Carcere: le ombre lunghe della controriforma camerepenali.it, 3 giugno 2019 La risposta dell’Unione delle Camere Penali, con il proprio Osservatorio Carcere, alle recenti e sorprendenti prese di posizione del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Le affermazioni rese dal Direttore Generale dei detenuti e del trattamento del DAP, Dott. Calogero Piscitello, innanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, avvenuta il 29 maggio scorso, suscitano particolare allarme. L’audizione, che aveva per oggetto “taluni profili applicativi e gli ambiti di disciplina dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario”, è stata l’occasione per lanciare un esplicito attacco alle aperture legislative, seppure timide, adottate dopo la condanna europea dell’Italia con la sentenza-pilota “Torreggiani”, nonché alla magistratura di sorveglianza rea di avere provocato sprazzi di illuminazione costituzionale sul tema del “carcere duro”. Il Dott. Piscitello esordisce nel ricordare come le critiche più significative al regime detentivo del “41bis” provengano soprattutto da organismi sovranazionali quali il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e come non sia per nulla semplice spiegare all’estero (Ginevra, Bruxelles o Strasburgo) come, in un Paese civile, possa ancora oggi, nel 2019, esistere un regime speciale di detenzione, spingendosi infine a sollecitare modifiche restrittive al Parlamento. Il Direttore del Dap punta esplicitamente il dito contro alcune recentissime sentenze “di magistrati e di tribunali di sorveglianza” e perfino contro alcune decisioni della Cassazione, che osano riconoscere ai garanti dei diritti dei detenuti il diritto ai colloqui con i soggetti sottoposti al 41bis, definendoli un “vulnus pericolosissimo”. “Se ad esempio - afferma Piscitello - il Sindaco del Comune di San Giuseppe Jato, nel segreto delle sue stanze nomina con determina, senza controllo, un garante dei diritti dei detenuti, sol che abbia un detenuto al 41bis o un detenuto tra i suoi concittadini, quel garante avrebbe il diritto di andare da Brusca, che è di San Giuseppe Jato, e fare un colloquio senza che nessuno sappia nulla, proprio con Brusca”. Ma il Dott. Piscitello sa per certo che nessun garante di San Giuseppe Jato potrebbe andare a tenere un colloquio con un proprio concittadino al 41bis detenuto a Sassari o a Tolmezzo, perché i garanti hanno competenza territoriale sugli istituti e non in ragione dei luoghi di origine dei detenuti. Bene ha fatto dunque il Garante Nazionale per i diritti dei detenuti, Prof. Mauro Palma, a chiedere di essere audito dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia in merito a queste sorprendenti dichiarazioni del Direttore Generale Dap. Ma ancor più preoccupante è l’affermazione del Dott. Piscitello circa la propria intenzione di impegnarsi in contrasto a quei provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, disapplicandoli o impugnandoli per renderli non esecutivi. Tali dichiarazioni sono preoccupanti segnali della controriforma che da tempo sembra essersi messa in moto, con la demolizione delle figure dei garanti territoriali e dello stesso garante nazionale, con l’esplicito attacco a quegli illuminati magistrati, rei di voler condurre l’esecuzione penale nell’alveo costituzionale e nel rispetto dei diritti umani, ed infine con la sistematica rivendicazione di una fantomatica capienza delle nostre carceri, nonostante i numeri, impietosi, ci dicano il contrario. L’invito finale, in audizione, fatto dal Direttore Generale del Dap alla Commissione Antimafia a rivedere le norme vigenti denota, ancora una volta, come la deriva securitaria impressa sia davvero preoccupante e sembri voler preludere ad un irresponsabile giro di vite anche all’interno delle nostre carceri, già a rischio “rivolta”. L’Unione delle Camere Penali richiama l’attenzione del Parlamento, della Politica, dei media e della pubblica opinione su questa pericolosa deriva securitaria dei vertici della Amministrazione Penitenziaria, e sulla irresponsabile politica carceraria ormai esplicitamente adottata dall’attuale maggioranza di governo. La Giunta Ucpi L’Osservatorio Carcere “Mi riscatto per…”: delegazione Messico-Unodc a Roma e Palermo di Marco Belli gnewsonline.it, 3 giugno 2019 Come concordato nel documento sottoscritto a Città del Messico dai delegati di Italia, Messico e Nazioni Unite il 12 aprile scorso, nell’ultimo giorno della Conferenza internazionale dedicata alle buone prassi per il reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro, una delegazione formata da rappresentanti del sistema penitenziario del Messico e da funzionari dell’Ufficio messicano delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine sarà in Italia da lunedì prossimo per partecipare al Seminario internazionale “Il rinnovamento penitenziario negli Stati Uniti del Messico e il progetto Mi riscatto per Roma”, organizzato dal 3 al 7 giugno dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La visita costituisce un secondo e fondamentale passaggio verso l’implementazione del modello italiano di lavori di pubblica utilità nel sistema federale e statale messicano, sotto l’egida dell’Onu, e offrirà l’opportunità alla delegazione internazionale di visionare sul campo l’applicazione del progetto “Mi riscatto per…” a Roma e Palermo. Il programma di implementazione definitivo sarà sottoscritto a Città del Messico a fine luglio e la sperimentazione sarà avviata all’inizio di settembre. Ecco il calendario degli impegni della delegazione Messico-Unodc. Lunedì 3 giugno, Roma. Alle ore 9, presso la Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella” (in Via dei Barillai 135), seminario di apertura: interverranno il Capo del Dap, Francesco Basentini; la Sindaca di Roma, Virginia Raggi; il Direttore del sistema penitenziario dello Stato di Coahuila, Apolonio Armenta Parga; il Sottosegretario del sistema penitenziario di Città del Messico, Antonio Hazael Ruiz Ortega; e il Rappresentante Unodc in Messico, Antonino De Leo. Nel pomeriggio, visita alla Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Alle ore 18, sempre presso l’istituto penitenziario, tavola rotonda con i rappresentanti dei soggetti economici coinvolti o interessati al modello “Mi riscatto per…”: interverranno il Direttore dell’istituto Rosella Santoro, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Maria Antonia Vertaldi, l’Amministratore delegato di Lendlease Andrea Ruckstuhl, l’Amministratore delegato di Autostrade per l’Italia Roberto Tomasi, il Segretario Generale di Fondazione Italiana Terzo Settore Roberto Leonardi, il Direttore Affari istituzionali di Enel Massimo Bruno, l’Amministratore delegato del Gestore Servizi Energetici Roberto Moneta, l’Assessore allo Sport del Comune di Roma con delega alle carceri Daniele Frongia e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini. In serata, cena con la Sindaca Raggi nel carcere romano. Martedì 4 giugno, Roma. Alle ore 9:30, visita al giardino di Piazza Cairoli, per osservare i detenuti del progetto al lavoro nella cura e manutenzione dell’area verde attigua al Ministero della Giustizia. Alle ore 11, presso il Dicastero di Via Arenula, la delegazione internazionale sarà ricevuta dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Mercoledì 5 giugno, Palermo. In mattinata, visita alla Casa di reclusione Ucciardone, con particolare riguardo ai laboratori delle attività lavorative dei detenuti. Nel pomeriggio, visita al Giardino della Memoria a Ciaculli. Giovedì 6 giugno, Palermo. Alle ore 9:30, visita al Monte Pellegrino per osservare il lavoro dei detenuti impegnati nella pulizia del parco. Alle ore 10, a Palazzo Butera, conferenza stampa con il Sindaco Leoluca Orlando, il Capo del DAP Francesco Basentini, il Sottosegretario del Sistema Penitenziario di Città del Messico Antonio Hazael Ruiz Ortega e il Rappresentante di Unodc in Messico Antonino De Leo. Venerdì 7 giugno, Roma. Alle ore 9, presso la Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”, tavolo tecnico conclusivo con il Direttore Generale della Formazione del DAP, Riccardo Turrini Vita; il Direttore del sistema penitenziario dello Stato di Coahuila, Apolonio Armenta Parga; il Sottosegretario del sistema penitenziario di Città del Messico, Antonio Hazael Ruiz Ortega; il Rappresentante Unodc a Vienna, Muriel Jourdan; e il Rappresentante Unodc in Messico, Antonino De Leo. Alle ore 11:30, nella Sala Pietro da Cortona del Campidoglio, conferenza stampa con la Sindaca di Roma Virginia Raggi, il Capo del Dap Francesco Basentini e il Rappresentante Unodc in Messico, Antonino De Leo. Se si perde il senso dello Stato di luigi la spina La Stampa, 3 giugno 2019 Neanche la festa più solenne del nostro Stato, la festa della Repubblica, è passata indenne da una becera polemica propagandistica, perché definirla politica offenderebbe quella attività umana che Aristotele riteneva più nobile. Era già successo durante le celebrazioni per il 25 aprile, quando il presidente Mattarella, sulla scia del rilancio del sentimento patriottico nazionale voluto dal suo predecessore Ciampi, aveva parlato della Resistenza come “secondo Risorgimento” e Salvini si era sottratto alle celebrazioni ufficiali con la scusa di inaugurare una sede di polizia a Corleone. Ora si è dovuto assistere a un’altra miserevole strumentalizzazione di una ricorrenza fondamentale per gli italiani, quella che ricorda, dopo il fascismo e la guerra civile, la costituzione di uno Stato repubblicano sulla base del valore della libertà e della democrazia. Grave è stato che proprio la terza carica della Repubblica abbia innescato una assurda polemica. Un presidente della Camera dovrebbe essere consapevole della sua responsabilità istituzionale nell’impegno alla coesione politica e sociale del nostro Paese e, quindi, a non alimentare pretesti di divisioni trai suoi concittadini. Perché la festa più importante della Repubblica non si dedica a nessuno, dal momento che non è la conquista di un premio, ma il ricordo di valori che uniscono tutti, conquistati a prezzi di enormi sofferenze e lutti e, perciò, patrimonio della nazione intera. Altrettanto grave è che il vice premier del governo abbia subito colto l’occasione per ripetere lo slogan del “primi gli italiani”, perché valori come democrazia e libertà non si vincono in una gara di corsa o in una graduatoria di un concorso. Peccato che questo seri l’affido battibecco sia avvenuto a meno di 24 ore dal preoccupato appello che il presidente della Repubblica aveva rivolto durante la festa al Quirinale, con parole quasi profetiche rispetto a quello che è avvenuto il giorno dopo: “Libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimentai conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate tra le identità, con chi fomenta scontri”. Frasi che fanno comprendere come Mattarella sia giustamente timoroso delle conseguenze sulle sorti del nostro Paese di un clima in cui non solo la classe politica italiana, ma l’intera classe dirigente, siano sempre più tentate di abdicare alle proprie responsabilità. Sintomatico, a questo proposito, è stato anche un altro episodio che ha contribuito a guastare un clima di unità nazionale, la celebrazione di quello che una volta si chiamava “sentimento dello Stato”. La diserzione, cioè, dalla parata del 2 giugno di alcuni generali, in polemica con il governo e, in particolare, con il ministro della Difesa. Alti ufficiali delle nostre Forze Armate dovrebbero essere ben consapevoli del loro delicatissimo ruolo di “servitori dello Stato” e che la loro lealtà istituzionale non può ammettere gesti di tale clamorosa dissociazione. Una dissociazione pubblica e, per di più, nell’occasione più solenne per un militare, la sfilata del 2 giugno. I motivi del dissenso possono essere condivisi o meno, ma l’espressione della critica, alla luce proprio di quel loro compito fondamentale per l’equilibrio dei poteri che la Costituzione delimita in modo così rigoroso, non deve mai prestarsi, come immediatamente è avvenuto, a speculazioni politiche. In Italia si sta diffondendo un fraintendimento pericoloso. Si ritiene che il rispetto di presunte antiquate forme di galateo