicativi dell’istituto dell’affidamento in prova per fini terapeutici Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2019 Ordinamento penitenziario - Misure alternative alla detenzione - Affidamento in prova al servizio sociale - Istanza - Valutazione - Soggetto pericoloso - Esclusione. La concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale per scopi terapeutici non è compatibile con l’accertata pericolosità sociale del richiedente. Nel caso in esame il giudizio negativo di inidoneità della misura richiesta si è fondato sull’accertamento di una radicata dedizione al crimine del soggetto condannato, aggravata dallo stato di tossicodipendenza, dall’insuccesso delle misure alternative cui aveva avuto accesso in precedenza e dalla natura delle frequentazioni personali. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 24 maggio 2019 n. 23120. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova in casi particolari - Tossicodipendente - Persistenza della pericolosità sociale - Rigetto dell’istanza - Legittimità - Fattispecie. L’affidamento in prova per fini terapeutici, dovendo assicurare la prevenzione dei reati, non può essere concesso al condannato tossicodipendente ritenuto attualmente pericoloso, atteso che il programma terapeutico postula la collaborazione del soggetto interessato, negata in radice dalla sua stessa condizione di persona pericolosa. (Fattispecie nella quale la pericolosità sociale è stata desunta dai precedenti penali per il reato di associazione di tipo mafioso ed altri gravi reati, nonché dalle informative negative della polizia giudiziaria in merito ai persistenti legami con un sodalizio criminale). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 ottobre 2018 n. 48041. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova per ragioni terapeutiche - Condizioni - Probabile conseguimento delle finalità del programma terapeutico - Valutazione rimessa all’autorità giudiziaria - Criteri. In tema di affidamento in prova al servizio sociale, richiesto per ragioni terapeutiche a norma dell’articolo 94 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, ove ricorrano i presupposti soggettivi e oggettivi per l’applicazione dell’istituto indicati dalla citata disposizione, il giudice è chiamato a effettuare una complessa valutazione circa il probabile conseguimento delle finalità del programma terapeutico, tenendo conto della pericolosità del condannato e dell’attitudine del trattamento a realizzare un suo effettivo reinserimento sociale. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 aprile 2018 n. 16905. Istituti di prevenzione e di pena - Affidamento in prova per ragioni terapeutiche - Programma terapeutico proveniente da struttura sanitaria pubblica - Vincolatività per il giudice - Esclusione - Ragioni - Valutazione - Criteri. In tema di affidamento in prova per ragioni terapeutiche, il giudizio di idoneità del programma terapeutico proveniente da una struttura sanitaria pubblica, del quale deve essere necessariamente corredata l’istanza di ammissione al beneficio, non vincola il giudice, posto che questi è soggetto solo alla legge e non anche agli atti della Pa, ed essendo inoltre necessaria una complessa valutazione circa il probabile conseguimento delle finalità del programma proposto, in relazione ai parametri della pericolosità del condannato e della attitudine del trattamento a realizzare un suo effettivo reinserimento nella società. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 30 dicembre 2014 n. 53761. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova in casi particolari - Tossicodipendente - Programma di recupero - Valutazione - Parametri. In tema di affidamento in prova terapeutico, il Tribunale di Sorveglianza può accogliere l’istanza formulata ai sensi dell’art. 94 quarto comma del d.P.R. 10 settembre 1990 n. 309 a condizione che il programma di recupero, anche per le modalità con cui deve essere svolto, sia idoneo ad assicurare la prevenzione del pericolo che il soggetto commetta ulteriori reati. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 8 aprile 2013 n. 15963. Liti e furti, la Cassazione fa l’arbitro in condominio di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2019 Corte di cassazione - Sentenza 23800/2019. Spesso nei condomìni la convivenza è assai faticosa poiché, accanto ai problemi economici generati dalla gestione economica dell’immobile, si accompagnano dissidi di natura personale tra i vicini. E queste condotte possono trascendere e integrare reati veri e propri, sui quali in questo periodo la Cassazione si è espressa più volte. Stalking - A cominciare dal grave reato di atti persecutori, più noto come stalking (articolo 612 bis del Codice penale), che si realizza quando l’agente, con condotte reiterate o con minacce molesta qualcuno in modo da cagionare un perdurante o un grave stato di ansia o di paura, o da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto, o per costringere la vittima a cambiare le proprie abitudini di vita. Cioè, in sostanza, togliere alla persona offesa il bene della tranquillità, in modo da creare una situazione che le renda intollerabile la vita. In tale contesto si comprende la severità della Corte di Cassazione (sentenza 21750/2019) che ha dichiarato inammissibile il ricorso di due soggetti avvero una sentenza che li aveva condannati per il reato di cui agli articoli 612 bis e 659 del Codice penale. La Cassazione ratificava l’operato del giudice di appello, che aveva collegato le risultanze della polizia giudiziaria all’interno del condominio con le deposizioni testimoniali che confermavano quanto affermato dalla persona offesa. Violenza privata - Altre due sentenze, depositate il 29 maggio scorso dalla Cassazione, testimoniano le difficoltà di convivenza che sfociano non solo nell’intolleranza ma anche in ipotesi di reato diverse dallo stalking. La Corte (sentenza 23888/2019) ha infatti dichiarato inammissibile il ricorso contro una sentenza di condanna di un condomino che, avendo in odio gli altri condòmini, pronunciava frasi gravemente minacciose nei loro confronti, danneggiava il portone di ingresso dello stabile e impediva al suo vicino di uscire dall’edificio. La Corte riteneva procedibile di ufficio il reato di danneggiamento del portone (esposto alla pubblica fede), per cui non serviva una querela da parte dell’amministratore. Veniva accertato che le minacce erano accompagnate da gesti di violenza e ripetute nel tempo, ingenerando uno stato di terrore poiché originava nei condòmini il fondato timore che le minacce sarebbero, in breve, passate a forme di aggressione più marcate e devastanti. Furto di elettricità - La voglia di farsi giustizia da soli può avere anche trasformarsi in furto, come è accaduto a un condomino che si è collegato abusivamente all’impianto elettrico condominiale, rubando energia. La cosa singolare è che la ha passata liscia perché (sentenza 23800/2019) la Cassazione ha annullato, per mancanza di querela, la sentenza di condanna. La Corte, infatti constatava l’assenza, all’interno del fascicolo processuale, della querela presentata dall’amministratore e dichiarava improcedibile il delitto di furto semplice di energia elettrica commesso in danno del condomino. Infatti il condomino non è dotato di personalità giuridica ma è solo uno strumento di gestione collegiale degli interessi comuni dei condòmini, e l’aggressione, penalmente rilevante, ai suoi interessi economici presuppone la presentazione di una querela da parte dell’amministratore, debitamente autorizzato dall’assemblea. Senza patente 5 anni anche se l’incidente non provoca feriti di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2019 Corte di Cassazione - Sentenza 13508/2019. Anche un incidente di poco conto può costare fino a cinque anni di stop, se si guidava in stato di ebbrezza grave o di alterazione da droghe. È la conseguenza della linea dura scelta dalla Cassazione con la sentenza 13508/2019 su come vanno contati i tre anni nei quali non si può conseguire una nuova patente (si veda “Il Sole 24 Ore” del 21 maggio). Infatti, anche dopo incidenti del genere - senza danni a persone - il Codice della strada prevede che il prefetto sospenda in via cautelare la patente posseduta, che poi il giudice penale la revochi e che per tre anni è vietato ricandidarsi agli esami per ottenere una nuova licenza di guida. Secondo la Cassazione, il conteggio dei tre anni parte dal passaggio in giudicato della sentenza penale (di patteggiamento o condanna) e non dal giorno in cui è avvenuta l’infrazione; inoltre, il triennio non può essere ridotto del periodo di sospensione già sofferto in via cautelare. Facciamo il caso concreto di un conducente che, con alcol nel sangue superiore a 1,5 g/l, provoca un incidente in cui non si faccia male nessuno: subito gli organi di polizia intervenuti gli ritirano la patente, poi sospesa in via cautelare. Secondo una prassi consolidata, l’ordinanza prefettizia dispone sospensione graduata in base agli scaglioni dell’articolo 186 del Codice della Strada e quindi, in caso di incidente con ebbrezza grave, opta quasi sempre per il massimo: due anni. È ragionevole ipotizzare che la sentenza irrevocabile che definisce il processo penale non arrivi prima che la sospensione scada, dunque nel frattempo la patente verrà restituita, decorso il termine della sospensione cautelare. Ma, se la sentenza definitiva è di condanna, l’articolo 186, comma 2-bis del Codice prevede che la patente vada sempre revocata. E l’articolo 219, comma 3-ter ne vieta il nuovo conseguimento prima di tre anni. I conti sono presto fatti: se i tre anni decorrono dal momento dell’accertamento del fatto, e si decurta il periodo di sospensione della patente già scontato a titolo