istituzionale, il rispetto di un presunto ipocrita linguaggio di correttezza politica, il rispetto per la dignità del ruolo che si ricopre siano maschere ipocrite che vadano abbattute, in nome della cosiddetta “democrazia del popolo”. Il loro disprezzo, invece, segnala una verticale caduta del senso dello Stato tra i cittadini e tra la classe dirigente, preludio inquietante della perdita proprio della nostra democrazia, quella senza aggettivi, né genitivi. “Cari magistrati, serve un esame di coscienza. Ma le relazioni con la politica sono normali” di Francesco Grignetti La Stampa, 3 giugno 2019 Intervista a Pasquale Grasso, presidente dell’Anm: “Il Csm è un organo misto, gli incontri con chi ha pendenze penali sono comunque inappropriati”. Pasquale Grasso è il presidente della Associazione nazionale magistrati e per lui sono giorni incandescenti. Dice: “Il mio dovere, nei confronti dei magistrati e prima ancora dei cittadini, è difendere da attacchi impropri, dal sapore autolesionistico, il bene comune costituito dall’indipendenza della magistratura”. Presidente Grasso, la sua, è la paura di molte toghe… “Guardi, più e più volte i magistrati hanno ricordato il valore dell’indipendenza della magistratura nel sistema costituzionale, che significa separazione e bilanciamento tra i poteri dello Stato”. Il suo timore? “Lo dico subito: una reazione scomposta della politica. Così come è negativa la inaccurata distinzione delle funzioni e dei ruoli tra politica e autogoverno della magistratura, sarebbe negativo che si trasmodi all’altro estremo. Insisto nel dire che l’indipendenza della magistratura è un cardine del nostro ordinamento; non possiamo neanche attenuare questa indipendenza”. Quando dice che non si è rispettata la distinzioni delle funzioni e dei ruoli, intende gli incontri tra Luca Palamara, alcuni membri del Csm, e uomini politici? “Tutto ciò che conduce a una indistinzione in detto rapporto, non è conforme a Costituzione. Avverto però l’esigenza di evitare anche commistioni improprie. Bisogna distinguere tra realtà, realtà processuale, e notizie di stampa”. Si sente una sottile nota polemica contro i giornali… “Vedo che in molti articoli si veicola il messaggio che i magistrati italiani passano il loro tempo a trafficare, spartire, accordarsi. Ecco, così non è. Noi magistrati non siamo questo. Siamo i garanti della concreta attuazione dei diritti di tutti i cittadini”. Parliamo delle commistioni? “Non faccio commenti sui profili penali e disciplinari. Sotto il profilo strettamente associativo, ho richiesto alla Procura di Perugia la trasmissione degli atti di indagine ostensibili (cioè non coperti da segreto), per sottoporli alla valutazione dei nostri probiviri. Altra cosa sono gli incontri, le relazioni, le discussioni che avrebbero visto coinvolti Palamara più altri magistrati e politici, in riferimento alle scelte dei direttivi. Questo secondo profilo, per quel che emerge dalle notizie di stampa, ai miei occhi non evidenzia profili di illiceità penale”. E dunque? “Da quel che vedo, si tratta di una discussione di “fatti del Csm”, da parte dei consiglieri con esponenti associativi e della politica, al di fuori del Csm. Ecco, ritengo sia un problema di limiti, e di opportuna e doverosa autolimitazione delle condotte. Prego, evitiamo l’ipocrisia e l’addomesticamento della verità. Le relazioni di cui trattiamo, soprattutto in riferimento a incarichi particolarmente delicati, sono fisiologiche”. Non ci vede scandalo? “No, sono relazioni previste dall’ordinamento, che ha strutturato il Consiglio superiore della magistratura come organo a composizione mista, con membri togati e laici, cioè esponenti della politica. Nei termini che precedono, l’interlocuzione è perfino doverosa, tanto che si richiede il concerto del ministro della Giustizia sulle decisioni in questione. Un’acquisizione, anche informale, di elementi di informazione e valutazione è stata sempre una costante dell’attività di autogoverno, “attuata” da tutte le componenti che si sono succedute nel corso degli anni. È tuttavia una questione di comprensione dei limiti”. Che pensa di certe cene? Di certi discorsi tra consiglieri, ex consiglieri, politici? “Non posso esimermi dall’evidenziare che, al netto dell’affermata non influenza concreta di queste cene e discorsi, in tantissimi mi hanno scritto e chiamato in queste ore. Tutti concordi nel ritenere assolutamente inappropriate relazioni di quel tipo in presenza di pendenze di tipo penale dei soggetti in questione, soprattutto se incardinate proprio negli uffici oggetto di discussione. Ecco, questo è senz’altro un caso di superamento dei limiti, se non altro del buon senso”. E ora? “Serve un esame di coscienza. Personalmente ritengo che le pur legittime relazioni di cui dicevo debbono essere strettamente ricondotte all’interno del Consiglio. Occorre assoluta trasparenza dei criteri e delle scelte, e individuare regole più puntuali per le scelte”. Pm indipendente dalla politica, giudice indipendente dal pm di Beniamino Migliucci* Il Tempo, 3 giugno 2019 La proposta di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere penali è stata sottoscritta da 72 mila cittadini. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue del 27.05.2019 (C508/18) sembra aver ridato fiato, senza alcuna ragione, a chi avversa la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. Le valutazioni espresse nella decisione, non solo non sfiorano la validità della proposta che mira a dare finalmente concreta attuazione all’art. 111 della Costituzione, ma la rafforzano. La Corte Europea, infatti, non si pronuncia affatto - e non potrebbe essere diversamente - sull’opzione di tenere distinte e separate le carriere di chi indaga e di chi giudica, sistema adottato nella stragrande maggioranza dei paesi occidentali che adottano il processo accusatorio, rito intimamente connesso a principi liberali di giustizia, ma si sofferma esclusivamente sulle peculiarità del modello tedesco e solo in relazione al mandato di arresto europeo. Osserva, infatti, la Corte che in quel sistema il pm sarebbe un mero funzionario amministrativo, il che determinerebbe la possibilità di ingerenze politiche nella procedura di consegna. La proposta di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere Penali, sottoscritta da 72.000 cittadini, che ha dato vita ad un intergruppo parlamentare a cui partecipano trasversalmente esponenti di tutti i partiti politici, non prevede nulla del genere ed anzi stabilisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere, e si distingue in giudicante e requirente”. A garanzia dell’autonomia e indipendenza del pm, si prevede un Consiglio della Magistratura requirente, composto a maggioranza da magistrati requirenti. Non vi è dunque alcun rischio di sottoposizione all’esecutivo, e dobbiamo registrare con soddisfazione che chi non intende mistificare la proposta offerta all’approfondimento e al dibattito parlamentare ha abbandonato l’argomento, perché totalmente inconsistente e infondato. La sentenza della Corte semmai suggerisce un altro spunto di riflessione, e riguarda la futura operatività della Procura Europea che si occuperà di gravi reati con grandi competenze e altrettanto potere. In questo contesto appare ancor più necessario, e addirittura indispensabile, pretendere un rafforzamento della figura del giudice, terzo, così come vuole l’art. 111 della Costituzione, e autorevole custode dalla cultura del limite, al fine di garantire un ineludibile quanto efficace controllo giurisdizionale. L’Unione delle Camere Penali, nel rilanciare la proposta ha voluto essere molto chiara, con lo slogan “Un pm indipendente dalla politica, un giudice indipendente dal pm”, che sembra perfettamente coerente alle considerazioni attuali e insuperabili di Giovanni Falcone, che dopo averle scritte in un saggio del 1988 le ribadì in una intervista del 1991: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il pm sotto il controllo dell’Esecutivo”. *Presidente del Comitato promotore per la separazione delle carriere del magistrati Giustizia a pezzi. E lo chiamano “cambiamento” di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 3 giugno 2019 L’anno di governo gialloverde, appena celebrato nel caos più assoluto, è stato anche - e forse soprattutto - un anno di populismo giudiziario che ha letteralmente stravolto il sistema di garanzie scritto nella Costituzione e basato sul principio della presunzione d’innocenza. La politica si è così definitivamente consegnata nelle mani della magistratura, per la quale già una volta, con l’allora procuratore di Milano Borrelli, era stata teorizzata una del tutto impropria funzione di “supplenza”. Questo nonostante che da anni sia calata in modo esponenziale la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario, fiducia che sembra destinata a diminuire ancora dopo le ultime vicende che stanno delineando uno scenario inquietante di veleni, degenerazioni correntizie, guerre incrociate e rapporti obliqui, tanto che se i magistrati indagati fossero stati uomini politici, per loro sarebbero sicuramente già scattate richieste di arresto e autorizzazioni concesse seduta stante dalla Camera di appartenenza. Uno scenario che fa tornare alla mente il clima infuocato in cui il presidente Cossiga mandò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli arrivando addirittura a definire il Csm “fuorilegge” per le sue intromissioni nella politica. Oggi la situazione è molto diversa, non perché giustizia e politica siano diventate due parallele che non s’incontrano mai, tutt’altro, ma perché c’è un Guardasigilli totalmente succube delle toghe e che sta riscrivendo la politica giudiziaria sotto dettatura prima degli istinti primordiali del blog pentastellato, e poi dell’ala più giustizialista della magistratura. Sembra quasi paradossale che lo scandalo della presunta corruzione togata sia esploso proprio ora, ma se per la prima volta nella storia del Csm si è dimesso un giudice togato, e spunta addirittura l’ipotesi di scioglimento dell’organo di autogoverno dei magistrati, significa che il livello di guardia è stato ampiamente superato. Salvini, assurto dopo le elezioni al ruolo di premier virtuale, ora dice che la riforma della giustizia è un’emergenza assoluta. In verità è una tesi che sostiene da tempo, ma nei fatti non ha mai mosso un dito per contrastare la deriva che ha portato a una vera e propria controriforma giacobina della giustizia, che ha parificato la corruzione alla mafia, ha abolito la prescrizione, inasprito la disciplina delle intercettazioni, alzato indiscriminatamente le pene, introdotto l’agente provocatore sotto copertura e sta per approvare il referendum propositivo in materia penale, che sarebbe il trionfo finale del populismo giudiziario. Tanto per fare un esempio: con la riforma del voto di scambio si rischia una reclusione da 10 a 15 anni, stessa pena prevista per l’associazione mafiosa. E in cantiere c’è anche la riforma del processo penale che dovrebbe essere approvata entro l’anno, ma di cui (fortunatamente) ancora non si conoscono i contorni. Questo il triste stato dell’arte, con l’aggravante del vecchio vizio della politica di servirsi delle inchieste per eliminare gli avversari attraverso la scorciatoia giudiziaria, un uso improprio della giustizia che risale agli anni di Tangentopoli che non è stato mai dismesso e che, anzi, ha ripreso vigore con i populisti al governo che hanno introdotto quest’arma impropria per regolare i conti all’interno della stessa maggioranza. Un imbarbarimento che dalla politica ora si è allargato anche alle lotte interne alla magistratura, delineando un quadro semplicemente inquietante. L’Italia a mano armata. Per difendersi in casa boom di licenze sportive di Davide Lessi e Michele Sasso La Stampa, 3 giugno 2019 Sono in 4 milioni a detenere legalmente un’arma. Crescita sospetta di appassionati di tiro a volo. Per ogni militare ci sono 20 cittadini con pistola. C’è un piccolo-grande esercito in Italia. Un esercito parallelo che in nome della sicurezza o della “passione” per il tiro a segno ha deciso di acquistare e maneggiare un’arma. Per vedere questi soldati non serve partecipare alla parata militare del 2 giugno a