cautelare, la patente può essere nuovamente conseguita, in concreto, già dopo un anno dalla sentenza irrevocabile. Ma se, come ha stabilito la Cassazione, il termine si conta dal giorno dell’irrevocabilità della sentenza, e non può essere ridotto del periodo di presofferto, si resta senza patente per cinque anni. Insomma, nella pratica si resta appiedati per lo stesso periodo di sospensione cautelare che l’articolo 223, comma 2 riserva normalmente ai casi in cui ci sono feriti o morti. Guidare dopo avere bevuto, dunque, è sempre più un azzardo. Non solo per i danni che si possono causare, ma anche per le sanzioni. A fronte di un orientamento così severo, è forse il caso di estendere l’istituto dei lavori di pubblica utilità - il cui esito positivo consente una diminuzione fino alla metà della sanzione accessoria sulla patente - anche agli incidenti senza feriti causati da abuso grave di alcol o di droghe, per i quali oggi è vietato. Il periodo senza patente rimarrebbe severo (due anni e mezzo, tra sospensione e revoca) e lo svolgimento di lavoro gratuito in favore della collettività avrebbe effetto risocializzante, stimolando l’imputato a intraprendere effettivi percorsi di recupero per essere premiato con la restituzione anticipata della patente. Liguria: il circolo vizioso della prigione, recidivi tre detenuti su quattro di Marco Grasso Il Secolo XIX, 4 giugno 2019 Sovraffollamento, morti e assenza di fondi. E a Marassi più del 50% dei carcerati è tossicodipendente. Un detenuto su tre in carcere per droga, una percentuale che raddoppia se si tengono conto di altri reati che hanno un collegamento con il consumo di sostanze stupefacenti. Quattro su cinque per reati ad alto tasso di recidiva: spaccio, rapine, furti. Il conto finale è drammatico: oltre il 70% di persone che entrano in carcere ritornano a delinquere nell’arco di cinque anni. A questo si possono aggiungere due dati, altrettanto allarmanti: oltre la metà dei detenuti di Marassi sono tossicodipendenti seguiti dal Sert; e il livello culturale, come mostrano le statistiche sui titoli di studio (1’1% ha una laurea, il 12% un diploma), lascia intravedere una popolazione difficilmente ricollocabile nel mondo del lavoro. Un circolo vizioso, insomma. Che porta il Garante nazionale delle carceri Mauro Palma a lanciare un’accusa forte e argomentata: le politiche sulla sicurezza basate solo sulla repressione sono destinate a fallire. Per dirla con le parole di Maria Milano, direttrice del carcere di Marassi: “Oggi il carcere non è solo un luogo dove si rinchiude chi rappresenta un pericolo per la società, ma è sempre più un contenitore di povertà”. La civiltà di un Paese si misura dalla condizioni delle sue carceri, diceva Voltaire. Ma in questo caso l’allarme lanciato dagli operatori del settore non riguarda solamente la qualità della vita e i diritti della popolazione carceraria. In altre parole, ammonisce Palma, se la stragrande maggioranza dei piccoli spacciatori e dei ladri, dopo un periodo di detenzione, ritorna a fare esattamente ciò che faceva prima, concentrarsi solo sugli arresti non migliorerà la sicurezza. La fotografia delle carceri - è l’altra argomentazione di Palma - restituisce sempre più “l’immagine di una società che tenta di reprimere problemi che non riesce a risolvere in altro modo: marginalità, dipendenze, diseguaglianze, disagio mentale e comportamentale”. La dipendenza da droghe è uno dei nodi centrali del problema, come dimostrano i numeri di Marassi: oltre 300 persone, sono tossicodipendenti seguiti dal Sert. “Da sempre la droga ha un’altissima correlazione con la commissione di reati, di solito chi arriva in carcere è già dipendente - dice Roberto Drocchi, direttore del Sert genovese - Il carcere non influisce sulla popolazione di tossicodipendenti”. In altre parole, si esce dal carcere più o meno come si è entrati: la situazione forse non peggiora in termini statistici, ma non è lì che si recupera la tossicodipendenza. Qualche informazione interessante si può avere anche dai titoli di studio. L’1% dei detenuti ha una laurea (tra loro un terzo sono stranieri); il 12% ha almeno un diploma. Mentre 1.019 detenuti italiani, uno dei dati più sconvolgenti nel 2019, sono analfabeti totali. Fra i dati ci sono anche 1.800 in cella per pene inferiori a un anno: per gli operatori del settore persone che potrebbero uscire ma non hanno un posto dove andare. C’è inoltre un ritorno fittizio del reato di clandestinità. Nonostante sia stato abolito, di fatto in carcere ci sono 1.521 persone (fra cui 76 donne) detenute per aver violato prescrizioni sul soggiorno (ad esempio l’obbligo di rimpatrio). Solo nel 2018 nelle carceri liguri ci sono stati 444 atti di autolesionismo, 30 tentati suicidi, 343 colluttazioni, 46 ferimenti. I dati sul sovraffollamento parlano chiaro: Pontedecimo ospita il 160% di quanto consentirebbe la sua capienza, La Spezia e Imperia il 140%, Marassi il 130%. “Questa pressione si riverbera su altre questioni, come lo scontro tra etnie -ricorda Ramon Fresta, del Ceis - oltre un anno fa a Marassi c’è stata una rissa tra gang albanesi e sudamericane, con decine di persone coinvolte”. E ancora: dall’inizio dell’anno ci sono stati 3 suicidi, uno, gesto tragicamente simbolico, nel giorno in cui si teneva un seminario per la “prevenzione dei comportamenti suicidari”. Il 20 febbraio un detenuto di 20 anni è stato trovato in cella morto per overdose, un caso su cui ha aperto un’indagine il pm Giovanni Arena. “La polizia penitenziaria - rivendica Roberto Martinelli, segretario del sindacato Sappe - continua a consentire di scontare la pena in condizioni umane, nonostante le condizioni di degrado e le risorse scarse. I numeri sono drammatici e spesso si parla dei suicidi senza citare quelli evitati dagli agenti. “Esistono già leggi per sostenere percorsi alternativi alla detenzione - spiega Emanuele Olcese, responsabile carceri della Camera Penale - ma non vengono finanziate. E le riforme a costo zero non funzionano”. A completare il quadro finale c’è un dato: la Liguria, che fino all’autunno scorso era in compagnia della Basilicata, è l’ultima regione in Italia a non aver approvato una legge per istituire un Garante delle carceri. Un’Authority indipendente, che avrebbe il preciso obiettivo di vigilare sui penitenziari. L’istituzione dell’ombusdman dei detenuti è bloccata da due annidai veti politici incrociati in consiglio regionale, dove si litiga soprattutto (ma non solo) sui soldi. L’opposizione - Rete a Sinistra, Pd e varie associazioni che si occupano delle carceri- spingono per una figura professionale, con uno stipendio (il budget, comprensivo di una figura amministrativa, si aggira intorno ai 100mila euro l’anno). La maggioranza preferirebbe invece una carica onorifica. L’impasse è rimasta a questo punto per due anni. La Lega, inoltre, potrebbe accettare di sbloccarla in cambio della concessione politica di affiancare una figura analoga dedicata alle vittime di reati. A questo ritardo si aggiunge la scure del ministero della Giustizia si è abbattuta su un altro presidio fondamentale, il Provveditorato delle carceri della Liguria, trasferito in Piemonte. “Sono segnali preoccupanti, specie in un territorio con istituti così sovraffollati - denuncia Fabio Ferrari, presidente della Conferenza regionale volontariato e giustizia - occuparsi meno dei detenuti ha ricadute su tutti noi”. Abruzzo: Garante regionale dei detenuti, riaperto il bando chietitoday.it, 4 giugno 2019 Tra i candidati il giornalista Francesco Lo Piccolo (“Voci di dentro” Onlus). L’Abruzzo attende da anni l’elezione del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il presidente dell’associazione Voci di dentro, che da 11 anni opera nelle carceri abruzzesi, racconta il mondo dei detenuti. Continua a far discutere tra gli addetti ai lavori la mancata elezione del Garante regionale dei detenuti. Nonostante la legge istitutiva del 31 agosto 2011, ad oggi l’Abruzzo è l’unica Regione italiana a non aver provveduto alla nomina. Ci si era andati vicino quattro anni fa, quando si proposero 17 candidati, ma non si arrivò mai alla nomina. Complice anche una legge regionale che richiedeva la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli. Adesso la Regione ci riprova e per la seconda volta ha pubblicato l’avviso per la presentazione delle candidature alla carica di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il termine è fissato per martedì 4 giugno 2019. Stavolta però, le cose potrebbero andare diversamente: la Regione ha infatti stabilito che se dopo tre votazioni nessun candidato raggiungerà il quorum richiesto (maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli) potrà essere eletto garante chi raggiungerà la maggioranza assoluta dei voti. Forse entro il 2019 l’Abruzzo, ultima regione a non avere il Garante, potrà mettersi in regola e nominare questa importante figura di garanzia per la popolazione detenuta. Occorre dunque verificare se all’interno dell’attuale Consiglio Regionale sia possibile raggiungere il quorum e, in caso contrario, intervenire direttamente sulla legge istitutiva. Tra i candidati a riproporre la sua esperienza, dopo il bando del 2015, c’è ancora Francesco Lo Piccolo, giornalista e fondatore a Chieti della Onlus Voci di dentro, che dal 2008 coi suoi volontari opera dentro e fuori le carceri per favorire le attività e il reinserimento di detenuti e detenute ed edita una rivista omonima scritta e realizzata proprio dai detenuti. In una lettera, Lo Piccolo ci ha spiegato i motivi della sua candidatura: “La mia è una scelta d’obbligo, giusto sbocco del mio percorso: sono giornalista, sono stato consulente dell’Ordine dei Giornalisti d’Abruzzo per la “Carta di Milano”, quindi membro della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Abruzzo, poi sono stato indicato anche referente dei detenuti per i Radicali Abruzzo. Ma soprattutto sono volontario in carcere da undici anni, fondatore dell’associazione Voci di dentro, direttore del magazine Voci di dentro scritto dai detenuti di Chieti e Pescara, e promotore di diverse iniziative dentro il carcere e fuori per eliminare le condizioni che determinano situazione di disagio”. Undici anni nei quali ha imparato a conoscere da vicino i detenuti e a scoprire che spesso sono individui marginati e marginali: “Molti tra loro non hanno avuto chance, altri scientemente (chi più e chi meno) hanno compiuto scelte sbagliate e hanno fatto violenza, altri ancora o non sono stati capaci di vedere altre scelte, o non avevano che una sola scelta, o sono finiti nel circuito penale (sempre più invasivo) per un errore di un momento. Persone che hanno sì fatto soffrire, ma che a loro volta soffrono. Disuguali in un mondo ingiusto, governato oggi più di ieri da fanatismi e populismi, da un sistema sociale economico-finanziario che vede al primo posto l’utilitarismo, il profitto, il dominio, per apparire, avere, consumare. Etichettati e bloccati nello stereotipo del criminale, deumanizzati, vittime di una istituzione totale che nei fatti e a dispetto dei tanti propositi (art. 27 della Costituzione) li spoglia dei loro diritti, applicando sistemi infantilizzanti, deresponsabilizzandoli e rinchiudendoli tutti assieme (piccoli ladruncoli alle prime armi, mafiosi e camorristi, poveri e ricchi, stranieri, giovani e vecchi, malati e sani, dipendenti da sostanze, alcool, gioco, colletti bianchi, eccetera) in sezioni e celle molto spesso per 16 ore al giorno dove si ripropongono ancora le stesse dinamiche sociali del fuori (discriminazione, sopraffazione, violenza). Un luogo dove la vista si ferma a pochi metri dai loro occhi, dove per anni si relazionano solo tra loro e solo con persone che ordinano e dove la disparità di potere è regola. Infine dove rieducazione e attività risocializzanti sono solo parole a causa di una organizzazione-burocratizzazione che privilegia innanzitutto la sicurezza, il contenimento, la punizione fine a se stessa. Non a caso in media negli istituti penitenziari italiani ci sono un agente ogni due detenuti, mentre c’è un solo educatore ogni 60 detenuti. Ma soprattutto sono convinto che la dignità di una persona non può mai essere calpestata e che i suoi diritti restano tali, inviolabili. Per questo - conclude - mi ricandido a Garante in Abruzzo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. Tolmezzo (Ud): la direttrice del carcere si difende ma il Garante conferma l’esposto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2019 Irene Iannucci, direttrice della Casa circondariale di Tolmezzo, replica all’articolo uscito nei giorni scorsi sul quotidiano Il Dubbio con un messaggio inviato a GNews, il sito ufficiale di informazione quotidiana del ministero della Giustizia. La replica non fa altro che confermare tutto quello che è stato riportato da Il Dubbio. È vero che sono stati usati gli idranti nei confronti del detenuto chiuso dentro la cella, è vero che l’intervento di contenimento è durato più di un’ora (dalle ore 20: 15 alle 21: 45), così com’è tutto vero che il detenuto è stato lasciato dentro nella cella, con l’acqua, durante la notte. Ma non solo, tutto ciò trova conferma nel video della sorveglianza (citato dal direttore del carcere nella sua replica) e proprio per questo motivo il Garante Nazionale delle persone private della libertà ne ha chiesto copia per mandarlo in allegato all’esposto in Procura. Che sia stato tutto regolare, sarà la magistratura a valutarlo. Nell’articolo del Dubbio è stato riportato il motivo dell’esposto presentato da una persona autorevole come il Garante Nazionale Mauro Palma, così come non ci si è sottratti nel descrivere il comportamento del recluso: “Il detenuto, preso da una evidente esagitazione - così si legge nell’articolo de Il Dubbio - aveva rotto il portellino dello spioncino e loro (ndr: gli agenti) volevano che lui consegnasse il pezzo di ferro e il fornelletto che aveva in dotazione. Siccome lui non aveva eseguito l’ordine, gli agenti avrebbero aperto l’idrante, indirizzando il getto d’acqua in ogni angolo della cella”. La direttrice del carcere di Tolmezzo ha pienamente ragione nel dire che non abbiamo riportato la generalità del detenuto. Ma c’è un motivo. Se in merito al detenuto, che a gennaio aveva denunciato di essere stato vittima di un pestaggio, Il Dubbio ha potuto parlare con il suo avvocato che ci ha dato il via libera per indicarne il nome ed il cognome, per la persona in questione - che la direttrice segnala essere recluso per reati di terrorismo nazionale, come indicato nella replica - la menzione non si è fatta per evidente esigenza di privacy, vista la tipologia di reato contestato e l’impossibilità di sapere se avesse o meno prestato il consenso alla individuazione per nome. Del resto, il diritto alla privacy - così come il diritto alla dignità - vale anche per il peggior delinquente. Nulla è stato riferito sulla sua posizione personale, perché anche inconferente per chi scrive. Sulle ragioni dell’intervento non si può tacere che in termini di contemperamento delle esigenze, l’una di tutela della sicurezza e l’altra di custodia della salute e dignità del detenuto, la prima non debba necessariamente escludere la seconda, salvo che le ragioni non siano di livello elevato. Ci si è solo chiesti, visto anche l’esposto in Procura del Garante, se non fosse stato il caso di aprire la cella e di non lasciare “Caino” a mollo per tutte quelle ore. Resta il fatto che nell’articolo è stato reso noto quanto riferito dal Garante Nazionale sulla vicenda, ovvero dall’Istituzione che è preposta alla tutela del detenuto. Ciò, per buona pace della contestazione sollevata dalla direttrice, di non aver contattato l’Istituto. Piacerebbe a chi scrive di poter rivendicare la scelta di dare voce al Garante e all’esposto che ha depositato in Procura. Per concludere, suscita stupore leggere nella replica che l’articolo de Il Dubbio delegittimerebbe l’intera istituzione penitenziaria, quando al contrario. Il Dubbio è l’unico giornale che ha provato a portare all’attenzione delle cronache le problematiche degli internati al 41 bis e dei detenuti, che si sono ritrovati ridotte le ore di lavoro a causa dei pochi soldi (poi fortunatamente arrivati): circostanze queste che inevitabilmente mettevano in difficoltà gli stessi agenti penitenziari, i quali ne subivano indirettamente quelle condizioni. Così come, non può tacersi che, a proposito della difficoltà nel gestire i detenuti con evidenti problematiche psichiche, il nostro giornale abbia affrontato quotidianamente la necessità di rispolverare il decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario, che non era stato approvato e che avrebbe introdotto nuove misure, più efficaci, per ridurre le problematiche legate ai detenuti con problemi psichiatrici: ciò soprattutto, come più volte detto, anche per il benessere stesso degli agenti penitenziari, che non possono, e non devono, sopperire alle lacune legislative attraverso sacrifici che non spetterebbero loro, visto che sarebbe invece compito dei medici, infermieri e operatori sanitari in generale. Milano: Francesco Maisto è il nuovo Garante comunale dei detenuti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 4 giugno 2019 L’ex presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna: “Credo che rientri ampiamente nel mio mandato, oltre l’impegno a favore dei detenuti, degli internati e delle persone sottoposte alle misure di comunità, anche la promozione dei diritti di persone limitate nella libertà in altri luoghi e in contesti diversi”. L’ex presidente del tribunale di sorveglianza di Bologna, Francesco Maisto, è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale per il comune di Milano. 73 anni, in magistratura dal 1974, ha lavorato negli Uffici Giudiziari di Milano e, distaccato, presso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dal 2010, fino alla pensione, è stato ai vertici della magistratura di Sorveglianza di Bologna, intervenendo nei processi crack Parmalat, Franzoni, Aldrovandi e nuove brigate rosse. Specializzato con lode in Criminologia Clinica alla Facoltà di Medicina dell’Università Statale di Milano, il nuovo garante ha competenze in diritto dell’esecuzione penale e penitenziario, diritto e psichiatria, contenzione, diritto dell’emigrazione, tutela dei diritti umani e disciplina delle sostanze stupefacenti. Ha presieduto il Tavolo di lavoro sulla Sanità penitenziaria e salute mentale degli Stati Generali dell’esecuzione penale promossi dal precedente ministro della Giustizia, ha fatto parte della Consulta Nazionale sulle tossicodipendenze ed ha elaborato i Protocolli di Intesa per le misure alternative per i tossicodipendenti in Emilia Romagna. Nei suoi scritti ci sono 70 pubblicazioni, tra saggi e articoli. “Non ritengo la funzione del garante esaurita nel “facilitare la fruizione dei servizi messi a disposizione dalle regioni e dagli enti locali” - commenta Francesco Maisto. Potrò anche occuparmi di simili questioni e operare in tal senso, ma questa interpretazione risulta molto riduttiva dei poteri di intervento del garante. Per oltre 40 anni, ogni volta che ho assunto un incarico nelle diverse funzioni in magistratura ho giurato di osservare lealmente la Costituzione e le altre Leggi della Repubblica, di adempiere ai miei doveri con diligenza, rettitudine ed imparzialità. Ora assumo lo stesso impegno. Ringrazio il Sindaco e la nostra città che rappresenta riscuotendo sempre maggiori consensi per la fiducia e per non aver seguito le