Roma. Basta avere un account Facebook. E iscriversi al gruppo “Legittima difesa abitativa”. In pochi clic, dopo che gli amministratori della pagina hanno accettato la tua iscrizione (vincolata alla compilazione di un questionario), si viene catapultati in una comunità composta da oltre 20 mila persone. Che postano la foto dell’ultima pistola comprata, polemizzano sui divieti di caccia, si scambiano consigli utili. “Per fare il porto d’armi per uso sportivo come posso fare?”, chiede lo scorso 28 maggio A.M. nuovo membro del gruppo. Nei 116 commenti di risposta si scopre che i tempi per ottenere la licenza variano da città a città. “A Ravenna sono veloci”, suggerisce un utente. “Ci metti 7 mesi se non sei raccomandato”, replica invece un altro. Un terzo ammette di essere “sarcastico”. “In Italia - commenta - ora come ora devi esseri immacolato. E pensa che lo danno (il porto d’armi, ndr) ai politici e ho detto tutto”. Ecco perché c’è chi propone una liberalizzazione: “Bisogna legalizzare la libera vendita delle armi”. Il modello più citato è quello degli Stati Uniti. Curioso invece che, appena al di là delle Alpi, la Svizzera si sia appena espressa con un referendum a favore di norme più rigide sul possesso d’armi. Ma l’Italia del 2019 sembra andare in un’altra direzione. Lo dicono i numeri. Autorizzazioni facili Sono 1.315.700 le licenze in vigore per detenzione legale di armi nel 2018, in crescita del 4% rispetto al 2015. Ma, se si aggiungono quelli che non hanno rinnovato la licenza negli ultimi anni (sfuggendo così da ogni monitoraggio), sono almeno 4 milioni le persone che detengono legalmente un’arma in casa. Per ogni militare (200 mila gli appartenenti alle forze armate) in Italia ci sono insomma 20 “appassionati” che hanno una pistola nel cassetto o un fucile in cassaforte. A dettare l’incremento più marcato è l’uso sportivo (+27% negli ultimi tre anni): sono circa 600 mila le licenze. Tutte le altre tipologie di porto d’armi sono in calo, compresa quella per difesa personale che necessita di una valida motivazione che deve essere riconosciuta in Prefettura. Se i dati vengono analizzati più attentamente si scopre che sommando il numero degli associati all’Uits e alla Fitav e alle altre federazioni di tiro a volo si arriva a quota 100 mila cui si aggiungono i 40 mila iscritti ai poligoni privati. Un totale di 140 mila appassionati. Altre 460 mila persone non praticano alcuno sport ma tengono comunque un’arma in casa. “Contrariamente al diffuso luogo comune, la legislazione italiana è di fatto sostanzialmente permissiva in materia di detenzione di armi”, spiega Giorgio Beretta dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere (Opal). “A qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è consentito ottenere una licenza che permette di possedere tre pistole, dodici fucili semiautomatici e perfino un numero illimitato di fucili da caccia”. Luca Traini, che a febbraio di un anno fa aprì il fuoco contro i migranti tra le strade di Macerata, ottenne la licenza in meno tre settimane. Diciotto giorni. Gli stessi in cui, senza difficoltà, si procurò una pistola con regolare licenza. L’insicurezza percepita Forse il Paese che si arma ha la percezione di essere più sicura. I dati Istat parlano di una realtà diversa. Le rapine negli esercizi commerciali sono in consistente calo nell’ultimo decennio (da 8.149 nel 2007 a 4.848 nel 2016) e anche quelle nelle abitazioni sono tornate ai livelli di dieci anni fa (erano 2.529 nel 2007, sono state 2.562 nel 2016). La realtà è diversa dalla percezione anche per quanto riguarda gli omicidi: nel 2018 sono stati 51 (fonte Opal) quelli avvenuti con un’arma legalmente detenuta, praticamente uno a settimana. Tra questi delitti domestici e femminicidi. Tanti o pochi? Per un confronto: le vittime accertate della mafia in un anno sono state meno (48). E ancor meno sono gli omicidi, effettuati con ogni strumento, per “furti o rapine” (16 secondo i dati Istat relativi al 2017). L’ideologia della “difesa ad ogni costo” ci avvicina pericolosamente agli Stati Uniti, primo Paese al mondo con oltre 270 milioni di armi in mano ai civili (più di una per ogni adulto) e il triste record di 30 mila morti e 80 mila feriti all’anno. Un’emergenza contro cui si era scagliato l’ex presidente Obama: durante il suo mandato alla Casa Bianca promise una stretta sull’uso per “frenare queste carneficine nelle nostre comunità”. Poi è arrivato Trump è tutti gli sforzi sono stati congelati. Il Parlamento ha approvato una legge controversa (la numero 36 del 2019). Con la riforma si sono allargate le “maglie” di proporzionalità tra offesa e difesa. Il testo riconosce che la difesa è “sempre” legittima “se taluno usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o la altrui incolumità, i beni propri o altrui”. Chi critica la riforma sostiene che circoleranno “più armi” e quindi ci sarà “più insicurezza”. L’indirizzo politico è chiaro: uno dei primi atti della Lega al governo è stato recepire la direttiva europea 477 che, tra le altre cose, aumenta i colpi nei caricatori: da 15 a 20 per le armi corte. Con un paradosso: i cittadini hanno una potenza di fuoco superiore alle nostre forze di polizia. I loro caricatori hanno solo 15 colpi. “La nuova legge sulla legittima difesa invita a sparare sempre di più” di Letizia Tortello La Stampa, 3 giugno 2019 Il magistrato del Tribunale di Torino Marco Picco boccia la norma. L’Anm si è schierata con Mattarella, il quale ha firmato la legge, ma ha manifestato preoccupazioni e dubbi. Quali sono i punti che non vi convincono? “L’Anm è contraria a questa riforma per diverse ragioni. La prima: la nuova legge stabilisce che, nel caso di violazione del domicilio, sussiste “sempre” il rapporto di proporzione tra offesa e difesa se qualcuno usa un’arma legittimamente detenuta per difendere la propria incolumità, o per difendere propri beni dall’aggressione. Così, equiparando la difesa del bene della vita a quella del bene patrimoniale, viene meno ogni valutazione del giudice”. Vita e gioielli non sono la stessa cosa, va da sé. Ora, difenderli, sparando, li rende di fatto equiparabili? “Sì. Prima non era sempre legittimo difendersi mettendo a rischio la vita dell’aggressore, se in pericolo vi era un bene inferiore. Andava valutato caso per caso. Ma c’è anche un altro aspetto della legge che potrebbe rappresentare profili di incostituzionalità: sembra venire meno il meccanismo di necessità della difesa. Mi spiego: ti sparo se sto per essere aggredito fisicamente. Ora, invece, se ti introduci in casa mia, potrebbe succedere di tutto”. Per chiarire: perché sia legittima difesa non è necessario che il ladro abbia un’arma in mano, potrebbe solo minacciarmi di usarla? “Esattamente. E la reazione dell’aggredito può non essere immediata, ma successiva. Ad esempio, quando non è più caso di difendersi e il ladro sta scappando, anche in questo caso sembrerebbe legittimo sparare”. Insomma, si scoraggia il ladro tout court. Questo non dovrebbe portare più sicurezza? “Certo è giusto disincentivare i ladri a rubare. Ma i requisiti della legittima difesa erano indicati anche nella precedente legge. Le modifiche invogliano ad armarsi e legittimano a reagire in modo violento anche se non è necessario”. La ritenete una riforma inutile? “I casi in cui era invocata la legittima difesa in Italia non erano all’ordine del giorno, e sono sempre finiti con l’assoluzione dell’aggredito. Non c’era un problema allarmante a livello sociale. Il problema sarà ora capire come interpretare queste innovazioni del legislatore”. Pensa che presto dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale? “Qualche collega, prima o poi, solleverà la questione della legittimità costituzionale. Molti magistrati e avvocati hanno già espresso perplessità sui punti che ho citato. La nuova legge italiana va contro il diritto europeo, che dice che per reagire in modo violento occorre la necessità di farlo, ed è abbastanza un unicum nel panorama degli altri Stati, dove i beni patrimoniali e il bene della vita non sono equiparabili”. Taser nelle grandi città, ma Milano dice no. Amnesty: “Senza formazione è un rischio” di Michele Sasso La Stampa, 3 giugno 2019 L’asse tra Viminale e Sindacati di Polizia. Le prime pistole Taser sono già nelle fondine degli agenti, dopo 9 mesi di sperimentazione in 12 città italiane. Fortemente voluta dal ministro dell’Interno Salvini e dai sindacati di polizia che chiedono maggiore protezione, la pistola elettronica è un dispositivo che stordisce senza uccidere. Quello che ha spinto il vicepremier ad emanare una circolare è la facilità nell’uso grazie al rilascio di una scarica elettrica attraverso due piccole freccette sparate fino a 8 metri di distanza. Un intervento apparentemente risolutivo in situazioni complicate, tanto nei confronti di persone recalcitranti all’arresto quanto di prigionieri in rivolta o di folle aggressive. C’è però un lato oscuro nell’uso di questa arma definita come “non letale” dai costruttori che ha spinto anche le Nazioni Unite a classificarla come “strumento di tortura”. In Usa e Canada, dove è ampiamente utilizzata, dal 2001 il numero delle morti direttamente o indirettamente correlate alle Taser è superiore al migliaio. Nel 90 per cento dei casi, le vittime erano disarmate. Gli studi medici sono concordi nel ritenere che il suo uso abbia avuto conseguenze mortali su soggetti con disturbi cardiaci o le cui funzioni erano compromesse da alcool o droga o, ancora, che erano sotto sforzo, ad esempio al termine di una colluttazione o di una corsa. Altro fattore di preoccupazione è la facilità con cui la pistola elettrica può rilasciare scariche multiple, che possono danneggiare irreparabilmente il cuore o il sistema respiratorio. Frena anche Amnesty International che chiede “una formazione specifica per scongiurare il rischio di violazioni dei diritti umani”. Sulla stessa frequenza, il consiglio comunale di Milano, a maggioranza di centrosinistra, che ha bocciato l’uso per la polizia locale. Entusiasti, sul fronte opposto, i sindaci di centrodestra che nei comuni capoluogo e quelli sopra i 100mila abitanti potranno usare la pistola Taser dopo l’ok del consiglio. Il primo a votare a favore è stato quello di Verona per “combattere la criminalità”. Messa alla prova, illegittimo modificare il trattamento senza consenso dell’imputato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 30 aprile 2019 n. 17869. In tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, è illegittimo il provvedimento con cui il giudice modifichi il programma di trattamento in difetto della previa consultazione delle parti e del consenso dell’imputato. Così la sezione terza penale della Cassazione con la sentenza 17869/2019. In termini, sezione III, 26 ottobre 2017, Tortola, secondo cui, in tema di sospensione del processo e messa alla prova, è illegittima la modifica del programma di trattamento che venga disposta dal giudice senza la consultazione delle parti e in assenza del consenso dell’imputato, in quanto l’articolo 464-quater, comma 4, del Cpp prevede la possibilità per il giudice di integrare o modificare il programma di trattamento ma con il consenso dell’imputato. Tale consenso, infatti, deve ritenersi vincolante, sia alla luce dell’inequivoco tenore della disposizione, sia in considerazione della struttura dell’istituto, che è rimesso all’iniziativa dell’imputato e nell’ambito del quale il programma di trattamento deve essere elaborato d’intesa con l’ufficio esecuzione penale esterna. Pertanto, in caso di mancanza di consenso alle modifiche o integrazioni, il programma, come elaborato d’intesa tra l’imputato richiedente e l’ufficio esecuzione penale esterna, non può essere modificato, e il giudice dovrà decidere su di esso nella sua originaria formulazione. Analogamente, sezione V, 27 settembre 2013, Pm in procedimento G., che, relativamente alla sospensione del processo e messa alla prova dell’imputato minorenne, ha parimenti ritenuto illegittimo il provvedimento con cui il giudice, senza la consultazione delle parti e del servizio minorile competente, imponga prescrizioni ulteriori rispetto a quelle stabilite nel progetto di intervento. Sezioni unite