sirene della rottamazione. Credo che rientri ampiamente nel mio mandato, oltre l’impegno a favore dei detenuti, degli internati e delle persone sottoposte alle misure di comunità, anche la promozione dei diritti di persone comunque limitate nella libertà in altri luoghi ed in contesti diversi”. Maisto, che succede ad Alessandra Naldi (primo Garante del Comune di Milano), conclude sostenendo che “in tempi di accentramento della questione penale sul carcere e sul lavoro penitenziario mi dedicherò, secondo il modello milanese, conforme alla Costituzione, alle pratiche virtuose per evitare l’ingresso in carcere alle persone diversamente abili, senza fissa dimora o con disagio mentale, così come ai tossicodipendenti”. Bologna: detenuti a scuola di meccanica, con gli ex operai a fare da tutor di Daniela Corneo Corriere della Sera, 4 giugno 2019 Tre imprenditori bolognesi hanno fondato un’officina nell’istituto di pena “Dozza”. A rinforzare il gruppo è arrivata l’azienda Faac di proprietà dell’Arcidiocesi. Hanno buttato il cuore oltre il filo spinato. E hanno dato vita a un esperimento unico in Italia: aprire un’impresa all’interno del carcere della Dozza a Bologna, dove gli operai sono i detenuti, assunti con un contratto da metalmeccanici, e i tutor sono operai e trasfertisti in pensione. I big della meccanica bolognese, Gd (di Isabella Seragnoli), Ima (di Alberto Vacchi), e Marchesini Group (di Maurizio Marchesini), sette anni fa da concorrenti sono diventati (dentro al carcere) soci fondatori di Fid, Fare Impresa Dozza: officina meccanica con 37 dipendenti a tempo indeterminato, che sta diventando un’occasione di riscatto per i detenuti. L’impresa, partita con 14 operai, sta crescendo a vista d’occhio. Di recente a rinforzare il gruppo societario è arrivata la Faac, l’azienda di cancelli automatici di proprietà dell’Arcidiocesi bolognese da quando, nel 2012, il patron Michelangelo Manini, morto prematuramente a 50 anni, ha lasciato in eredità il suo impero al vescovo. Un giorno di circa dieci anni fa il professore di Diritto commerciale Italo Giorgio Minguzzi, che all’epoca sedeva nel Cda di Ima, propone il suo sogno: fare qualcosa di importante in un mondo poco conosciuto come quello del carcere. Il sogno piace. Così tanto che si uniscono anche Isabella Seragnoli e Maurizio Marchesini. Da aprile di quest’anno infine il vescovo di Bologna Matteo Zuppi. Fondamentale il contributo dell’istituto tecnico Aldini-Valeriani, uno dei colossi scolastici della formazione tecnico-professionale nel capoluogo emiliano. “Dei 37 dipendenti di Fid - spiega Marchesini, patron dell’omonimo gruppo - 24 sono usciti per fine pena o in misure alternative. Circa la metà lavora in aziende dell’indotto delle case madri con risultati professionali buoni”. Altri ex dipendenti hanno seguito percorsi lavorativi diversi o inserimenti in comunità. Tre sono tornati in carcere. “È doloroso per noi quando accade, ma si tratta del 12- 13i di recidiva - continua Marchesini - contro il 6o% della media italiana”. Quindi un altro sogno: “Che entrino nuove imprese in Fid, perché le possibilità dei detenuti si amplino. E poi che altre carceri in Italia seguano l’esempio bolognese”, confida Marchesini. L’azienda della Dozza è aperta trenta ore alla settimana. I detenuti lavorano sei ore al giorno dal lunedì al venerdì. Con uno stipendio da tato euro al mese. Anche questo fa parte del recupero. “Molti - racconta Valerio Monteventi, coordinatore dei 13 tutor in officina - mandano parte dei soldi guadagnati alle loro famiglie, riuscendo a ristabilire legami che talvolta si sono spezzati brutalmente”. Nel tempo, il rapporto tra detenuti e tutor è diventato centrale nel progetto. “Danno un sostegno psicologico agli operai, li consigliano - conclude Monteventi - come si fa con dei figli e riescono a inculcare loro dei valori solidi per quando usciranno dal carcere”. Sembra funzionare. Isham, uno dei detenuti-operai, durante la visita pasquale del vescovo Zuppi, ne è la prova. Ha preso la parola a nome di tutti i colleghi e con poche frasi ha racchiuso il senso di questi sette anni: “In officina convivono persone di nazionalità e religioni diverse, ci rispettiamo. Stiamo imparando a usare testa e mani in un altro modo. Sogno, un giorno, di diventare un tutor come i nostri tutor, che ci insegnano la vita oltre la meccanica”. Milano: la sartoria del carcere diventa un brand di Paola D’Amico Corriere della Sera, 4 giugno 2019 La Cooperativa sociale Alice realizza capi di alta sartoria. Laboratori a San Vittore e Bollate (Mi) e a Monza. E dieci donne dalla cella sono diventate socie dell’attività. Dai costumi teatrali ai brand per bambini. E la storia a tutto tondo della Cooperativa sociale Alice. Oggi nei suoi laboratori in carcere - due a San Vittore e Bollate (Mi), il terzo a Monza - e in centro città a Milano, con annesso punto vendita aperto al pubblico, si realizzano toghe per magistrati e avvocati (seicento all’anno), capi di pelletteria, oggetti di arredo, gadget, shopper per marchi di moda. La cooperativa Alice conta venti soci, più della metà dei quali son persone detenute: mano d’opera selezionata e specializzata (www.cooperativalice.com). Sono passati diversi lustri dalla posa della prima pietra. “Era appena terminato un corso di sartoria teatrale per le detenute di San Vittore - racconta la responsabile sociale Luisa Della Morte - e furono alcune di loro a chiedere ai docenti di poter continuare l’esperienza e trasformarla in un lavoro concreto”. Non mancavano, all’epoca, le commesse dalle grandi sartorie teatrali milanesi. “Quando è mancato il lavoro per il teatro ci siamo riconvertite con produzioni più spendibili”. Il segreto della longevità della coop Alice si riassume in una parola: costanza. È nato così il marchio “Gatti galeotti”. E, poi, la sartoria forense che in dieci anni è arrivata a coprire richieste di toghe da tutta Italia. Più di recente, nel 2010, nasce anche uno spin off con il marchio “Sartoria San Vittore”. “Una collezione - aggiunge la presidente - che funziona e per scelta ha una qualità molto alta e anche un target medio alto”. Dietro tutto questo c’è una stilista che segue il gruppo, formatori, esperti nel commerciale e nella parte amministrativa. Così alla cooperativa Alice sono arrivate qualche tempo fa anche due mamme milanesi, Amata e Roberta, che hanno ideato il brand “i Versiliani” (www.iversiliani.it). Una capsule collection estiva dedicata ai colori, gonne a ruota per le bambine, bermuda per i maschietti, realizzati in tessuti originali in bianco e nero ispirati a unicorni e supereroi. “I bambini - spiega Amata - possono personalizzare colorandoli con pennarelli lavabili o indelebili, a seconda della loro voglia di creare”. Amata e Roberta hanno chiesto ai loro figli cosa poter fare con dei tessuti in bianco e nero e la risposta dei piccoli è stata limpida: colorarli con toni vivaci e allegri “perché la vita senza colori non è proprio divertente”. Da questa affermazione “è nata l’idea di contattare la sartoria del carcere - aggiunge Amata - che è un luogo in cui molte donne vivono ogni giorno in un mondo in bianco e nero. Ma come sarte possono invece cercare di ricostruirsi una vita a colori, quei colori che rendono il mondo allegro, come lo vedono gli occhi di un bambino”. La detenute che lavorano nella sartoria dietro le sbarre trovano una loro routine fatta di lavoro, pause caffè, chiacchiere, condivisioni. Ma ci sono anche le detenute a fine pena o in possesso dei requisiti per accedere alle misure alternative alla detenzione che, invece, si recano nel laboratorio in città, in via Gaudenzio Ferrari, poco distante da Porta Genova e dalla Darsena. “Ci siamo innamorate di questo luogo - concludono le due mamme imprenditrici - e della storia che racconta, della volontà di creare, della possibilità di vere una seconda opportunità”. Genova: teatro, panificio e pulizia dei greti. “Il lavoro riscatta, ma i posti sono pochi” di Marco Grasso Il Secolo XIX, 4 giugno 2019 I progetti alternativi proposti per trasformare la detenzione in una attività di crescita. Un panificio che insegna un mestiere, e rifornisce realtà importanti, come Coop. Il Teatro dell’Arca, dove i detenuti seguono laboratori di recitazione e mettono in scena spettacoli aperti alla città. E poi un laboratorio di serigrafia che stampa prodotti per la Bottega equo solidale, un’officina per imparare a riparare bici, una stanza della musica, un call center. C’è un’altra via alla detenzione e, soprattutto, pur in condizioni difficili, ci sono tanti progetti portati avanti dal carcere di Marassi: “Sono attività che possono ridare un senso a una persona, trasformare una detenzione in qualcosa di più utile: c’è chi poi ha trovato anche un lavoro - spiega la direttrice del carcere di Marassi Maria Milano - purtroppo i fondi sono quello che sono, talvolta riusciamo a sostenere nuovi progetti grazie a partnership tra pubblico e privato. Purtroppo il numero di detenuti coinvolti, per via delle risorse limitate, non è alto come vorremmo”. In 35 partecipano al laboratorio teatrale, 6 detenuti lavorano al panificio con contratto a tempo indeterminato, 4 al call center. Fra gli interventi più recenti c’è la ristrutturazione dell’area di accettazione dei detenuti: “Un collo di bottiglia in cui in passato si formavano code, spesso con donne in coda e bimbi che piangevano - spiega ancora Milano - è stata allestita una zona dedicata ai bambini, sempre molto numerosi, con giochi e personale. Un modo per rendere questo luogo meno traumatico e più umano”. “Tenere le persone in cella dalla mattina alla sera non ci porta da nessuna parte - dice Roberto Martinelli, segretario del sindacato degli agenti penitenziari Sappe - avrebbe molto più senso, sia per loro che anche agli occhi dell’opinione pubblica, impegnarli in servizi utili alla comunità. Restituire qualcosa di utile alla collettività darebbe anche un segnale positivo alle vittime. Ci sono esempi positivi, ma purtroppo i numeri sono limitati. Penso ad esempio a una ventina di detenuti coinvolti in lavori di pulizia nel greto del Bisagno e al cimitero di Staglieno. Perché non allargare queste attività alla pulizia dei sentieri liguri o delle spiagge? I detenuti non vengono pagati, ma occorre stipulare assicurazioni e attivare convenzioni con i vari enti competenti”. Il lavoro in carcere mette d’accordo tutti, anche le associazioni attive con i detenuti: “Bisognerebbe insistere su norme che prevedono incentivi per chi assume ex detenuti - spiega Ramon Fresta, del Ceis - occorre però guardare in faccia la realtà: i fondi scarseggiano e lavoro ce n’è poco per tutti”. Milano: detenuti e scrittori, incontro a San Vittore di Paola Fucilieri Il Giornale, 4 giugno 2019 “Se scrivere è un grande momento di evasione, le carceri sono luogo di grande scrittura”. Il rapper poeta “Sguigno” (Vincenzo), Maurizio, Endrio, Achille, Marco, Massimo, i due Salvatore e Oscar pendono dalle sue labbra. E anche se nell’aula 1 dell’area “scuola” del Terzo Raggio di San Vittore far volare la mente oltre la cortina di afa e calma irreale sembra un atto che trascende l’umana fantasia, Marco Balzano rompe subito il ghiaccio. Non si può proprio dire che questo 40enne di Bollate - insegnante di lettere al liceo e padre di due ragazzi - abbia il physique du role dello scrittore come ce lo presenterebbe una patinata serie di Netflix. La sua abilità è però indubbia nel sedurre con la mente (e anche con l’affabilità del cuore) il gruppo dei venti in attesa di giudizio che all’interno del carcere partecipano alla seconda edizione de “I detenuti domandano perché”. Fortemente voluta da Mediobanca (basti pensare che parte attiva del progetto sono tre loro volontari: Valentina, Magda e Francesco) l’iniziativa viene portata avanti con un entusiasmo che rasenta la passione da Muna della Onlus L’Arte del Vivere con Lentezza e da Teresa e Daniela del gruppo di poesia della Sesta Opera San Fedele con Biblioteche in Rete San Vittore, insieme a Kasa dei Libri. Quanto l’esperienza sia un successo lo dice chiaro Massimo al termine dell’incontro di ieri che ancora una volta ha messo a contatto scrittori e poeti con chi si è scoperto “artista della parola” dietro le sbarre. “Leggere insieme le poesie e parlarne con voi è un’esperienza che dà serenità e tranquillità: ci trasmettete la volontà di leggere, fate un grande lavoro”. E per un volontario forse non c’è complimento più grande, ancora più prezioso se arriva da chi vive l’esperienza della reclusione del carcere. “La parola fatica a entrare nei luoghi dai quali le persone faticano a uscire”. Si capisce che conosce le carceri per esserci stato più volte (come nei laboratori di scrittura di Bollate) a incontrare i detenuti Balzano, insegnante di lettere in un liceo di Garbagnate, padre di famiglia e scrittore, già vincitore (tra gli altri) del premio Flaiano per la narrativa nel 2013 con “Pronti a tutte le partenze” (Sellerio editore) e nel 2015 del Campiello con “L’ultimo arrivato”, quindi secondo al premio Strega 2018 con Resto qui (Einaudi), oltre che autore di poesie. “Sguigno”, calzoni arancioni al ginocchio, capelli rossi e sguardo accattivante si cimenta a trasformare a suo modo in melodie rap le poesie di Balzano e intanto legge le sue, rigorosamente in rima, scritte a tempo record e “nate - spiega - qua dentro, perché fuori mi guardavo intorno e cercavo di prendermi tutto, rubavo e vendevo droga, facevo danni mentre in cella, quando ti manca tutto, ti guardi dentro: la scrittura mi ha fatto capire quanto profondo posso essere”. Mentre Maurizio racconta che la poesia è “pulizia” perché gli ha permesso di non pensare a quello che di brutto gli era accaduto in gioventù e che ha poi segnato tutta la sua vita, Endrio lamenta un mondo con poca professionalità in ogni settore e tutti sono concordi nell’affermare con Balzano che l’identità non è un monolite, ma il risultato dei nostri cambiamenti, Achille riceve dalle mani delle volontarie quel che aveva chiesto, un brano da dedicare alla moglie e alla figlia piccola, Emily: la poesia finale dello spirito Ariel tratta da “La Tempesta” di Shakespeare, Per chi non ci credesse, sappiate che il tempo corre anche in carcere. Così, dopo un’ora e un quarto, lasciarsi rincresce anche a chi è arrivato a San Vittore da uomo libero e tale può tornare subito a essere. Brescia: l’università entra in carcere, da sette studenti di diritto una consulenza ai detenuti Corriere della Sera, 4 giugno 2019 Sette studenti e quattro professori della Statale in carcere. Senza aver commesso reati e non a causa di una deriva securitaria, ma per aver partecipato al progetto “Clinica del lavoro” promosso dall’università in collaborazione con la Direzione degli istituti penitenziari di Brescia, l’Ordine e l’Associazione dei Consulenti del lavoro di Brescia, la Camera del lavoro di Brescia. Il lavoro di studenti e professori sarà presentato martedì in un convegno (ore 10) nella sede di Giurisprudenza. Le cliniche legali sono laboratori nei quali gli studenti di diritto, sotto la supervisione di esperti, prestano un servizio gratuito di assistenza e consulenza legale alla comunità locale. Mutuate dall’esperienza anglosassone, l’università Statale di Brescia è stata la prima a portarle in Italia nel 2009. “Sono state molto apprezzate dagli studenti - spiega la professoressa Francesca Malzani - al punto che nel 2014 abbiamo fatto nascere anche la clinica del Lavoro”. Rivolta a studenti del corso triennale, su tematiche lavoristiche e non giudiziali, con identico accento pratico da un lato e di orientamento all’interesse pubblico dall’altro. Di qui i percorsi sull’inserimento lavorativo dei disabili o sulla sicurezza nel lavoro e quello appena concluso con i detenuti in carcere. Percorsi che mirano a favorire inclusione sociale e piena cittadinanza: “E in questo caso molto hanno a che fare con l’abbattimento di mura - sottolinea Francesca Malzani -. Hanno un’ottica di risocializzazione, funzionale a tutta la società, riducono la recidiva”. Insomma, le cliniche legali e del lavoro sono ben più di un corso pratico per studenti. L’ingresso in carcere è dello scorso anno, grazie a una collaborazione che ha tenuto insieme amministrazione penitenziaria, Camera del lavoro (in particolare il patronato Inca) e l’Ordine dei consulenti del lavoro. Gli studenti hanno raccolto le istanze dei detenuti: “Ma prima di farlo - ricorda la professoressa - c’è stato tutto un lavoro preliminare sull’empatia e sull’abbattimento degli stereotipi che circondano il carcere, facendo crescere la consapevolezza dei ragazzi”. Al termine del percorso è stata prodotta una guida sulle politiche del lavoro, destinata alle imprese, alle associazioni, agli operatori del carcere, e una brochure più snella e immediata da distribuire ai detenuti per avere informazioni su reddito di cittadinanza, Naspi, cosa fare in caso si abbia un lavoro e via dicendo. L’obiettivo dichiarato della guida è informare le imprese, il mondo della cooperazione e la società civile sulle opportunità di valorizzare iniziative tese al reinserimento di detenuti ed ex detenuti nel tessuto cittadino e non solo. La prima parte del convegno che si terrà martedì (dal titolo esemplificativo: “Fondata sul lavoro. La clinica entra in carcere”) traccerà il quadro istituzionale di riferimento, all’interno del quale si sono svolte le attività didattiche. Tra gli altri interverranno la direttrice delle carceri cittadine Francesca Paola Lucrezi, la garante dei diritti delle persone private della libertà personale Luisa Ravagnani, Silvia Spera (Camera del lavoro), Gianluca Moretti (Ordine dei consulenti del lavoro) e Carlo Alberto Romano (dipartimento di Giurisprudenza). La seconda parte del convegno darà voce all’esperienza degli studenti che hanno partecipato al progetto (Cheikh Baikoro, Sara Becciu, Gloria Bodini, Simone Colognesi, Martina Iotta, Suada Kuburi e Lorenzo Mangano) con la supervisione dei docenti (oltre a Francesca malzani anche Fabio Ravelli, Matteo Bodei e Nadia Zanini): “Il convegno - ricorda Franca Malzani - rende anche evidente la collaborazione con l’ordine dei Consulenti del lavoro, che sostiene in modo notevole (sia con risorse finanziarie che umane, ndr) il progetto”. Potenza: “Teatro oltre i limiti”, il carcere da luogo di vergogna a luogo di bellezza ufficiostampabasilicata.it, 4 giugno 2019 Si chiama “Teatro oltre i Limiti” ed è la rassegna di promozione del teatro in carcere organizzata dalla Compagnia Teatrale Petra nelle città di Potenza e Matera. Un progetto culturale, quello diretto da Antonella Iallorenzi, che mette insieme teatro, carcere e società` civile per superare il limite ribaltando la concezione detentiva favorendo una nuova visione, da luogo di vergogna a luogo di bellezza. Venerdì 14 giugno si svolgerà l’appuntamento di presentazione del progetto, un vero e proprio evento che avrà luogo presso la Casa Circondariale di Potenza. Ospite dell’iniziativa sarà Salvatore Striano, attore, ex detenuto, protagonista del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani e di “Gomorra” di Matteo Garrone, che per l’occasione reciterà alcuni testi. L’appuntamento è aperto al pubblico proprio all’insegna del percorso di superamento delle barriere e relazione con la città. Per accedere all’evento bisogna accreditarsi entro il 10 giugno (inviando una mail a info@compagniateatralepetra.com con nome cognome, luogo e data di nascita) per il disbrigo delle pratiche di accesso. All’evento di presentazione del