chiamate sul ricorso in Cassazione contro le sentenze di patteggiamento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 21 maggio 2019 n. 22113. Va rimessa alle sezioni Unite la questione se, a seguito dell’entrata in vigore del comma 2-bis dell’articolo 448 del Cpp(introdotto dalla legge 23 giugno 2017 n. 103), siano ricorribili o no per cassazione e, nell’affermativa, entro quali limiti (se cioè, ove sia riconosciuta la ricorribilità, rientri nel novero dell’illegalità l’ipotesi di motivazione inesistente, e non già meramente incongrua), le sentenze di applicazione di pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del Cpp che applicano ovvero che omettono di applicare sanzioni amministrative accessorie (fattispecie relativa al reato di guida in stato di ebbrezza, definito con il patteggiamento, in ordine al quale il procuratore generale aveva proposto ricorso lamentando il “mancato raddoppio” della sanzione amministrativa accessoria della patente di guida, che avrebbe dovuto essere effettuato in ragione del fatto che il giudice non aveva disposto la confisca dell’autoveicolo condotto dall’imputato perché risultato di proprietà di terzi). La questione controversa riguarda il disposto dell’articolo 448, comma 2-bis, del Cpp, introdotto dalla legge 23 giugno 2017 n. 103, secondo cui il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento “solo per motivi attinenti l’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”. La Corte ha pertinentemente rimesso la questione alle sezioni Unite sussistendo il contrasto evidenziato in massima. Avendo riguardo alla innovata disposizione di legge sembra sostenibile che il difetto della motivazione - anche quello in ordine alla insussistenza delle condizioni per la pronuncia del proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 del Cpp- non rientra più tra i casi per i quali è ammesso il ricorso per cassazione, a meno che non ci si trovi di fronte a una motivazione apparente e, come tale, nulla (ciò che integra una determinazione illegale). E tale conclusione deve valere sia per la pena principale, che per le misure di sicurezza (si pensi alla confisca o all’espulsione) e per le sanzioni amministrative accessorie (si pensi, come nel caso di specie, alla sospensione della patente di guida). Infatti, in senso contrario, non sembra corretto si possa sostenere che il limite sia inapplicabile alle misure di sicurezza e/o alle sanzioni amministrative accessorie sull’assunto che l’articolo 448, comma 2-bis, del Cpp non si riferisca anche alle statuizioni estranee all’accordo delle parti, in quanto il dato testuale sembra far riferimento al provvedimento decisorio nella sua unità (la sentenza di patteggiamento, senza specificazioni quanto al contenuto). Da ciò deriva che, ragionevolmente, le sezioni Unite dovrebbero chiarire i dubbi, con riguardo alle sanzioni amministrative accessorie, sostenendo la ricorribilità dell’omessa applicazione della sanzione amministrativa obbligatoria e dell’applicazione di una sanzione amministrativa accessoria illegale per genus e /o limiti temporali (ad esempio, revoca anziché sospensione della patente; sospensione per una misura superiore al massimo edittale o inferiore al minimo). Mentre dovrebbe ritenere non ricorribile il lamentato generico difetto di motivazione sulla misura (non illegale) della sanzione amministrativa, purché appunto ricompresa nei limiti edittali. L’udienza delle sezioni Unite è fissata per il 18 luglio 2019. In quella stessa udienza la Corte affronterà anche una questione di contenuto affine: se l’articolo 448, comma 2-bis, del Cpp, introdotto dalla legge n. 103 del 2017, osti o no all’ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione di pena con la quale si deduce il vizio di motivazione in ordine all’applicazione di misura di sicurezza, personale o patrimoniale. Anche tale decisione dovrebbe ispirarsi agli argomenti sopra esposti. Per l’effetto, volendo esemplificare, dovrebbe ammettersi la ricorribilità della confisca adottata in assenza dei presupposti di legge ovvero della confisca motivata solo apparentemente (con motivazione quindi nulla). Ad esempio, sarebbe ricorribile la confisca del denaro considerato profitto del reato senza la benché minima motivazione a supporto; così come sarebbe ricorribile la confisca del denaro considerato profitto del reato quando il reato oggetto di patteggiamento sia quello di detenzione illecita di droga e non quello di spaccio. Mentre non sarebbe ricorribile la confisca adottata con motivazione magari scarsa ma non inesistente. Il reato di appropriazione indebita dell’amministratore di condominio Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2019 Reati contro il patrimonio - Appropriazione indebita - Amministratore di condominio - Volontà di restituzione - Irrilevanza - Condizioni. Nel reato di appropriazione indebita, nel quale viene data alla res una destinazione incompatibile con il titolo e con le ragioni che ne giustificano il possesso, a nulla rileva la volontà di restituire ciò di cui ci si è appropriati a meno che tale volontà si manifesti al momento dell’abuso del possesso e sia accompagnata dalla certezza della restituzione. Tali condizioni non appaiono dimostrate nel caso dell’appropriazione indebita di somme del condominio da parte dell’amministratore, poi cessato dalla carica, permanendo gli ammanchi nelle casse condominiali e la presenza di posizioni debitorie del condominio al momento della cessazione dell’incarico. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 27 maggio 2019 n. 23182. Amministratore di condominio - Appropriazione indebita - Rendiconto - Fatture inesistenti. L’articolo 1123 del Codice civile stabilisce i criteri di ripartizione delle spese condominiali e l’articolo 63 delle Disposizioni di attuazione afferma che l’amministratore, sulla base dello stato di ripartizione approvato dall’assemblea, senza autorizzazione assembleare, può ottenere un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo, nonostante l’eventuale opposizione. Quindi, per comporre lo stato di ripartizione spese l’amministratore deve redigere il bilancio consuntivo delle spese sostenute che deve essere approvato dall’assemblea. A tale riguardo è necessario che le poste contabili ivi indicate siano vere, altrimenti l’amministratore condominiale risponde del reato di appropriazione indebita, se ingiustificatamente si impossessa del denaro indebitamente ottenuto e non adeguatamente giustificato. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 13 marzo 2019 n. 10968. Reati contro il patrimonio - Delitti - Appropriazione indebita - In genere - Amministratore di più condominii - Confluenza dei diversi saldi attivi in un unico conto di gestione in assenza di autorizzazione - Violazione della destinazione di scopo - Sussistenza. L’amministratore di più condominii che, senza autorizzazione, faccia confluire i saldi dei conti attivi dei singoli condominii su un unico conto di gestione, a lui intestato, risponde del reato di appropriazione indebita, a prescindere dalla destinazione finale del saldo cumulativo a esigenze personali dell’amministratore o a esigenze dei condominii amministrati, in quanto tale condotta comporta di per sé la violazione del vincolo di destinazione impresso al denaro al momento del suo conferimento. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 19 dicembre 2018 n. 57383. Appropriazione indebita - Amministratore di condominio - Mancato pagamento di debiti condominiali - A fronte della riscossione dei contributi dei condomini - Sussiste. L’amministratore di condominio instaura con i condomini un rapporto di mandato nel cui ambito può ricevere dagli stessi somme di denaro al fine di provvedere all’esecuzione di specifici pagamenti o da riversare nella cassa condominiale onde far fronte alle spese di gestione del condominio. In virtù dei generali principi in tema di consumazione del reato di appropriazione indebita, è ravvisabile un’oggettiva interversione del possesso ogniqualvolta l’amministratore, anziché dare corso ai suoi obblighi, dia alle somme a lui rimesse dai condomini una destinazione del tutto incompatibile con il mandato ricevuto e coerente invece con sue finalità personali. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 7 maggio 2018 n. 19729. Reati contro il patrimonio - Delitti - Appropriazione indebita - Momento consumativo del reato - Momento consumativo del reato - Individuazione - Fattispecie. Il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, e cioè nel momento in cui l’agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria. (Nella specie, la Corte ha ritenuto consumato il delitto di appropriazione indebita delle somme relative al condominio, introitate a seguito di rendiconti, da parte di colui che ne era stato amministratore, all’atto della cessazione della carica, momento in cui, in mancanza di restituzione dell’importo delle somme ricevute nel corso della gestione, si verifica con certezza l’interversione del possesso). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 7 settembre 2017 n. 40870. Lombardia: sportelli del Garante civico regionale presso gli Istituti di pena di Marzia Paolucci Italia Oggi, 3 giugno 2019 Una convenzione stipulata con Anci per l’apertura di sportelli del Difensore civico della Regione Lombardia presso i Comuni lombardi a seguito dell’abolizione da parte della Legge di stabilità 2010 dei difensori civici comunali e l’apertura di sportelli del Garante presso gli istituti di pena regionali con il conseguente aumento dal 2017 al 2018 di circa un centinaio di istanze al Garante dei diritti dei detenuti. Sono alcuni dei dati pubblicati dalla Relazione sull’attività svolta nel 2018 dal Difensore civico della Regione Lombardia presentata al Senato il 29 marzo 2019. In base alla convenzione con Anci Lombardia che raggruppa oltre 1.500 Comuni, le istanze dei cittadini riguardanti servizi e tributi locali, potranno esser fatte valere davanti al difensore civico regionale che assumerà così la funzione di Difensore civico comunale. Tributi come quelli di Ici, Imu, Tarsu e Tari, rappresentano infatti la fetta più numerosa delle istanze rivolte. Altre intese sono avvenute con Federcasa e Aler Milano per trattare questioni di edilizia economica popolare. In sensibile aumento le richieste di intervento nei servizi pubblici, in particolare energia elettrica e gas. In ambito lavorativo, molte questioni hanno riguardato la stabilizzazione del personale precario, l’espletamento dei concorsi, il conferimento di incarichi dirigenziali, la sicurezza dei luoghi di lavoro e i permessi per visite specialistiche ed esami diagnostici. Per il territorio, invece, il numero più consistente di pratiche addirittura triplicate, ha riguardato strumenti urbanistici, lavori e trasporti pubblici. Per i primi, si è trattato di lamentele dei cittadini per la mutata destinazione urbanistica di aree di loro proprietà e presunti abusi edilizi nell’edilizia privata. Mentre rilievi sulla mancanza di interventi di manutenzione del verde pubblico del comune e di sistemazione e ripristino stradale insieme alla gestione della segnaletica orizzontale e verticale, hanno riguardato il settore dei lavori pubblici. Attinenti invece ai trasporti pubblici, i rilievi di ritardi, soppressioni e inadeguatezza di mezzi vecchi e scarsamente mantenuti. Per l’ambiente, nel 2018 sono arrivati all’Ufficio del difensore regionale 27 rilievi per inquinamento acustico e atmosferico. Per i primi, si è trattato prevalentemente di disturbo sonoro provocato dall’esercizio di attività commerciali per superamento dei limiti acustici stabiliti dalla normativa vigente. Per i rilievi di inquinamento atmosferico, il riferimento è il “Codice dell’ambiente” del 2006 successivamente modificato; qui la casistica delle osservazioni dei cittadini ha riguardato le istanze più varie: inquinamento da impianti termici a biomasse, miasmi, presenza di amianto in siti industriali dismessi, veicoli inquinanti. In materia di invalidità civile, al difensore civico si sono rivolti anche cittadini per denunciare la presenza di barriere architettoniche di ostacolo alla mobilità di persone disabili, in particolare in carrozzina