progetto Teatro oltre i limiti” interverranno Carmelo Cantone (provveditore di Puglia e Basilicata), Giuseppe Palo (funzionario di staff del Provveditore di Puglia e Basilicata), Maria Rosaria Petraccone (direttrice Casa Circondariale di Potenza), Paola Stella (presidente Tribunale di Sorveglianza di Potenza). Roma: Progetto CO2, nella sezione femminile di Rebibbia la cerimonia di donazione siae.it, 4 giugno 2019 Oggi, martedì 4 giugno, nella sezione femminile del carcere romano di Rebibbia alle ore 11.00 si terrà la cerimonia di donazione di un’audioteca nell’ambito del Progetto CO2 “Controllare l’odio”. Il Progetto CO2, premiato con la medaglia della Presidenza della Repubblica nel 2017, ha come obiettivo quello di offrire momenti di intima riflessione a comuni ascoltatori detenuti grazie a una rete di audioteche unica nel suo genere, in Europa e non solo, realizzata con strumenti tecnologicamente avanzati (iPad e Mac). Sostenuto fin dal suo inizio dalla SIAE, il Progetto è stato pensato e realizzato da Franco Mussida, con il coordinamento del CPM Music Institute, il supporto di un apposito comitato scientifico e il patrocinio del Ministero della Giustizia. Nel 2017 ha ottenuto la Medaglia della Presidenza della Repubblica per meriti sociali. Dentro speciali audioteche sono presenti, su un comune database, migliaia di brani di musica esclusivamente strumentale di ogni genere: dalla musica da film alla classica e al jazz, dal pop al rock fino all’elettronica. Tutto il repertorio è diviso per stati d’animo, rappresentati da nove grandi famiglie emotive. Attraverso una particolare procedura di ascolto guidato, si rende apprezzabile il valore del lavoro che la musica svolge nell’area affettiva delle persone. Il Progetto oggi è presente in 12 Istituti penitenziari dislocati in tutta Italia, supportato anche dai dati positivi forniti dall’Università di Pavia che ne hanno comprovato gli straordinari risultati raggiunti. Contributi pubblici all’editoria, una questione costituzionale di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 giugno 2019 È legittimo che la tutela del pluralismo informativo sia “alla mercé del governo in carica”? Parola alla Consulta. Oggi in udienza pubblica il caso aperto quattro anni fa da un giornale di Catania L’aula delle udienze della Corte costituzionale. È legittimo ridurre i contributi pubblici all’editoria in maniera discrezionale, sulla base delle valutazioni politiche contingenti del governo in carica? Se la domanda venisse posta al sottosegretario Crimi, la risposta sarebbe prevedibile, anzi è già scritta nella legge di bilancio 2019 che riduce i contributi all’editoria fino a cancellarli del tutto entro tre anni. Ma a rispondere sarà adesso la Corte costituzionale, davanti alla quale stamattina arriva a conclusione una vicenda cominciata oltre quattro anni fa davanti al Tar della Sicilia per iniziativa di un piccolo editore di Catania, non immune da qualche incidente legato alla riscossione dei fondi pubblici, che si carica di un interesse generale. Il pluralismo informativo, e lo stesso rispetto dell’articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di stampa, sono comprimili e fino a che punto per (asserite) esigenze di bilancio? Alla risposta che dovranno dare i giudici delle leggi guarda con attenzione anche il manifesto, la cui sopravvivenza è messa a rischio dalla progressiva cancellazione dei contributi decisa dal governo e dal sottosegretario Crimi. Ediservice, società editrice del Quotidiano di Sicilia, nel 2014 si vide quasi dimezzare (-44%) i contributi pubblici rispetto a quelli ai quali aveva teoricamente diritto sulla base della legge, che prevedeva allora - per chi ne avesse diritto - la copertura del 50% dei costi del personale e di una somma fissa per ogni copia venduta. Una perdita di quasi 600mila euro, tale da mettere a rischio la prosecuzione dell’attività. Una norma del 2012 aveva infatti previsto che in caso di stanziamento insufficiente da parte della presidenza del Consiglio (che gestisce il fondo per il pluralismo) doveva operarsi una riduzione percentuale uguale per tutti i beneficiari. Anche il manifesto subì quel taglio. Ma l’editore di Catania si rivolse al giudice amministrativo prima e a quello ordinario poi per chiedere che venissero penalizzate di più altre testate, più grandi e dunque più solide. Contestava perciò il taglio lineare chiamando a giudizio sia la presidenza del Consiglio che altri giornali titolari del finanziamento pubblico. Ma nell’ordinanza del 2017 con la quale il giudice monocratico di Catania Viviana di Gesu ha ritenuto “non manifestamente infondate” le questioni di costituzionalità sollevate contro i decreti legge che, succedendosi, hanno imposto il taglio, gli elementi della lite tra giornali sono completamente caduti. Tant’è che stamattina nell’udienza pubblica in Corte costituzionale chiederanno di costituirsi ad adiuvandum del ricorrente principale sia la Federazione italiana liberi editori (rappresentata dal professor Luciani) che l’Avvenire (rappresentato dall’avvocato Cociancich che nella scorsa legislatura da senatore del Pd è stato relatore della riforma del settore). Nell’ordinanza di rimessione davanti alla Corte, la giudice di Catania ricorda che i contributi pubblici all’editoria sono passati dagli originari 197 miliardi di lire del 1981 (circa 100mila euro) a meno della metà trent’anni dopo. E trattandosi di un contributo erogato dopo la chiusura del bilancio annuale al quale si riferisce (perché si calcola sulla base delle spese) le imprese editoriali dovrebbero poter contare su un “legittimo affidamento” che è principio tutelato tanto dalla Costituzione quanto dal diritto europeo. “Il sostegno all’editoria di fatto è stato posto alla mercé del governo”, si legge nell’ordinanza, quando invece “con il tempo ha assunto un ruolo fondamentale per il nostro sistema democratico, quale espressa garanzia del pluralismo e del diritto alla qualità dell’informazione”. È stata proprio la Corte costituzionale, del resto, a stabilire (sentenza 826 del 1988) che “il pluralismo si manifesta … nella concreta possibilità di scelta, per tutti i cittadini, tra una molteplicità di fonti informative”. Nella memoria depositata in difesa, invece, l’avvocatura dello stato su input della presidenza del Consiglio attuale (il mandato è firmato Giorgetti) sostiene che “è pacifico che anche la tutela di interessi di rilevanza costituzionale deve essere assicurata in un quadro di compatibilità con le risorse economiche concretamente disponibili”. Mentre secondo la giudice di Catania “l’attribuzione al governo della facoltà di determinare in concreto l’ammontare dei contributi può condurre a una finalità opposta a quella propugnata dall’articolo 21 della Costituzione, ponendo fuori dal settore una pluralità di imprese”. Secondo i difensori della Ediservice (l’avvocato Scuderi e l’avvocata Leone), infine, accettando il principio che le riduzioni del fondo per il pluralismo sono sempre lecite “si finirebbe per legittimare, di riduzione in riduzione, l’integrale annullamento del contributo, con il venir meno della minima tutela degli interessi, di natura generale e di rango anche costituzionale, alla quale il contributo è finalizzato”. Quattro anni fa poteva sembrare un discorso per assurdo. Oggi “l’integrale annullamento” del fondo è previsto per legge. Ragione per cui la decisione dei giudici costituzionali - arriverà nelle prossime settimane - è molto attesa. Migranti. Morire di “malaccoglienza” meltingpot.org, 4 giugno 2019 Un giovane nigeriano si toglie la vita nel Cpr di Brindisi. La storia di Harry: arrivato come invisibile, morto da invisibile. “Harry, poco più che diciottenne, come molti altri giovanissimi migranti, era arrivato in Italia nell’estate del 2017, dopo la traversata nel deserto e l’incarcerazione in Libia. Nella notte tra sabato 1 e domenica 2 giugno Harry, approfittando di un momento di solitudine nella sua stanza, si è tolto la vita impiccandosi. Nella notte tra sabato 1 e domenica 2 giugno Harry, un ventenne di origine nigeriana, detenuto nel Cpr Restinco (Br), approfittando di un momento di solitudine nella sua stanza, si toglie la vita impiccandosi. Questa mattina, 3 giugno, la Prefettura ha disposto la sepoltura, senza ulteriori accertamenti sui fatti, chiudendo frettolosamente un episodio gravissimo che invece va divulgato con tutti i mezzi possibili. Il suo gesto non è certamente il primo all’interno della struttura. Negli anni passati, infatti, sono stati diversi gli episodi di tentativi di suicidio, autolesionismo ed anche di rivolte. Eppure la Campagna LasciateCIEntrare ha segnalato più volte a Prefetto, Garante nazionale e regionale dei detenuti, membri dello Iom e dell’Unhcr la situazione critica di questo giovane migrante, sottolineandone l’incompatibilità con le misure restrittive della libertà personale applicate nel CPR, e chiedendone con urgenza il suo trasferimento in luogo idoneo alla sua condizione di estrema vulnerabilità, allegando la documentazione medica in possesso. E la Campagna LasciateCIEntrare ha da sempre evidenziato notevoli criticità anche per altri casi (vedi qui il nostro report, risalente all’ultimo accesso nell’agosto 2018, nel quale proprio un infermiere ci sottolineava che “frequenti sono gli atti di autolesionismo ed i tentati suicidi, tramite impiccagione”). Come dire: una morte annunciata. Harry, poco più che diciottenne, come molti altri giovanissimi migranti, era arrivato in Italia nell’estate del 2017, dopo la traversata nel deserto e l’incarcerazione in Libia. Veniva dislocato nella provincia di Bolzano, ospite presso due centri di accoglienza, tutti di grandi dimensioni, con oltre 100 persone. Da subito il suo disagio è risultato