e all’occupazione abusiva dei parcheggi a loro riservati. In materia previdenziale, salgono a 75 le richieste di chiarimento all’Inps per questioni pensionistiche, contributi separati e riscatto laurea. Istanze triplicate negli ultimi tre anni in ambito sanitario dove tanti cittadini hanno lamentato la mancanza di strutture post ricovero per garantire la continuità di cura a persone non autosufficienti, le liste” attesa per le prestazioni ambulatoriali e la lunghezza dei tempi di risposta agli esami fatti. Condizioni detentive, colloqui con i familiari, problemi con l’Inps e richieste di trasferimento rimaste insoddisfatte. Sono le tematiche più frequenti oggetto delle 212 istanze dei detenuti arrivate al Garante regionale: 87 richieste di intervento in più rispetto al 2017. Un aumento attribuibile all’apertura mensile di sportelli del Garante presso gli Istituti di pena tenuti a fornire spazi adeguati in assenza del controllo uditivo da parte della polizia penitenziaria. In aumento anche le pratiche sanitarie dove i rilievi hanno riguardato la tempistica delle visite specialistiche, i ricoveri ospedalieri, i presidi ambulatoriali e la copertura non sempre garantita del servizio h24 di guardia medica. Campobasso: la rivolta dei detenuti arriva in Parlamento primonumero.it, 3 giugno 2019 Senatore M5S propone: “Unico penitenziario tra i due capoluoghi”. Il parlamentare molisano Fabrizio Ortis ha presentato un’interrogazione al ministro Bonafede chiedendogli di ispezionare personalmente la struttura e propone di realizzare un’unica casa circondariale tra Campobasso e Isernia per garantire la sicurezza di detenuti e operatori. Un carcere unico per Campobasso e Isernia, al di fuori dei centri abitati, per garantire condizioni di vita dignitose e sicurezza a operatori e detenuti. Questa la proposta che il senatore di M5S Fabrizio Ortis ha voluto indirettamente lanciare dopo i fatti del 22 maggio, quando un gruppo di detenuti ha dato luogo a una rivolta all’interno dell’istituto di pena di via Cavour a Campobasso, sfociata in danneggiamenti di suppellettili e mobilio, ma fortunatamente senza alcun ferito. Il giorno dopo, il senatore si era recato nel carcere per rendersi conto della situazione con i propri occhi. Con un’interrogazione al ministro Alfonso Bonafede, Ortis torna sul caso e al titolare della Giustizia ha chiesto di ispezionare personalmente la struttura e “toccare con mano” le condizioni di vita interne, inadeguate per la vetustà della struttura, tali da renderla di fatto sovraffollata. Non a caso, sono stati segnalati diversi episodi di aggressione ai danni degli agenti di custodia, impossibilitati a sopperire col loro organico alle difficili condizioni del carcere. Da non dimenticare, poi, il ritrovamento di droga e cellulari all’interno, con la magistratura che ha avviato importanti inchieste al riguardo. Una situazione al limite, insomma, per la quale Ortis si rivolge al Guardasigilli auspicando che si vada verso il carcere “unico” tra i due capoluoghi di provincia del Molise, al fine di “garantire - ha dichiarato - maggiore sicurezza per i cittadini, migliori condizioni di lavoro per gli operatori del settore e dignitose condizioni di vita alla popolazione carceraria”. Come riferito dall’associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale Antigone, “la vetusta e ormai inadeguata struttura carceraria - concepita nel 1830, terminata nel 1861, e ubicata nel centro cittadino - presenta notevoli problemi, versando in condizioni difficili. Stando all’ultimo rapporto del 2018 redatto dall’associazione, per la sua struttura fisica composta da 5 padiglioni separati fra di essi, il carcere non permette una vivibilità che possa rientrare nei dettami della sicurezza: né per i detenuti né per chi gestisce e dirige la struttura”. Inoltre “il clima detentivo (con il progressivo e crescente ingresso di detenuti stranieri) è diventato oramai una criticità di emergenza quotidiana, nonostante i rapporti con il personale penitenziario sia mediamente positivo. Del resto l’Amministrazione penitenziaria è consapevole del problema e periodicamente (in particolar modo attraverso l’eco delle organizzazioni sindacali) segnala all’esterno ed ai media tali emergenze”. Di qui, dunque, l’interessamento del portavoce del Movimento 5 Stelle a Palazzo Madama, perché i diritti fondamentali vengano assicurati a tutti coloro che, per lavoro o per obbligo, vivano la difficile realtà del carcere. Ancona: “vogliamo ritrovare la normalità, ma lo Stato non aiuta” di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 3 giugno 2019 Siamo entrati in carcere, nel giorno in cui i detenuti dell’area filtro sono stati attori per un giorno. Abbiamo ascoltato la loro voce e fatto il punto con il Garante dei detenuti Andrea Nobili”. Chiedono un’altra occasione. Sentono il bisogno di entrare in contatto con un po’ di quella normalità che non appartiene al loro piccolo e ovattato mondo, fatto di sbarre, brande e pochi metri quadrati di spazio. Hanno bisogno di quella normalità per sentirsi un po’ più pronti per quando saranno di nuovo liberi, come quando si mette un piede nell’acqua fredda per abituare il proprio corpo alla diversa temperatura in cui si dovrà immergere. Sono in attesa del giorno in cui torneranno ad immergersi nella società, al di là delle porte blindate che li separano dalla vita. Per questo ieri i detenuti dell’area filtro del carcere di Montacuto sono stati attori per un giorno. Dopo mesi di prove a fianco dei volontari della Caritas di Ancona, hanno messo in scena “L’istruttoria” di Peter Weiss: un’opera teatrale che, attraverso una narrazione molto dura, racconta il processo a carico di un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tenne a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. E ieri i protagonisti di questa opera teatrale, sono stati 8 detenuti dell’area filtro della casa circondariale di Montacuto. Una giornata importante all’interno di un carcere dove, in passato, sono state denunciate condizioni di abbandono al limite della sopportazione e della sicurezza. Invece oggi il carcere di Montacuto può contare su tanti volontari che ogni giorno aiutano i detenuti a fare un passo alla volta verso quel principio costituzionale che è la finalità rieducativa della pena detentiva. Per prepararli alla reintegrazione sociale. Tra loro c’è Barbara Ulisse, volontaria e giornalista, per la qualei “è stata un’esperienza umana straordinaria perché mi ha insegnato che non ci sono differenze tra chi sta dentro e chi sta fuori ed è stato educativo lavorare con loro per rappresentare un testo così difficile e profondo”. Al riadattamento della lettura scenica, oltre a Barbara, ha lavorato Maria Manganaro, giornalista e volontaria: “Noi qui facciamo corsi di italiano e di linguaggio, leggiamo testi e poesie e vediamo anche film ed è proprio dopo aver analizzato la pellicola “Cesare deve morire”, che abbiamo deciso di approfondire l’importanza del ritmo della narrazione di un testo”. Nessuna interpretazione o forzatura, i detenuti hanno scelto di affidare alle parole non recitate i fatti e i ricordi del più famigerato dei campi di sterminio. Gli “ospiti” delle voci sono stati seduti a 3 tavoli coperti dai colori del terzo Reich, senza cibo né bevande visto che quella parentesi storica è ancora da digerire. Solo il giudice si muoveva, chiudendo la scena e il pubblico in un cerchio di passi e interrogativi. Un’ora di teatro al termine del quale è scrosciato un sincero e lungo applauso da parte di una piccola platea, formata da curiosi, amici e parenti dei detenuti, volontari, boy scout e, in prima fila, il garante dei diritti dei detenuti della Regione Marche, l’avvocato Andrea Nobili. Entusiasta anche il comandante della Polizia Penitenziaria Nicola De Filippis, che ha detto: “Quando ce l’hanno proposta, abbiamo subito accolto con favore questa iniziativa perché sappiamo bene come i nemici del detenuto siano la solitudine e l’ozio. È importante che ci siano il teatro, la lettura e in generale le forme d’arte per riempire gli spazi vuoti e agevolare il reinserimento sociale di queste persone”. Il reinserimento sociale infatti non è solo la funzione verso cui dovrebbe tendere il carcere, ma è anche quello che vogliono davvero i detenuti. Quanto meno è quello che ci hanno detto coloro che stamattina hanno dato vita all’opera del romanziere tedesco. Tra loro c’è Ciro, lui è stato un capo clan della Camorra, poi è diventato un collaboratore di giustizia, ha scontato 26 anni, gliene mancano 4 e guarda con fiducia al futuro: “Per me parlare con lei in questo momento è un contatto con una normalità che non fa parte di questo posto. Noi stiamo qua dove scontiamo il nostro conto, ma siamo alla ricerca di una normalità che speriamo tanto di trovare una volta usciti di qui, quello che facciamo oggi per noi è un momento di contatto con il mondo esterno di cui vorremmo tornare a far parte un giorno”. Di quel mondo vuole tornare a far parte anche Esposito, che ha 36 anni e deve scontare diversi anni per furti e rapine. “Sono stato dentro dal 2010 al 2015, poi sono uscito per 11 mesi, in cui non ho fatto niente di male, ho sempre cercato lavoro senza mai trovarlo, nonostante fossi in grado di fare il carpentiere, l’operaio e il muratore. Sì, è vero, mi mancava la patente, ma ogni volta che parlavo con qualcuno, prima mi diceva che il lavoro non mancava, poi il giorno dopo mi chiudevano la porta in faccia. Secondo me si informavano sulla mia fedina penale e quindi non mi prendevano perché non si fidano. Ma io nelle Marche ho una famiglia, ho 3 figli, il più piccolo di 14 anni e per lui voglio cambiare, noi vogliamo davvero cambiare, ma se di fuori non c’è una speranza come facciamo? Come facciamo se lo Stato non ci aiuta?”. Intanto il carcere di Montacuto, da anni, prosegue la sua lotta per cercare di continuare ad apportare miglioramenti alla struttura, sia per il mantenimento di una vita dignitosa per i detenuti, ma anche per una condizione lavorativa salubre per gli agenti di Polizia Penitenziaria. A differenza di anni fa, oggi la condizione è migliorata, anche grazie all’intervento del Garante Andrea Nobili che, in collaborazione con la Polizia Penitenziaria e la direttrice della casa circondariale anconetana Santa Lebboroni, ha dotato il carcere di una palestra. Costo 12mila euro, provenienti direttamente dall’Ufficio regionale. Ma ci sono ancora molte cose da migliorare. Su tutte il campo da calcio che risulta oggi inutilizzabile e i prezzi del sopravvitto che continuano a lievitare senza motivi apparenti e che, in passato, aveva portato anche a proteste dei detenuti. Imprese non facili per chi si trova in una regione dove, a seguito degli accorpamenti dei dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria, sono stati smantellati gli uffici dei provveditorati regionali. “I prezzi del sopravvitto sono troppo alti a Montacuto e Barcaglione, lo abbiamo già segnalato al Provveditorato regionale per gli istituti penitenziari - ha spiegato Nobili - Nonostante questo non si riescono a trovare misure che riportino i prezzi a livelli di accettabilità. Sono poi prezzi non solo alti, ma in pochissimo tempo aumentano in continuazione, in modo del tutto ingiustificato, da parte della stessa ditta che fornisce il vitto. Ma sono prezzi che devono essere studiati per capire se tutto questo avviene nel rispetto della correttezza e la regolarità. Valuteremo se sono necessari supplementi di verifica. Poi c’è il problema della sistemazione del campo sportivo, inagibile perché nella zona contigua ci sono dei mattoni che cedono ed è importante intervenire perché il campo da calcio costituisce per i detenuti una valvola di sfogo importantissima”. Lucera (Fg): in carcere la musica senza barriere Gazzetta del Mezzogiorno, 3 giugno 2019 Un pomeriggio ricco di emozioni, senza barriere grazie alla musica. Ha riscosso grande successo la manifestazione organizzata da Sergio Picucci, docente di musica del Centro Provinciale di Istruzione per Adulti di Foggia, presso la Casa Circondariale di Lucera. Dopo i saluti del direttore dell’Istituto Penitenziario, Valentina Meo Evoli, con il grazie a dirigente e docenti del Cpia1 per l’impegno