evidente: disagio che lo ha portato a effettuare visite specialistiche, frequentare il Centro di Salute Mentale e dover seguire una terapia farmacologica costante. Più volte è stato ricoverato nel reparto di psichiatria per delle forti crisi, segnalato dai servizi psichiatrici, dai servizi sociali e dai referenti del Cas stesso. A giugno 2018, viene chiesto per lui l’inserimento in uno Sprar, nell’estremo tentativo di ospitarlo in una struttura adeguata alle sue gravi problematiche e che potesse dargli l’attenzione e la cura “dovuta”. Infatti, il servizio psichiatrico ha più volte sottolineato come la natura dei problemi di Harry risiedesse nel fatto che egli aveva “sia un modo di pensare, sia di vivere le esperienze sia modalità comportamentali ancora immaturi e infantili, con in parte regressioni emozionali sino al livello di un bambino dell’età dell’infanzia (…)”. Ma per lui non c’è stato nulla da fare. Spostato come un pacco postale da un Cas all’altro, senza alcuna cura ed attenzione ai suoi problemi psichiatrici, la malaccoglienza ha finto per aggravare ancora di più ed in modo irrimediabile la sua condizione di soggetto già altamente vulnerabile. Harry ha finito, cosi, per perdere anche l’ultimo dei suoi diritti, ovvero quello a soggiornare in Italia. A fine marzo 2019, Harry viene così portato nel Cpr Restinco a Brindisi. Un trattenimento assolutamente incompatibile con le sue condizioni di salute. In due mesi di trattenimento Harry non è mai riuscito ad incontrare lo psichiatra interno del centro, malgrado le numerose richieste effettuate in tal senso, e per “tamponare” la situazione, gli sono stati somministrati dei farmaci. Ma non si sa secondo quale terapia e secondo quale prescrizione. Harry ha oscillato tra momenti di apatia e stati catatonici, tra momenti di forte aggressività e altri di scoramento e pianto. Fino all’estrema soluzione. Quella di farla finita. La Campagna LasciateCIEntrare oggi chiede con fermezza che venga immediatamente disposta l’autopsia del corpo e gli esami tossicologici per accertare le cause precise della sua morte. E chiede, soprattutto, che vengano accertate le responsabilità di chi, pur essendo a conoscenza dello stato di grave disagio e sofferenza psichica, incompatibile con il trattenimento in un centro per i rimpatri, non ha tutelato i diritti e la vita di Harry. Migranti. Renzi, Gentiloni, Minniti e Salvini denunciati per crimini contro l’umanità di Marta Serafini Corriere della Sera, 4 giugno 2019 Nuovo esposto all’Aja contro l’Italia e l’Ue: “I politici responsabili di crimini contro l’umanità”. La denuncia di un esperto di diritto internazionale e di un giornalista. “I Paesi europei tentano di aggirare il diritto affidando i respingimenti ai libici”. Un testimone: “Così la guardia costiera libica è collusa coi trafficanti”. I primi ministri italiani Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Il ministro dell’Interno Marco Minniti. E poi Matteo Salvini. Ma anche il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Sono questi i nomi che compaiono nelle 250 pagine che compongono l’esposto che verrà presentato alla Corte Penale internazionale dell’Aja dall’esperto di diritto internazionale dell’Istituto di studi politici di Parigi, l’israeliano Omer Shatz, e dal giornalista franco-spagnolo Juan Branco, consigliere di WikiLeaks. L’accusa è di crimini contro l’umanità a seguito delle politiche migratorie dell’UE nel Mediterraneo centrale. In particolare - si legge nella denuncia di cui il Corriere ha avuto il testo in anteprima -”esternalizzando le pratiche di respingimento dei migranti in fuga dalla Libia alla Guardia costiera libica, pur conoscendo le conseguenze letali di queste deportazioni diffuse e sistematiche (40 mila respingimenti in 3 anni), gli agenti italiani e dell’UE si sono resi complici degli atroci crimini commessi contro nei campi di detenzione in Libia”. Il periodo preso in esame è dal 2014 ad oggi mentre le accuse riguardano, le morti in mare, i respingimenti e “crimini di deportazione, omicidio, carcere, riduzione in schiavitù, tortura, stupro, persecuzione e altri atti disumani”. Secondo l’analisi, dopo la caduta di Gheddafi nel 2011 l’Unione europea ha cambiato linea politica lasciando i migranti in difficoltà in mare, “al fine di dissuadere altri in simili situazione dalla ricerca di un rifugio sicuro in Europa”. Questa scelta ha trasformato “il Mediterraneo centrale nella rotta migratoria più letale del mondo, dove tra il 1 ° gennaio 2014 e la fine di luglio 2017, sono morte oltre 14.500 persone”. La denuncia si basa in parte su documenti interni di Frontex, l’organizzazione dell’Ue incaricata di proteggere le frontiere esterne e che, secondo gli avvocati, avrebbe avvertito che abbandonare la missione di salvataggio italiana Mare Nostrum avrebbe portato a un “più alto numero di vittime”. I legali non individuano nel loro documento responsabilità specifiche di singoli politici o funzionari ma citano messaggi diplomatici e commenti di leader nazionali, tra cui Angela Merkel e Emmanuel Macron. Sempre in modo consapevole, l’Ue avrebbe deciso di espellere le Ong dal Mediterraneo decidendo di collaborare con la guardia costiera libica, “diventato un attore chiave nell’intercettazione e nel respingimento illegale dei migranti”. Il meccanismo si aggrava proprio a causa di quest’ultimo provvedimento. “Attraverso un complesso mix di atti legislativi, decisioni amministrative e formali accordi, l’UE e i suoi Stati membri hanno fornito alla guardia costiera libica sostegno materiale e strategico, incluso ma non limitato a navi, addestramento e capacità di comando e controllo”. Una decisione che avrebbe permesso agli Stati membri di aggirare il diritto marittimo e internazionale. Se il riferimento è alla creazione di una Sar Zone libica, confermata dall’Imo (organizzazione marittima internazionale) il giugno scorso, a dimostrazione dell’impianto accusatorio, viene allegata la testimonianza di un migrante, proveniente dal Darfur settentrionale che proverebbe la collusione della Guardia costiera libica con i trafficanti. “Eravamo 86 migranti, tutti sudanesi. La barca era troppo pesante. Abdelbasit (uno dei trafficanti, ndr) si è messo alla guida del barcone mentre un piccolo scafo guidato da Fakri (l’altro trafficante, ndr) faceva ricognizione”, racconta. Una volta che i trafficanti se vanno, il barcone viene avvicinato da un’altra imbarcazione. “C’erano otto uomini in uniforme, con un mitragliatrice, che hanno speronato la nostra barca”, spiega ancora l’uomo. Secondo il testimone, i militari dopo essersi fatti dare il numero di telefono dai migranti avrebbero telefonato uno dei trafficanti, Abdelbasit. “Are you Ammo?”, hanno detto. Ma poi lui ha spento il telefono”. A quel punto il barcone viene riportato indietro verso la Libia. “Sulla via del ritorno, hanno intercettato altre 4 barche. Al mattino presto, quando abbiamo raggiunto Zawiya, ne erano rimaste solo tre. Le altre due barche erano state rilasciate perché avevano raggiunto un accordo con la guardia costiera libica”. Una volta riportati a terra, i migranti vengono trasferiti in una prigione. “Le guardie ci hanno detto: “Ognuno di voi deve pagare 2000 dinari, e noi poi vi riporteremo al punto in cui sarete salvati. Paga o se non hai soldi telefona, chiama la tua famiglia in modo che ci mandino dei soldi. Un agente può riscuotere denaro a Tripoli. Chiunque non riesca a pagare, lo trasferiremo nella prigione di Osama (noto anche come Al-Nasr detention center, ndr)”“. Il racconto del migrante prosegue. “Siamo stati detenuti per 15 giorni, io e mia moglie eravamo separati. Non voglio parlare di cosa è successo a lei. Alla fine, mia moglie è riuscita a chiamare i suoi fratelli che hanno mandato i soldi per tirarci fuori. Sono stati giorni molto difficili. Abbiamo bevuto una tazza d’acqua al giorno. Anche il cibo era disgustoso”. Dopo 15 giorni “ci hanno rimesso in mare, siamo stati mandati sulla stessa barca di legno, con altri due gommoni. La barca che ci ha scortato era la stessa barca della guardia costiera libica che ci ha intercettato la prima volta. Gli uomini armati che erano sulla barca delle Guardie costiere libiche erano gli stessi uomini armati che erano sulla barca quando siamo stati intercettati la prima volta. Ci hanno scortato per due o tre ore, finché la luce della città non è diventata sbiadita”. Superata la piattaforma petrolifera di fronte Sabratha gli uomini se ne vanno. “Le onde erano così alte e la gente ha iniziato a farsi prendere dal panico. Eravamo 87 sulla nostra barca - gli stessi passeggeri che erano con noi quando siamo stati intercettati per la prima volta, tranne quattro persone che non potevano pagare. Al mattino abbiamo scoperto che erano stati sostituiti da cinque libici che erano sulla barca. Poi siamo stati avvistati e salvati da una barca che ci ha portato a Trapani”. L’ufficio della procura dell’Aja dovrà decidere ora se acquisire la denuncia, un passaggio che non garantisce automaticamente l’avvio di un’inchiesta, ma è comunque evidentemente il primo passo che può portare ad essa. A gennaio è stata acquisita le denuncia di razzismo fatta contro il governo italiano dal “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo. Kosovo. Vent’anni fa i 78 giorni della prima guerra “umanitaria” di Massimo Nava Corriere della Sera, 4 giugno 2019 È nato un Paese, ma la pace per albanesi e serbi non è vinta. “Era la peggiore delle soluzioni, escluse tutte le altre”. All’alba del 10 giugno 1999, il battaglione gurkha oltrepassava il confine del Kosovo. I soldati delle ex colonie britanniche, erano l’avanguardia delle truppe Nato. Nella notte, erano arrivati a Pristina i primi reparti russi, per evitare un confronto diretto con le truppe serbe in ritirata. Nella vallata al confine della Macedonia, decine di migliaia di profughi kosovari speravano di rientrare nella loro terra e ricostruire case distrutte dalle bombe della Nato e dalla repressione serba. Cominciava il controesodo dei serbi del Kosovo per sfuggire a prevedibili vendette, ripetendo così il circolo infernale delle guerre balcaniche in cui i serbi hanno recitato la parte del carnefice e della vittima. Carichi di masserie, ammassati in pullman e su carretti, si lasciavano alle spalle un deserto di macerie e i loro monasteri, la culla della religiosità ortodossa e della storia serba, usati come clave dal presidente Slobodan Milosevic che sui germi del nazionalismo populista avrebbe costruito il suo decennale potere, fino alla disfatta finale. Questo era il Kosovo alla fine di 78 giorni di bombardamenti che avevano piegato la resistenza di Milosevic e legittimato il sogno indipendentista dei kosovari, la minoranza albanese/musulmana repressa e discriminata dai tempi della Jugoslavia di Tito. Un sogno realizzato prima con la resistenza pacifica di un personaggio carismatico, Ibrahim Rugova, e poi perseguito con attentati e guerriglia fino alla formazione di un esercito di guerriglieri, l’Uck, definito, a fasi alterne e seconda dei punti di vista, di liberazione o terroristico. L’ambiguità di giudizio é proseguita nel corso degli anni, come si evince dalle biografie di alcuni ufficiali, accusati di crimini di guerra e al tempo stesso ai vertici dello Stato kosovaro dopo la proclamazione dell’indipendenza. Sono passati vent’anni. Il Kosovo é rimasto un limbo instabile, protetto e sostenuto da organizzazioni internazionali, crocevia di traffici criminali e corridoio d’immigrazione clandestina. I monasteri sono sorvegliati e circondati. La minoranza serba, sempre più esigua, si è rintanata nell’enclave di Mitrovica, la porzione al confine con la Serbia. Gli albanesi del Kosovo sono rimasti i paria d’Europa. Hanno conquistato con sofferenze e migliaia di morti il loro Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, ma si sono ritagliati un futuro di precarietà. Per serbi e kosovari l’unica prospettiva sarebbe l’avvicinamento alla Ue, ma soltanto a patto di una definitiva composizione del conflitto che appare ancora lontana. Al contrario, ogni volta che si prospettano accordi di collaborazione sia pure parziali, quantomeno per garantire flussi commerciali, governabilità e rispetto delle identità linguistiche ed etniche, puntualmente la tensione risale, come sta avvenendo anche in questi giorni, nell’imminenza delle celebrazioni per la fine della guerra. Scontri, arresti, provocazioni, qualche omicidio eccellente, vendette si ripetono. E da vari punti di vista non potrebbe essere diversamente. Il potere a Belgrado si regge su delfini e politicanti riciclati dall’epoca di Milosevic (il presidente Vucic era il portavoce di Slobo), contestati dai giovani e dalla borghesia urbana ma ancora solidi quando si tratta di gestire affari e parlare alla pancia del Paese, lasciando che le micce dell’odio etnico continuino a bruciare. Il potere in Kosovo si regge sulla spartizione di affari e meriti di guerra e non fa decollare una giovane classe media che avrebbe titoli e qualità per costruire un futuro migliore. I gruppi di potere parlano di scambi di territori con Belgrado, qualcuno rispolvera il vecchio sogno di annessione all’Albania. Pristina, la capitale, è lo specchio di queste contraddizioni. Sulle macerie sono sorti grandi alberghi, un nuovo aeroporto, shopping center, palazzi residenziali. I flussi commerciali sono aperti a tutti, serbi compresi. Cultura popolare e istruzione continuano a trasmettere una storia che non può essere uguale per tutti. I giovani si affollano in bar e locali notturni, popolando una malinconica movida in attesa di un visto per l’Europa. La normalità non appartiene a questa generazione, ma ci sta provando, specularmente ai coetanei di Belgrado, stanchi di propaganda e disgustati dal potere. Nella storia di questi vent’anni in Kosovo si specchia una storia universale che, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, ha visto prevalere il principio dell’autodeterminazione dei popoli sul diritto e sulla sovranità degli Stati. Dalla ex Jugoslavia a Timor Est (giusto pochi mesi dopo il Kosovo), dalle Repubbliche ex sovietiche al Sud Sudan, le minoranze hanno fatto valere omogeneità etnica, linguistica, religiosa, anche se poi il principio dell’autodeterminazione non si è fatto strada in modo coerente o compatibile con gli standard di democrazia del contesto. Improponibile in Catalogna, represso in Tibet, applicato in Crimea con ritorsioni e sanzioni contro Mosca, terreno di nuovi conflitti in Sudan. La comunità internazionale ha provato a codificarne l’applicazione persino con le armi, in relazione appunto al livello di repressione di una minoranza. Il “bombardamento umanitario” ha incentivato speranze, ma spesso la scorciatoia militare ha provocato disastri. L’ultimo esempio è la Libia. Per questo, il Kosovo è attualissima materia di studio. In alternativa a processi democratici inevitabilmente più lenti, vale ancora una battuta balcanica, “la peggiore delle soluzioni, escludendo tutte le altre”. Libia. Il fronte spacca Tripoli, ma è fermo. Ora si rivede l’Isis a Derna e a Jufra di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 4 giugno 2019 Sono passati due mesi oggi dal lancio dell’offensiva del generale Haftar sulla capitale della Libia e nello stesso giorno termina anche il mese sacro del Ramadan, ma il feldmaresciallo di Bengasi, nonostante la sua retorica che mischia richiami religiosi e proclami guerreschi, non è riuscito a “riconquistare” la sua “Mecca”, Tripoli. La battaglia va avanti com’era partita, confinata nei sobborghi meridionali senza sostanziali progressi né da una parte né dall’altra. Avanza solo il conto dei morti (607 di cui 40 civili, dati Oms) con scontri particolarmente cruenti negli ultimi giorni soprattutto nell’area di Ein Zara e Wadi Rabie, oltre che lungo l’asse viario di Salah al Din in direzione del vecchio aeroporto non più funzionante. Nel fine settimana ci sono stati in queste zone oltre 50 morti. Nelle zone centrali della città, ancora non toccate dai combattimenti, la vita dei civili va avanti in modo strano. Domenica voci incontrollate su una interruzione delle forniture di benzina hanno creato il caos, con file di ore alle pompe e traffico impazzito, fin quando la società Brega non ha rassicurato sulla normalità degli approvvigionamenti. In un servizio di Al Jazeera - la tv qatariota è apertamente a favore del governo Serraj - si vedono i giovanissimi di Tripoli nel loro principale svago dopo il tramonto: partecipare ad adrenaliniche gare di auto, tra testa-coda e slittamenti sull’asfalto spolverato di sabbia, stile James Dean in Gioventù Bruciata. “Sì, è pericoloso, ma è un modo per dimenticarci della guerra”, spiegava un adolescente all’intervistatore. Nell’oasi di Al Fuqha, nel distretto di Jufra al centro del Paese, all’alba un nuovo blitz di miliziani dell’Isis a bordo di jeep contro il battaglione 128 dell’Lna, l’autoproclamato “esercito nazionale libico” di Haftar, è andato a vuoto. A Derna in Cirenaica due autobombe piazzate sotto due caserme dell’Lna - per le quali l’Lna accusa le milizie di Tripoli - hanno invece provocato 18 feriti. E un capo dell’Isis è stato arrestato anche dalle forze di Misurata. Ghassam Salamé, l’inviato speciale Onu sulla Libia, intervistato dal canale “France 24” la scorsa settimana ha spiegato che senza un efficace monitoraggio in Libia sul rispetto dell’embargo Onu sull’importazione di armamenti, con sanzioni comminate dal Consiglio di Sicurezza tanto a chi vende che a chi compra armi, la guerra civile non può che trascinarsi, con il rischio che si creino nuove roccaforti del terrorismo jihadista alle porte dell’Europa. Negli ultimi giorni sono stati abbattuti due droni - armi di nuova generazione, post embargo - sugli opposti fronti: uno di fabbricazione turca a Gharyam nei raid di Misurata e l’altro “made in Uae”, quindi proveniente dagli Emirati arabi uniti, in uso dall’aviazione di Haftar. Brasile. Massacri in quattro carceri del Nord agensir.it, 4 giugno 2019 Suor Pfaller (Pastorale carceraria) al Sir, “luoghi infernali, nessun rispetto per i diritti umani”. “I presidi carcerari brasiliani sono veri e propri luoghi infernali. Luoghi violenti, sporchi, affollati, nei quali l’unica attitudine è la repressione. Luoghi dove a essere penalizzati sono soprattutto le persone povere e di colore”. L’accusa, rivolta attraverso il Sir, è di suor Petra Silvia Pfaller, coordinatrice nazionale della Pastorale carceraria brasiliana, al termine di una delle settimane più drammatiche per le carceri brasiliane, in seguito agli scontri che hanno provocato la morte di 57 detenuti in quattro distinti istituti penali nello Stato di Amazonas. Proprio al termine di questa settimana una delegazione della Pastorale carceraria si è recata a Manaus, capitale dell’Amazzonia brasiliana, per capire meglio cosa è accaduto. Prosegue la coordinatrice nazionale: “La situazione delle carceri è precaria in tutto il Paese, ma è particolarmente grave nel Nord, soprattutto nello Stato di Amazonas, dove gran parte delle carceri è privatizzata”. Di conseguenza, l’attenzione di chi gestisce queste carceri è di guadagnare e di limitare al massimo le spese, con l’assenza di progetti di reinserimento. Il risultato è quello di “carceri violente, con frequenti scontri, come quelli accaduti in questi giorni, ma non è certo la prima volta. La Pastorale carceraria cerca di intervenire e anche in questi giorni sta appoggiando e accompagnando i familiari dei detenuti e in particolare delle vittime”.