quotidiano e per la disponibilità mostrata nell’organizzazione del saggio finale, Picucci ha presentato gli ospiti illustri che hanno animato l’evento musicale. “Vorrei un grande applauso - ha detto il docente musicista - per gli amici Micky Sepalone e Angela Piaf, noti professionisti foggiani che vantano innumerevoli concerti e collaborazioni con musicisti internazionali. Un ringraziamento particolare va a un artista di calibro come Valerio Zelli: autore, produttore discografico, cantante degli Oro e autore della musica del celebre brano “Vivo per lei”, che ha accettato il mio invito senza alcuna esitazione. Tutti gli artisti e i cantanti in erba saranno accompagnati da musicisti di grande valore come Stefano Capasso (piano); Francesco Loparco (chitarra) e Antonio Moffa (batteria). Uno spettacolo che ha due particolarità: il 90% dei cantanti ristretti calcherà per la prima volta il palco e tutti loro hanno conosciuto i musicisti solo mezz’ora fa, senza avere possibilità di provare”. Le esibizioni, presentate per l’occasione da Gregorio, sono risultate particolarmente toccanti. Antonio ha eseguito “Un senso” di Vasco Rossi e “La Forza della Vita” di Paolo Vallesi, Gregorio e Nicola “L’ora dell’amore” dei Camaleonti, Miguel “Il Carrozzone” di Renato Zero, Christian “Tu si’ na cosa grande” di Domenico Modugno e “Lo specchio dei pensieri” di Gigi Finizio, Mimmo e i coristi “Ricordati di Chico” dei Nomadi, ispirando alcuni passi di danza tra i presenti, e Costantino “Più su” di Renato Zero. Il tempo amico, nemico e spunto di riflessione, tema conduttore di una manifestazione la cui atmosfera è stata scaldata da Micky Sepalone e Angela Piaf con alcuni classici della canzone napoletana come “‘A città ‘e pulecenella”, “Senza giacca e cravatta”, “Reginella” e “O’ sarracino”. Valerio Zelli ha commosso la platea con “Vivo per lei”. “Sono particolarmente emozionato - ha detto l’artista - e grazie a questa esperienza ho imparato una lezione. Ho il privilegio di appartenere alla musica, un linguaggio comune che supera ogni barriera e oggi ce lo siamo donati a vicenda. Vi ringrazio per queste emozioni: ho cantato tre volte a Sanremo e in grandi stadi, ma raramente ho provato sensazioni forti come quelle di oggi”. Al termine dello spettacolo, Costantino - a nome di tutti i detenuti - ha voluto ringraziare “il maestro Picucci per la pazienza e la caparbietà con cui ha portato avanti il progetto musicale. Un ringraziamento particolare vogliamo farlo al direttore Valentina Meo Evoli - ha sottolineato - al funzionario pedagogico Cinzia Conte, al Comandante Daniela Raffaella Occhionero, all’assistente Capo Raffaele Prencipe e a tutto il corpo di Polizia Penitenziaria per la disponibilità e per l’organizzazione. Grazie ancora al Cpia1, che ha reso possibile tutto questo”. In platea, anche Annalisa Graziano del Csv Foggia e Luigi Talienti, vicepreside del Cpia1, che ha portato i saluti della dirigente e ringraziato “il collega e amico Picucci. Questa iniziativa dimostra come tutti i progetti realizzati con il cuore abbiano sempre un valore aggiunto”, ha detto. La manifestazione si è conclusa con una esecuzione corale di “O surdato ‘nnammurato”. Lo spettacolo è stato inserito nel calendario degli eventi programmati dall’Istituto Penitenziario di Lucera per celebrare “Matera Capitale della Cultura”. “Racconti dalla casa di nessuno”, a cura di Monica Sarsini. I detenuti raccontano recensione di Laura Montanari La Repubblica, 3 giugno 2019 Azzurra ha un solo dente in bocca per via del metadone e fatica a leggere perché non ha occhiali e nessuno glieli regala, ma scrive. Lei lo sa che a volte la scrittura aiuta a incollare i mille pezzi della propria vita esplosa. Alessandra è molto esile e ordinata: non diresti mai che dalle sue mani sono uscite quelle parole così dure su un ex rapinatore suicida in carcere e poi “buttato” via: “Non aveva famiglia prima e non vi sarà nessuno a riconoscerne l’identità, la sua branda viene occupata da un nuovo giunto come si dice in gergo carcerario, non c’è spazio in questo luogo per la memoria, c’è bisogno solo di posti letto”. Si intitola “Racconti dalla casa di nessuno”, è pubblicato da Le Lettere ha come ingrediente principale l’assenza di un orizzonte lungo, il mondo da una cella. Raccoglie infatti una serie di storie autobiografiche e non, scritte dai detenuti e dalle detenute del carcere fiorentino di Sollicciano che hanno preso parte al corso di scrittura creativa che da anni tiene Monica Sarsini. È lei che cura questo volume, lei che descrive l’aria che tira: “Nessuno degli educatori, né dei vari direttori che durante questi nove anni si sono avvicendati mi ha chiesto un resoconto sulla relazione che ho intrapreso con questi esseri umani, a loro è sembrato sufficiente conoscerne l’affluenza alle lezioni per valutare il livello di apprezzamento di un’offerta...”. Da quel “luogo malfamato” escono voci e sogni, botte, amori e fughe, cadute e ricadute di gente che è finita lì magari dopo essere stata a sua volta testimone delle violenze, una tenuta a penzoloni dal sesto piano, un’altra calpestata, un’altra nascosta dentro un cespuglio con un bambino in braccio a osservare il marito che veniva ucciso, un’altra accusata del suicidio del padre tanto amato. Dice Monica Sarsini del carcere: “ho erroneamente sperato servisse loro come riparo”. Quello che resta del corso di scrittura creativa è difficile saperlo e certo non sarà soltanto questo libro in cui, per esempio, Taxi racconta di una rocambolesca idea: l’impresa folle di organizzare una maratona in un carcere. Una maratona nel luogo in cui i grandi spazi sono negati e allora la corsa consiste nel fare ben 126 giri e tre quarti intorno al campo di calcio. Con un detenuto “arbitro” che li conta. Oppure c’è Cosetta che ci precipita dentro una vita di alcol e infelicità miste che hanno come capolinea il carcere dopo un momento di follia: “Una tragedia dentro un’altra tragedia” scrive lei. “Sono giorni che non sto bene, che vorrei solo piangere, vorrei essere a casa per aspettare assieme a mio figlio il Natale, decorare l’albero, la porta, la terrazza, sapere che non potrò farlo per moltissimo tempo mi fa sentire come se mi avessero amputato un arto e dovessi aspettare una protesi per tanti anni”. Al termine di ogni racconto c’è l’intervento di uno degli ospiti che hanno accompagnato il corso diretto da Monica Sarsini, fra questi Valerio Aiolli (Nero ananas il suo ultimo romanzo), Giulia Caminito, Paolo Maccari, Lorenzo Hendel e altri. Non soltanto scrittori, ma anche registi, ricercatori e ricercatrici universitarie, editor e poeti. “Tra un passaggio di un treno e l’altro che ci frastornerà, siamo stati seduti nella stessa stanza” scrive Monica Sarsini che è scrittrice e artista visiva. Il laboratorio da cui emerge questo libro così pieno di spigoli e di giornate finite fuoristrada, deve essere stata una specie di ora d’aria non codificata. Perché scrivere è anche essere in un altro posto, è reinventarsi o provare a spiccare qualche nuovo decollo. Con i mezzi che ciascuno ha in dotazione. Alessandra, per esempio, ha una sua personalissima Divina commedia: “Nel mezzo del cammin di questa zozza logora amorale vita condannata da giudici magistrati Sert e perfino l’altissimo mi ritrovai per una selva oscura...”. Oscar invece ci porta in certi quartieri alla periferia di Roma, quelli in cui sono normali dialoghi del tipo: “Cazzo, è crollato il tetto?” e “Mo’ dove annamo a dormì?”. Carcere, guerre e scrittura: in un libro i racconti di migranti e detenuti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 3 giugno 2019 Si intitola “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole” il volume realizzato dal Centro per l’Istruzione degli Adulti di Macerata, con la collaborazione della Casa circondariale di Ascoli Piceno. Raccoglie le vite di giovani migranti e di persone detenute, testimonianze di esistenze spezzate da scelte sbagliate o da un destino che ha scelto per tutti. Le storie rinchiuse si sovrappongono ai viaggi della speranza, il desiderio di futuro al dolore delle guerre, il calore delle famiglie ai distacchi forzati. È così che dal deserto libico ti ritrovi a Togliattigrad, dalla Nigeria ad Agrigento, dal Bangladesh a San Paolo del Brasile. È così che i paesaggi e i sentimenti si alternano, senza mai perdere il filo, dando forma ai racconti. “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole” è il libro che raccoglie le vite di giovani migranti e di persone detenute, testimonianze di esistenze spezzate da scelte sbagliate o da un destino che ha scelto per tutti. Il volume rappresenta la fase conclusiva di un progetto realizzato dal Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti (Cpia) di Macerata e svolto per la maggior parte nella casa circondariale di Ascoli Piceno con l’obiettivo “di sviluppare un percorso di integrazione socio-culturale attraverso forme di scrittura partecipata - spiega la dirigente del Cpia, Sabrina Fondato -, che ripercorra, attraverso la memoria, i momenti più importanti della vita di queste persone. Le storie sono state raccolte tramite incontri, interviste e laboratori di scrittura con i detenuti e i migranti, che privilegiassero l’ascolto e l’empatia come atteggiamento da parte degli insegnanti promotori del progetto”. “Nessuno tra quanti hanno accettato di raccontarsi, probabilmente, diventerà uno scrittore - sottolinea la dirigente - ma è stato importante che abbiano percepito distintamente di contare qualcosa. Per un momento i riflettori si sono accesi su di loro e hanno sentito di essere persone, delle quali a qualcuno importava”. Alla pubblicazione ha lavorato anche Nazzareno Cioni, docente di lettere nella casa circondariale, mentre la parte grafica è stata realizzata dall’insegnante Isabella Crucianelli. “Il tema di questo lavoro - spiega Cioni - non affronta le condizioni di vita dei detenuti o il percorso di espiazioni dal senso di colpa: le pagine di questo libro rappresentano semplicemente le voci di ricordi taciuti nel silenzio di giorni sempre uguali, custoditi nella propria memoria per permettere alla “coscienza infelice” di tornare a essere protagonista di un sogno possibile”. Pubblicato da Cromo Edizioni, il volume ha 211 pagine e raccoglie 6 racconti e 7 ricordi. La presentazione è firmata dall’ex direttrice del carcere di Ascoli Piceno, ora impegnata nella direzione dell’istituto di pena di Pescara, Lucia Di Feliciantonio. Tra le finalità della pubblicazione “accrescere la conoscenza della comunità scolastica intorno alle circostanze di vita che possono favorire episodi di devianza e rimuovere qualche pregiudizio nei confronti del diverso”. Il fascismo tra storia e psicologia di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 3 giugno 2019 Questo assillante ridurre il fascismo a patologia psicologica, a malattia caratteriale, a degenerazione antropologica (e altro) fa perdere la nozione di ciò che il fascismo è stato e che potrebbe anche tornare a essere. Sommessamente vorrei obiettare che in questo continuo parlare (e straparlare) di un fantasmatico ritorno del fascismo, quello che si banalizza è proprio la sostanza storico-politica del fascismo di cui si teme, ossessivamente, il riaffacciarsi. Questo assillante ridurre il fascismo a patologia psicologica, a malattia caratteriale, a degenerazione antropologica, a una pulsione eterna che si anniderebbe nel profondo degli individui e dei popoli per riproporsi dopo decenni se non dopo secoli dalla sua presenza che un tempo si sarebbe detto “storicamente determinata”, questa caricaturizzazione dei connotati del fascismo, fantasticato e temuto come tratto stilistico deteriore se non addirittura come peccato estetico che urta le nostre buone maniere, tutto questo fa perdere la nozione di ciò che il fascismo è stato e che potrebbe anche tornare a essere. È del resto troppo facile questa psicologizzazione del fascismo (la “personalità autoritaria” suggerita maldestramente dalla Scuola di Francoforte) perché non richiede verifiche fattuali, e può restare pura magniloquenza indignata. Bisognerebbe invece, per stabilire comparazioni convincenti, attenersi ad alcuni tratti fondamentali e ineliminabili del fascismo storico: la fine della libertà d’espressione; la soppressione di partiti e sindacati liberi; il bavaglio totale e sistematico alla stampa; l’aggressione squadristica, fino all’assassinio in taluni casi, come pratica abituale e violenta di intimidazione terroristica su avversari e dissidenti; la formazione di una milizia armata di partito; il falò di giornali e sedi politiche indipendenti; la cancellazione di ogni parvenza di libere elezioni; l’irreggimentazione paramilitare delle masse; la fine della libertà d’insegnamento con il giuramento coatto degli insegnanti e così via, fino alla formazione di una stabile dittatura. Solo la presenza se non di tutte, almeno della maggior parte, di queste connotazioni dittatoriali potrebbe motivare un paragone fondato. Ciò che divide la democrazia dal fascismo (e da altri regimi autoritari di segno contrario, detto en passant) è per fortuna una linea di demarcazione che non può essere offuscata dai vapori di una classificazione esclusivamente psico-politica. Attività certamente appagante per chi se ne fa interprete sul piano emotivo, ma destinata a restare infruttuosa sul piano politico. Mattarella: “Chi cerca sempre nemici non è compatibile con libertà e democrazia” di Ugo Magri La Stampa, 3 giugno 2019 Il richiamo del Presidente alle celebrazioni per la Festa della Repubblica: “Serve una riflessione sul significato profondo del pubblico servire”. Avendoli tutti davanti - alte cariche, grand commis, politici, ambasciatori - Sergio Mattarella non ha perso l’occasione per far pesare ciò che più lo preoccupa. L’ha detto col solito garbo e senza sgualcire la Festa della Repubblica che si è celebrata poco dopo nei giardini del Quirinale: ormai forse l’unico luogo dove tutti si sentono di casa e civilmente colloquiano tra loro sovranisti e anti, rappresentanti della famigerata “Casta” e populisti della più bell’acqua. Il presidente ha voluto ricordare che, “in ogni ambito, libertà e democrazia non sono compatibili con chi alimenta i conflitti, con chi punta a creare opposizioni dissennate tra le identità, con chi fomenta scontri, con la continua ricerca di un nemico da individuare, con chi limita il pluralismo”. A cosa, e soprattutto a chi, Mattarella si riferisca, non serve troppa immaginazione per intuirlo. Il capo dello Stato è allarmato dal successo politico che riscuotono (non solo in Italia) gli “odiatori” e ne teme le conseguenze. Lo segnala nel giorno più solenne della nostra Repubblica, quando si celebra l’atto di nascita, quasi a rimarcare come lo scatenamento degli istinti più belluini non si sia placato con le elezioni europee, e dal Colle si colgano purtroppo segni allarmanti di nuove tensioni. Una campagna elettorale che non finisce mai. Il potere non è illimitato - Aiuta meglio a capire lo stato d’animo presidenziale il messaggio che, di prima mattina, Mattarella aveva inviato ai prefetti. In due paginette, aveva riassunto una sorta di vademecum costituzionale che valga come bussola per i rappresentanti dello Stato sul territorio, e li aiuti a tenere la rotta salda in mezzo alle tempeste politiche. Tanto per cominciare, il presidente chiede loro di farsi “attori di coesione sociale e istituzionale”. Dunque di lavorare per ricucire il tessuto del Paese e di non prestarsi a chi vorrebbe lacerarlo ulteriormente. L’iniziativa dei prefetti può essere rilevante sotto molti profili. Sul terreno della sicurezza e dell’ordine pubblico, in primo luogo. Guarda caso, dopo certe polemiche sull’operato delle forze di polizia, Mattarella chiede di tenere a mente “lo spirito della Costituzione repubblicana” e dunque “i limiti che pone alle autorità, nel segno del primato della legalità”. Come dire: le leggi sono leggi e nessun ministro, per quanto potente, potrebbe far finta che non esistano. Il ciclo resta negativo - Ma i prefetti hanno facoltà e spesso il dovere di intervenire nelle crisi aziendali sul territorio, come autorità pubblica incaricata di cercare “un punto d’incontro che anteponga il bene generale alle convenienze particolari”. In questo caso, la preoccupazione del presidente riguarda un’economia che sprofonda nella crisi: “Le incertezze del ciclo economico sembrano non offrire solide prospettive a molti lavoratori, soprattutto giovani, e alle loro famiglie”. Altro che ripresa dietro l’angolo: Mattarella non abbocca alla propaganda governativa, e invita i prefetti a rimboccarsi le maniche. Non da soli, ma “con il concorso generoso del volontariato e dell’associazionismo, che meritano la stima e il sostegno delle istituzioni” sebbene spesso qualche politico li consideri un intralcio. L’appello di Papa Francesco: “La politica abbandoni odio e corruzione” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 3 giugno 2019 Colloquio con il Pontefice sul volo di ritorno dalla Romania: “Impariamo dal passato, non lasciamo che vincano pessimismo e ideologia. Lancio un appello alla solidarietà mondiale”. “So che alcuni di voi sono credenti, altri non tanto. Ai credenti dico: pregate per l’Europa, pregate, che il Signore ci dia la grazia. Ai non credenti chiedo l’augurio del cuore, la buona volontà, il desiderio che l’Europa torni ad essere il sogno dei padri fondatori”. Poco dopo il decollo dalla Transilvania, Francesco raggiunge i giornalisti in fondo al volo che lo riporta a Roma dopo tre giorni di viaggio in Romania. C’è la preoccupazione per le sorti dell’Europa, una considerazione che gli preme di dire. E poi ci sono le domande: elezioni europee, Salvini, i nazionalismi, il rapporto con Benedetto XVI, il dialogo con i cristiani ortodossi. Santità, nella campagna elettorale per le recenti elezioni europee alcuni leader sovranisti, a cominciare dal vicepremier Matteo Salvini in Italia, hanno esibito simboli religiosi nei comizi: bacio del rosario, affidamenti al cuore immacolato di Maria eccetera. Che impressione le ha fatto? Ed è vero che lei non vuole incontrare Salvini? “Io non ho sentito che nessuno del governo, eccetto il premier, abbia chiesto udienza, nessuno. Per una udienza si deve parlare alla Segreteria di Stato. Il premier Conte l’ha chiesta ed è stata fatta come indica il protocollo. Una bella udienza, un’ora o più forse, un uomo intelligente, un professore. I vicepremier non li ho ricevuti, altri ministri neppure. Ho ricevuto il Presidente della Repubblica… Leggendo i giornali, non sono entrato in queste notizie, come ha fatto propaganda un partito o l’altro… E poi mi confesso ignorante, non capisco la politica italiana, è vero che devo studiare… Dire un’opinione sulla campagna elettorale di uno dei partiti non sarebbe molto prudente. Io prego perché gli italiani si uniscano e siano leali. Io sono italiano perché sono figlio di emigranti italiani, tutti i miei fratelli hanno la cittadinanza, io non ho voluto perché il vescovo deve essere della patria della sua diocesi. C’è nella politica di tanti Paesi la malattia della corruzione, dappertutto. Ma domani non dite, “il Papa ha detto che la politica italiana è corrotta”, no, è una malattia universale. Dobbiamo aiutare i politici a essere onesti, a non fare campagna con bandiere disoneste, la calunnia, la diffamazione, gli scandali o, come accade tante volte, seminando odio e paura: questo è terribile. Un politico mai, mai deve seminare odio e paura, soltanto speranza. Giusta, esigente, ma speranza: perché deve condurre il Paese lì”. Lei ha parlato di fraternità, ma in Europa cresce il numero di quelli che preferiscono camminare da soli. Perché è così e cosa deve fare l’Europa per cambiare? “Tutti siamo responsabili dell’Unione europea, tutti. La rotazione del presidente è simbolo della responsabilità che ognuno dei Paesi ha dell’Europa. Se l’Europa non guarda bene le sfide future, appassirà. A Strasburgo dissi che sta finendo di essere la mamma Europa e sta diventando la nonna Europa. È invecchiata, ha perso l’impulso a lavorare assieme. Qualcuno forse si domanderà: non sarà la fine di un sogno durato settant’anni? L’Europa ha bisogno di riprendere se stessa, superare le divisioni. Stiamo vedendo delle frontiere, e questo non fa bene. È vero che ognuno dei Paesi ha la sua cultura e deve custodirla, ma con la mistica del poliedro: si rispettano le culture di tutti, ma tutti uniti. Che l’Europa non si lasci vincere dal pessimismo o dalle ideologie, perché l’Europa è attaccata non con cannoni o bombe ma da ideologie che non sono europee, vengono da fuori. Pensiamo all’Europa divisa e belligerante del 1914, del 1933, del 1939… Impariamo da questo, impariamo dalla storia, non cadiamo nello stesso buco”. Di Benedetto XVI aveva detto che è come avere un nonno in casa, continua a vederlo così? “È vero, ora di più! Ogni volta che vado da lui a visitarlo lo sento così, gli prendo la mano, lo faccio parlare, parla poco, parla adagio, ma con la stessa profondità di sempre. Il problema di Benedetto sono le ginocchia, non la testa. Ha una lucidità grande. Sentendo Benedetto, sento questa tradizione della Chiesa che non è una cosa da museo ma è come le radici: ti danno il succo per crescere, e tu non diventerai come la radici, fiorirai e darai frutti, e i semi saranno le radici degli altri… Sull’Osservatore Romano ho letto una frase di Mahler: la tradizione è la garanzia del futuro e non la custodia delle ceneri. Non è un museo, la tradizione, non custodisce le ceneri, non è la nostalgia delle ceneri”. Milioni di romeni sono emigrati. Che cosa dice a un genitore che lascia i propri figli per andare all’estero e assicurare loro una vita migliore? “Mi fa pensare all’amore della famiglia, staccarsi non è una cosa bella, c’è sempre la nostalgia di ritrovarsi. Il distacco è sempre doloroso, farlo perché non manchi nulla alla famiglia è un atto di amore. Non se ne fanno per fare turismo ma per necessità. Tante volte sono i risultati di una politica mondiale, della situazione mondiale dell’economia, dall’ordine mondiale finanziario. Ci sono imprese che chiudono per riaprire altrove e guadagnare di più, lasciando la gente per strada. Questa è una ingiustizia mondiale, di mancanza di solidarietà, una sofferenza… Nella società del consumismo, dell’avere di più e guadagnare di più, tanta gente rimane sola. Il mio è un appello alla solidarietà mondiale”. Che cosa consiglia ai romeni, quali dovrebbero esser i rapporti tra minoranza cattolica e maggioranza ortodossa, tra etnie, nella società civile? “Il rapporto della mano tesa, quando ci sono conflitti. Un Paese in sviluppo con alti tassi di nascita non può permettersi il lusso di avere nemici dentro. Sempre la mano tesa. Con l’ortodossia, l’ecumenismo non è arrivare alla fine della partita, si fa camminando insieme e pregando insieme. Nella storia abbiamo l’ecumenismo del sangue, quando uccidevano i cristiani senza chiedere se fossero cattolici o ortodossi, e c’è anche l’ecumenismo della testimonianza, del povero, lavorare insieme per aiutare gli ammalati, gli infermi, la gente al margine di un minimo di benessere. Mani tese, guardarsi meglio, non sparlare degli altri”. Nel primo giorno, quando lei e il patriarca avete pregato ognuno per conto suo il Padre Nostro, è stato un momento bello ma anche un po’ duro. Cosa pensava quando è rimasto in silenzio mentre il patriarca pregava in romeno? “Farò una confidenza, non sono rimasto in silenzio. Io ho pregato il Padre Nostro in italiano durante la recita in romeno… La maggior parte della gente pregava sia in romeno sia in latino. La gente va oltre noi capi. Noi capi dobbiamo fare degli equilibri diplomatici, ci sono abitudini e regole che è buono custodire perché le cose non si rovinino, ma il popolo prega assieme. Anche noi quando siamo da soli preghiamo insieme. I patriarchi sono aperti. E anche noi cattolici abbiamo gente chiusa che non vuole, dice che gli ortodossi sono scismatici, cose vecchie: gli ortodossi sono cristiani. Se ci sono gruppi cattolici un po’ integralisti, dobbiamo pregare per loro”. Migranti. “Io schiavo in Libia, una fuga da incubo” di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 3 giugno 2019 “A Tripoli mesi infernali, per loro ero uno schiavo mi picchiavano tutti i giorni”. Fofana ha 18 anni e indossa il braccialetto numero 30. Ha il volto segnato, è provato. Arriva dalla Costa d’Avorio e per anni ha fatto il muratore in Libia: “Poi è scoppiata la guerra”, sottolinea. Lui e il suo amico hanno deciso di salire su un barcone della speranza e cercare di iniziare una nuova vita in Europa e precisamente in Spagna: “Dove ho alcuni amici”, precisa agli agenti della seconda e quarta sezione della squadra mobile che ieri pomeriggio sono saliti a bordo della nave della Marina Militare e li hanno interrogati. Non è stato semplice rintracciare gli scafisti: “Ha fatto tutto il mio amico, ha pagato il viaggio lui”. SÌ ferma Fofana e racconta la sera della partenza: “Siamo arrivati all’inizio di una foresta, alla nostra destra c’era il mare. Ricordo che c’era tanta gente nascosta tra gli arbusti. C’erano persone armate di kalashnikov che erano minacciose. Ci dicevano di nasconderci e non uscire fino al loro segnale. Qualcuno è stato anche picchiato selvaggiamente perché non ha rispettato l’ordine”. Nel cuore della notte è arrivato il segnale: “Siamo partiti tutti di corsa, diretti al gommone - prosegue Fofana - gli scafisti dell’organizzazione non c’erano ma ci hanno dato una decina di bariliblu con circa venti litri di carburante ognuno e ci hanno spiegato come metterlo nel motore. Quindi ci hanno messo in mano una bussola dicendoci di seguire una determinata direzione”. Dopo due giorni e mezzo di navigazione i problemi e il rischio di finire affogati: “Ricordo gli elicotteri che ci hanno sorvolato, l’intervento della nave e i primi viveri a bordo che ci hanno salvato la vita. Ora il mio sogno è restare in Italia e cominciare una nuova vita”. Ickaka, invece, sogna di andare a vivere in Francia. Non scappa dalla guerra, non scappa dalla fame. Ma è in fuga per amore. Ha 26 anni e si è innamorato della donna sbagliata: la moglie di suo fratello. “Lui è partito per un lungo viaggio - spiega alla squadra mobile - e io ho avuto una relazione con sua moglie. Quando mio fratello è tornato abbiamo deciso di dichiararci. Non ha accettato questa situazione e ha cercato di uccidermi. Aquel punto ho dovuto lasciare la Costa D’Avorio e sono stato prima in Buriana Faso e poi in Libia dove ho iniziato a fare il muratore”. A Tripoli, però, è stato rapito dai ribelli: “Sono iniziati sei mesi infernali per me - prosegue - in cui ho fatto da schiavo ai padroni del posto. Ho addirittura dovuto costruire una villa al padrone del carcere dove ero detenuto - prosegue - e venivo picchiato alla sera e alla mattina”. Ickaka si interrompe, prende tempo e prosegue: “Un mio conoscente mi ha prospettato la possibilità di venire in Europa e dopo aver messo insieme qualche risparmio ho trovato il modo per pagare il viaggio. Ho consegnato ad alcuni amici circa duemila dinari libici (circa mille euro n.d.r) e una sera mi sono venuti a prendere con una macchina e mi hanno portato vicino ad un bosco. Qui abbiamo atteso due giorni il momento propizio prima di partire. Sono stati giorni carichi di tensione e paura. Eravamo minacciati da persone armate che prendevano a calci e pugni la gente. Per qualche attimo ho anche deciso di non partire ma temevo mi uccidessero”. In mare sono state vissute sette ore da incubo: “Eravamo in balia delle onde e non sapevamo se qualcuno sarebbe venuto a salvarci. Dopo un po’ non ci pensavo più e quando ho visto arrivare la nave mi sembrava un sogno”. La Cassazione sulla canapa. Una sentenza tautologica di Franco Corleone L’Espresso, 3 giugno 2019 La credibilità della giustizia è scossa da vicende gravi come le nomine dei capi delle Procure in cui le scelte sono determinate da accordi di potere. Ma, diciamo la verità, anche la recente sentenza sulla cosiddetta cannabis light non aiuta il prestigio e soprattutto la certezza del diritto. In seguito a opposti orientamenti di diverse sezioni, addirittura è stato deciso di convocare le Sezioni Unite per indicare una linea coerente e univoca. Il risultato è assai deludente da tutti i punti di vista, soprattutto perché ha alimentato aspettative improprie che si sono tradotte in strumentalizzazioni deplorevoli. Ricapitoliamo la questione nel modo più semplice possibile. Da molto tempo erano aperti negozi che vendevano semi di canapa e prodotti derivati come alimenti o articoli tessili. Lo sviluppo e l’apertura di vere e proprie catene è avvenuto in seguito alla promozione della canapa industriale a livello comunitario con un thc pari allo 0,2 e con una tolleranza per gli agricoltori fino allo 0,6. Si è dunque ritenuto che fosse possibile e lecito commercializzare le piante e le infiorescenze con tali caratteristiche. Qualche magistrato di larghe vedute, ha ritenuto bene di compiere indagini per verificare la corrispondenza dei prodotti venduti a quei livelli. Da questi esercizi risibili legati a priorità puramente ideologiche sono nati i ricorsi in Cassazione e la recente pronuncia. La sentenza afferma una plateale ovvietà, cioè che la legge vieta la vendita, il possesso, la cessione e altre numerose condotte di sostanze stupefacenti tra cui la canapa, secondo l’art. 73 del Dpr 309/90, noto come legge Iervolino-Vassalli. La sentenza non può vietare la canapa tessile e quindi rinvia all’esame, caso per caso, la verifica se una pianta di canapa sativa superi il limite di thc previsto e quindi abbia un potere drogante e la condotta sia penalmente rilevante. In astratto siamo alla pura esaltazione del nulla. In concreto i negozi saranno facilmente soggetti a vessazioni, controlli, intimidazioni che renderanno l’attività commerciale assai problematica. Qualche povero untorello continua a dire che la droga fa male e che lo spinello è un segno di vizio che produce le terribili conseguenze che autorevoli scienziati attribuivano all’onanismo. Purtroppo per loro lo Stato italiano continua a produrre attraverso lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze la canapa vera, non quella per lenzuola e jeans, per le necessità terapeutiche. È dimostrato, infatti che tale farmaco fa bene o fa star bene tanti malati colpiti da gravi patologie. E dal punto politico quale lezione trarre? Va ripresa la battaglia per la legalizzazione, senza scorciatoie, secondo l’esempio dell’Uruguay, del Colorado, della California e del Canada. Il proibizionismo è funzionale allo stato etico o meglio alla sua caricatura e soprattutto rafforza le spinte moralistiche e lo stato di polizia. Una ubriacatura che non potrà durare all’infinito. Neppure in Italia. Turchia. Violazioni dei diritti dei detenuti che hanno fatto lo sciopero della fame retekurdistan.it, 3 giugno 2019 Dopo la fine dello sciopero della fame nelle carceri, continuano ad essere all’ordine del giorno molte violazioni di diritti relative alle cure mediche dei prigionieri. Molti prigionieri che sono stati per un lungo periodo in sciopero della fame e sono in cattive condizioni sono stati portati in ospedale troppo tardi, mentre altri vengono rimandati in carcere perché rifiutano di essere visitati in manette. La dirigente dell’Associazione per i Diritti Umani (Ihd) Nuray Çevirmen ha parlato delle violazioni di diritti in atto. Çevirmen ha detto che migliaia di persone sono state in sciopero della fame in 90 carceri e che quando si è trattato di portarle in ospedale, le cose non sono andate come avrebbero dovuto. Molti prigionieri, ha detto, sono stati ammanettati non solo nel percorso verso l’ospedale, ma anche mentre vengono visitati dai medici. Ha citato l’esempio di un “prigioniero a Siverek che era ammanettato mentre veniva fatto il prelievo per le analisi del sangue. Il prigioniero è svenuto e dato che aveva le mani legate dietro la schiena è stato dimesso dall’ospedale e riportato in carcere con tre punti sulla testa”. Notando che i prigionieri che sono stati in sciopero della per molto tempo hanno avuto dolori agli organi, problemi intestinali, sanguinamenti e perdita della vista, Çevirmen ha detto che gli sono state fatte solo le analisi del sangue. L’Ordine dei Medici Turco (Ttb) ha fatto il suo lavoro, ma, dice Çevirmen, non ha mostrato la necessaria sensibilità. Triplo Protocollo - Çevirmen ha detto che molte strutture non sono pronte ad affrontare questo tipo di processo e che molte complicazioni per quanto riguarda la salute dei prigionieri sono causate da quello che viene chiamato triplo protocollo. “Per esempio, - ha detto - la/il prigionier* viene portat* fuori dal carcere per gli esami, ma la gendarmeria la/lo ammanetta e quando va in ospedale non le/gli vengono forniti cure ed esami adeguati. In aggiunta i medici non hanno sufficienti conoscenze e strumenti per affrontare le conseguenze dello sciopero della fame, così avremmo sperato che il Ministero della Sanità fosse in grado di lavorare in modo complessivo e di avere uno scambio di opinioni con il Ttb in modo da poter introdurre un sistema di intervento appropriato. Sfortunatamente questo non è successo”. Çevirmen ha evidenziato che il ritorno delle e degli scioperanti in carcere senza esami adeguati causerà grandi problemi in futuro. Ha citato il caso di due prigioniere ad Antalya e l’imposizione di visite in manette nel carcere di Amasya e la mancanza di ricoveri nel carcere di Bakirköy”. L’Ihd sta monitorando il processo post-sciopero della fame - Çevirmen ha aggiunto: “L’Ihd ha monitorato tutto il processo fin dall’inizio del processo di sciopero della fame e ha riferito della situazione in diversi rapporti. Dopo la fine dello sciopero della fame, stiamo lavorando all’individuazione di violazioni di diritti. Per quanto riguarda l’accesso alla salute, stiamo lavorando in modo coordinato con il Ttb. Abbiamo creato un tavolo di crisi con avvocati, professionisti della sanità, attivisti per i diritti umani”. Sudafrica. Depenalizzata la marijuana per uso personale, primo Paese del continente di Nicolò Delvecchio La Repubblica, 3 giugno 2019 Sarà possibile possedere, utilizzare e coltivare cannabis in privato. Respinto il ricorso dei ministeri della Giustizia e della Sanità, contrari alla legalizzazione per gli effetti negativi della pianta. Esultano gli attivisti. La Corte costituzionale del Sudafrica ha legalizzato la coltivazione e il possesso di marijuana per uso personale. Con decisione non unanime, letta in aula dal giudice Raymond Green, la Corte ha quindi depenalizzato “l’uso e il possesso di cannabis da parte di un adulto, per il consumo in privato”, rendendone legale anche la coltivazione. Il Sudafrica diventa dunque il primo Paese africano a rendere legale l’uso di marijuana anche a scopo ricreativo. In passato, Lesotho e Zimbawe avevano già legalizzato la cannabis, ma solo con finalità terapeutiche. Nel marzo dello scorso anno una sentenza della Corte suprema di Western Cape, la regione di Città del Capo, aveva già dichiarato anticostituzionale il divieto di possesso, uso e coltivazione in privato e per uso personale di cannabis, invitando il Parlamento a cambiare le relative sezioni della legge sul traffico di droga. La decisione è stata dunque confermata dal più alto tribunale sudafricano, che ha respinto la tesi sostenuta da diversi dipartimenti del governo - compresi i ministri della Salute e della Giustizia - sulla pericolosità degli effetti della marijuana. La sentenza tuttavia non ha specificato quanto può essere detenuto o consumato, lasciando che sia il Parlamento a stabilirlo. A lungo, in Sudafrica, attivisti di vari movimenti hanno manifestato in favore della legalizzazione della dagga, parola con cui nel Paese si indica la marijuana. Tra questi, in prima linea ci sono stati Jeremy Acton, ex leader del Dagga Party e Garreth Prince, attivista rastafariano. I due avevano infatti sollevato il caso davanti alla Corte di Città del Capo, sostenendo come le leggi vigenti costituissero una violazione al diritto di uguaglianza, dignità e libertà religiosa. La decisione del più alto tribunale sudafricano su quanto chiesto dall’Onu, che nel 2016 aveva sollecitato i suoi membri a “riesaminare le loro politiche” in materia di cannabis dopo decenni di repressione. Per Phephsile Maseko, dell’organizzazione sudafricana della medicina tradizionale, la sentenza costituisce “una grande vittoria non solo per i medici, ma anche per i pazienti”. “Noi utilizziamo la cannabis da anni, per curare l’ansia e come antisettico, in segreto”, ha aggiunto.